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Francesco Mazzaferro
Cennino Cennini e Leon Battista Alberti:
variazioni sul concetto di composizione pittorica
Parte prima
Fig. 12) Roberto Rossellini, - Serie TV “L’età di Cosimo de’ Medici” – Parte III – “Leon Battista Alberti – L’Umanesimo” - Leon Battista Alberti spiega la prospettiva ©Flamingo Video |
[N.B. Su Cennino Cennini, si veda in questo blog: Progetto Cennini
Su Leon Battista Alberti si veda in questo blog anche: Leon Battista Alberti, Descriptio Urbis Romae, A cura di Jean-Yves Boriaud e Francesco Furlan, Firenze, Leo S. Olschki, 2005; Rocco Sinisgalli, Il nuovo De Pictura di Leon Battista Alberti. Edizioni Kappa, 2006. Qui sotto è la prima puntata di una serie di quattro sul confronto fra Cennino Cennini e Leon Battista Alberti. La bibliografia relativa sarà pubblicata al termine dell'ultima parte]
Su Leon Battista Alberti si veda in questo blog anche: Leon Battista Alberti, Descriptio Urbis Romae, A cura di Jean-Yves Boriaud e Francesco Furlan, Firenze, Leo S. Olschki, 2005; Rocco Sinisgalli, Il nuovo De Pictura di Leon Battista Alberti. Edizioni Kappa, 2006. Qui sotto è la prima puntata di una serie di quattro sul confronto fra Cennino Cennini e Leon Battista Alberti. La bibliografia relativa sarà pubblicata al termine dell'ultima parte]
NOTA: questa è la seconda
puntata di una serie di quattro sul confronto fra Cennino Cennini e Leon
Battista Alberti. La bibliografia relativa sarà pubblicata al termine
dell'ultima parte.
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Cennino e Leon Battista: condannati a un
inevitabile confronto?
Una generazione e mezza o al massimo due separarono il Libro dell’Arte di Cennino Cennini e il De Pictura di Leon Battista Alberti. Secondo l’opinione più diffusa
l’opera di Cennini potrebbe essere precedente a quella di Alberti di circa
quarant’anni. Ma ci sono studiosi che accorcerebbero questo intervallo di tempo
a vent’anni, ed altri che considerano i due libri come contemporanei.
Il manoscritto più antico del Libro
dell’Arte di Cennino Cennini a nostra disposizione reca la data 1437. Tuttavia,
sin dai tempi della seconda edizione italiana del 1859, a cura dei fratelli
Carlo e Gaetano Milanesi, si ritiene che la data sia stata aggiunta da un
copista e che il trattato di Cennino sia stato steso negli anni fra il 1390 e
il 1400. Secondo una recente analisi filologica del volgare usato da Cennino,
Ulrich Pfisterer, professore di Storia dell’arte italiana all’Università di
Monaco ritiene che il testo sia stato completato molto più tardi, fra il 1415 e
il 1420. Per di più, Lise Bek e Latifah Troncelliti sono dell’avviso che la
data del 1437 sia, in fin dei conti, corretta; seguono in merito le indicazioni
di Filippo Baldinucci e considerano non fondate tutte le tesi che tendono a
rimuovere il 1437 come anno di composizione.
Sul De Pictura di Leon Battista
Alberti sappiamo che è stato scritto attorno al 1435. Tradizionalmente le date
accettate dagli studiosi sono il 1435 per la versione latina e il 1436 per
quella in lingua volgare. Tuttavia, di recente, la questione della precedenza
fra le due edizioni è stata riaperta. Nella recente Edizione Nazionale delle Opere di Leon Battista Alberti, ad
esempio, Lucia Bertolini esprime l’opinione che il testo volgare sia stato
completato nel 1435, prima di quello latino.
