Luciano Mazzaferro
Gli Original Treatises di Mary Philadelphia Merrifield
Parte quarta: gli altri manoscritti
Candida Hofer, Biblioteca Universitaria di Bologna, 2006 |
AVVERTENZA:
Questo post è stato pubblicato nel 2014. Dopo tale data sono state scoperte a Brighton le lettere che Mary Philadelphia Merrifield inviò a suo marito dall’Italia nel corso del viaggio che la ricercatrice condusse fra 1845 e 1846 alla ricerca di manoscritti che testimoniassero le tecniche artistiche degli antichi maestri italiani. Molte delle informazioni contenute nel presente post risultano essere pertanto superate, incomplete e, a volte, non corrette. Ho pubblicato le lettere nel 2018 in La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield: Lettere dall’Italia (1845-1846), Milano, Officina Libraria, 2018, isbn 88-99765-70-5. Invito pertanto gli interessati a far riferimento alla consultazione di tale volume. Ho comunque deciso di mantenere visibili i vecchi post per dare un’idea di quelle che erano le informazioni disponibili prima della scoperta delle lettere e di come le ricerche su Mary P. Merrifield siano evolute negli ultimi anni.
* * *
Nota: Attorno al 1998, nostro padre, Luciano Mazzaferro, ha dedicato diversi mesi allo studio degli 'Original Treatises' pubblicati da Mary Philadelphia Merrifield nel 1849. Il risultato dei suoi studi è testimoniato da un manoscritto di una cinquantina di pagine che riproponiamo integralmente, suddiviso in quattro parti: innanzi tutto i manoscritti reperiti dalla Merrifield a Parigi (manoscritti Le Bègue), poi il manoscritto Volpato, quelli di Pietro e Giovanni Edwards e infine tutti i rimanenti. Le note al testo sono redazionali e compilate nel 2014, e tengono ovviamente conto di aggiornamenti sopraggiunti dal momento della compilazione ad oggi.
***
Per avere un quadro complessivo di tutti i manoscritti pubblicati negli
Original Treatises si vedano le figg. 1 e 2 in Luciano Mazzaferro. Gli Original Treatises di Mary Philadelphia Merrifield. I manoscritti Le Bègue.
Da pag. 323 a pag. 600 [1].
Quando la Merrifield decise di farlo integralmente trascrivere da uno dei suoi
figli, il manoscritto era conservato con il numero 165, nella biblioteca dei
Canonici Regolari presso il convento di S. Salvatore in Bologna. E’ un’opera
anonima. La Merrifield ebbe notizia della sua esistenza leggendo la terza serie
delle Memorie di Belle Arti di
Michelangelo Gualandi [2] (Bologna, 1842, p. 111) che dice come questo
lavoro, assieme a circa altri 500 manoscritti, furono trasportati a Parigi in età napoleonica,
contrassegnati con un timbro che ne attesta l’acquisizione nella “Bibliothèque
Nationale” e infine ricollocati nei depositi d’origine dopo la pace di Vienna. Gualandi divenne e rimase il punto
di riferimento della Merrifield: “On my arrival at Bologna Sig. Gualandi very
kindly introduced my son to the Generale of the Canonici Regolari at the
convent of S. Salvatore, and obtained permission for him to copy it” (p. 325).
Anche se nel titolo si parla
soltanto di colori, il manoscritto contiene indicazioni per tutte le arti
decorative praticate in quel periodo a Bologna. La Merrifield fa notare che,
diversamente da quel che di norma accade nei ricettari, lo scritto non è un
seguito di prescrizioni poste insieme senza alcun ordine o collegamento e prive
di un minimo di intelaiatura. Intendiamoci: anche qui vige, almeno in parte, la
regola dell’accesso casuale, ma il materiale via via che giungeva all’anonimo
raccoglitore veniva posto in vari capitoli tenendo conto del loro contenuto.
