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mercoledì 11 giugno 2014

Francesco Mazzaferro. Cennino Cennini e Leon Battista Alberti: variazioni sul concetto di composizione pittorica. Parte prima


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Francesco Mazzaferro
Cennino Cennini e Leon Battista Alberti:
variazioni sul concetto di composizione pittorica
Parte prima 


Fig. 12) Roberto Rossellini, - Serie TV “L’età di Cosimo de’ Medici” – Parte III – “Leon Battista Alberti – L’Umanesimo” - Leon Battista Alberti spiega la prospettiva ©Flamingo Video
[N.B. Su Cennino Cennini, si veda in questo blogProgetto Cennini

Su Leon Battista Alberti si veda in questo blog anche: Leon Battista Alberti, Descriptio Urbis Romae, A cura di Jean-Yves Boriaud e Francesco Furlan, Firenze, Leo S. Olschki, 2005Rocco Sinisgalli, Il nuovo De Pictura di Leon Battista Alberti. Edizioni Kappa, 2006. Qui sotto è la prima puntata di una serie di quattro sul confronto fra Cennino Cennini e Leon Battista Alberti. La bibliografia relativa sarà pubblicata al termine dell'ultima parte]


NOTA: questa è la seconda puntata di una serie di quattro sul confronto fra Cennino Cennini e Leon Battista Alberti. La bibliografia relativa sarà pubblicata al termine dell'ultima parte. 


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Cennino e Leon Battista: condannati a un inevitabile confronto?

Una generazione e mezza o al massimo due separarono il Libro dell’Arte di Cennino Cennini e il De Pictura di Leon Battista Alberti. Secondo l’opinione più diffusa l’opera di Cennini potrebbe essere precedente a quella di Alberti di circa quarant’anni. Ma ci sono studiosi che accorcerebbero questo intervallo di tempo a vent’anni, ed altri che considerano i due libri come contemporanei.

Il manoscritto più antico del Libro dell’Arte di Cennino Cennini a nostra disposizione reca la data 1437. Tuttavia, sin dai tempi della seconda edizione italiana del 1859, a cura dei fratelli Carlo e Gaetano Milanesi, si ritiene che la data sia stata aggiunta da un copista e che il trattato di Cennino sia stato steso negli anni fra il 1390 e il 1400. Secondo una recente analisi filologica del volgare usato da Cennino, Ulrich Pfisterer, professore di Storia dell’arte italiana all’Università di Monaco ritiene che il testo sia stato completato molto più tardi, fra il 1415 e il 1420. Per di più, Lise Bek e Latifah Troncelliti sono dell’avviso che la data del 1437 sia, in fin dei conti, corretta; seguono in merito le indicazioni di Filippo Baldinucci e considerano non fondate tutte le tesi che tendono a rimuovere il 1437 come anno di composizione.

Sul De Pictura di Leon Battista Alberti sappiamo che è stato scritto attorno al 1435. Tradizionalmente le date accettate dagli studiosi sono il 1435 per la versione latina e il 1436 per quella in lingua volgare. Tuttavia, di recente, la questione della precedenza fra le due edizioni è stata riaperta. Nella recente Edizione Nazionale delle Opere di Leon Battista Alberti, ad esempio, Lucia Bertolini esprime l’opinione che il testo volgare sia stato completato nel 1435, prima di quello latino.

