Caroline Palmer
Colore, chimica e corsetti:
Mary Philadelphia Merrifield e il suo Dress as a Fine Art
(Traduzione di Giovanni Mazzaferro)
Note del traduttore:
Si pubblica la traduzione dell'articolo 'Colour, Chemistry and Corsets: Mary Philadelphia Merrifield's Dress a Fine Art' pubblicato da Caroline Palmer sul numero 1 (gennaio 2013) del volume 47 della rivista 'Costume'. Tutti i diritti d'autore fanno capo all'editore della rivista (Maney Publishing) e all'autrice; li ringrazio entrambi per avermi permesso di proporre la traduzione italiana dell'opera. Il saggio di Caroline Palmer in lingua originale è consultabile all'indirizzo http://www.maneyonline.com/doi/abs/10.1179/0590887612Z.00000000012.
Il presente è inoltre il terzo saggio della serie dedicata a Mary Philadelphia Merrifield. I precedenti, consultabili su questo blog, sono:
Giovanni Mazzaferro. Mary Philaldelphia Merriifield: la Signora di Brighton che amava i colori;
Caroline Palmer. Mary Philadelphia Merrifield e l'alleanza con la scienza.
* * *
Fig. 1 Pagina di apertura del saggio di Mary Philadelphia Merrifield 'The Harmony of Colours as Exemplified in the Exhibition', Art Journal Illustrates Catalogue (London: George Virtue, 1851), p. 1 |
L’armonia dei colori e il commercio: le belle arti, la scienza e il
mercato
La Merrifield si deve essere
guadagnata grande attenzione agli occhi di un pubblico più ampio quando fu
invitata a scrivere un saggio sull’‘Armonia dei Colori’ per il prestigioso
catalogo illustrato dell’Esposizione Universale, tenutasi al Crystal Palace nel
1851 [Fig. 1]. [1] Nel catalogo compariva in compagnia di personaggi famosi,
come il critico d’arte Ralph Nicholson Wornum (1812-1877) e quattro professori
di geologia, botanica, scienze e meccanica. Tutti gli autori sono descritti
nella prefazione del catalogo come ‘autorità eminenti ed esperte’: una misura
di quanto la Merrifield fosse riuscita a far crescere la sua reputazione grazie
alle sue opere. [2]
Fu nel saggio pubblicato per
l’Esposizione Universale che la Merrifield cominciò a muoversi verso il mondo
della moda, attratta dal suo interesse per la teoria dei colori e per la sua
applicazione nelle arti decorative, in particolar modo nel disegno dei tessuti.
La Merrifield criticò i produttori inglesi presenti alla Mostra per il poco
gusto mostrato nei loro spazi espositivi, ben peggiori di quelli di altri paesi
in fatto di cromatismo. Mise in fila, esemplificandole, le ‘combinazioni
coloristiche grezze e e sgradevoli’ usate dagli espositori britannici, come
Monteith di Glasgow, i cui cotoni stampati producevano alla vista un effetto
che era ‘così accecante da essere quasi doloroso’. [3] Effettuò un’analisi
scientifica dei possibili modi per poter mostrare i tessuti e decise di
mostrare come tali modi potessero essere resi più efficienti applicando le
regole scientifiche basate sulle teorie del contrasto armonico fra i colori di
Michel-Eugéne Chevreul, da poco tradotte in inglese. [4] In Inghilterra troppo
spesso la resa coloristica era considerata ‘solamente una questione di gusto’ –
si lamentò la Merrifield – piuttosto che una scienza governata da regole fisse
che potevano essere studiate e imparate. Era sua opinione che, dal momento che
era una questione di orgoglio nazionale, fosse vitale migliorare la sostanza
delle cose attraverso un’appropriata educazione al design. [5]
Oltre a questo approccio
scientifico la Merrifield indirizzò anche i produttori inglesi allo studio di
esempi di belle arti. Criticò la mancanza di un’adeguata formazione dei designer
inglesi rispetto a quelli francesi e tedeschi, evidenziando il contrasto
esistente fra il buon gusto coloristico dei pittori inglesi e l’evidente
assenza dello stesso fra gli operatori commerciali. Il conseguimento di un
buono e armonioso stile coloristico in pittura [n.d.r. – sosteneva la
Merrifield-] è il risultato di lunghe osservazioni e di molto studio non solo
della natura, ma anche delle opere di altri artisti; lo stesso percorso doveva
essere seguito nella produzione di tessuti o non sarebbero stati conseguiti gli
stessi risultati. [6]
La Merrifield non avvertì il
bisogno di scusarsi per avere mescolato l’arte accademica con considerazioni di
carattere commerciale o per aver tentato di divulgare il buon gusto seguendo
questa strada. Considerava il giudizio estetico come un aspetto assolutamente
democratico e aperto a tutti piuttosto che qualcosa di ristretto ad un cenacolo
di conoscitori aristocratici nati con un qualche misterioso non so che che conferiva loro un istinto
estetico. Non vi era distinzione né di classe né di genere, ma solo
l’opportunità di fornire un’educazione. ‘Nove volte su dieci’ – dichiarò – ‘si
troverà che il buon occhio significa
l’occhio educato’. [7]. In questo
modo legittimava anche il suo diritto di donna della classe media a partecipare
ai dibattiti estetici come critica ben informata.