Tra un capitolo e l’altro si provvide a lasciare dello spazio, in modo che
fosse possibile utilizzarlo per ulteriori indicazioni o ricette. Merrifield, esponendo il proprio
parere, così riassume: “I consider it an arranged collection, the author having
copied different recipes as he became acquainted with them, and arranged them
in their proper places, leaving blanck sheets between each chapter or subject,
for additional recipes” (p. 326). E, infatti, altre ricette,
verosimilmente dopo la morte del primo compilatore, furono aggiunte. Nel testo
della Merrifield, le nuove prescrizioni – non numerose per la verità e del
tutto assenti in qualche capitolo – sono precedute dalla lettera B.
“The language in which the MS is written, is
sometimes Italianised Latin, and sometimes Italian, with a mixture of Latin
words, as was usual at that period…” La data precisa del manoscritto non
è indicata dal raccoglitore o da altra mano, ma l’esame circostanziato del
testo (vedi p. 327) ha sospinto la Merrifield a collocare il primo e di gran
lunga più numeroso gruppo di prescrizioni nel primo venticinquennio, o al più
tardi, nella metà del XV secolo: in altre parole, tra il 1400 e il 1425, o, al
massimo, entro il 1450. Le
scritte aggiunte da mano diversa “appear by the handwriting to have been made
at least half a century after the other part of the work…” (p. 326).
Stabilita la data del
manoscritto, la Merrfield la utilizza per ricavare alcune conclusioni logiche e
motivate. Si sofferma, così, ad indicare taluni sistemi e procedimenti tecnici
che, di solito riferiti ad un’epoca posteriore, meritavano invece di essere
retrodatati per il semplice motivo che di essi si discorre nella raccolta
bolognese come di cose ormai entrate nel bagaglio tecnico degli artisti e degli
artigiani. Ecco un esempio: la ricetta n. 284, che descrive un particolare tipo
di ceramica, doveva indurre a rettificare l’opinione espressa nel ‘700 dal
Passeri (e dagli studiosi che sull’autorità del Passeri si erano basati)
secondo cui si sarebbe incominciato a pensare a quel particolare genere o
settore di produzione soltanto nel ‘500 (pp. 338 e 537). D’altra parte, la
Merrifield non si limita a proporre retrodatazioni e considera anche situazioni
di segno opposto: certe tecniche andavano postdatate, cioè riferite ad un tempo
posteriore a quello comunemente accettato, dal momento che nel manoscritto non
se ne parla. Ed è pressoché inutile aggiungere che un simile silenzio mal si
spiegherebbe, se si fosse già stabilita qualche dimestichezza con queste
pratiche di lavorazione artistica.
A p. 600 viene riprodotto un
indice, per la verità molto lacunoso. La Merrifield avverte il lettore che si tratta di un tardo intervento: “The unfinished Table of
Contents is by another hand, probably of the seventeenth century” (pag. 339).
Venezia, Biblioteca nazionale Marciana |
Da pag. 601 a pag. 640 [3]. Viene parzialmente riprodotto il manoscritto anonimo già appartenente al patrizio Nani e quindi pervenuto alla Marciana di Venezia.
Il manoscritto era stato
succintamente descritto da Jacopo Morelli ne I codici manoscritti volgari della Libreria Naniana edito nel 1776
e non è improbabile , anzi è assai verosimile, che, proprio consultando questo
catalogo, la Merrifield (o qualcuno della sua cerchia) ne abbia avuto notizia.
Non sono purtroppo riuscito a reperire a Bologna il testo del Morelli e mi vedo
costretto a riportarne un frammento così come appare nella traduzione in
inglese compiuta dalla Merrifield: “It is a collection of recipes which make us
acquainted with many compositions of the old professors, used in medicine,
surgery, farriery, chemistry, painting, illuminating, gilding, working in
stucco, varnishing, and similar works” (p. 603) [5]. E’, come si vede, una
miscellanea di ricette e appare quindi del tutto naturale che, posta di fronte
alla diversità dei temi trattati, la Merrifield abbia preso la risoluzione di
pubblicare non il testo intero, ma soltanto qualche parte. Va notato che alcune
delle ricette pubblicate iniziano o si chiudono col nome degli artisti che le
avevano utilizzate. Tra essi troviamo aiuti e seguaci di Raffaello e lo
scultore Jacopo Tatti detto il Sansovino.
