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lunedì 8 settembre 2014

Karl Hofer, Erinnerungen eines Malers ('Memorie di un pittore"). Recensione di Francesco Mazzaferro


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Serie: Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 1

Karl Hofer
Erinnerungen eines Malers
(Memorie di un pittore)
Berlin-Grünewald, F.A. Herbig

Verlagsbuchhandlung, 1953, cm.21, p. 231

(Recensione di Francesco Mazzaferro)

[Versione originaria Settembre 2014 - nuova versione aprile 2019]


Fig. 1) La prima edizione delle Memorie di un pittore di Karl Hofer's, pubblicate nel 1953 da Herbig

Prima edizione delle Memorie del pittore tedesco Karl Hofer (1878-1955), scritte nel 1948, arricchite nel 1952 e infine pubblicate nel 1953 dall’editore Herbig di Berlino. Una seconda edizione apparve nel 1963, per i tipi dell’editore List di Monaco di Baviera. Da allora, le Memorie non sono mai state ripubblicate. Non esistono traduzioni in altre lingue.

Karl Hofer appartiene alla fase dell’arte che in tedesco è conosciuta come “Moderno classico” (Klassische Moderne), la prima generazione dell’arte moderna ancora ispirata alla classicità. Pur avendo similarità stilistiche con Espressionismo, Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit) e Neorealismo, Hofer rifiutò sempre (come scrisse nelle memorie) di essere ricompreso nell’ambito di questi movimenti. Fu tra le primissime vittime della persecuzione nazional-socialista, dal momento che fu privato della sua posizione professionale già nel 1933 ed incluso nella lista degli artisti degenerati nel 1937 (Entartete Kunst). Le Memorie riportano comunque che egli cercò di ignorare il divieto, e “non vendette mai così tanti dipinti come in quel periodo” (p.222). Gran parte della sua produzione artistica (150 quadri e più di mille disegni) andò distrutta a Berlino il primo marzo 1943 durante un bombardamento. 

Dopo la Guerra, Hofer ottenne di nuovo importanti posizioni professionali. Con qualche imbarazzo, l’ultima pagina delle memorie racconta della decisione delle autorità sovietiche di assegnargli la vice-presidenza dell’Alleanza Culturale Russo-Tedesca (Deutsch-Russisch Kulturbund). Venne poi anche nominato Presidente della Scuola Superiore di Belle Arti (Hochschule für Bildende Künste) a Berlino Ovest. Negli ultimi anni di vita (morì di ictus nel 1955) fu al centro di una violenta polemica contro l’arte astratta, che tra l’altro comportò l’abbandono della scuola di parte del corpo accademico, in aperta polemica con le sue posizioni. Il necrologio dello Spiegel del 1955 (http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-31969912.html) non esclude che il livello di ferocia verbale raggiunto in occasione di questo scontro possa aver portato alla morte improvvisa dell’artista.

La lettura delle Memorie di Hofer è importante per tre aspetti: (1) mostra quale sia stata la visione generale della storia dell’arte nel recente passato – inclusi i rapporti in particolare con la Francia - offerta al pubblico in un momento storico in cui la Repubblica Federale Tedesca stava compiendo una scelta a favore dell’unificazione europea; (2) offre una testimonianza diretta dei contatti personali di Hofer e altri artisti con Francia ed Italia, in particolare prima della Prima Guerra Mondiale, al tempo stesso rivelando alcuni limiti di quelle relazioni; ed infine (3) mostra alcune strane reticenze nel racconto di Hofer sugli anni del nazismo e dell’immediato dopoguerra, dal momento che alcuni tragici eventi non vi sono citati.