Per secoli gli scrittori satirici
avevano accusato le donne di volgarizzare l’arte associandola al mondo del
commercio. Le spettatrici donne, ad esempio, erano state accusate di scambiare
le esibizioni d’arte come una sorta di grande mercato e di preferire i ritratti
alla moda ai dipinti di storia frutto di un pensiero ‘alto’. [8]. La
Merrifield, al contrario, cercò di innalzare il livello qualitativo dei
prodotti commerciali introducendo nel campo le teorie artistiche, esattamente
come avrebbe fatto più tardi con la moda. In questo senso il suo scritto
riflette un atteggiamento man mano più attento nei confronti delle manifatture
e delle arti decorative nella prima Inghilterra vittoriana.
Verso la fine del suo saggio, la
Merrifield opera un attacco pungente nei confronti dei modelli berlinesi per i
lavori in lana – ‘queste offese in forma di immagini’, come li descrive – e
definisce ‘deplorevole’ il fatto che le signore debbano buttar via tanto tempo
su di essi. A supporto delle sue tesi cita i commenti critici di Cheuvrel su
questo popolare tipo di lavoro a ricamo, dichiarando che:
Se metà del tempo che le giovani signore sprecano per queste inutili
fatiche fosse dedicato all’acquisizione della conoscenza dei principi che
governano l’armonia dei colori […] sarebbero subito evidenti i benefici che si
avrebbero in lavori utilizzabili a fini domestici, in termini di qualità e di
maggior gusto. [9]
Quello che è interessante, in
questo implicito attacco al gusto femminile, è che la Merrifield indica come lo
studio della scienza e l’apprezzamento dell’arte tra le donne debba essere
incoraggiato, perché si tratta di cose che avrebbero giovato alla casa.
Piuttosto che convincere le donne ad abbandonare i loro doveri tradizionali,
come molti temevano, la Merrifield notava che proprio questi studi avrebbero
migliorato l’ambiente domestico. La conoscenza, da parte delle donne, dei
principi scientifici ed estetici applicati alle arti decorative è quindi presentata
come di diretto beneficio per la famiglia, e, per estensione, per la società
britannica nel suo complesso.
Può darsi che sia stato
l’interesse ad elevare il livello delle arti decorative per la casa che l’abbia
più tardi condotta a produrre una serie di articoli dedicati al ricamo (o
‘fancy-work’) sull’Art Journal: ‘On
Design, As Applied to Ladies’ Work’. [10] Ancora una volta, questi articoli
enfatizzano l’importanza dell’armonia fra i colori basata su regole
scientifiche e mirano ad educare le donne in fatto di gusto. In tutti i suoi
scritti la Merrifield sottolinea i vantaggi ottenibili nell’istituire una connessione
fra le belli arti, i principi scientifici e il mondo del commercio. Al contempo
reclama maggior serietà e autorevolezza per i punti di vista delle donne nel
regno del gusto.