Molta attenzione va rivolta alla
chiusa della ricetta 328: “hoc [n.d.r. cioè la ricetta] habui a Magistro Andrea
de Salerno” (p. 619). E, sia che la ricetta sia stata fornita da Andrea
Sabatini detto appunto da Salerno, come la Merrifield ipotizza e come del resto
sembra assai verosimile, o che piuttosto sia stata trasmessa da un altro Andrea
da Salerno, ossia da quel Guarna noto per alcune iniziative letterarie e per
una divertente satira sul Bramante e sulle sue pretese manie edificatorie,
sempre ad una conclusione si arriva: l’incontro è avvenuto (e non potrebbe
essere diversamente) per ragioni strettamente collegate ad episodi della vita
dei due salernitani, nei primi tempi del Cinquecento e si deve quindi
concludere che la compilazione risale a quel periodo o ad epoca non troppo
distante. L’affermazione della
Merrifield (“…the authors lived during the beginning and middle of the
sixteenth century”, p. 604) appare, quindi, pienamente condivisibile.
Con qualche prudenza va invece
esaminata un’altra affermazione della Merrifield, portata a ritenere che il
compilatore del manoscritto abbia incontrato non solo Andrea da Salerno (il
pittore o l’umanista, qui poco importa), ma anche Giovanni da Udine, pure lui
aiuto di Raffaello e Jacopo Sansovino, e che tutti questi collegamenti non si
sarebbero potuti stabilire se non a Roma prima del “Sacco” del 1527, quando lì
convennero non pochi artisti chiamati da molte parti d’Italia. Occorre – è bene
ripeterlo – molta prudenza e non quella ambiguità che la Merrifield mostra per
l’occasione, accarezzando certe idee e mostrando allo stesso tempo l’astuzia
necessaria per non rimanervi del tutto prigioniera. Né per il Sansovino né per
Giovanni da Udine né per altri artisti che si attenevano a ricette riportate
nel manoscritto, l’autore ha usato espressioni identiche a quelle adoperate per
Andrea da Salerno. Mai si parla di notizie ricevute direttamente dagli artisti.
Per il Sansovino, ad esempio, si usano espressioni meno impegnative e quasi
sfuggenti, come vien fatto di notare all’inizio della ricetta 398 (“…vernice ex
Mag.ro Jacobo de Monte S. Savino scultore provata”, p. 631) o della ricetta 393
(“Ex Magistro Jacopo de Monte S. Savino Scultore”, p. 639 (sic)). Esistono
forse degli elementi per formulare delle ipotesi di lavoro, non per trarre
conclusioni definitive.
Molto più convincenti appaiono
altri punti della presentazione, come quando si sostiene che le ricette
riflettono il modo di operare di un Rinascimento ormai maturo o come quando si
pone il lettore in guardia o li si avverte che, sebbene conservato a Venezia,
il manoscritto non può essere attribuito a persona nata o, comunque, inserita
nell’ambiente veneziano e – vien fatto di aggiungere – portata ad affrontare
questioni artistiche nella città lagunare. L’argomento addotto dalla Merrifield
corre il rischio di presentarsi come una mera battuta di spirito ma, fatto
magari un sorriso di circostanza, va subito detto che non esiste alcun motivo
per contestarne la validità: tra il vasto materiale che compare nel manoscritto
della Marciana capita di rintracciare anche ricette per i maniscalchi e
suggerimenti che per un veneziano dovrebbero presentare scarso senso. Anzi,
nessun senso.
Da p. 641 a p. 717 [6]. Privo di data e del nome dell’autore, il manoscritto è conservato presso la Biblioteca dell’Università di Padova, dove, almeno quando lo vide la Merrifield, portava la segnatura 992. La scrittura è del Seicento e questa caratteristica, unita ad altri rilievi, ha indotto la curatrice a respingere qualsiasi tentazione di retrodatare il lavoro al secolo precedente. La Merrifield ha eseguito (o fatto eseguire da uno dei figli che l’accompagnavano) la trascrizione integrale del testo e, dopo aver eseguito la versione inglese, l’ha suddivisa in numerosi paragrafi. L’originale è in italiano con l’unica eccezione del par. 83 in cui figurano scritte in latino, “which seem to have been considered secrets” (p. 645).
