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venerdì 20 giugno 2014

Francesco Mazzaferro. Cennino Cennini e Leon Battista Alberti: variazioni sul concetto di composizione pittorica. Parte tre


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Francesco Mazzaferro
Cennino Cennini e Leon Battista Alberti:
variazioni sul concetto di composizione pittorica
Parte terza


Fig. 32) Roberto Rossellini (1906-1977) – Serie Tv  “L’età di Cosimo de’ Medici”. Parte III – Leon Battista Alberti. Alberti ammira il David di Donatello.  ©Flamingo Video 

NOTA: questa è l'ultima puntata di una serie di quattro sul confronto fra Cennino Cennini e Leon Battista Alberti. 



Per leggere dall’inizio cliccare qui.

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Latifah Troncelliti e la seconda analisi sulla composizione in Cennini ed Alberti, ovvero come Cennino pareggia il risultato: 1 a 1

Latifah Troncelliti, Visiting Professor in diverse università degli Stati Uniti, è filologa in lingue romanze. Ha dedicato una monografia stimolante e ben scritta esattamente al confronto fra Alberti e Cennini, giungendo a conclusioni quasi completamente divergenti rispetto a quelle di Rudolf Kuhn.

I suoi studi sono in linea con le opere di Julius von Schlosser prima menzionate. Ma la fonte d’ispirazione più diretta è un saggio del 1971 della studiosa danese Lise Bek. Bek ha operato il primo tentativo organico di rivisitare i termini ‘classici’ del confronto fra i due autori, scoprendo importanti elementi di simmetria tra i loro testi. Vorrei senz’altro raccomandare a tutti di leggere il suo saggio; e vorrei anche esprimere la mia gratitudine all’Accademia di Danimarca in Roma per avermene fornito una copia. 

Il punto di partenza della Troncelliti è che Alberti e Cennini sono, più o meno, fra loro contemporanei. Ciò significa molto probabilmente che l’esistenza del giovane Alberti si sovrappose a quello dell’anziano Cennini. Tuttavia, pur abitando in Toscana nella stessa epoca, i due vissero esistenze parallele, senza incontrarsi e conoscersi l’un l’altro: il primo, da intellettuale di punta, pienamente sostenuto da un’educazione enciclopedica e con una formazione da studioso in filosofia, retorica e scienza (ma sostanzialmente ignorante in termini di implementazione pratica delle arti visive), integrato (ma contemporaneamente confinato) nelle classi sociali più alte, senza avere la capacità di diffondere il suo messaggio agli artisti veri; il secondo, da uomo pratico che aveva lavorato in gioventù nella bottega di grande successo di Agnolo Gaddi, ma che molto probabilmente fu incapace di sviluppare nel tempo una carriera appagante come artista e si rivolse quindi a scrivere un manuale sulle tecniche delle arti visive, forse come fonte di reddito alternativa, alla fine di una lunga e difficile esistenza (che potrebbe essere finita in povertà, come successe a Paolo Uccello).

Cennini

Per Latifah Troncelliti, Cennini è un pittore del primissimo Rinascimento, ma privo di un qualsiasi substrato versatile a sostegno delle sue affermazioni sulla tecnica artistica. Ha in comune con la quasi totalità degli altri artisti della sua epoca (compresi i principali artefici del Quattrocento, ad eccezione di pochissimi) la caratteristica di essere innanzi e soprattutto un artigiano, facente parte di una corporazione ed escluso sia dalla possibilità di avere un’educazione ‘alta’ sia da quella di aver accesso a fonti teoriche e di imparare dagli studiosi. La sua forza risiede nella grandissima esperienza che ha accumulato negli anni in merito alle tecniche artistiche, nella diretta conoscenza dell’attività delle botteghe d’arte e nella chiara consapevolezza delle sfide con cui si confrontavano tutti i giorni i loro membri.  

Cennino inoltre usa il volgare in un’epoca in cui la giovane lingua italiana non ha ancora sviluppato un lessico preciso in materia di concetti artistici. Ad esempio (secondo la Troncelliti) le definizioni di ‘arte’ e ‘scienza’, delle loro reciproche relazioni e delle possibili differenze o sovrapposizioni sono linguisticamente imprecise e i due termini sono spesso usati con significato differente.