Dagli affreschi alla moda: l’arte del vestire
Il concetto che l’educazione
scientifica e artistica per le donne potesse incrementare il gusto nazionale e
anche l’economia della nazione viene ulteriormente esplorato dalla Merrifield
nei suoi scritti sulla moda. Quando, nel 1854, scrive il suo Dress as a Fine Art, la Merrifield è ben
lungi dal proporsi con la modestia che ci si potrebbe aspettare da un’autrice
vittoriana. Il suo nome appare con orgoglio sulla copertina, il suo status
viene pubblicizzato come quello di un’autrice di successo di molti libri
sull’arte e vengono enfatizzati anche i suoi riconoscimenti accademici: si
indica che è stata eletta membro onorario dell’Accademia di Belle Arti a
Bologna. [11]
Nel produrre l’opera, che si
basava su una serie di articoli pubblicati in precedenza sull’Art Journal (nel 1852 e nel 1853), la
Merrifield affrontava un argomento tradizionalmente etichettato come legato
alla frivolezza delle donne e lo innalzava per associazione al livello delle
belle arti e della scienza, dimostrando vasta conoscenza in entrambi i settori.
[12] Di formato piccolo e scarno, l’opera fu pubblicata, per appena 2 shilling
e 6 pennies, come parte della collana ‘Railway Reading Series’ da Arthur,
Virtue & Co, editori dell’Art Journal.
Nonostante l’aspetto modesto l’opera aveva grandi ambizioni, mirando ad educare
un pubblico di massa nelle questioni legate all’arte e al gusto e a liberare
l’abbigliamento dal ‘dispotismo’ dalle esagerazioni delle mode passeggere – da
tutte le ‘deformità e le eccentricità di questo mostro dalle molte facce, la
moda’. [13] La Merrifield criticava quella che lei considerava come
l’ossessione contemporanea per la novità e il capriccio, e raccomandava alle
donne di concentrarsi piuttosto nell’adattare le mode alle loro forme, alla loro
età, alla loro carnagione, tenendo conto di aspetti pratici come quanto caldo
facevano i vestiti e la facilità di movimento che consentivano. I modelli
migliori – insisteva – erano quelli che si tenevano a distanza dalle mode
contemporanee e aderivano invece al principio generale di dare importanza alle
forme naturali, dateci da Dio: spalle strette e fianchi larghi per le donne e
spalle larghe con fianchi stretti per gli uomini (pp. 11-12, 30).
La prefazione per un’edizione
americana rivela l’impatto avuto dal libro. Di esso si dice che ‘ha ricevuto in
Inghilterra l’approvazione incondizionata propria delle migliori pubblicazioni;
interi capitoli ne sono stati copiati nei periodici contemporanei’. [14]
L’opera affrontava gli aspetti legati alla moda per il vestiario, le
acconciature, i cappelli e le calzature, l’uso dei motivi decorativi e degli
ornamenti e l’armonia dei colori. Una sezione particolarmente popolare si
concentrava inoltre sull’abbigliamento per i bambini, con posizioni
particolarmente critiche riservate ai vestiti poco pratici e manifestamente
poco salutari imposti alle giovani donne. Con riferimento ai vestiti che
lasciavano le spalle scoperte, ad esempio, la Merrifield si lamentava che
facevano sembrare le giovani donne dei bruchi che stanno uscendo dal loro
bozzolo (pp. 107-25, in particolare 108).
Nella parte iniziale del libro,
la Merrifield prendeva in considerazione le differenti caratteristiche della
moda nella storia, illustrando le sue osservazioni con incisioni tratte da
quadri antichi (Figura 3). Non era la prima a stabilire questo tipo di legame
fra arte e costume, posto che spesso chi scriveva sui periodici discuteva di
vestiti in termini di arte e viceversa. [15]. C’era stata anche, poco tempo
prima, una serie di pubblicazioni sul costume nella storia. La Merrifield fece
esplicito riferimento, per esempio, a un saggio di Elizabeth Rigby (1809-1893)
pubblicato sulla Quarterly Review dal
titolo ‘The Art of Dress’ (1847). Parte del saggio si concentrava su come la
moda era rispecchiata in pittura da Holbein a Reynolds. [16] Seguendo l’esempio
della Rigby, il lavoro della Merrifield si concentrava sull’importanza di
applicare i principi delle belle arti alla moda contemporanea, ed è possibile
che questo saggio abbia ispirato la Merrifield ad approfondire il tema. Sia per
la Rigby sia per la Merrifield il punto vitale era che l’abbigliamento doveva
essere abilmente adattato alle caratteristiche dell’individuo piuttosto che
seguire il dettato delle mode mutevoli. Riecheggiando il teatro classico, la
Rigby promosse quelli che denominò i tre ‘grandi principi’ della moda che una
donna doveva sempre osservare: ‘la propria corporatura, la sua età e le sue
specificità!’ [17] Sia nell’una sia nell’altra vi era inoltre una considerevole
componente religiosa a determinare i loro giudizi sulla moda, con un’enfasi
morale sull’importanza dell’onestà e della semplicità.