Nelle osservazioni preliminari
poste a commento di questo ricettario, sono toccati vari punti, tra i quali
vale la pena ricordarne almeno due. Ecco il primo: la Merrifield mette in
rilievo il naturale cambiamento di soluzioni tecniche documentandole mediante
il confronto tra questo manoscritto e il precedente lavoro della Marciana: “A
change seems to have taken place during the interval that elapsed between the
composition of the MS. of the Marcian and the Paduan MS., not only in the
pigments used, but in the varnishes. Essential oil varnishes are introduced in great abundance; Spirit of
Turpentine; Oil of Spike, and Naphta, are the diluents; while the hard
varnishes, made with amber and sandarac, have nearly given place to mastic and
olio di abezzo” (p. 644). La curatrice prosegue ricordando altre
soluzioni, descritte nel testo padovano, che servono anch’esse a testimoniare
il sensibile mutamento che vi è modo di stabilire tra le preferenze e gli
accorgimenti dell’età rinascimentale e quelli del secolo successivo.
Il secondo punto è meno scontato
e, tutto sommato, meno prevedibile del precedente. Attenta lettrice di
manoscritti e di trattati d’arte a stampa, la Merrifield riesce a cogliere
profonde similitudini tra alcune parti del lavoro custodito nell’Università padovana
e il Trattato dell’arte della pittura,
scoltura e architettura [7] pubblicato nel 1585 dal Lomazzo. E chi si mette
a compiere qualche verifica non può fare a meno di constatare l’esattezza del
rilievo compiuto dalla curatrice. E’ bene fornire qualche esempio tra i tanti
possibili. Nel manoscritto si legge che il bianco “si fa col gesso, calcina,
biacca, marmo pesto….”; nel Lomazzo si nota che i colori con cui si realizza il
bianco “sono il gesso, la biaca et il marmo trito”. Per l’autore del manoscritto
il giallo si realizza “col Gialdolino di fornace di Fiandra, et Alemagna,
orpimento et ocrea…”; per il Lomazzo i “colori che fanno il giallo sono il
gialdolino di fornace di Fiandra e di Alemagna, e l’orpimento oscuro e l’ocra”.
Collimano anche le due versioni per il verde: nel manoscritto si avverte che il
verde si ottiene “con li verde azurri, verderami, verdetto, che si chiama
gialdo santo e tira al gialdo, terra verde…”; nel trattato lomazziano si
prescrive che, per lo stesso fine, vanno adoperati “i verdi azurri, il
verderame, il verdetto, che si chiama santo ma tira al giallo, et ancora la
terra verde…”. Il turchino, secondo il manoscritto, “si prepara con gl’azuri
oltramarini et ongari et altri si fa
ancora con gli smalti..., massime con quelli di Fiandra, che sono li
migliori…”; a detta del Lomazzo i colori che consentono di creare il turchino
sono “gli azurri, come l’oltremarino, l’ongaro e gli altri et ancora gli
smalti, come quello di Fiandra che è il migliore de gl’altri tutti”. I brani ora
citati provengono dalle ricette poste sotto il par. 1 del manoscritto padovano
e del cap. IV del libro terzo del trattato del Lomazzo. Altri significativi
punti di contatto si potrebbero ottenere ponendo a fronte i paragrafi 2 e 13
del manoscritto con i capitoli VII e VIII, sempre del capitolo IV, dell’opera
dettata dal Lomazzo.