Coloro che ritengono che il Libro
dell’arte sia stato scritto da Cennino Cennini alla fine del XIV secolo
reputano che le differenze tra quest’opera e il De Pictura di Leon Battista Alberti riflettano i cambiamenti nello
stile e nella teoria artistica intervenuti in quei decenni. Insistono sul fatto
che il giovane Cennino, operante in Toscana e a Padova, apparteneva alla tarda
età gotica. Quella dei Gaddi fu la bottega dominante a Firenze negli ultimi
decenni del Trecento, gli anni degli affreschi di Agnolo nella Basilica di
Santa Croce. Come esponente della curia nell’amministrazione papale durante gli
anni del Concilio ecumenico di Firenze (1431-1437) Alberti tornò dall’esilio
nella città di origine della sua famiglia, poco dopo che Masaccio aveva
completato i suoi affreschi nella Cappella Brancacci (nella Chiesa di Santa
Maria del Carmine). Per colpa della morte improvvisa di Masaccio stesso, nel
1428, Alberti non ebbe modo di conoscerlo. Tuttavia, dopo aver ricevuto
un’educazione completa in una serie di discipline umanistiche fuori Firenze
(anche a Padova) Alberti contribuì alla costruzione della cultura di primo
Quattrocento a Firenze e in altre città italiane. In conclusione, secondo
questa tesi, Cennino e Leon Battista avrebbero operato nelle stesse città
(Firenze e Padova), ma con circa 40 anni di differenza l’uno dall’altro.
Quanti pensano, al contrario, che il Libro dell’Arte e il De Pictura furono scritti entrambi nei primi decenni del XV secolo (possibilmente quasi negli stessi anni) ritengono che la principale differenza fra le due opere risieda nei loro scopi differenti come nei loro diversi modelli retorici. Secondo questa tesi, sia Cennino sia Alberti apparterrebbero ai primi decenni del Rinascimento, dei quali rappresentano tuttavia due diverse realtà. L’ancor giovane Leon Battista Alberti produce un trattato (in latino e in volgare) indirizzato a un pubblico colto e interessato alla teoria dell’arte (consistente per lo più in studiosi o individui delle classi più elevate), mentre Cennino Cennini, più anziano, mette per iscritto la sua conoscenza delle tecniche artistiche (solo in volgare) in forma di manuale per i giovani pittori, per facilitare il loro processo di apprendimento nelle botteghe fiorentine. Come mostrato in maniera impeccabile dalla studiosa danese Lise Bek, l’opera di Alberti, in termini di modelli retorici, si basa sul modello dell’orazione classica, mentre quella di Cennino sul modello della preghiera religiosa. Questi diversi modelli retorici coesisterono lungo tutto il Quattrocento.
Fig. 13) S. Luca che dipinge la Vergine, Icona |
Fig. 14) S. Luca che dipinge la Vergine col bambino, Icona |
Le biografie di Cennini e di Alberti sono sicuramente molto differenti, ma
qualcosa in comune c’è: ad esempio furono entrambi considerati da Vasari
artisti falliti. E’ però estremamente probabile che, se mai qualcuno
gliel’avesse chiesto, lo stesso Cennino si sarebbe assolutamente sorpreso
nell’essere considerato un teorico dell’arte. Nel suo Libro spiega ripetutamente che il semplice studio di una fonte
scritta (compresa la sua opera) non avrebbe mai permesso, da solo, a un
qualsiasi giovane pittore di imparare la professione, dal momento che solo un
lungo apprendistato nella bottega di un maestro lo consentirebbe. Tuttavia,
quasi tutta la sua produzione pittorica è andata persa, mentre il suo trattato
ha conosciuto un enorme successo dal momento della sua riscoperta nel 1821.
Cennini è quindi noto più che altro come scrittore d’arte. Per quanto riguarda
Alberti, diversi studiosi (sulla scia di Julius von Schlosser) hanno messo in
dubbio anche solo la possibilità di classificarlo come artista e lo hanno
considerato solo come studioso umanista e come un teorico dell’arte che ha collazionato
una raccolta di teorie classiche sulla pittura.