Il saggio della Rigby era stato
scritto a sua volta in seguito alla History
of British Costume (1834) di James Palncheé e a The Book of Costume (1846) di una ‘Lady of Rank’ [n.d.t. signora di
rango] (Mary Margaret Egerton], che miravano entrambi ad innalzare il livello
degli studi sulla moda. Plancheé (1796-1880) aveva scritto il suo libro innanzi
tutto per i romanzieri, gli attori e gli artisti, per incoraggiarli a porre
maggiore accuratezza storica nella descrizione dei costumi. [18] La Egerton
(1801-1858), d’altro canto, aveva posto in particolare risalto l’importanza ben
più ampia della moda facendo presente che, ben al di là dall’essere solo una
questione legata alla vanità femminile, riguardava ‘il livello di
civilizzazione di una società, comprendendo anche gli interessi per le arti e
il commercio’. Ebbe modo di affermare che la moda era vitale per la prosperità
di una nazione e quindi meritevole di studio da parte di esperti, statisti e
uomini d’affari, così come da parte del ‘gentil sesso’. [19] Si tratta di un
concetto successivamente sviluppato nel lavoro della Merrifield.
In Dress as a Fine Art troviamo molti riflessi delle teorie del gusto
già espresse dalla Merrifield nel suo saggio sull’Esposizione Universale, con
il medesimo impulso patriottico verso il raggiungimento dell’obiettivo. Come
nel caso del modo in cui i produttori di tessuti britannici avevano esposto i
loro prodotti alla Mostra, l’abbigliamento delle signore inglesi viene criticato
in quanto inferiore a quello delle straniere. Le signore inglesi sembrano dei
pavoni eccessivamente rilucenti nei loro ‘colori vistosi o appariscenti’ (pp.
127-29). Lo scopo principale per cui veniva scritto il libro era di ristabilire
la reputazione della nazione in fatto di buon gusto, incoraggiando presso le
donne britanniche una comprensione complessiva dell’armonia dei colori,
‘fondata sull’osservanza di certe leggi di natura’ (p. 2). La Rigby, da par
suo, aveva difeso le donne inglesi, giudicando il loro gusto superiore a quello
delle straniere (anche delle francesi!). E’ interessante notare peraltro come
la Merrifield critichi il fatto che il colore sia usato nell’abbigliamento come
un indicatore di rango sociale o dell’appartenenza ad una parte politica,
mentre la Rigby giudichi il mantenimento di distinzioni nell’abbigliamento fra
classi sociali come di vitale importanza. Queste differenze fra le due
scrittrici riflettono probabilmente diverse formazioni culturali, con la Rigby
su posizioni più conservatrici perché di estrazione sociale superiore rispetto
alla Merrifield.
Sviluppando gli argomenti già
presentati nel saggio sull’Esposizione Universale, la Merrifield usa regole
scientifiche per dar forza ai suoi giudizi estetici, discutendo dell’armonia
dei colori in relazione all’abbigliamento e alla carnagione della pelle. Spiega
i principi fondamentali del contrasto armonico fra i colori – citando Chevreul
e lo scrittore di ottica Sir David Brewster (1781-1868) – e li applica alla
moda (pp. 132-41). La più nota scrittrice di moda Mary Haweis (1848-1898)
ripeterà molte delle informazioni da lei fornite nel suo The Art of Dress (1879), riutilizzando un’illustrazione
praticamente identica per spiegare lo schema dei colori complementari (Figura
4).