Come spiegare queste singolari
coincidenze? In un primo momento la Merrifield pare non nutrire dubbi di sorta
e dà per scontato che l’autore del manoscritto si sia rifatto al Lomazzo
saccheggiando qualche passo del suo famoso trattato. E, infatti, nella seconda pagina delle
“Preliminary Observations”, si legge: “Some parts of the early sections of the
work… bear such strong resemblance to parts of the 3rd book of Lomazzo’s Treatise on Painting, that it can
scarcely be supposed that one was not copied from the other” (p. 644). Ma
poi, quando si passa ad annotare il testo, qualche dubbio che forse già covava
nell’animo vien fuori e la Merrifield, pur con la necessaria prudenza del caso,
non esclude del tutto l’eventualità che anche Lomazzo abbia copiato,
riferendosi anche lui ad una comune fonte d’informazione (“common original
work”; p. 648 n.1). Un’ipotesi da dimostrare, naturalmente; ma non più
impossibile e inverosimile, come la precedente, perentoria affermazione avrebbe
dovuto far ritenere.
PIERRE LE BRUN Recueuil des essaies des merveilles de la peinture (Manoscritto di Bruxelles)
Da p. 757 a p. 841 [8]. Trascrizione parziale del manoscritto 15552 della Biblioteca (“Public Library”, scrive la Merrifield) di Bruxelles, scritto nel 1635 da un pittore francese di terza o quarta fila. Le pagine riprodotte dalla Merrifield costituiscono la parte iniziale del manoscritto; le pagine successive, ossia le parti omesse, trattano di scultura, di architettura e di prospettiva. Il manoscritto era stato preparato in vista della pubblicazione a stampa che, tuttavia, non è stata mai eseguita [9].
Il Le Brun dichiara d’aver
scritto il trattato per fornire agli amatori una conoscenza degli aspetti e dei
termini tecnici che desse loro la possibilità di parlare di pittura e di altri
generi artistici in modo appropriato e senza correre il rischio di cadere nel
ridicolo. La prefazione si apre riesumando un vecchio aneddoto sull’incontro
che sarebbe avvenuto tra Alessandro Magno e il pittore Apelle: Alessandro
avrebbe parlato di colori e di pittura in modo così avventato che gli
apprendisti e gli aiuti di Apelle non sarebbero riusciti a trattenersi dalle
risate. Si sarebbe così creata una situazione penosa ed incresciosa, che solo
l’abilità di Apelle e la larghezza di vedute di Alessandro avrebbero consentito
di superare. Le Brun aggiunge, rivolgendosi al lettore del suo scritto e
chiamandolo confidenzialmente suo grande amico, che desidera “delivrer de ceste
peine, et de la peur qu’on ne se gausse de vostre niaiserie quand vous voudrez
parler de la platte peinture, l’un des nobles artifices du monde…” (p. 767).
Almeno in un primo momento si
teme d’aver tra le mani un manualetto per fini dicitori [10] o una sorta di
prontuario per svagati incontri di società e per colloqui in cui quel che conta
non è tanto un giudizio critico su opere d’arte, quanto piuttosto un periodare
trapuntato da esclamazioni di maniera. E non si può dire che la prima
impressione sia del tutto o in parte errata almeno sin quando ci si sofferma su
quel capitolo, il nono, che ha per titolo “La façon de parler des beaux
tableaux” e si leggono le espressioni disarmanti che figurano in abbondanza.
Ciò che colpisce di più non è la presenza di antichi pregiudizi o di criteri di
valutazione che a noi moderni provocano un fastidio quasi fisico, come si
trattasse di una forma d’orticaria. E’ infatti abbastanza scontato che, immerso
nell’epoca sua, il Le Brun abbia considerato l’arte come una forma d’imitazione
della natura o come un “nobile artificio” destinato a stupire gli osservatori
più o meno ingenui; meno che mai ci deve meravigliare che abbia creduto nel
cosiddetto progresso dell’arte, in un lungo cammino virtuoso che avrebbe
portato dalle forme inaccettabili ed elementari dell’età medievale verso le
forme ritenute perfette dell’epoca rinascimentale e dei decenni successivi.
Altre cose irritano e disarmano, come le inutili girandole di parole, le
immagini gratuite e del tutto convenzionali, le palesi contraddizioni,
l’accettazione ingorda di luoghi comuni e di frasi giudicate di pronto effetto.