Tuttavia, alcuni aspetti degli scritti di Cennino sono rivoluzionari perché non appartengono a passate esperienze della letteratura artistica e non saranno ricompresi in opera successive. Troncelliti trova che il concetto di ‘fantasia’ (inteso come la possibilità di dipingere cose che non esistono) sia centrale nell’opera di Cennino. Esclude che si tratti di una derivazione da Quintiliano (come proposto da Lionello Venturi) e lo attribuisce a un giudizio istintivo di Cennino sulle potenzialità creative degli artisti. Alberti, al contrario, afferma che “le cose che non sono visibili non riguardano la pittura”: non c’è, per lui, alcuno spazio reale per l’immaginazione.

Come detto anche da Kuhn, il ruolo centrale della fantasia non implica, ad ogni modo, l’attribuzione all’artista di una licenza generica a disegnare qualsiasi cosa egli voglia, semplicemente seguendo il suo “demone creativo”. Ci dev’essere un sistema di limiti alla fantasia. Mentre tuttavia Kuhn lo individua nella ‘maniera’ del maestro (che ogni pittore deve seguire per anni, prima di trovare il proprio stile), Troncelliti fa riferimento a un insieme completamente diverso di limitazioni alla fantasia del pittore, secondo l’opinione di Cennino: la necessità di bilanciare la fantasia con l’osservazione della natura. Troncelliti nota che il naturalismo e il senso del sogno convivono in diversi pittori del Quattrocento, primo fra tutti Botticelli.

L’assenza di una qualsiasi rigida teoria della composizione nel Libro dell’Arte è una ricchezza, e non un limite. Cennini offre all’artista la possibilità di sperimentare mentre lavora. Al contrario Alberti forza l’artista a seguire una rigida sequenza per arrivare alla composizione, sequenza che limita la capacità di esprimere liberamente ‘la narrazione della storia”. Alberti inoltre concepisce la composizione come un esercizio astratto, da completare prima della realizzazione dell’opera. In termini di ‘narrazione’ Cennino è meno razionale e più ‘visuale’: per lui il pittore deve essere capace di creare al momento una storia, che deve essere tale in termini visivi. Facendo riferimento ad Alberti, la Troncelliti scrive: “Una storia non ancora rappresentata non è un’intenzione visiva; non ha relazione con la fantasia di Cennini, che muove e si sviluppa nello spazio pittorico e il cui contenuto non ammette di essere definito dal pensiero concettuale.”

Va detto qui che il giudizio di Latifah Troncelliti sul trattato è in linea con la critica favorevole di qualche studioso sulle pochissime (e spesso di attribuzione veramente incerta) opere d’arte rimanenti di Cennino (a cui sarà dedicato un successivo post in questo blog). E’ il caso in particolare dello studioso ungherese Miklós Boskovits, che nel 1968 giudica Cennino Cennini come un “pittore non-conformista”; per Boskovits il giudizio prevalentemente negativo dei critici su Cennino come pittore privo di originalità deve essere messo radicalmente in discussione. Contrariamente a quanto si ritiene generalmente, Cennino non era un pittore giottesco (Giotto era troppo lontano, in termini cronologici), né semplicemente un discepolo di Agnolo Gaddi, ma il rappresentante di uno stile tardo-gotico che combinava forme di espressionismo e naturalismo. Il ruolo della fantasia in pittura – dice Boskovits – sottintende che Cennino vuole sorprendere, stupire e divertire il suo pubblico, quasi in una maniera moderna. Non è in cerca di un concetto ideale di bellezza; rifiutando intenzionalmente di attenersi alle tecniche di prospettiva formale che erano già ben conosciute, per concentrarsi sulla descrizione naturalistica di alcuni dettagli, mostrando uno stile “istintivo, immaginifico e spesso rozzo”, Cennino vuol fare un uso innovativo della fantasia. Questa tesi è stata di recente confermata da una pubblicazione che illustra la mostra tenutasi a Berlino nel 2008 su “Cennino Cennini e la tradizione della pittura toscana tra Giotto e Lorenzo Monaco”, con il titolo “Fantasie und Handwerk” (Fantasia e Operazioni di mano), di cui scriveremo in una futura occasione.