Fig. 4 Mary Philadelphia Merrifield, 'Diagramma - Colori contrastanti o che si compensano', illustrazione da Dress as a Fine Art (1854), p. 136, 4,5 x 5,5 cm |
Come nel caso delle arti decorative, la Merrifield auspica che le capacità degli operatori del mondo delle belle arti possano essere combinate con le risultanze scientifiche per raffinare la moda femminile. Si chiede: ‘L’abbigliamento non è forse un’arte manifatturiera come fare un servizio da caffè o da tè?’ (pp. 96-97). Ogni commento che presenta sulla moda è quindi accompagnato da esempi tratti dalla pittura o dalla scultura. Nel criticare l’uso dei vestiti corti, ad esempio, ci dice che, nel caso di quelle signore che sono avanti cogli anni, sono ‘disgustosi’,
sia che le loro forme si siano ingrossate in maniera talmente eccessiva
da far sembrare in confronto le figure femminili di Rubens snelle e minute, sia
che la pelle, diventa giallastra, si sia afflosciata sostituendosi ai muscoli
asciutti del collo, facendo tornare alla mente uno di quelle vecchie donne che
alcuni dei Maestri italiani erano soliti inserire nelle loro opere per
rafforzare il contrasto con la bellezza delle figure principali. (pp.
13-14)
L’ampiezza della gamma dei
riferimenti della Merrifield è stupefacente, posto che riesce a mescolare la
scultura classica e le pitture degli Antichi Maestri con le illustrazioni della
moda contemporanea e le stampe satiriche. Nell’esprimere tutta la sua antipatia
per le sottogonne a cerchio, per esempio, l’autrice mette a confronto le vesti
eleganti e fluenti dei ritratti femminili di Van Dyck con la stampa di Hogarth intitolata Taste in High Life (1742)
e le illustrazioni di moda tratte da Le
Moniteur de la Mode (pp. 60-64). (Figura 5). I commenti della Merrifield
sono spesso assai divertenti: ad esempio, le moderne maniche a zampa di montone
[n.d.t. cfr. ‘Gigot’ in http://georgianagarden.blogspot.it/2010/12/tipi-di-maniche.html]
sono così larghe sulle spalle che le signore potrebbero essere scambiate per
‘l’Ercole Farnese in sottogonna’ o per un ‘covone di fieno con una testa in
cima’ (pp. 52, 12) (Figura 6). La gamma degli esempi presume un alto livello di
conoscenza dell’arte da parte del pubblico che legge, ma il testo è reso più
accessibile dai riferimenti alle incisioni delle opere pubblicate sull’Art Journal e, in un caso, ad un
intaglio tratto dall’Illustrated London
News.
Figura 6 Mary Philadelphia Merrifield, 'Maniche alla Gigot, da un'opera francese', illustrazione tratta da Dress as a Fine Art (1854), p. 52, 9,7 x 7,8 cm |
In tutta l’opera la Merrifield
mette in discussione i soliti stereotipi sulla preferenza delle donne per gli
estremi nella moda contrapponendovi ed esaltando l’importanza della finezza, in
pieno accordo con i principi presentati nei trattati di belle arti dell’epoca. Le
sue raccomandazioni contestano sempre con forza l’associazione tradizionale del
gusto femminile con gli eccessi stravaganti , gli ornamenti elaborati e i
colori squillanti ed artificiali. Preferisce le forme semplici, ‘caste’ e
graziose, rifiutando le distorsioni assurde provocate dai ‘busti odiosi’ e
dalle larghe crinoline di cui erano pieni tutti i libri di moda contemporanei
(pp. 33-35). Ancora una volta riecheggiando i trattati d’arte, la Merrifield
insiste affermando che tutti gli ornamenti nei modelli dei tessuti e delle
vesti dovrebbero essere appropriati ed utili, come nel caso dell’abbigliamento
dei Quaccheri. In particolare ella loda gli abiti dei Quaccheri perché appaiono
essere puliti, decorosi e smorzati nei colori, senza eccessivi fronzoli (pp.
79-81, 92). La Rigby, al contrario, non aveva tempo per le religioni
dissenzienti, elemento che è espresso dalla sua descrizione dai toni abbastanza
caustici del loro abbigliamento dimesso. [20]
Soprattutto, la Merrifield esalta
alcuni pittori in particolare come modelli ideali per la moda. Esattamente come
nell’articolo della Rigby, lo stile del primo XVII secolo di Van Dyck è visto
come uno dei più eleganti che siano mai stati testimoniati dalla pittura.