Karl Hofer è descritto dai suoi biografi (vedi www.karl-hofer.de) come un uomo dalla personalità scontrosa e complessa. Tuttavia, per una persona che ebbe una vita eccezionalmente difficile (fece tre anni come prigioniero di guerra delle autorità francesi durante la Prima Guerra Mondiale; la prima moglie morì ad Auschwitz nel 1942; una gran parte della sua produzione artistica andò distrutta da un bombardamento nel 1943; il primogenito fu ucciso da un gruppo di criminali nel 1947) il tono generale delle sue Memorie è presentato in termini moderati e semmai contraddistinto da note di nostalgia per i bei tempi andati. Il centro dell’attenzione è per i soggiorni in Francia (1900 e 1908-1913), in Italia (1903-1908) e in India (1910 e 1913). A partire dal viaggio di Gaugain in Polinesia, lunghi tragitti alla ricerca di altre culture sono divenuti una caratteristica di molti pittori modernisti (si pensi ai soggiorni in Tunisia di Paul Klee e Vassili Kandinsky, all’esperienza di Emil Nolde in Nuova Guinea e a quella di Max Pechstein alle isole Palau). Anche se Hofer dedicò due lunghi capitoli all’India, la nostra attenzione sarà comunque sulla sua interazione con le altre culture europee. 

Uno degli aspetti più interessanti delle Memorie di Hofer è costituito dal suo giudizio sullo stato dell’arte e della cultura in Germania a cavallo tra i due secoli. L’impegno di Hofer è di evitare la caduta in trappole nazionaliste o pseudo-nazionaliste. È appunto mirando ad aprire la cultura tedesca al resto del mondo che Hofer rigetta quei movimenti culturali dell’Ottocento (Wagner, Nietzsche) che vogliono identificare un separato linguaggio tedesco nella musica e nella filosofia. Con il senno di poi, scrive a pagina 50, Wagner era sulla stessa linea che avrebbe prodotto il Nazional-socialismo, e a pagina 52 parla della sua musica come incline al populismo; a pagina 53 stigmatizza il concetto di ‘arte totale’ (Gesamtkunst) come mostruoso. Su Nietzsche, osserva che il concetto di super-uomo (Übermensch) è di per sé vuoto, se si consideri che le guerre dimostrano come chi le combatte meriti a stento l’aggettivo ‘umano’. Significativamente, Hofer esprime questi giudizi mentre commenta gli anni del massimo successo della musica di Wagner e del pensiero di Nietzsche. Il suo impegno a evitare l’arroccamento in un pensiero di prospettiva meramente nazionalistica è senz’altro facilitato dal fatto che a finanziarne e sostenerne l’opera per tutta una vita furono il critico d’arte tedesco Julius Meier-Graefe e l’industriale svizzero Theodor Reinhart, entrambi figure rinomate nei circuiti artistici internazionale, operanti rispettivamente a Parigi e Winthertur.

Ciò non significa che Hofer non avesse stima e non traesse ispirazione dal mondo tedesco. Se in Francia aveva avuto Cézanne e Gauguin come modelli, i suoi punti di riferimento nel mondo di lingua germanica erano il tedesco Hans van Marées e lo svizzero Arnold Böcklin (che, come Marées, era vissuto per molti anni in Italia e vi era morto nel 1901). Entrambi considerati innovatori delle scuole accademiche d’arte in Germania e Svizzera (eccessivamente orientate agli schemi accademici della pittura aulica di soggetto storico, la cosiddetta Historienmalerei), Marées e Böcklin conservarono comunque un forte legame con l’arte classica. In linea con la mostra che Meier-Grafe aveva organizzato a Parigi al Salon de l’Automne nel 1909, Hofer è convinto che Marées avesse preceduto Cezanne, deformando per primo intenzionalmente la superficie pittorica; crede, inoltre, che l’incapacità della critica francese ad accettarlo come un precursore della pittura moderna sia, in ultima analisi, un riflesso nazionalista (p. 54 e p. 97). Ci racconta della visita agli affreschi di Marées, che decorano i muri della biblioteca dell’appena inaugurata Stazione zoologica marina Anton Dohrn di Napoli (fig. 4). Il dipinto di Böcklin Sotto il pergolato (In der Gartelaube) gli ispirò l’interesse per l’uso del colore e della tempera (fig. 5), mentre la visita a Darmstadt per ammirare L’Isola dei morti (sempre di Böcklin) evocò in lui emozioni che non fu in grado di descrivere con parole precise nelle Memorie.