Tornando alla Troncelliti, anche se Cennino è l’autore di un trattato sulla pittura, è profondamente convinto che il suo libro da solo non può formare un buon pittore, e lo dice espressamente. Quindi, ciò che conta è conoscere ed esercitarsi coi metodi pratici che possono aiutare l’artista ad esprimere al meglio il suo talento. In più, in diverse occasioni sottolinea il concetto che un pittore deve provare piacere nel suo lavoro quotidiano (un’espressione  moderna usata dalla Troncelliti è ‘gioia di dipingere’).

Cennino propone qualche tecnica compositiva di natura operativa. Innanzi tutto la Troncelliti spiega la tecnologia (basata sull’uso di funi) grazie alla quale Cennini divide la superficie dipinta in spazi geometrici regolari. Citando Judit Field, l’autrice spiega che questi metodi sono sostanzialmente simili a quello usato da Masaccio nella sua Trinità.


Fig. 33) Masaccio, La Trinità, Santa Maria Novella, Firenze, 1428 circa


Fig, 34) La composizione geometrica della Trinità (Si veda http://www.kenney-mencher.com)


Più in generale, Cennino raccomanda di distribuire le figure nella ‘storia’ lungo punti centrali di riferimento. Tali punti devono essere utilizzati per suddividere lo spazio tra le immagini e sviluppare assi centrali attorno alle quali sviluppare la narrazione. Solo poche settimane fa, Amanda Lillie, della National Gallery, ha pubblicato un articolo online andando nella medesima direzione della Troncelliti. Lillie ritiene che il contributo di Cennini alla teoria artistica sia significativamente sottostimato, e che le sue opinioni in termini di composizione pittorica siano state adottate dai maestri del Rinascimento, con uno specifico esempio nel caso di Raffaello: la semplice struttura geometrica che sta alla base della Madonna Garvagh.



Figg. 35-36) Raffaello, 'La Madonna Garvagh ', 1509–10 circa(Fonte: Amanda Lillie, National Gallery)

La Troncelliti si sofferma inoltre con attenzione sulla composizione in termini di colore, basata sui contrasti delle tinte. Se Cennino paga un tributo alle teorie aristoteliche fondate su una scala di sette colori, è anche vero che utilizza pigmenti reali che possono essere trovati in natura (e ci ricorda anche la ricerca dei colori che faceva assieme al padre) e descrive le loro tonalità (sette tipi di rosso, sei di giallo, sette di verde, tre di blu). Per quanto riguarda le dorature, Cennino si concentra sul loro uso solo nei tessuti (a differenza della pittura bizantina) e le usa come fecero Fra Angelico o Botticelli. Il nostro autore utilizza il colore per dare rilievo e volume alle pitture. Nella sua spiegazione relativa allo ‘sfumato’ ci descrive fondamentalmente delle tecniche utilizzate nel Quattrocento. Ci spiega come usare la luce naturale per evitare che le opere risultino piatte.

In conclusione, per Troncelliti Cennino Cennini è il prototipo del pittore che decide di utilizzare la sua esperienza diretta per scrivere un manuale per altri pittori: un artista che scrive per gli artisti, un pratico per i pratici. Secondo lui la composizione ha un’importanza fondamentalmente operativa. Troncelliti sostiene che Cennini dovrebbe essere incluso nella stessa categoria di un Ghiberti, di un Leonardo o di un Vasari. Appartiene ad una categoria diversa da quella di Alberti che, da non-artista, è il prototipo del critico d’arte. Quindi, più che l’Alberti, Cennino Cennini ci mostra molte tecniche effettivamente utilizzate nel primo Rinascimento, comprese le tecniche compositive. Cennino è il simbolo di un artefice che prova a mettere nelle proprie mani la trasmissione delle proprie conoscenze professionali e non accetta la mediazione di studiosi e di altri esperti eruditi. Con la Controriforma questa categoria di artisti cesserà quasi di esistere, dal momento che gli artefici saranno privati della possibilità di comunicare direttamente, senza l’intermediazione della teoria artistica, con altri loro colleghi.

Alberti

Secondo la Troncelliti Alberti fu, innanzi tutto, un maestro nella retorica. Ebbe l’abilità di riadattare le fonti esistenti (soprattutto quelle di origine greca e latina) in una serie di aree differenti e di scrivere nuovi testi in maniera tale da renderle più facili da leggere e più digeribili al pubblico colto dell’epoca. Sotto questo punto di vista, l’originalità di pensiero non era poi così necessaria e molte argomentazioni avanzate da Alberti, che sono state analizzate alla luce di una letteratura estremamente favorevole sulla scia dell’interpretazione epica dell’autore operata da Jacob Burckhardt, dovrebbero piuttosto essere interpretate, più sobriamente, come meri esercizi retorici.