Coloro che ritengono che il Libro dell’arte sia stato scritto da Cennino Cennini alla fine del XIV secolo reputano che le differenze tra quest’opera e il De Pictura di Leon Battista Alberti riflettano i cambiamenti nello stile e nella teoria artistica intervenuti in quei decenni. Insistono sul fatto che il giovane Cennino, operante in Toscana e a Padova, apparteneva alla tarda età gotica. Quella dei Gaddi fu la bottega dominante a Firenze negli ultimi decenni del Trecento, gli anni degli affreschi di Agnolo nella Basilica di Santa Croce. Come esponente della curia nell’amministrazione papale durante gli anni del Concilio ecumenico di Firenze (1431-1437) Alberti tornò dall’esilio nella città di origine della sua famiglia, poco dopo che Masaccio aveva completato i suoi affreschi nella Cappella Brancacci (nella Chiesa di Santa Maria del Carmine). Per colpa della morte improvvisa di Masaccio stesso, nel 1428, Alberti non ebbe modo di conoscerlo. Tuttavia, dopo aver ricevuto un’educazione completa in una serie di discipline umanistiche fuori Firenze (anche a Padova) Alberti contribuì alla costruzione della cultura di primo Quattrocento a Firenze e in altre città italiane. In conclusione, secondo questa tesi, Cennino e Leon Battista avrebbero operato nelle stesse città (Firenze e Padova), ma con circa 40 anni di differenza l’uno dall’altro.

Quanti pensano, al contrario, che il Libro dell’Arte e il De Pictura furono scritti entrambi nei primi decenni del XV secolo (possibilmente quasi negli stessi anni) ritengono che la principale differenza fra le due opere risieda nei loro scopi differenti come nei loro diversi modelli retorici. Secondo questa tesi, sia Cennino sia Alberti apparterrebbero ai primi decenni del Rinascimento, dei quali rappresentano tuttavia due diverse realtà. L’ancor giovane Leon Battista Alberti produce un trattato (in latino e in volgare) indirizzato a un pubblico colto e interessato alla teoria dell’arte (consistente per lo più in studiosi o individui delle classi più elevate), mentre Cennino Cennini, più anziano, mette per iscritto la sua conoscenza delle tecniche artistiche (solo in volgare) in forma di manuale per i giovani pittori, per facilitare il loro processo di apprendimento nelle botteghe fiorentine. Come mostrato in maniera impeccabile dalla studiosa danese Lise Bek, l’opera di Alberti, in termini di modelli retorici, si basa sul modello dell’orazione classica, mentre quella di Cennino sul modello della preghiera religiosa. Questi diversi modelli retorici coesisterono lungo tutto il Quattrocento.

Fig. 13) S. Luca che dipinge la Vergine, Icona


Fig. 14) S. Luca che dipinge la Vergine col bambino, Icona


Le biografie di Cennini e di Alberti sono sicuramente molto differenti, ma qualcosa in comune c’è: ad esempio furono entrambi considerati da Vasari artisti falliti. E’ però estremamente probabile che, se mai qualcuno gliel’avesse chiesto, lo stesso Cennino si sarebbe assolutamente sorpreso nell’essere considerato un teorico dell’arte. Nel suo Libro spiega ripetutamente che il semplice studio di una fonte scritta (compresa la sua opera) non avrebbe mai permesso, da solo, a un qualsiasi giovane pittore di imparare la professione, dal momento che solo un lungo apprendistato nella bottega di un maestro lo consentirebbe. Tuttavia, quasi tutta la sua produzione pittorica è andata persa, mentre il suo trattato ha conosciuto un enorme successo dal momento della sua riscoperta nel 1821. Cennini è quindi noto più che altro come scrittore d’arte. Per quanto riguarda Alberti, diversi studiosi (sulla scia di Julius von Schlosser) hanno messo in dubbio anche solo la possibilità di classificarlo come artista e lo hanno considerato solo come studioso umanista e come un teorico dell’arte che ha collazionato una raccolta di teorie classiche sulla pittura.  Questi studiosi hanno posto l’accento sulla mancanza di interesse di Alberti nei confronti dei problemi comuni degli artisti dell’epoca e, seguendo Michael Baxandall, hanno osservato che i pittori del Quattrocento (forse con pochissime eccezioni, principalmente quelle di Mantegna e Piero della Francesca) non hanno fatto uso delle sue teorie artistiche, troppo astratte o sofisticate per quei tempi. Altri hanno accettato la definizione che Alberti diede di se stesso come ‘doctus artifex’ (artista colto), anche se nel De Pictura Alberti cita il fatto che dipingeva solo nel tempo libero, come attività che lo rilassava. Ad ogni modo, non ci è giunto alcun suo dipinto.