Entrambe le scrittrici, invece, condividono l’antipatia per i modelli
‘irragionevoli’ del XVIII secolo, testimoniati dalle modelle di Gainsborough,
con le loro ‘ vesti voluminose e svolazzanti, le acconciature scarmigliate e
gli enormi cappelli’ (pp. 74, 79). (Figura 7). [21] Tutte e due, al contrario,
vedono Reynolds come un maestro della compostezza classica, attribuendo ‘all’abilità
e al buon gusto dei pittori’ (p. 78) il ritorno di modelli eleganti nell’ultima
parte del XVIII secolo. [22] I pittori moderni sono anch’essi usati come esempi
da emulare, suggerendo ad esempio che il petto di una donna è raffigurato nella
maniera migliore possibile se coperto con modestia da una veste bianca (p. 14).
(Figura 8). In proposito, la Merrifield cita i Pilgrims Arriving in Sight of Rome di Charles Eastlake (1827, Tate
Britain, Londra) e l’Italian Mother
Teaching her Child the Tarantella (1842, Victoria and Albert Museum, Londra).
Figura 8 Mary Philadelphia Merrifield, 'Vestito italiano'. Illustrazione da Dress as a Fine Art (1854), p. 15; 5,4 x 4 cm |
La Merrifield sperava che,
studiando le opera di artisti simili, le donne imparassero a valorizzare le
loro doti naturali con strumenti mutuati dall’arte, attraverso le combinazioni
armoniche dei colori e l’utilizzo sapiente delle vesti, piuttosto che usando accorgimenti
artificiali, come il trucco del viso o la tintura dei capelli: ‘Nessun inganno
deve essere praticato, nessun artifizio impiegato oltre a quello che viene
esercitato dal pittore, che […] seleziona i colori che meglio stanno in armonia
tra di loro’ (p. 2). E ancora ci dice che armonizzare le tinte delle vesti con
quelle della propria carnagione naturale suscita un’impressione molto più
favorevole su chi ci guarda che una qualsiasi carnagione artificiale.
Qui incontriamo il concetto a
tutti familiare della donna come opera d’arte, da essere mostrata e vista, ma
con le donne sempre più incoraggiate ad innalzarsi al livello di oggetti d’arte
realizzati con buon gusto piuttosto che a bambole alla moda puramente
commerciali. La Merrifield assicurava le donne che assomigliando ai modelli
composti con attenzione nei quadri degli Antichi Maestri piuttosto che ai
ritratti ‘da quattro soldi’ spesso criticati dai critici d’arte avrebbero attratto
esclusivamente lo sguardo ammirato dei veri conoscitori.
I busti e il buon gusto
Mentre insisteva sul fatto che
l’arte potesse fornire buoni esempi, la Merrifield additava anche l’influenza
potenzialmente corruttiva delle immagini sulle mode femminili. In particolare
criticò aspramente gli illustratori di moda uomini perché incoraggiavano la
pratica ‘perniciosa’ dei busti annodati in maniera strettissima, uno dei temi
più importanti della sua pubblicazione. Ciò non solo era cagionevole per la
salute, ma brutto – insisteva la Merrifield – perché distorceva le proporzioni
naturali del corpo in maniera pù ‘barbara’ di quanto facessero i Cinesi legando
i piedi delle loro bambine (p. 16). La Merrifield accusò le riviste di moda di
offrire alle loro lettrici delle ‘calunnie sulla bellezza delle forme’.
Un occhio abituato allo studio
della natura poteva a stento osservare, molto più che imitare, le mostruosità
di un gusto depravato che screditavano le varie pubblicazioni che aspiravano a
divulgare l’ultimissima moda. Quello non abituato rischiava di venir sedotto dall’atmosfera patinata
di quelle illustrazioni che, ‘come il canto delle Sirene […] conduceva solo al
brutto’ (p. 104).
La Merrifield supplicò artisti
maschi, come Horace Vernet (1789-1863) e Jules David (1808-1892), che spesso
operavano in qualità di illustratori di moda, di non perpetuare immagini tanto
distorte, perché avrebbero persuaso le loro ‘vittime sfortunate’ a stringere i
loro busti e a spremere i loro piedi dentro scarpe scomode, ‘senza alcun
riguardo per i calli’ (p. 105). Criticò inoltre i ritrattisti maschi perché
‘alimentavano la vanità e il cattivo gusto’ mostrando piedi così innaturalmente
piccoli nelle loro immagini di donne (pp. 104-05, 65-68). [23] Così, mentre chi
scriveva sui periodici se la prendeva con le donne per le artificialità e gli
eccessi che mostravano in fatto di moda, la Merrifield indirizzò invece il suo
attacco sugli artisti e gli illustratori di moda maschi. Il cattivo gusto
femminile non era innato – diceva l’autrice -, ma causato da esempi così
pericolosi.