Pur dicendo nel suo trattato che stava affrontando il tema della pittura da pittore – sostiene la Troncelliti – Alberti non riuscì realmente a ragionare da vero artista. L’affermazione di Alberti non regge ad un esame analitico. Egli non comprese la fondamentale importanza di talento e motivazione e continuò a pensare (dal momento che qualsiasi cosa poteva essere insegnata) che il suo manuale potesse dar vita a nuove generazioni di artisti. Proclamò che gloria e reputazione erano il fino ultimo dell’arte, atteggiamento che spesso è alieno ai veri artisti. Questi ultimi – scrive la Troncelliti – sono spesso più interessati alle proprie creazioni artistiche che al riconoscimento sociale che potrebbero acquisire tra i membri più potenti della società.

Ribaltando un’argomentazione spesso usata da altri contro Cennini, la Troncelliti è dell’opinione che fosse Alberti che in realtà non era sintonizzato con l’arte del proprio tempo, mentre, al contrario, la produzione artistica nelle botteghe (e quindi la produzione di singole opere artistiche) si andava manifestando esattamente come nelle prescrizioni di Cennini. Ci sono almeno quattro ragioni per cui Alberti non ebbe un reale impatto sulla cultura figurativa dell’opera (mentre ne avrebbe avuto uno importante più tardi, a partire dal Cinquecento).

In primo luogo, come già detto, Alberti non scriveva per i pittori (e anche la versione in volgare del De Pictura che compilò sarebbe stata incomprensibile per una larghissima porzione degli artisti dell’epoca).

Secondo: l’esperienza reale di Alberti in materia di pratica artistica era assai limitata. Menzionò la sua attività di pittore come solamente un passatempo ed anche i suoi ammiratori (come Cecil Grayson) devono riconoscere che non ci è rimasta alcuna sua opera e che probabilmente la qualità della sua produzione doveva essere davvero modesta. Cosa più importante – sostiene la Troncelliti –: se li si confronta in termini di traduzione degli impulsi creativi  e di conversione dei materiali in oggetti fisici, nonché di gioia della creazione materiale dettata dalla passione, tutti i procedimenti che Alberti descrisse nel suo trattato rivelano (a differenza di Cennino) una profonda incomprensione dell’attività di un pittore e in particolare dell’attività necessariamente ‘materiale’ legata all’aspetto artigianale.



Figg, 37 e 38) Roberto Rossellini (1906-1977) – Serie TV Series “L’età di Cosimo de’ Medici”. Parte III – Leon Battista Alberti: L’Umanesimo – La piramide visiva  ©Flamingo Video 

In terzo luogo, e a dispetto delle apparenze, Alberti era estraneo alla cultura visiva naturalistica e realistica dei suoi contemporanei. Una qualsiasi rappresentazione della realtà – scrive la Troncelliti – avrebbe comportato “di mostrare il brutto così come il bello”, come capita in un dipinto di Ghirlandaio che mostra un naso deformato dalla malattia. Alberti viveva in un mondo neo-platonico, in cui solo la bellezza astratta doveva essere rappresentata. La sua concezione di bellezza non prevedeva l’inclusione del lato ‘brutto’ del mondo e non era quindi in linea con il Quattrocento.

Fig. 39) Ghirlandaio, Ritratto di vecchio con il nipote, 1490 circa, Louvre, Parigi

Quarto: alcuni dei concetti più tecnici contenuti nel De Pictura presentano degli errori matematici, che resero estremamente difficile utilizzarli alla lettera. Ripetendo una tesi già menzionata da Michael Baxandall, la studiosa dice che i soli artisti che furono capaci di correggere ed implementare tali concetti furono Mantegna (che trovò una via empirica per evitare gli errori) e Piero della Francesca (che ebbe un’educazione profondamente matematica).