Storici dell’arte e filologi sono spesso stati attenti a identificare elementi di differenza e di continuità tra I due trattati di Cennini e Alberti. In un certo senso la quasi immediata sequenzialità cronologica (o addirittura la contemporaneità) tra le due opere ha segnato per sempre la percezione del trattato cenniniano. Per tutti gli studiosi che vogliano dare un giudizio complessivo sull’opera di Cennino come scrittore d’arte, il confronto con il trattato di Leon Battista è diventato una sorta di esercizio obbligatorio. Molto spesso, dunque, Cennino non è stato giudicato di per sé, ma in via comparativa, in relazione con il più tardo trattato di Leon Battista. Il confronto ha tuttavia portato a risultati differenti, posto che la personalità di Alberti è stata anch’essa giudicata in maniere differenti da svariati autori.


Il caso della Scuola Viennese di Storia dell'Arte

In un capitolo della Kunstliteratur (che fu prima edita in saggi separati ad uso degli studenti fra il 1914 e il 1915 e poi pubblicata come monografia nel 1924), Julius von Schlosser colloca Cennino come ultimo autore tra le fonti di storia dell’arte medievale, mentre Leon Battista Alberti compare come il primo dei teorici dell’arte rinascimentale, e il De Pictura come il primo scritto sull’arte della nuova era, persino prima di Ghiberti. Tuttavia Schlosser insiste soprattutto sulle analogie e gli elementi di continuità fra i due. Fa di Cennino l’inventore di concetti e lessico che saranno utilizzati dal Rinascimento ed oltre, fino ai giorni nostri, e presenta una lista di termini nel Libro dell’Arte che sono ancora universalmente utilizzati in quasi tutte le lingue del mondo per descrivere le tecniche artistiche e discutere d’arte. Si nota con interesse che Schlosser ha un’opinione molto simile nei riguardi di Alberti, su cui scrisse un saggio nel 1929 intitolato “Un artista problematico del Rinascimento” arrivando a concludere che la figura di Alberti come artista era una pura invenzione del secolo successivo e che egli non apparteneva affatto alla storia dell’arte (Kunstgeschichte, che egli definisce nei termini sviluppati dal filosofo italiano Benedetto Croce), ma alla storia della letteratura (Kunstliteratur). Secondo Schlosser, Alberti era un maestro di retorica, non un artefice dell’arte. Non era nemmeno realmente un architetto, ma al massimo un decoratore (progettando facciate e non edifici), dal momento che il vero architetto sarebbe stato Michelozzo. Il principale ruolo di Alberti sarebbe stato nello sviluppo della storia del linguaggio (Sprachengeschichte, nei termini sviluppati dal linguista tedesco Karl Voßler). Schlosser abbina dunque i due trattati, nel senso che sia Cennino sia Alberti tentarono di compilare una “grammatica normativa delle arti”, benché in maniere differenti e con risultati diversi. Entrambi cercarono di trovare termini universalmente validi per discutere d’arte e descrivere la bellezza. Per una visione completamente opposta nel mondo tedesco degli anni di Schlosser, visione in cui Alberti è descritto come un vero artista capace di coniugare la creazione artistica con la completa conoscenza di Vitruvio, Platone e Plotino, si veda il saggio del 1914 di Willi Flemming.