Questi studiosi hanno posto l’accento sulla mancanza di interesse di
Alberti nei confronti dei problemi comuni degli artisti dell’epoca e, seguendo
Michael Baxandall, hanno osservato che i pittori del Quattrocento (forse con
pochissime eccezioni, principalmente quelle di Mantegna e Piero della Francesca) non hanno fatto uso delle sue teorie artistiche, troppo astratte o
sofisticate per quei tempi. Altri hanno accettato la definizione che Alberti
diede di se stesso come ‘doctus artifex’
(artista colto), anche se nel De Pictura
Alberti cita il fatto che dipingeva solo nel tempo libero, come attività che lo
rilassava. Ad ogni modo, non ci è giunto alcun suo dipinto.
Storici dell’arte e filologi sono spesso stati attenti a identificare
elementi di differenza e di continuità tra I due trattati di Cennini e Alberti.
In un certo senso la quasi immediata sequenzialità cronologica (o addirittura
la contemporaneità) tra le due opere ha segnato per sempre la percezione del
trattato cenniniano. Per tutti gli studiosi che vogliano dare un giudizio
complessivo sull’opera di Cennino come scrittore d’arte, il confronto con il
trattato di Leon Battista è diventato una sorta di esercizio obbligatorio.
Molto spesso, dunque, Cennino non è stato giudicato di per sé, ma in via comparativa,
in relazione con il più tardo trattato di Leon Battista. Il confronto ha
tuttavia portato a risultati differenti, posto che la personalità di Alberti è
stata anch’essa giudicata in maniere differenti da svariati autori.
Il caso della Scuola Viennese di Storia dell'Arte
In un capitolo della Kunstliteratur (che
fu prima edita in saggi separati ad uso degli studenti fra il 1914 e il 1915 e
poi pubblicata come monografia nel 1924), Julius von Schlosser colloca Cennino come
ultimo autore tra le fonti di storia dell’arte medievale, mentre Leon Battista
Alberti compare come il primo dei teorici dell’arte rinascimentale, e il De Pictura come il primo scritto
sull’arte della nuova era, persino prima di Ghiberti. Tuttavia Schlosser
insiste soprattutto sulle analogie e gli elementi di continuità fra i due. Fa
di Cennino l’inventore di concetti e lessico che saranno utilizzati dal
Rinascimento ed oltre, fino ai giorni nostri, e presenta una lista di termini
nel Libro dell’Arte che sono ancora
universalmente utilizzati in quasi tutte le lingue del mondo per descrivere le
tecniche artistiche e discutere d’arte. Si nota con interesse che Schlosser ha
un’opinione molto simile nei riguardi di Alberti, su cui scrisse un saggio nel
1929 intitolato “Un artista problematico del Rinascimento” arrivando a
concludere che la figura di Alberti come artista era una pura invenzione del
secolo successivo e che egli non apparteneva affatto alla storia dell’arte (Kunstgeschichte, che egli definisce nei
termini sviluppati dal filosofo italiano Benedetto Croce), ma alla storia della
letteratura (Kunstliteratur). Secondo
Schlosser, Alberti era un maestro di retorica, non un artefice dell’arte. Non
era nemmeno realmente un architetto, ma al massimo un decoratore (progettando
facciate e non edifici), dal momento che il vero architetto sarebbe stato
Michelozzo. Il principale ruolo di Alberti sarebbe stato nello sviluppo della
storia del linguaggio (Sprachengeschichte,
nei termini sviluppati dal linguista tedesco Karl Voßler). Schlosser abbina dunque i due trattati, nel
senso che sia Cennino sia Alberti tentarono di compilare una “grammatica
normativa delle arti”, benché in maniere differenti e con risultati diversi.
Entrambi cercarono di trovare termini universalmente validi per discutere d’arte
e descrivere la bellezza. Per una visione completamente opposta nel mondo
tedesco degli anni di Schlosser, visione in cui Alberti è descritto come un
vero artista capace di coniugare la creazione artistica con la completa
conoscenza di Vitruvio, Platone e Plotino, si veda il saggio del 1914 di Willi
Flemming.