Le teorie dell’Alberti possono aver avuto successo in fasi più tardi della storia della pittura, ma non nel Quattrocento. Se Alberti dedica l’edizione volgare del De Pictura a Brunelleschi e cita nella sua introduzione “il nostro grande amico Donatello” come pure Luca della Robbia, Lorenzo Ghiberti (chiamato Nencio) e Masaccio, Troncelliti segnala che gli esempi di opere d’arte citati dall’autore risalgono sempre all’antichità (vi sono quindi riferimenti puramente retorici a Plinio, posto che tutti gli esemplari di pittura greca sono andati persi) e solo in un singolo caso viene citato Giotto. Con l’eccezione della cupola del Duomo di Brunelleschi nessuno dei numerosi capolavori dell’epoca è mai citato, commentato o utilizzato come esempio per propagare le teorie artistiche. Non vi sono inoltre prove storiche di una relazione stretta fra Alberti e Brunelleschi, posto che nella Vita di Brunelleschi di Antonio Manetti i due sono mostrati come in cattive relazioni fra loro. Troncelliti solleva anche l’ipotesi che Alberti possa persino non essere stato a conoscenza di singole opere d’arte. Nel caso di Masaccio, per giunta, è noto come quest’ultimo fosse morto a 28 anni, prima che Alberti fosse ritornato a Firenze dall’esilio. Molte di queste argomentazioni originano dallo studio di Lise Bek sopra ricordato.

La prova ultima dell’alienazione di Alberti rispetto alla sua epoca è costituita dalla sua teoria dei colori, che è stata definita da Samuel Edgerton “una bottiglia medievale senza il vino del Rinascimento”. Il concetto albertiano di ‘amicizia dei colori’ – ci dice la Troncelliti – era basato fondamentalmente sull’uso del nero e del bianco ed era un richiamo ai quattro colori di base (verde abete, grigio-blu, verde acqua, cenere) che preferiva personalmente e che gli sarebbe piaciuto vedere usati il più possibile.

In conclusione, Alberti mise assieme fonti greche e latine per preparare un testo teoretico sulla pittura. La sua compilazione, tuttavia, non raggiunse gli artisti e l’impatto immediato del trattato di Alberti sulla pittura del Quattrocento è stato di gran lunga esagerato. Ad ogni modo, era nato un nuovo genere di letteratura, quella della discussione teorica su principi artistici, scritta da un non-artista per un pubblico di non-artisti. Era nata la critica artistica.


Thomas Puttfarken e la terza analisi sulla composizione in Cennini ed Alberti: partita sospesa senza un vincitore

Il defunto Thomas Puttfarken firmò nel 2000 una monografia intitolata “La scoperta della composizione pittorica. Teoria dell’ordine visivo in pittura 1400-1800”. Le prime 180 pagine sono intitolate: “Perché il Rinascimento non parlò di composizione pittorica”. Ciò che Puttfarken vuol dire è  che lungo tutto il periodo in cui il concetto odierno di composizione pittorica prevale (fino a quando cioè il critico americano Clement Greenberg proclama la morte della pittura basata sul pennello e della composizione formale), siamo tutti figli, o nipoti della pittura barocca francese, da Poussin in poi. Spiegandosi meglio dopo. Puttfarken è dell’opinione che il concetto di composizione pittorica che Kandinsky e Mondrian usavano anche per l’arte astratta non corrisponda (nella teoria retorica di Quintiliano) alla compositio, ma al concetto diverso, e più elaborato, di dispositio. La differenza fra i due concetti è che il Rinascimento italiano, applicando alla pittura la compositio di Quintiliano, non poteva comprendere la composizione pittorica se non in termini diversi dall’aspetto di uno o più corpi in un dipinto; il Barocco francese, al contrario, allargò il concetto (utilizzando il linguaggio di Rudolf Arnheim) a una ‘configurazione totale di forze’ o, in termini di psicologia della Gestalt, a “una rappresentazione olistica, con la propria natura contenuta in se stessa, la sua regolare configurazione e la sua struttura interna, più o meno complicata”. La composizione pittorica non riguarda solo il modo in cui i quadri sono strutturati. Riguarda “la maniera in cui le immagini, gli oggetti e i mondi si comportano in relazione all’ordine dell’immagine e al livello di valore visuale e all’importanza che noi gli attribuiamo… Lo scopo della composizione pittorica, inteso in questo senso, non è puramente o principalmente l’armonia formale; è la comunicazione visuale dell’immagine e del significato” all’osservatore.. I Sindaci di Rembrandt potrebbero essere interpretati (nella tradizionale visione della compositio) come una combinazione orizzontale e simmetrica di sei figure. Più importante (avendo a conto la dispositio) è il sentimento necessario che il pittore olandese crea nella mente di chi osserva il quadro, come se le sei figure lo stessero aspettando e osservando mentre entra nella stanza. La moderna composizione è, in questi termini, ‘un senso di privilegio’ concesso dal pittore all’osservatore, privilegio che a volte è normale e semplice, a volte assai complesso e basato anche sul sovvertimento dell’ordine visivo.