In tempi precedenti a Schlosser, la prima generazione della Scuola Viennese di Storia dell’Arte aveva invece insistito, almeno simbolicamente, sulla radicale opposizione esistente tra Cennino ed Alberti. Su Cennino gli storici viennesi fioriti prima di Schlosser avevano dato un giudizio molto meno favorevole, contenuto nell’introduzione del giovane Albert Ilg alla prima traduzione in lingua tedesca del Libro dell’Arte (1871), già commentata in un altro post su questo blog. Su Alberti, il giovane storico dell’arte boemo Hubert Janitschek (successivamente professore e maestro di Aby Warburg) scrisse in termini altamente elogiativi nella sua introduzione alla prima edizione critica e traduzione del De Pictura (1877). Quelli di Ilg e di Janitschek furono rispettivamente il primo e l’undicesimo titolo pubblicati nella prima collana di fonti di storia dell’arte, curata da Rudolf Eitelberger von Edelberg  e intitolata Quellenschriften für Kunstgeschichte undKunsttechnik des Mittelalters und der Renaissance.

Fig. 15) Roberto Rossellini  - Serie TV “L’età di Cosimo de’ Medici”. Parte III – Leon Battista Alberti: L’umanesimo - Leon Battista Alberti’s mostra ad alcuni ospiti la sua  ‘camera obscura’ (1973) ©Flamingo Video 

Ilg giudicò Cennino come un artista fallito, incapace di un qualsiasi impulso innovativo, inconsapevole delle opera umanistiche già esistenti ad opera dei suoi contemporanei e completamente avulso dallo Gesammtgeist (lo spirito del tempo) rinascimentale. Per paradosso, secondo Ilg, il principale merito di Cennino fu proprio il suo avere una mentalità retrograda. Il suo rifiuto di tenersi al passo con il nuovo spirito gli permise di stendere il suo trattato come se il tempo non fosse passato. Quindi, egli ci permise di imparare le tecniche artistiche del secolo precedente, posto che le conosceva intimamente, ed in particolare il mondo di Giotto e dei Giotteschi, che altrimenti sarebbero andati persi per sempre. Hubert Janitschek afferma che sarebbe stato difficile trovare “qualcosa di più opposto” al trattato dell’Alberti di quello di Cennino, a dispetto della loro contiguità cronologica. Riguardo a Cennino, Janitschek evidenzia l’attenzione pressoché esclusiva sulle tecniche e, soprattutto, “la grande limitatezza di pensiero e degli orizzonti culturali” (kleinliche Engherzigkeit und beschränktesten Gesichtskreis); in merito ad Alberti “il disprezzo quasi sovrano nei confronti di qualsiasi cosa che faccia dell’arte un’attività artigianale e, al contrario, l’esaltazione di ciò che appartiene ai reali processi di creazione artistica”. Il confronto continua con il riferimento al Libro dell’Arte di Cennino come all’ “ultima eredità di un’epoca artistica morente” (un’espressione che già Ilg aveva usato sette anni prima nella sua Introduzione del 1871) e al De Pictura di Alberti come al “manifesto artistico del nuovo dirompente presente”. Janitschek si sofferma inoltre – in merito ad Alberti – sul culto della natura, che ispira l’intero testo, sull’amore entusiastico per la bellezza e sulla “liberazione dell’arte da ogni fine od obiettivo esterno, con la dichiarazione che il suo unico fine è la bellezza in sé”. Janitschek conclude sostenendo che il testo di Alberti ispira in maniera fondamentale il Rinascimento e, in particolare, Leonardo ed il suo più tardo Trattato sulla pittura.


Alti e bassi di due figure simboliche di riferimento attraverso 150 anni: i sostenitori di Cennini e di Alberti

Sia Cennini sia Alberti hanno fruito in passato di fasi storiche in cui sono stati sopravvalutati e in cui il loro ruolo è andato molto probabilmente al di là del ragionevole.