In tempi precedenti a Schlosser, la prima generazione della Scuola Viennese
di Storia dell’Arte aveva invece insistito, almeno simbolicamente, sulla
radicale opposizione esistente tra Cennino ed Alberti. Su Cennino gli storici
viennesi fioriti prima di Schlosser avevano dato un giudizio molto meno
favorevole, contenuto nell’introduzione del giovane Albert Ilg alla prima
traduzione in lingua tedesca del Libro
dell’Arte (1871), già commentata in un altro post su questo blog. Su
Alberti, il giovane storico dell’arte boemo Hubert Janitschek (successivamente
professore e maestro di Aby Warburg) scrisse in termini altamente elogiativi
nella sua introduzione alla prima edizione critica e traduzione del De Pictura (1877). Quelli di Ilg e di Janitschek
furono rispettivamente il primo e l’undicesimo titolo pubblicati nella prima
collana di fonti di storia dell’arte, curata da Rudolf Eitelberger von
Edelberg e intitolata Quellenschriften für Kunstgeschichte undKunsttechnik des Mittelalters und der Renaissance.
Ilg giudicò Cennino come un artista fallito, incapace di un qualsiasi
impulso innovativo, inconsapevole delle opera umanistiche già esistenti ad
opera dei suoi contemporanei e completamente avulso dallo Gesammtgeist (lo spirito del tempo) rinascimentale. Per paradosso,
secondo Ilg, il principale merito di Cennino fu proprio il suo avere una
mentalità retrograda. Il suo rifiuto di tenersi al passo con il nuovo spirito
gli permise di stendere il suo trattato come se il tempo non fosse passato. Quindi,
egli ci permise di imparare le tecniche artistiche del secolo precedente, posto
che le conosceva intimamente, ed in particolare il mondo di Giotto e dei
Giotteschi, che altrimenti sarebbero andati persi per sempre. Hubert Janitschek
afferma che sarebbe stato difficile trovare “qualcosa di più opposto” al
trattato dell’Alberti di quello di Cennino, a dispetto della loro contiguità
cronologica. Riguardo a Cennino, Janitschek evidenzia l’attenzione pressoché
esclusiva sulle tecniche e, soprattutto, “la grande limitatezza di pensiero e
degli orizzonti culturali” (kleinliche
Engherzigkeit und beschränktesten Gesichtskreis); in merito ad Alberti “il
disprezzo quasi sovrano nei confronti di qualsiasi cosa che faccia dell’arte
un’attività artigianale e, al contrario, l’esaltazione di ciò che appartiene ai
reali processi di creazione artistica”. Il confronto continua con il
riferimento al Libro dell’Arte di
Cennino come all’ “ultima eredità di un’epoca artistica morente”
(un’espressione che già Ilg aveva usato sette anni prima nella sua Introduzione
del 1871) e al De Pictura di Alberti
come al “manifesto artistico del nuovo dirompente presente”. Janitschek si
sofferma inoltre – in merito ad Alberti – sul culto della natura, che ispira
l’intero testo, sull’amore entusiastico per la bellezza e sulla “liberazione
dell’arte da ogni fine od obiettivo esterno, con la dichiarazione che il suo
unico fine è la bellezza in sé”. Janitschek conclude sostenendo che il testo di
Alberti ispira in maniera fondamentale il Rinascimento e, in particolare,
Leonardo ed il suo più tardo Trattato
sulla pittura.
Alti e bassi di due figure simboliche di
riferimento attraverso 150 anni: i sostenitori di Cennini e di Alberti
Sia Cennini sia Alberti hanno fruito in passato di fasi storiche in cui
sono stati sopravvalutati e in cui il loro ruolo è andato molto probabilmente
al di là del ragionevole.
Fig. 16) Seguace di Quinten Massys, ‘S. Luca che dipinge la Vergine e il Bambino (ca. 1520) |
Fig. 17) Maertenvan
Heemskerck, S.