Fig. 40) Rembrandt, I Sindaci dei Drappieri, 1662, Rijksmuseum, Amsterdam

Il riferimento chiave di Puttfarken sembra essere lo studio di Ernst Gombrich del 1960 su “Arte e illusione: uno studio nella psicologia della rappresentazione pittorica”. In quello studio Gombrich identifica un contrasto fondamentale nell’arte tra ‘ordine’ (rappresentato dalla composizione) e ‘vita’ (rappresentata dalla fedeltà alla natura). Il Rinascimento italiano considerò l’ordine come un’acquisizione tradizionale e si concentrò sulla fedeltà alla rappresentazione della natura- “Gli storici dell’arte si sono sempre chiesti – scrive Gombrich – come mai… non vi sia una sola parola sulla composizione nel Trattato di Leonardo e Vasari usi difficilmente questo termine”.

Cennini

Puttfarken comincia la sua analisi su Cennino Cennini notando che I termini ‘comporre’ e ‘componire’ (usati con lo stesso significato) vengono utilizzati in tre importanti passaggi del Libro dell’Arte. Indicano “un compito più gravoso e più importante” del semplice disegno. Dal momento che il comporre è correlato, da un lato, alla fantasia dell’artista, alla sua immaginazione creativa, e dall’altro all’esecuzione fattuale dell’opera, non credo di forzare troppo le mie affermazioni se suggerisco che il termine è utilizzato nel significato di portare all’esistenza, ovvero di dare realtà all’immagine o istoria immaginata dall’artista.”

Nella sua introduzione, Cennino associa pittura e poesia. Quest’ultima permette al poeta  di “comporre e legare assieme, come più gli aggrada, secondo le proprie inclinazioni. (…) Allo stesso modo al pittore è data la libertà di comporre una figura in piedi, seduta, metà uomo e metà cavallo, come desidera, secondo la propria immaginazione”. Cennino – osserva Puttfarken – fa riferimento alla “composizione di una singola figura”.

Cennino si occupa anche di composizione per quanto riguarda la pittura di tavole o di affreschi. Nel primo caso si raccomanda: “Il carbone deve essere legato a un bastoncino o a un piccolo rametto, in maniera tale che vi sia una certa distanza dalla figura; ciò ti sarà di grande aiuto nel comporre”. Nel secondo caso scrive: “Quindi componi le storie o figure col carbone, come ho descritto. E mantieni sempre le tue aree in scala e regolari”.

Cennino fa riferimento essenzialmente “agli spazi od aree che devono essere occupate dalle figure che l’artista si accinge a comporre”. L’autore raccomanda anche, a tale scopo, di disegnare line verticali “creando un asse centrale attorno a cui la figura potrà essere disegnata” e linee orizzontali che mostrino “il terreno o l’orizzonte su cui deve stare l’immagine”.

Questo concetto di composizione non corrisponde a quello descritto da Puttfarken. “In Cennino, come più tardi in Alberti, la storia deve essere intesa come una scena narrativa composta da diverse figure, ovvero come una scena che racconta una storia. Non vi è alcun riferimento a come le figure debbano essere poste in relazione fra loro o all’opera d’arte nel suo complesso”.

Sotto questo punto di vista – dice Puttfarken – Cennino potrebbe non aver compreso appieno Giotto, Taddeo Gaddi e le due-tre generazioni di pittori precedenti a cui pure fa riferimento come fonte d’ispirazione. Essi avevano “inventato o riformulato l’ordine della narrazione sacra”, “creato nuove formule pittoriche”, “nuovi tipi di immagini”. In altre parole, “non furono semplicemente artigiani”.

Puttfarken conclude che “la lontananza di due generazioni da Taddeo Gaddi e di tre da Giotto significa probabilmente che Cennino, a dispetto delle sue affermazioni, non riflette direttamente le loro idee sull’arte, ma una versione di bottega molto annacquata, condivisa da quella che è spesso chiamata la scuola giottesca. La composizione innovativa o inventiva non era necessariamente parte del sistema di questa scuola.