Fig. 16) Seguace di Quinten Massys, ‘S. Luca che dipinge la Vergine e il Bambino (ca. 1520)

Fig. 17) Maertenvan Heemskerck, S. Luca che dipinge la Vergine  
(1545 circa)


Parliamo della magnificazione di Cennino Cennini: Lionello Venturi, eminente critico d’arte italiano contribuì nel 1925 a consolidare il ruolo pionieristico di Cennino affermando che la sua famosa definizione della pittura quale combinazione di fantasia e operazione di mano non troverà “nel corso dell’intero Rinascimento una voce così eminente, una coscienza così cristallina del carattere creativo dell’arte (…). In mezzo a due civiltà, Cennino si mostra come il punto d’unione tra due concezioni dell’arte”. Da un lato, invitando i pittori a seguire la natura, si mostra innovatore (questo è già Rinascimento, dice Venturi); dall’altro, affermando che l’imitazione della natura può essere imparata al meglio solo sotto l’influenza duratura di un singolo maestro, appartiene ancora al Medio Evo. La doppia fonte di ispirazione (natura e stile) riflette la transizione – agli occhi di Venturi – tra le due epoche. “Il Libro dell’Arte non è ancora un trattato rinascimentale, anche se non è più un semplice ricettario medievale. Giotto e Dante hanno aperto un nuovo orizzonte; ma la loro luce ha prodotto effetti solo per un periodo limitato e Cennino si acquieta di nuovo nell’esercizio della sua professione; tuttavia lo fa solo dopo aver pronunciato, ingenuamente, poche, ma altissime e bellissime parole, che vale la pena rispettare anche se ascoltate dopo secoli.” Mio fratello ha pubblicato su questo blog un censimento dettagliato delle traduzioni pubblicate in diverse lingue del trattato di Cennino, a testimonianza della fortuna del suo Libro dell’Arte. Nel 2008, inoltre, la Gemäldegalerie di Berlino ha dedicato una mostra a Cennino pittore; in merito avrò modo di pubblicare un altro post in futuro.