Nel tradurne certe parti in inglese, la Merrifield si vede costretta ad
annotarle con una selva di punti esclamativi o interrogativi che, meglio di
altri accorgimenti, sembrano in grado di fornire un’idea delle costruzioni
retoriche in cui è sprofondato l’autore del manoscritto. “Do you see those fish? Why they would swim if
you were to pour water on them!” si legge al punto 2, quasi all’inizio di p.
824. E al termine della stessa pagina, la Merrifield è indotta a
tradurre nel modo seguente l’enfatico periodare del pittore francese: “See how
well the folds of that drapery are arranged! Look at those snow white hands, where the veins seem to swell at each
beat of the pulse! See how those muscles grow and swell! One may count the
ribs, and the body is as well done as if Nature herself had formed it! It is
natural and real, or is it produced by art?” E, sia ben chiaro, non
stiamo affatto leggendo delle espressioni colorite che l’autore pronuncia di
fronte ad una o più opera che hanno colpito la sua immaginazione e suscitato il
suo entusiasmo: sono, invece, dei modi di dire, delle “frasi prefabbricate” che
vengono segnalate e raccomandate al lettore in modo che si trovi a suo agio nella
conversazione ed eviti – come a suo tempo accadde persino al grande Alessandro
– la pena di cadere nel ridicolo. S’insegna a far bella figura e a primeggiare
nella conversazione, e non già a bene intendere uno più messaggi artistici. E’
evidente che, per ogni situazione, occorre un intervento opportuno. Se il
discorso viene a cadere sui grandi passi compiuti dai secoli bui sino al
Rinascimento e oltre, Le Brun suggerisce di attenersi a questo schema, tutto
imperniato su una contrapposizione che a lui doveva apparire di sicuro effetto:
“Quand la peinture estoit encore au berceau et à son premier laict, le pinceau
estoit si niais, les ouvrages si lourds, qu’il falloit escrire dessus: c’est un
bœuf, autrement vous eussiez pris cela pour un quartier de veau…” (p. 825). Ed
ora? Che cosa dire per la nuova pittura? Ecco qui: “…maintenant il faut mettre
dessous, qu’un tel peignoit de peur qu’on ne crut que ce sont des morts qu’on a
collé sur la toile, et des personnages vivants sans vie tant le tout est bien
fait” (ivi). Costretta a tradurre, la
Merrifield sente la necessità di stemperare quei “morts” incollati sulla tela e
arriva a parlare, più serenamente, di “dead figures”.
Non sembra che la situazione
migliori di molto nel capitolo successivo, il decimo, ove si tenta d’imbastire
un discorsetto su “le plus excellens peintres de l’univers” (pp. 827-831). Nel
titolo del capitolo si ricorre ad un termine integrativo e si parla di “traicté”,
ma basta scorrere poche righe per capire che l’intendimento di fornire un
preciso profilo storico ha ben presto lasciato il posto ad un’arida e lacunosa
sfilza di nomi. Per l’età antica ci si riferisce ai soliti Polignoto, Parrasio,
Zeusi e a qualche altro nome ripreso da Plinio e Quintiliano o, con più
probabilità, orecchiato da qualche improvvisato dicitore mescolato fra la gente
dei salotti parigini. Per quella che un tempo si definiva l’età d’oro dell’arte
italiana vengono fuori alcuni nomi, tra i quali figurano – accanto a Raffaello,
ad un malconcio Michelangelo, a Tiziano, a Parmigianino e a Bassano – anche il
Cigoli e Antonio Tempesti. La Merrifield non può fare a meno di sorridere
quando s’accorge che Michelangelo Buonarroti si è sdoppiato, dando vita a due
artisti, uno chiamato Michelangelo e l’altro Buonarroti (p. 764). Le Brun
esclude dal novero dei grandi artisti Leonardo da Vinci e lo segnala in nota.
Poi continua con i Carracci (“trois frères italiens” [sic]), menziona Rubens e
snocciola infine dei nomi poco conosciuti – o addirittura sconosciuti, come
quel Thiesson o Thierson definito “très habile homme” – che verosimilmente
erano degli amici e colleghi e che ben poco attestano, se non lo scarso
collegamento dell’autore con artisti di pregio o, quanto meno, di sicura
rinomanza.