Luca che dipinge la Vergine (1545 circa) |
Parliamo della magnificazione di Cennino Cennini: Lionello Venturi,
eminente critico d’arte italiano contribuì nel 1925 a consolidare il ruolo
pionieristico di Cennino affermando che la sua famosa definizione della pittura
quale combinazione di fantasia e operazione di mano non troverà “nel
corso dell’intero Rinascimento una voce così eminente, una coscienza così
cristallina del carattere creativo dell’arte (…). In mezzo a due civiltà,
Cennino si mostra come il punto d’unione tra due concezioni dell’arte”. Da un
lato, invitando i pittori a seguire la natura, si mostra innovatore (questo è
già Rinascimento, dice Venturi); dall’altro, affermando che l’imitazione della
natura può essere imparata al meglio solo sotto l’influenza duratura di un
singolo maestro, appartiene ancora al Medio Evo. La doppia fonte di ispirazione
(natura e stile) riflette la transizione – agli occhi di Venturi – tra le due
epoche. “Il Libro dell’Arte non è
ancora un trattato rinascimentale, anche se non è più un semplice ricettario
medievale. Giotto e Dante hanno aperto un nuovo orizzonte; ma la loro luce ha
prodotto effetti solo per un periodo limitato e Cennino si acquieta di nuovo
nell’esercizio della sua professione; tuttavia lo fa solo dopo aver
pronunciato, ingenuamente, poche, ma altissime e bellissime parole, che vale la
pena rispettare anche se ascoltate dopo secoli.” Mio fratello ha pubblicato su
questo blog un censimento dettagliato delle traduzioni pubblicate in diverse
lingue del trattato di Cennino, a testimonianza della fortuna del suo Libro dell’Arte. Nel 2008, inoltre, la Gemäldegalerie
di Berlino ha dedicato una mostra a Cennino pittore; in merito avrò modo di
pubblicare un altro post in futuro.
La figura di Leon Battista Alberti assunse una dimensione quasi epica con
la pubblicazione della Civiltà del Rinascimento in Italia nel 1860, ad opera di Jacob Burckhardt. Nell’opera
Alberti viene presentato come il primo rappresentante di una nuova civiltà,
fornito di una cultura universale, dotato anche di qualità personali tali da
essere uno straordinario ginnasta e un chiaroveggente. “Ma sopra questi uomini
dotati di attitudini così molteplici emergono alcuni veramente universali.
Prima di farci a studiare partitamente le condizioni della vita sociale e della
coltura d’allora, ci sia concesso di porre qui, sul limitare del secolo XV,
l’immagine di uno di quegli uomini strapotenti: Leon Battista Alberti. La sua
biografia – che non abbiamo se non a frammenti – parla assai poco di lui come
artista e nient’affatto del suo significato nella storia dell’architettura. Or
si vedrà ciò che egli è stato, anche fatta astrazione da queste sue glorie
speciali. In tutte le discipline che rendono bella e lodata la vita di un uomo,
Leon Battista era il primo sino dalla fanciullezza. Della sua perizia in tutti
gli esercizi ginnastici raccontansi cose incredibili, come egli, per esempio,
saltando a piè pari scavalcasse le persone ritte in piedi, come una volta nel
Duomo gettasse una moneta tanto alta, che la si sentì risonare toccando la
volta, come non ci fosse cavallo indomito che sotto di lui non tremasse e
ubbidisse, e simili; ed infatti egli voleva essere irreprensibile in tre cose:
nel camminare, nel cavalcare e nel parlare. Egli apprese la musica senza
maestro, eppure le sue composizioni furono ammirate dai più competenti
dell’arte. Stretto dal bisogno, studiò per lunghi anni ambo le leggi, sino a
caderne ammalato per spossatezza; e
quando a ventiquattro anni si accorse di un indebolimento della sua memoria nel
ritenere le parole, ma si sentì ancora vigoroso l’intelletto per penetrare
nella sostanza delle cose, s’applicò alla fisica ed alla matematica, e al tempo
stesso volle rendersi esperto in tutte le professioni possibili, interrogando
artisti, eruditi, operai d’ogni specie sui segreti e sulla pratica di ogni
mestiere. A tutto ciò aggiungeva egli una particolare perizia nel disegno e nel
modellare, specialmente ritratti somigliantissimi anche di pura memoria.