La figura di Leon Battista Alberti assunse una dimensione quasi epica con la pubblicazione della Civiltà del Rinascimento in Italia nel 1860, ad opera di Jacob Burckhardt. Nell’opera Alberti viene presentato come il primo rappresentante di una nuova civiltà, fornito di una cultura universale, dotato anche di qualità personali tali da essere uno straordinario ginnasta e un chiaroveggente. “Ma sopra questi uomini dotati di attitudini così molteplici emergono alcuni veramente universali. Prima di farci a studiare partitamente le condizioni della vita sociale e della coltura d’allora, ci sia concesso di porre qui, sul limitare del secolo XV, l’immagine di uno di quegli uomini strapotenti: Leon Battista Alberti. La sua biografia – che non abbiamo se non a frammenti – parla assai poco di lui come artista e nient’affatto del suo significato nella storia dell’architettura. Or si vedrà ciò che egli è stato, anche fatta astrazione da queste sue glorie speciali. In tutte le discipline che rendono bella e lodata la vita di un uomo, Leon Battista era il primo sino dalla fanciullezza. Della sua perizia in tutti gli esercizi ginnastici raccontansi cose incredibili, come egli, per esempio, saltando a piè pari scavalcasse le persone ritte in piedi, come una volta nel Duomo gettasse una moneta tanto alta, che la si sentì risonare toccando la volta, come non ci fosse cavallo indomito che sotto di lui non tremasse e ubbidisse, e simili; ed infatti egli voleva essere irreprensibile in tre cose: nel camminare, nel cavalcare e nel parlare. Egli apprese la musica senza maestro, eppure le sue composizioni furono ammirate dai più competenti dell’arte. Stretto dal bisogno, studiò per lunghi anni ambo le leggi, sino a caderne ammalato per spossatezza;  e quando a ventiquattro anni si accorse di un indebolimento della sua memoria nel ritenere le parole, ma si sentì ancora vigoroso l’intelletto per penetrare nella sostanza delle cose, s’applicò alla fisica ed alla matematica, e al tempo stesso volle rendersi esperto in tutte le professioni possibili, interrogando artisti, eruditi, operai d’ogni specie sui segreti e sulla pratica di ogni mestiere. A tutto ciò aggiungeva egli una particolare perizia nel disegno e nel modellare, specialmente ritratti somigliantissimi anche di pura memoria. Particolar maraviglia destò il misterioso suo congegno a guisa di camera ottica, nel quale faceva apparire ora le stelle e il notturno sorgere della luna a illuminare scoscese montagne, ora vasti paesaggi con ridenti colli e seni di mare in lontananze sconfinate, che flotte che s’avanzavano, o rischiarate dallo splendore del sole o avvolte di vapori a guisa di nuvole. In mezzo a tutto ciò con gioia accoglieva anche quanto gli altri facevano, appunto perché in ogni produzione dell’ingegno umano, che si uniformasse alle leggi del bello, egli riconosceva come un qualche cosa di divino. La sua attività letteraria comincia co’ suoi scritti d’arte, che segnano altrettante pietre miliari e testimonianze di prim’ordine del risorgere della forma, specialmente nell’architettura, e si estende quindi a composizioni in prosa latina, a novelle e simili, delle quali talune furono credute opere di scrittori antichi, a scherzosi colloqui conviviali, elegie ed egloghe, e per ultimo ad un trattato in quatto libri in lingua italiana Sul governo della famiglia, e persino ad un elogio funebre del suo cane. I suoi motti, tanto serii che faceti, parvero abbastanza importanti da dover essere raccolti, e se ne ha un saggio in molte colonne, che possono vedersi nella biografia surriferita.  Al pari di tutte le nature veramente ricche, egli non faceva mistero a nessuno del suo sapere, e comunicava a chiunque gratuitamente le sue più grandi invenzioni. Infine la più profonda essenza della sua natura può essere fissata in questo: in una profondissima simpatia e partecipazione di vita – quasi un accordo di sistema nervoso – con tutte le cose. Alla vista di alberi possenti e di campi ondeggianti di spighe egli si sentiva commosso sino al pianto; dinanzi ad un vecchio dall’aspetto dignitoso egli si sentiva preso di rispetto, come davanti ad una «delizia di natura» e non si saziava mai di contemplarlo; anche gli animali più perfetti erano per lui oggetto di simpatia, come particolarmente favoriti dalla natura, e per ultimo più di una volta l’incanto di un bel paesaggio bastò, da infermo, a ridonargli la salute. Nessuna meraviglia adunque se tutti coloro che lo videro stretto in un rapporto così misteriosamente intimo colla natura, gli attribuirono anche il dono della profezia. Si pretende infatti ch’egli abbia predetto molti anni innanzi e con esattezza una crisi sanguinosa in casa d’Este, nonché la sorte che era riserbata a Firenze ad ai Papi per una serie di anni, e gli si attribuiva altresì una facoltà particolare di leggere in qualunque momento sul viso degli uomini i loro più segreti pensieri. S’intende da sé che una forza di volontà straordinariamente intensa era la facoltà che prevaleva in tutta la sua personalità e ne costituiva la forza di coesione. Infatti, come i grandi uomini del Rinascimento, anch’egli diceva: «Gli uomini ogni cosa possono con le sole proprie forze appena vogliono».” (Traduzione dall’edizione italiana di Domenico Valbusa).

Con Burckhardt nasce un nuovo mito: Alberti. Jean Louis Schefer, nella sua introduzione alla recente traduzione francese del De Pictura passa in rassegna la fortuna storiografica del mito dell’Alberti quale genio poliedrico, fortuna che fu confermata da diversi studiosi nel corso del XIX e del XX secolo.

Per il grande pubblico italiano quest’immagine ‘eroica’ di Alberti si è materializzata nelle case di tutti attraverso la serie TV che la RAI commissionò a Roberto Rossellini, il famoso regista neorealista. La serie, intitolata ‘L’età di Cosimo de’ Medici’ era divisa in tre parti, l’ultima delle quali era dedicata interamente a Leon Battista Alberti. Fu trasmessa sul primo canale RAI fra il 1972 e il 1973, in occasione del 500° anniversario della nascita di Leon Battista. E’ tuttora ricordata per “la serietà dello scopo, i suoi meriti educativi e la bellissima ricostruzione del XV secolo in Italia” (si veda Blakeslee).