Se tutto si limitasse a queste
povere cose, non si capirebbe davvero perché la Merrifield si sia affaticata
sul Manoscritto 15552 di Bruxelles, l’abbia tradotto e, sia pure in parte,
pubblicato. Ma, per capire quanto è accaduto, occorre tener presente che,
accanto a simili vuotaggini e piacevolezze, si rinvengono egualmente alcuni
tratti di indubbia rilevanza. E le cose che restano, quelle che acquistano
credito e meritano considerazione, sono le informazioni tecniche e le
descrizioni di procedure di lavorazione sparse in decine di pagine. E’, questo, un punto qualificante
che non poteva essere trascurato dalla Merrifield: talune notizie, come quelle
sulla pittura ad olio, “must be considered as indications of the practice of…
art in France, or rather at Paris, during the middle of the seventeenth
century” (p. 759). In un capitolo si avvertono significative convergenze
con gli insegnamenti forniti dal Rubens (“in accordance with the precept of
Rubens”). In un altro capitolo (il quarto), dove si parla della pittura su
vetro, si delineano apprezzabili similitudini con la tecnica descritta molto
tempo dopo nel noto trattato di Le Vieil [11]. Nei centoquarant’anni che
dividono i due scritti sono sicuramente avvenuti dei cambiamenti, ma non così
decisivi come si sarebbe potuto immaginare. “The practice of the art” – attesta la Merrifield – “appears to have
changed but little from the time of Le Brun (1635) to the date of the work of
Le Vieil, 1774”.
Non c’è dubbio: la lettura del
manoscritto può riservare piccolo sorprese e utili indicazioni. A patto,
beninteso, di dedicarsi ai capitoli in cui s’affrontano questioni tecniche e di
abbandonare al loro destino le pagine irrimediabilmente compromesse da un gusto
vacuo e da preoccupazioni salottiere.
NOTE
[1] Di tutti i manoscritti
presentati negli Original Treatises,
quello sui Segreti per colori,
all’epoca conservato presso la Biblioteca del Convento di S. Salvatore, ora
presso la Biblioteca Universitaria di Bologna è, senza dubbio, il testo che ha
conosciuto maggior attenzione dal 1849 ad oggi. Proviamo a ricapitolare
brevemente: nel 1887 Olindo Guerrini (direttore della Biblioteca Universitaria,
dove lo scritto era finito in seguito a soppressioni ecclesiastiche) lo
ristampa insieme a Corrado Ricci col titolo Il
libro dei colori. Segreti del sec. XV. Né Guerrini né Ricci si rendono
conto che si tratta del testo prodotto dalla Merrifield. In epoca recente vale
la pena segnalare la trascrizione del manoscritto presente sul sito della
Biblioteca Universitaria e curata da Pietro Baraldi (indirizzo http://www.bub.unibo.it/it-IT/Biblioteca-digitale/Contributi/Manoscritto-bolognese.aspx?LN=it-IT&idC=61817),
ma soprattutto l’edizione critica proposta da Francesca Muzio nel 2012 (Un trattato universale dei colori. Il Ms.
2861 della Biblioteca Universitaria di Bologna). Si rimanda alla recensione del testo pubblicata su questo blog. Secondo l’analisi della curatrice il
codice sarebbe stato assemblato verso la metà del XV secolo negli ambienti
delle maioliche e delle ceramiche pesaresi (pur risentendo di influssi senesi).
[2] Michelangelo Gualandi, Memorie originali risguardanti le belle arti,
Vol. III, Bologna, 1842, p. 111.
[3] Del manoscritto è stata
pubblicata di recente un’edizione integrale. Si tratta di Fabio Frezzato e
Claudio Seccaroni, Segreti d’arti diverse
nel Regno di Napoli. Il manoscritto It.III. 10 della Biblioteca Marciana di
Venezia (con prefazione di Paolo Bensi), Saonara, Il prato, 2010. Secondo i
curatori il codice sarebbe stato scritto attorno al 1570, probabilmente a
Gaeta, ovvero nell’allora Regno di Napoli.