“Non riuscivo a venire a termini sia con il naturalismo sia con l’impressionismo, e lo stesso per ognuno degli –ismi che seguirono” (p. 56). Hofer offre al suo pubblico l’idea di una pittura eclettica, lontana dalle costrizioni ideologiche. E tuttavia questo è un tempo in cui gli artisti si dividono in fazioni, per lo più tra gruppi che cercano di aderire alle convenzioni accademiche prevalenti (Akademische Richtung) e gli artisti che reclamano la loro fine (Neutöner, alla lettera: coloro che usano nuove tonalità). Hofer, Wiess e Laage sono fra gli animatori di quest’ultimo gruppo innovatore, con base a Karlsruhe.



Fig. 2) Karl Hofer, Sulla regolarità nelle belle arti, publicato postumo da Wasmuth nel 1956.
Nonostante la mancanza di ogni entusiasmo per posizioni ideologiche, Hofer mostra comunque di avere nette preferenze. Le Memorie non fanno riferimento in maniera dettagliata ai violenti contrasti che lo videro come il maggiore oppositore in Germania dell’arte astratta e che connotarono gli ultimi anni della sua vita. E’ noto che Kandinsky aveva scritto un famoso pamphlet nel 1912 - intitolato La spiritualità nell’arte (Über das Geistige in der Kunst. Insbesondere in der Malerei) - che costituiva un vero e proprio manifesto per l’arte astratta. Hofer gli rispose con un contro-pamphlet intitolato La regolarità nell’arte che fu pubblicato postumo nel 1956. Nelle Memorie, Hofer spiega le sue vedute facendo riferimento a due coppie di artisti: Paul Klee e Igor Stravinsky da un lato, Wassily Kandinsky e Arnold Schönberg dall’altro (pp. 175 ss.). Klee e Stravinsky sono innovatori del linguaggio che rimangono nella tradizione delle regole classiche, mentre Kandinsky con l’astrazione e Schönberg con la dodecafonia operano un esercizio intellettuale “che è apprezzato da tutti quelli che non hanno nulla da dire”. Ed ancora: “L’esperimento prende il posto della creazione”. Su Kandinsky, ci dice che le sue costruzioni di colori lo annoiano. Aggiunge che coloro che apprezzano quest’approccio sono “isterici dell’arte” e che si tratta di un “errore di giudizio dell’avanguardia”. 

Hofer era un espressionista? Questo è quello che si può spesso leggere su di lui. Tuttavia, è meglio leggere cosa scrive in proposito, facendo riferimento a quanto avvenuto nei primissimi mesi dopo la fine dalla Prima Guerra Mondiale (l’artista era stato prima prigioniero francese per tre anni – e nelle Memorie ricorda di essere stato trattato in maniera umana – e poi in esilio in Svizzera per il resto del conflitto): “La Germania era divenuta una repubblica. Ed io mi stavo avviando verso casa. Una guerra perduta fiacca il morale e il senso etico di un popolo, e si potevano osservare cose assai poco rimarcabili. Ma l’arte godeva la sua nuova libertà; i primi lavori degli Espressionisti venivano alla luce. La mia ricerca personale, però, andò in una direzione completamente diversa. Io non riuscivo a trarre alcun insegnamento dall’Espressionismo, poiché io credo che ogni grande lavoro d’arte sia un’espressione, senza alcun bisogno di una dottrina invadente. Per ottenere abbastanza da quella dottrina, era necessario sacrificare cose più importanti, com’è il caso in tutti gli –ismi dottrinari. Ogni cosa però ha due lati della medaglia, e il recupero del colore come valore intrinseco rimane un merito inalienabile di questa direzione. Kokoschka – che io considero altrettanto poco espressionista come me stesso – è quello che ha fatto in me l’impressione più forte. Le mostre della “Tempesta” (Sturm) iniziavano ad eccitare gli animi; uno vi poteva vedere belle cose al fianco di prodotti selvaggi di cui si è già persa memoria, insieme agli autori. Oggi non è differente e sempre sarà così. Da tutte queste faccende ho sempre tenuto distanza ed ho accettato volentieri l’odioso commento che io sia “non alla moda” e la riprovazione dei rispettivi profeti. Anche questo non è diverso oggigiorno.” (pp. 211-212)