Sempre in quel periodo, per la precisione nel 1975, Eugenio Garin, uno dei più famosi studiosi di Umanesimo e Rinascimento pubblicò alcuni studi (di recente ripubblicati nel 2013) che rivelavano una profonda venatura di pessimismo nel pensiero di Alberti. Parafrasando Pascal, Garin parlò di ‘miseria e grandezza dell’uomo’, scoprendo che era spesso la prima a prevalere sulla seconda. Tutto sommato, tuttavia, il mito dell’Alberti rimase per buona parte intatto.

La letteratura su Alberti è davvero sterminata e andrebbe molto al di là degli scopi di questo saggio far riferimento a tutte le pubblicazioni e gli articoli che periodicamente compaiono su di lui. E’ tuttavia doveroso far riferimento alla recente edizione critica della versione in volgare del De Pictura, a cura di Lucia Bertolini. Bertolini è sostenitrice di una lettura dell’opera di Alberti come di un manuale scritto da un artista per altri artisti, dapprima in volgare e successivamente in latino. Alberti stesso – scrive la Bertolini – ha esplicitamente dichiarato di scrivere il De Pictura in quanto pittore, consapevole di tutte le implicazioni tecniche e pratiche di questa professione. Tuttavia – spiega la curatrice – Alberti fa riferimento a due diversi concetti di artista. Il primo è ‘una figura concretamente e storicamente determinata (…), pienamente calata nell’identità culturale della sua epoca’; è ad essa che Alberti offre le sue raccomandazioni, per essere certo che abbia tutte le conoscenze necessarie per produrre arte in maniera moderna, nella piena consapevolezza che siamo di fronte ad un esperimento storico, dal momento che i pittori reali non hanno mai fatto uso di quelle tecniche né hanno mai mostrato interesse per quelle teorie. La seconda è un pittore ideale, non ancora esistente, il sopra menzionato “doctus artifex“, che è il pittore che ha già assorbito non solo le prescrizioni tecniche e teoretiche, ma anche quelle etiche e filosofiche contenute nel De Pictura. Alberti rappresenta il prototipo di questo nuovo pittore (tenuto conto che ha già praticato la pittura) e il suo libro offre una descrizione completa dello “spazio fisico, culturale e professionale” in cui la sua attività è declinata. Bertolini conclude avanzando l’ipotesi che Alberti abbia imparato a dipingere nel corso dei suoi anni a Padova o a Bologna, prima del suo ritorno dall’esilio a Firenze.


Alti e bassi di due figure simboliche di riferimento attraverso 150 anni: i detrattori di Cennini e di Alberti

Ancor oggi il dibattito sul ruolo di Cennini e Alberti nell’arte e nella teoria artistica è controverso e sono comparse critiche che hanno messo in dubbio tutte le certezze del passato. Così, ad esempio ci sono stati casi in cui i due autori, invece di venire esaltati, sono stati in qualche modo ridimensionati.

Fig. 18) Giorgio Vasari (1511–1574), Lo studio del pittore – affresco, Florence, 1563 ca 

Fig. 19) Giorgio Vasari (1511–1574), S. Luca che dipinge la Vergine, dopo il 1565