Particolar maraviglia destò il misterioso suo congegno a guisa di camera
ottica, nel quale faceva apparire ora le stelle e il notturno sorgere della
luna a illuminare scoscese montagne, ora vasti paesaggi con ridenti colli e
seni di mare in lontananze sconfinate, che flotte che s’avanzavano, o
rischiarate dallo splendore del sole o avvolte di vapori a guisa di nuvole. In
mezzo a tutto ciò con gioia accoglieva anche quanto gli altri facevano, appunto
perché in ogni produzione dell’ingegno umano, che si uniformasse alle leggi del
bello, egli riconosceva come un qualche cosa di divino. La sua attività
letteraria comincia co’ suoi scritti d’arte, che segnano altrettante pietre
miliari e testimonianze di prim’ordine del risorgere della forma, specialmente
nell’architettura, e si estende quindi a composizioni in prosa latina, a
novelle e simili, delle quali talune furono credute opere di scrittori antichi,
a scherzosi colloqui conviviali, elegie ed egloghe, e per ultimo ad un trattato
in quatto libri in lingua italiana Sul
governo della famiglia, e persino ad un elogio funebre del suo cane. I suoi
motti, tanto serii che faceti, parvero abbastanza importanti da dover essere
raccolti, e se ne ha un saggio in molte colonne, che possono vedersi nella
biografia surriferita. Al pari di tutte
le nature veramente ricche, egli non faceva mistero a nessuno del suo sapere, e
comunicava a chiunque gratuitamente le sue più grandi invenzioni. Infine la più
profonda essenza della sua natura può essere fissata in questo: in una
profondissima simpatia e partecipazione di vita – quasi un accordo di sistema
nervoso – con tutte le cose. Alla vista di alberi possenti e di campi
ondeggianti di spighe egli si sentiva commosso sino al pianto; dinanzi ad un
vecchio dall’aspetto dignitoso egli si sentiva preso di rispetto, come davanti
ad una «delizia di natura» e non si saziava mai di contemplarlo; anche gli
animali più perfetti erano per lui oggetto di simpatia, come particolarmente
favoriti dalla natura, e per ultimo più di una volta l’incanto di un bel
paesaggio bastò, da infermo, a ridonargli la salute. Nessuna meraviglia adunque
se tutti coloro che lo videro stretto in un rapporto così misteriosamente
intimo colla natura, gli attribuirono anche il dono della profezia. Si pretende
infatti ch’egli abbia predetto molti anni innanzi e con esattezza una crisi
sanguinosa in casa d’Este, nonché la sorte che era riserbata a Firenze ad ai
Papi per una serie di anni, e gli si attribuiva altresì una facoltà particolare
di leggere in qualunque momento sul viso degli uomini i loro più segreti
pensieri. S’intende da sé che una forza di volontà straordinariamente intensa
era la facoltà che prevaleva in tutta la sua personalità e ne costituiva la
forza di coesione. Infatti, come i grandi uomini del Rinascimento, anch’egli
diceva: «Gli uomini ogni cosa possono con le sole proprie forze appena
vogliono».” (Traduzione dall’edizione italiana di Domenico Valbusa).
Con Burckhardt nasce un nuovo mito: Alberti. Jean Louis Schefer, nella sua
introduzione alla recente traduzione francese del De Pictura passa in rassegna la fortuna storiografica del mito
dell’Alberti quale genio poliedrico, fortuna che fu confermata da diversi
studiosi nel corso del XIX e del XX secolo.
Per il grande pubblico italiano quest’immagine ‘eroica’ di Alberti si è
materializzata nelle case di tutti attraverso la serie TV che la RAI
commissionò a Roberto Rossellini, il famoso regista neorealista. La serie,
intitolata ‘L’età di Cosimo de’ Medici’ era divisa in tre parti, l’ultima delle
quali era dedicata interamente a Leon Battista Alberti. Fu trasmessa sul primo
canale RAI fra il 1972 e il 1973, in occasione del 500° anniversario della
nascita di Leon Battista. E’ tuttora ricordata per “la serietà dello scopo, i
suoi meriti educativi e la bellissima ricostruzione del XV secolo in Italia”
(si veda Blakeslee).