[4] I codici manoscritti volgari della Libreria Naniana riferiti da Don
Jacopo Morelli, Venezia, Stamperia Zatta, 1776, pp. 31-32.
[5] L’opera è oggi liberamente
consultabile su Internet. Questo è il testo originale di Morelli, parzialmente
tradotto dalla Merrifield: “E’ un ammasso d’ordinamenti, i quali ci fanno
vedere più composizioni da vecchi Professori usate nella Medicine, nella
Cirurgia [sic], nella Mascalcia [n.d.r. dai maniscalchi], nella Chimica, nella
Pittura, nell’arti del miniare, dell’indorare, del lavorare a stucco, e a
vernice, e di fare altri simili lavorj. Agli ordinamenti, che in parte sono
comuni, e in parte son poco noti, e tutti in Toscano dettati, talvolta si
premettono i nomi di coloro, che li mettevano in pratica. E sono: Ferrante
d’Alvito Gaetano, Maestro Cola di Monforte Maniscalco del Re Ferrando di
Sicilia, Ormanno degli Albizzi Gaetano, Vespasiano Colonna, Prete Pietro di
Gaeta, Maestro Girolamo da Castiglione Aretino, Roderigo Ursiano Spagnuolo,
Lionardo Bartolini Fiorentino, Maestro Angelo di Trajetto Ebreo, Maestro
Cardoso Portoghese, Maestro Castello di Gaeta, Maestro Giovanni Piccino
Tedesco, Maestro Vicenzo da Gaeta, Stefano miniatore di Firenze, Fra Domenico
da Perugia, Fra Apollinare da Viterbo, Maestro Andrea di Jato, Fra Domenico da
Spoleti, Maestro Bartolommeo da Verona, Fra Aurelio da Napoli, Maestro Giuseppe
da Trajetto Ebreo, Maestro Luigi da Napoli, Fra Giovanni di Monte Oliveto,
Prete Pasquale di Gaeta, Maestro Vicenzo Greco, Maestro Andrea di Salerno,
Prete Salvatore di Gaeta, Maestro Matteo di Terranuova miniatore in Firenze, e
Maestro Jacopo da Monte San Savino, di cui si vede la maniera, che usava nel
fare la vernice, e quella ancora, in cui faceva lo stucco; la medesima cioè,
che a detta di Raffaello Borghini nel Riposo (p. 492) e d’altri era già stata
ritrovata da Giovanni d’Udine, e da questo messa in opera nelle famose Loggie
Vaticane.”
[6] Non ci risultano edizioni
commentate del manoscritto.
[7] Gian Paolo Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura
et architettura in Gian Paolo Lomazzo, Scritti
sulle arti, a cura Roberto Paolo Ciardi, Firenze, Centro Di, 1974.
[8] Di tutti i trattati
pubblicati nel lavoro della Merrifield questo è l’unico per cui non abbiamo
alcuna idea di come giunse alla traduttrice. Non ci risultano viaggi a Bruxelles.
Le ipotesi sembrano due: o qualcuno della cerchia dei consulenti della
Merrifield ne aveva una copia, oppure copia del medesimo fu inviata alla
scrittrice di Brighton assieme ai manoscritti Le Bègue provenienti da Parigi.
[9] Per quanto ne sappiamo, non esiste un’edizione moderna del trattato. Tuttavia va ricordata la tesi secondo cui il testo di Le Brun altro non sarebbe che la copia di parte di una serie di scritti pubblicati nel 1621 sotto il nome di René François, pseudonimo del Gesuita Etienne Binet (Essay des merveilles de nature, et des plus nobles artifices). Si vedano in merito Art Market and Connoisseurship: A Closer Look at Paintings by Rembrandt, Rubens and theit Contemporaries (a cura di Anna Tummers e Koenraad Jonckheere) e Conservation of Easel Paintings, a cura di Joyce Hill Stoner e Rebecca Rushfield.
[10] Da non dimenticare che lo scritto di Binet, da cui proverrebbe quello di Le Brun (cfr. sopra) era un trattato di eloquenza.
[11] Pierre Le Vieil, L’art de la peinture sur verre et de la vitrerie, Parigi, 1774.
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