Nel caso di Cennino Cennini ciò è successo nel 2003, con l’edizione del Libro dell’Arte curata da Fabio Frezzato. Quest’ultimo è giunto alla conclusione che l’espressione “Arte” (facente parte del titolo dell’opera) non va intesa nel senso moderno dell’‘attività di un artista’ e nemmeno nel senso più ampio dell’‘attività di un artigiano che lavora a prodotti artistici’, ma nel senso medievale di “ars”, ovvero di “corporazione” che aveva il controllo complessivo di tutte le attività dei suoi membri (qualsiasi fosse l’attività svolta; esisteva un’arte dei carpentieri, dei fornai etc.). Il Libro dell’Arte di Cennini, secondo Frezzato, non sarebbe l’autonoma espressione della volontà di compilare un manuale per pittori, con lo scopo ultimo di tramandare conoscenza di generazione in generazione, ma, su richiesta o della corporazione di Padova o di quella fiorentina, un manifesto ideologico volto a difendere gli interessi corporativi dell’associazione e a convincere i giovani pittori a non ribellarsi contro questo sistema. Il testo sarebbe servito dunque per perpetuare il controllo della corporazione sui pittori, in un momento in cui questi ultimi avevano cercato di sottrarsi a tale controllo (va ricordato che anche Brunelleschi fu imprigionato qualche giorno a Firenze per non aver pagato il tributo dovuto alla corporazione). Il consiglio che Cennino rivolge insistentemente all’artista di rimanere dodici anni sotto il controllo di un solo maestro non sarebbe l’espressione ingenua di uno spirito primitivo, ma la propaganda repressiva di un sistema basato su potere e controllo, che inibisce ai pittori spazi di libertà. In ogni caso – è questa la principale conclusione di Frezzato – il testo non sarebbe stato scritto per circolare come manuale fra i pittori, posto che la maggior parte di essi non sarebbe nemmeno stata nella condizione di leggerlo. E’ interessante notare che il De Pictura di Alberti è interpretato invece come indirizzato nel senso completamente opposto, ovvero come mirato a rivendicare la libertà degli artisti da tutti i legami esistenti e dai propri obblighi nei confronti delle corporazioni. 

Esistono anche elementi di riflessione che ridimensionano il ruolo dell’Alberti. La lettura che si dà tradizionalmente del suo trattato è che fu prodotto in due versioni, una in latino e l’altra in volgare per riuscire a raggiungere il pubblico più ampio possibile: gli studiosi grazie al latino, i pittori col volgare. Alberti sarebbe quindi stato il primo autore a cercare di associare gli operatori pratici agli esperti eruditi, mettendo le sue conoscenze universali a disposizione di differenti settori della società, in maniera a suo modo democratica. Un altro post in questo blog, a recensione di una monografia del 2006 di Rocco Sinisgalli sul ‘nuovo Alberti’, ha già discusso le debolezze di questa interpretazione. Elisabetta Di Stefano ha riassunto tutti questi dubbi, facendo notare che nessuno dei massimi artisti rinascimentali aveva mai letto il De Pictura, in latino o in volgare che fosse, ad eccezione di Filarete e forse di Mantegna e Piero della Francesca (Michael Baxandall – come già detto – trovò che vi erano scarsissime prove, forse ad eccezione degli artisti sopra menzionati, che una qualsiasi delle tecniche albertiane fosse stata adottata nel Rinascimento). Il testo richiedeva l’acquisizione di nozioni che non erano normalmente disponibili per gli artisti all’epoca. Leon Battista scrisse per un pubblico differente: non gli artisti (che nel XV secolo erano ancora tutti artigiani), ma un pubblico selezionato di studiosi d’élite e letterati, nessuno dei quali praticava l’arte. Sicuramente – sottolinea la Di Stefano – Alberti inaugurò la critica d’arte come disciplina autonoma, rivolgendosi a un pubblico interessato di “profani”, che non esercitava la pittura. D’altro canto, i principali destinatari del suo scritto furono le cerchie di sostenitori, mecenati, acquirenti, collezionisti e, più in generali, di ‘personalità con le conoscenze giuste’ che avrebbero potuto materialmente attribuire all’Alberti un prestigio sociale tale che la sua reputazione ne risultasse ulteriormente incrementata. Alberti ne fece uso più tardi nei suoi anni romani. 


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