Alberti

Nonostante tutte le differenze, anche “la nozione di Alberti di composizione non deriva dalla pittura intesa come entità, né la riguarda. Deriva dall’osservazione di un oggetto singolo ed individuale in natura e dalla maniera in cui questo oggetto è visivamente reso sulla superficie dell’opera. Al suo livello più semplice, la composizione è l’attività di mettere insieme una cosa, e, sotto questo aspetto, Alberti può ben riflettere l’uso tradizionale del termine usato nelle botteghe artigiane, così come suggerito da Cennino”.

Puttfarken vede inoltre un parallelo con Cennino quando Alberti definisce la pittura come fatta di circumscriptio, compositio e ‘ricevere di lumi’. “La circumscriptio, definita in senso proprio, è presentata come uno strumento di imitazione accurata, basato sulla precisa osservazione. La compositio, utilizzando il disegno come strumento, va oltre la circumscriptio nella misura in cui è un’attività costruttiva o creativa…”.

E tuttavia Alberti presenta una teoria della composizione più complessa rispetto a quella di Cennino, “Quando Alberti si sposta dalla circumscriptio alla compositio, fa esplicitamente un passo in avanti dall’imitazione alla costruzione… La composizione è l’area più importante in cui risiede la scelta artistica, l’area in cui l’artista deve decidere e costruire, invece di imitare (…). La composizione, fors’anche più della prospettiva, permette ad Alberti di giustificare lo status della pittura come arte liberale. Dipende dalla conoscenza che l’artista ha del corpo umano, delle proporzioni, dei suoi movimenti e delle espressioni emotive, della maniera in cui l’interagire dei corpi può trasmettere il significato, e dipende anche dal significato stesso”.

Ciò non esclude, tuttavia, che Alberti, come gli altri critici d’arte del Quattrocento, non sia stato capace di parlare degli effetti complessivi dei dipinti. Ci sono due motivi per cui i teorici del Quattrocento non furono in grado di farlo: il primo è il ruolo centrale del corpo umano; il secondo, la prospettiva.

Per prima cosa, nella teoria albertiana il corpo umano è “il paradigma dell’ordine e la composizione (…) una misura della perfezione”. In termini funzionali, Alberti accetta che più corpi possano creare immagini complesse che pongono in essere un’azione comune (cosa che viene chiamata “historia, ovvero una somma di corpi, oggetti etc.”) seguendo “principi di ordinamento [come] l’appropriatezza dei movimenti, sia fisici sia mentali, rispetto all’azione complessiva al fine di una chiara esposizione del significato, e una varietà di movimenti, al fine della gradevolezza”. Tuttavia, in termini più ontologici – scrive Puttfarken – “non esiste modo, per i nostri critici del Rinascimento, di trascendere il singolo corpo. Due o più corpi non danno vita a un complesso più grande delle singole parti. (…).

In secondo luogo, la prospettiva: Alberti ne parla nel primo libro del De Pictura. Si tratta di un requisito tecnico a priori dell’arte, non di una parte di essa. E, ancora, Puttfarken trova che la prospettiva (ed, in particolare, la tradizionale prospettiva centrale) “avesse effetti compositivi (…), riconosciuti e praticati dagli artisti da un’epoca molto precoce”. Ciò “può aver aiutato a rendere superflua una teoria dell’ordine e della composizione pittorica”. Peraltro, lo stesso Alberti, facendo riferimento alle tecniche da usare per costruire la prospettiva, scrive: “Questo metodo per dividere il pavimento è specialmente pertinente a quella parte della pittura che, quando vi arriveremo, chiameremo composizione”.

Tuttavia, anche in questo caso, sarebbe sbagliato considerare la prospettiva (nella definizione dell’Alberti) come una componente della moderna composizione. Semplificando la complessa elaborazione di Puttfarken, ci sono due modi per costruire la relazione visiva tra dipinto e osservatore. Uno consiste nell’identificare il “raggio visivo centrale che incontra la superficie del quadro ad una giusta angolazione”: si tratta della base della teoria dell’Alberti sulla piramide visuale.  L’altro è il raggio centrale che non è perpendicolare alla superficie, ma all’occhio dell’osservatore. In altri termini, la teoria di Alberti è più correlata alla discussione di “una superficie originaria singola, una singola piramide visuale, e a singoli, inamovibili e assolutamente fissi raggi centrali e distanze di osservazione”; in altre parole, è correlata “a una singola visuale”. Questa singola visuale è imposta dal pittore e non permette all’osservatore di interagire attivamente con l’opera d’arte.  