Tra il 1900 e il 1913 Hofer soggiorna a lungo in Francia (due volte) e in Italia (cinque anni). È interessante notare che Hofer proviene da una regione della Germania (il Baden) che – come egli stesso scrive all’inizio delle Memorie usando un termine italiano – è a suo parere ancora parte integrante della ‘latinità’, la comunità dei latini europei e – insieme con la confinante Svizzera – è geograficamente inserita tra le aree linguistiche francesi ed italiane. Eppure, qual differenza in termini d’interessi e attività tra quel che Hofer fece nei due Paesi! La Francia è il paese dove studiare l’arte contemporanea, discutere sui diversi meriti di Cézanne e Matisse, azzardare un primo giudizio su Picasso ed essere in contatto con i circoli artistici locali a Parigi (con artisti come Gustave Caillebotte e Léon Bakst, collezionisti come Paul Arthur Chéramy, Gaston e Josse Bernheim-Jeune, Henri Rouart, Paul Durand-Ruel, Auguste Pellerin e Ambroise Vollard, filosofi come Bernard Groethuysen o impresari della danza come Sergei Diaghilev). L’Italia, al contrario, è solamente il Paese dell’arte antica, classica e rinascimentale: in cinque anni, non un solo riferimento ad alcun aspetto dell’arte contemporanea italiana, ma molte descrizioni accurate di paesaggi, località e individui. Da un lato, Hofer esprime puro amore per l’Italia – anche come fonte d’ispirazione artistica – difendendola dagli argomenti che considerano il nostro paese troppo “dolce”. “Ancora ed ancora – egli scrive alle pagine 90-91 – mi sono dovuto e mi debbo meravigliare di quelle idee, spesso udite in Germania, che l’Italia sia troppo dolce. Non so davvero dove queste persone abbiano i loro occhi. Un cielo di un azzurro puro e profondo è forse dolce? Io non posso accontentarmi abbastanza del blu del cielo e certo non rimpiango le nebbie. La formazione del paesaggio italiano, da un puro punto di vista tellurico, è ovunque così potente, e a volte di dimensioni assai ampie. Raramente la vegetazione mostra un gentile verde spinacio. Le amabili e dolci colline della Germania – senza alcuna forma che possa indicare forza – sarebbero molto più adatte a essere considerate dolci.” Dall’altro lato, se l’Italia è bella e piena di opere d’arte antiche e ispiratrici, non sembra ci sia alcun interesse a interagire con la cultura artistica italiana del presente, sia essa conservatrice o avanguardista. La scelta di non incontrare artisti e intellettuali sembra sia intenzionale: “In cinque anni di soggiorno in Italia, ho visto molti poveri, ma nessuno straccione. Devo confessare che, se considero che la borghesia italiana faccia schifo, la gente semplice in Italia era una pura gioia” (p. 89). Ed ancora: “Ogni cosa che possa essere una fonte di esperienza reale si basa non tanto sulla diversità, ma sull’intensità dell’esperienza, spesso davvero nella vita di tutti i giorni. Noi abbiamo amato queste semplici osterie, non abbiamo frequentato alcun ‘circolo’; abbiamo avuto familiarità soprattutto con la gente normale ed il Caffè Aragno [n.d.r. famoso caffè di artisti e letterati a Roma] non ci ha mai ospitato, non una volta sola in cinque anni. Non eravamo ‘forestieri’, noi eravamo ‘artisti’, e gli artisti non sono mai stranieri in Italia“ (p. 120). Il solo pittore italiano moderno citato nelle Memorie è Felice Casorati, incontrato ad un evento organizzato negli Stati Uniti dalla Fondazione Carnagie nel 1928. Casorati rappresentava l’Italia, Maurice Denis la Francia e Hofer la Germania. Vi è un’impressionante prossimità di stile tra i tre. In molti aspetti, gli Stati Uniti avevano una visione più ampia della cultura europea che l’Europa stessa.