Sempre in quel periodo, per la precisione nel 1975, Eugenio Garin, uno dei
più famosi studiosi di Umanesimo e Rinascimento pubblicò alcuni studi (di
recente ripubblicati nel 2013) che rivelavano una profonda venatura di
pessimismo nel pensiero di Alberti. Parafrasando Pascal, Garin parlò di
‘miseria e grandezza dell’uomo’, scoprendo che era spesso la prima a prevalere
sulla seconda. Tutto sommato, tuttavia, il mito dell’Alberti rimase per buona
parte intatto.
La letteratura su Alberti è davvero sterminata e andrebbe molto al di là
degli scopi di questo saggio far riferimento a tutte le pubblicazioni e gli
articoli che periodicamente compaiono su di lui. E’ tuttavia doveroso far
riferimento alla recente edizione critica della versione in volgare del De Pictura, a cura di Lucia Bertolini.
Bertolini è sostenitrice di una lettura dell’opera di Alberti come di un
manuale scritto da un artista per altri artisti, dapprima in volgare e
successivamente in latino. Alberti stesso – scrive la Bertolini – ha
esplicitamente dichiarato di scrivere il De
Pictura in quanto pittore, consapevole di tutte le implicazioni tecniche e
pratiche di questa professione. Tuttavia – spiega la curatrice – Alberti fa
riferimento a due diversi concetti di artista. Il primo è ‘una figura
concretamente e storicamente determinata (…), pienamente calata nell’identità
culturale della sua epoca’; è ad essa che Alberti offre le sue raccomandazioni,
per essere certo che abbia tutte le conoscenze necessarie per produrre arte in
maniera moderna, nella piena consapevolezza che siamo di fronte ad un
esperimento storico, dal momento che i pittori reali non hanno mai fatto uso di
quelle tecniche né hanno mai mostrato interesse per quelle teorie. La seconda è
un pittore ideale, non ancora esistente, il sopra menzionato “doctus artifex“, che è il pittore che ha
già assorbito non solo le prescrizioni tecniche e teoretiche, ma anche quelle
etiche e filosofiche contenute nel De
Pictura. Alberti rappresenta il prototipo di questo nuovo pittore (tenuto
conto che ha già praticato la pittura) e il suo libro offre una descrizione completa
dello “spazio fisico, culturale e professionale” in cui la sua attività è
declinata. Bertolini conclude avanzando l’ipotesi che Alberti abbia imparato a
dipingere nel corso dei suoi anni a Padova o a Bologna, prima del suo ritorno
dall’esilio a Firenze.
Alti e bassi di due figure simboliche di
riferimento attraverso 150 anni: i detrattori di Cennini e di Alberti
Ancor oggi il dibattito sul ruolo di Cennini e Alberti nell’arte e nella
teoria artistica è controverso e sono comparse critiche che hanno messo in
dubbio tutte le certezze del passato. Così, ad esempio ci sono stati casi in
cui i due autori, invece di venire esaltati, sono stati in qualche modo ridimensionati.