Riassumendo, Puttfarken fa riferimento alle tesi di Baxandall su Leon Battista Alberti esposte in “Giotto e gli umanisti” in cui si sostiene che fu l’inventore della composizione: “il mio disaccordo con Baxandall in merito a questo argomento è marginale, ma probabilmente non privo di importanza”.

E’ interessante vedere come siano differenti rispetto alle argomentazioni di Puttfarken le opinioni espresse dagli studiosi che hanno curato le recenti versioni in lingua francese del De Pictura. Secondo Jean Louis Schefer, che nel 1992 ha pubblicato la prima edizione francese da quella di Claudius Popelin nel 1868, il De Pictura offre ai pittori una cornice teorica che è dominata dalla traslazione dell’arte visuale nello spazio grazie alla prospettiva. Schefer ritiene il concetto cruciale dell’historia di Alberti come una parte concettuale della prospettiva (e non – al contrario – la prospettiva come una disciplina di carattere scientifico, esterna al concetto di composizione/narrazione pittorica), e dunque fa riferimento alla proiezione dello spettatore nello spazio della pittura (che è anche spazio dell’invenzione). Questa interazione attiva è esattamente ciò che Puttfarken ritiene essere mancante nella composizione di Alberti. Thomas Golsenne e Bertrand Prevost, che hanno curato una nuova edizione nel 2004, non solo considerano Alberti come il fondatore del concetti di ‘rappresentazione’, basato sul concetto di ‘historia’, ma mettono in contrapposizione tale aspetto con quanto prima praticato nel Medio Evo (che chiamano, con un neologismo da loro coniato, ‘presentificazione’). I due spiegano che la rappresentazione di Alberti ha una posizione semiotica diversa rispetto a quella dell’arte sacra precedente. La classica immagine cristiana, nell’arte sacra, pre-esiste sempre allo spettatore (che è prima di tutto un devoto) e trae la sua potenza dalla religione. Secondo Alberti, la rappresentazione pittorica è una rappresentazione pura, che necessita assolutamente di una relazione con chi l’osserva. Facendo riferimento a Michael Foucault, i due spiegano che l’historia di Alberti ha un doppio significato: da un lato consiste dei fatti che sono illustrati nel dipinto e dall’altro è l’azione di attribuire un significato pittorico a quei fatti. Grazie al concetto fondamentale di ‘rappresentazione’ il De Pictura – concludono Golsenne e Prevost – trasforma la posizione dell’osservatore in “un elemento assolutamente necessario per il sistema della pittura nuova. (…) La rappresentazione del quadro non esiste come tale se non intesa come atto di riconoscimento da parte degli spettatori”.


Bibliografia

Alberti, Leon Battista – De la Peinture - De Pictura (1435), Traduction par Jean Louis Schefer, Paris, Macula, Dédale, 1992 – Posseduto da questa biblioteca.

Alberti, Leon Battista – De Pictura. Traduit du Latin et présenté par Danielle Sonnier, Pris, Édition Allia, 2010 - Posseduto da questa biblioteca.

Alberti, Leon Battista - De Pictura (Redazione volgare), edited by Lucia Bertolini, Firenze, Polistampa, 2011 (Edizione Nazionale delle Opere di Leon Battista Alberti. Trattatistica d’arte 1.1) – Posseduto da questa biblioteca.

Alberti, Leon Battista – La Peinture. Texte latin, traduction française, version italienne. Édition de Thomas Golsenne et Bertrand Prévost, revue par Yves Hersant. Paris, Seuil, 2006  – Posseduto da questa biblioteca.

Alberti, Leon Battista - On Painting, Introduction and translation by Cecil Grayson, Penguin Books, revised edition, New York, 2004 – Posseduto da questa biblioteca.

Aronberg Lavin, Marilyn, The Place of Narrative, Mural Decoration in Italian Churches, Chicago, 1990.

Aronberg Lavin, Mailyn - Un nuovo metodo per lo studio della pittura murale; il problema dell’ordine narrativo (A new method to study mural painting: the problem of narrative order), in: Storia dell’Arte 77, 1993, 115-122.

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