E’ utile riflettere ancora un attimo su questa ‘impenetrabilità’ nelle relazioni tra cultura tedesca e italiana. Il pittore visse per cinque anni nel nostro paese, ma non poté riportare nulla in Germania della cultura contemporanea del nostro Paese. Perché Hofer incontrò diversi artisti di lingua tedesca nel nostro Paese ma nessun artista italiano? Si tratta peraltro di un aspetto che sembra essere comune a tutti gli altri artisti non-italiani che Hofer cita nelle Memorie durante il soggiorno nella Penisola. Sembrano più interessati a frequentare le modelle italiane (ne risultarono molti matrimoni) che l’arte italiana di quei giorni. Forse l’Italia post-unitaria nei decenni tra i due secoli era davvero incapace di attrarre l’attenzione degli artisti che visitavano il Paese? Forse che i giovani artisti tedeschi e svizzeri erano incapaci di conoscere il vibrante mondo artistico di quegli anni? O la loro mancanza di attenzione per l’arte moderna in Italia era piuttosto il semplice risultato di un pregiudizio? Nel caso di altri Paesi (per esempio Ungheria e Finlandia) le relazioni con giovani artisti italiani divennero veramente intense. Forse un’interpretazione benevola è che Karl Hofer venne in Italia per preservare il legame con il mondo classico, e non poteva neppure concepire per un momento che fossero artisti italiani a reciderlo.

Le ultime dieci delle 230 pagine delle Memorie sono state scritte nel 1952 (tutte le altre sono del 1948). Narrano della persecuzione nazista, dell’immediato licenziamento dalla scuola superiore, dove Hofer aveva una cattedra, del suo inserimento nella categoria della cosiddetta ’arte degenerata’; ed ancora, del bombardamento dell’atelier a Berlino nel 1943 (con la distruzione di molte opere), del tentativo di Hofer di dipingere immediatamente di nuovo gli stessi temi, del bombardamento della casa, e della nomina alla presidenza d’istituzioni accademiche dopo la guerra. È ovvio che dodici anni di vita non possano essere raccontati in modo adeguato in così poche pagine. Sembra quasi che il pittore abbia perso l’uso della parola, di fronte a eventi così tragici.

antiquarisches Buch – Hofer, Karl – Erinnerungen eines Malers.
Fig. 3) L'edizione tascabile dei ricordi di un pittore di Karl Hofer's, pubblicate da List nel 1963

Si è già fatto riferimento ad alcune reticenze, tutte concentrate in queste 10 pagine. Non vi è dubbio alcuno che Karl Hofer fosse un convinto oppositore del nazionalsocialismo. Ci sono comunque alcuni episodi della sua vita che non sono menzionati nelle Memorie. Il primo riguarda la moglie Mathilde, un’ebrea austriaca, di professione pianista, che si era convertita al protestantesimo subito dopo il matrimonio. La coppia si separò nel 1928; l’atto di divorzio nel 1938 gli permise di sposarsi una seconda volta, lo stesso anno. Tuttavia, il divorzio significò per Matilde perdere la ‘protezione’ del matrimonio misto, secondo le leggi razziali. Mathilde morì a Auschwitz nel 1942. I suoi nipoti le hanno dedicato una pagina web in memoria (http://www.am-spiegelgasse.de/wp-content/downloads/erinnerungsblaetter/Erinnerungsblatt%20Mathilde%20Hofer%20geb.%20Scheinberger.pdf). Il secondo episodio non menzionato riguarda il primo figlio, Carlino: perse la vita quando alcuni criminali fecero fuoco su di lui, mentre cercava di impedir loro di entrare in casa. Anche di questo tragico episodio non ho trovato traccia alcune nel testo. 