Fig. 18) Giorgio Vasari (1511–1574), Lo studio del pittore – affresco, Florence, 1563 ca |
Fig. 19) Giorgio Vasari (1511–1574), S. Luca che dipinge la Vergine, dopo il 1565 |
Nel caso di Cennino Cennini ciò è successo nel 2003, con l’edizione del Libro dell’Arte curata da Fabio
Frezzato. Quest’ultimo è giunto alla conclusione che l’espressione “Arte”
(facente parte del titolo dell’opera) non va intesa nel senso moderno dell’‘attività
di un artista’ e nemmeno nel senso più ampio dell’‘attività di un artigiano che
lavora a prodotti artistici’, ma nel senso medievale di “ars”, ovvero di “corporazione”
che aveva il controllo complessivo di tutte le attività dei suoi membri
(qualsiasi fosse l’attività svolta; esisteva un’arte dei carpentieri, dei
fornai etc.). Il Libro dell’Arte di
Cennini, secondo Frezzato, non sarebbe l’autonoma espressione della volontà di
compilare un manuale per pittori, con lo scopo ultimo di tramandare conoscenza
di generazione in generazione, ma, su richiesta o della corporazione di Padova
o di quella fiorentina, un manifesto ideologico volto a difendere gli interessi
corporativi dell’associazione e a convincere i giovani pittori a non ribellarsi
contro questo sistema. Il testo sarebbe servito dunque per perpetuare il
controllo della corporazione sui pittori, in un momento in cui questi ultimi
avevano cercato di sottrarsi a tale controllo (va ricordato che anche
Brunelleschi fu imprigionato qualche giorno a Firenze per non aver pagato il
tributo dovuto alla corporazione). Il consiglio che Cennino rivolge insistentemente
all’artista di rimanere dodici anni sotto il controllo di un solo maestro non
sarebbe l’espressione ingenua di uno spirito primitivo, ma la propaganda
repressiva di un sistema basato su potere e controllo, che inibisce ai pittori
spazi di libertà. In ogni caso – è questa la principale conclusione di Frezzato
– il testo non sarebbe stato scritto per circolare come manuale fra i pittori,
posto che la maggior parte di essi non sarebbe nemmeno stata nella condizione
di leggerlo. E’ interessante notare che il De
Pictura di Alberti è interpretato invece come indirizzato nel senso
completamente opposto, ovvero come mirato a rivendicare la libertà degli
artisti da tutti i legami esistenti e dai propri obblighi nei confronti delle
corporazioni.
Esistono anche elementi di riflessione che ridimensionano il ruolo
dell’Alberti. La lettura che si dà tradizionalmente del suo trattato è che fu
prodotto in due versioni, una in latino e l’altra in volgare per riuscire a
raggiungere il pubblico più ampio possibile: gli studiosi grazie al latino, i
pittori col volgare. Alberti sarebbe quindi stato il primo autore a cercare di
associare gli operatori pratici agli esperti eruditi, mettendo le sue
conoscenze universali a disposizione di differenti settori della società, in
maniera a suo modo democratica. Un altro post in questo blog, a recensione di
una monografia del 2006 di Rocco Sinisgalli sul ‘nuovo Alberti’, ha già
discusso le debolezze di questa interpretazione. Elisabetta Di Stefano ha
riassunto tutti questi dubbi, facendo notare che nessuno dei massimi artisti
rinascimentali aveva mai letto il De
Pictura, in latino o in volgare che fosse, ad eccezione di Filarete e forse
di Mantegna e Piero della Francesca (Michael Baxandall – come già detto – trovò
che vi erano scarsissime prove, forse ad eccezione degli artisti sopra
menzionati, che una qualsiasi delle tecniche albertiane fosse stata adottata
nel Rinascimento). Il testo richiedeva l’acquisizione di nozioni che non erano
normalmente disponibili per gli artisti all’epoca. Leon Battista scrisse per un
pubblico differente: non gli artisti (che nel XV secolo erano ancora tutti
artigiani), ma un pubblico selezionato di studiosi d’élite e letterati, nessuno
dei quali praticava l’arte. Sicuramente – sottolinea la Di Stefano – Alberti
inaugurò la critica d’arte come disciplina autonoma, rivolgendosi a un pubblico
interessato di “profani”, che non esercitava la pittura. D’altro canto, i
principali destinatari del suo scritto furono le cerchie di sostenitori,
mecenati, acquirenti, collezionisti e, più in generali, di ‘personalità con le
conoscenze giuste’ che avrebbero potuto materialmente attribuire all’Alberti un
prestigio sociale tale che la sua reputazione ne risultasse ulteriormente
incrementata. Alberti ne fece uso più tardi nei suoi anni romani.
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