Rimane da chiedersi perché queste Memorie siano andate quasi dimenticate: solamente due edizioni, di cui l’ultima nel 1963, cinquanta anni fa. Nessuna traduzione in una lingua straniera. L’ultima battaglia di Hofer contro l’arte astratta gli inimicò gli artisti tedeschi di maggior successo, incluso il discepolo Ernst Nay. Questi erano gli artisti che fecero conoscere la Repubblica Federale Tedesca nel resto d’Europa e in seguito negli Stati Uniti. Divenendo il maggiore teorico in Germania ad opporsi all’arte astratta, Karl Hofer cominciò ad essere considerato un reazionario, cosa che, probabilmente, non fu mai. D’altra parte essere un artista reazionario, nel paese che aveva perseguitato l’arte moderna solamente venti anni prima, era quasi peccato mortale. E certamente non era in sintonia con la nuova Repubblica Federale, che si era collocata chiaramente nell’area d’influenza culturale di quegli Stati Uniti che proprio in quegli anni stavano lanciando l’abstract expressionism, con Jackson Pollock, Willem de Kooning e Mark Rothko.

Vi è un elemento paradossale che si può scorgere solamente paragonando la (limitata) fortuna delle Memorie di Karl Hofer con il successo degli scritti di due pittori a lui contemporanei, Emil Nolde in Germania e il sopra citato Maurice Denis in France. Nolde subì la stessa persecuzione da parte del nazismo, nonostante fosse un nazionalista acceso, un membro del partito nazista e, per molti aspetti, un anti-semita. Karl Hofer, nella corrispondenza del dopoguerra con gli amici, lo chiamava con disprezzo “Emilio il nazista”(Nazi-Emil) e “Nolde il nazista” (Nazi-Nolde). Si veda la voce ‘Nolde’ del delizioso libretto Gli artisti offendono gli artisti di Peter Dittmar (Künstler beschimpfen Künstler, Reclam, Leipzig, 2008). Tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, le memorie di Nolde furono riviste e tutti i passaggi compromettenti furono eliminati. In una lunga transizione che si avviò con la partecipazione di Nolde alla prima edizione di Documenta a Kassel nel 1955 e si concluse con la pubblicazione del capolavoro di Sigfried Lenz Lezione di tedesco nel 1968, Nolde fu riletto come un eroe della cosiddetta ‘emigrazione interna’ che si oppone al regime totalitario. Curiosamente, anche Nolde rifiutava l’arte astratta. Tuttavia, il suo colorismo radicale, la violazione intransigente di tutte le convenzioni formali e il primitivismo del linguaggio pittorico ne fecero un candidato ottimale a partecipare alla corrente vincente della pittura tedesca del dopoguerra. Non è una coincidenza che le sue memorie – nella versione rivista del dopoguerra – siano state più volte ri-pubblicate, da ultimo nel 2013. Qualcosa di simile avvenne in Francia con Maurice Denis, un intellettuale iper-conservatore, vicino ad Action Française e al Regime di Vichy. Denis era stato in tutta Europa il vero campione del cosiddetto “nuovo tradizionalismo”, mirante a legare arte moderna e figurativo (come Hofer). Morí in un incidente (fu investito da un camion) il 13 Novembre 1943 a Parigi, lo stesso giorno in cui l’esercito tedesco privò di qualsiasi parvenza di autonomia il Maresciallo Petain, che voleva annunciare alla radio il ritorno dei poteri all’Assemblea Nazionale. Immediatamente dopo la fine della Guerra, nel 1945, furono pubblicati tre saggi (incluso uno del direttore del Louvre, Maurice Brillant), per ridisegnare il suo profilo in modo da renderlo compatibile con l’era democratica del dopoguerra. Il compito fu facilitato dal fatto che Denis era stato membro del movimento artistico dei Nabis e aveva avuto contatti con Gauguin e Cézanne, cosicché era possibile ‘proporlo’ come parte di un processo lineare che partiva dall’Ottocento e culminava con l’Avanguardia. I trattati di Denis continuano a essere pubblicati in molte lingue. Fra Denis, Nolde ed Hofer, soltanto quest’ultimo era stato l’unico artista fermamente nel campo anti-fascista; tuttavia, la sua scelta di combattere le nuove correnti d’avanguardia nella Germania del dopoguerra fece di lui esclusivamente il campione di una cultura nostalgica identificata con troppa fretta con il nazismo.


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