In disaccordo con la moda
contemporanea dei corsetti allacciati stretti per stringere la vita, la
Merrifield fu radicale nel raccomandare di indossare vestiti larghi e comodi,
com’è necessario per muoversi naturalmente. Lodò gli abiti moderni greci,
turchi ed algerini (Figura 9) con le loro vesti meno aderenti e osservò che
erano sempre stati uno dei soggetti preferiti dai pittori (pp. 30-40). [24]
Confrontò fra loro la Greek Girl di Charles Eastlake (1827, Tate Britain,
Londra) con la Syrian Maid di Henry
William Pickersgill (in mostra nel 1837 alla Tate Britain, Londra) che appariva
‘rigida e costretta’ perché sembrava che il pittore le avesse dato un corsetto
(pp. 39-40). Anche se non rigettava del tutto i corsetti, la Merrifield
scoraggiava l’utilizzo dei modelli che dovevano essere allacciati in maniera
estremamente stretta, specie per le ragazze giovani (pp. 41, 116, 118-20)
(Figura 10). Il canto poteva migliorare l’aspetto fisico ‘più di qualsiasi
busto al mondo’ – insisteva -, mentre ‘montare le creme, impastare i biscotti e
il pan di zenzero’ avrebbero costituito un esercizio adatto per i muscoli (pp.
41, 30). Non solo forme femminili più naturali sarebbero state più salutari per
le donne stesse, ma sarebbe stato di beneficio anche per la comunità artistica,
che aveva difficoltà a trovare modelle con vite non compresse artificialmente:
‘ad ulteriore conferma della prevalenza di questa cattiva abitudine, potremmo
rifarci ai quadri di [William] Etty, in cui questo difetto è davvero troppo
appariscente’ (p. 19). La Merrifield riconobbe che si era creato un circolo
vizioso, in cui corpi artificiali dipinti in arte avevano corrotto i costumi
delle donne e i corpi deformati delle donne avevano rovinato il nudo artistico.
Fig. 9 Mary Philadelphia Merrifield, 'Popolana della zona di Atene'. Illustrazione da Dress as a Fine Art (1854), p. 31, cm. 8,7 x 4 |
Fig. 10 Mary Philadelphia Merrifield, 'Figure che mostrano gli effetti dei busti allacciati stretti'. Illustrazione da Dress as a Fine Art (1854), pp. 26-27, cm. 5,5 x 7 e 6 x 7 |
In atto di sfida la Merrifield
raccomandò anche l’utilizzo dell’abbigliamento Bloomer (Figura 11), nonostante
quest’ultimo fosse stato oggetto di una satira feroce sulla stampa
contemporanea (pp. 81-84). Questo tipo di abbigliamento era stato presentato a
Brighton nel novembre del 1851 ed è realisticamente possibile che Mrs
Merrifield partecipasse all’incontro [25]. La Merrifield spiega che le idee
promosse da Amelia Bloomer (1818-1894) [n.d.r. in fatto di abbigliamento] non
erano state recepite, nonostante il pregio di essere pratiche, perché
rappresentavano un cambiamento troppo improvviso e perché i colori scelti erano
troppo sgargianti. L’abbigliamento era fondamentalmente americano e democratico
– disse la Merrifield – e quindi non incontrò il favore degli inglesi, che preferivano
che la loro moda fosse aristocratica e francese. In questo contesto
l’atteggiamento della Merrifield, rivolto al futuro, riflette uno spostamento
nei manuali e nei periodici dedicati alla bellezza delle donne, come nel
pensiero medico, verso la bellezza naturale ottenuta attraverso uno stile di
vita sano piuttosto che con strumenti artificiali. Contemporanea di Barbara Leigh Smith Bodichon (1827-1891) e del Gruppo di Langham Place, la Merrifield
anticipò quindi le campagne della Rational Dress Society, fondata nel 1881, e
dell’Aesthetic Dress degli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento.
Figura 11 Mary Philadelphia Merrifield, 'Mrs. Bloomer'. Illustrazione da Dress as a Fine Art (1854), p. 82, cm. 10,2 x 4,3 |
Come nel caso delle arti
applicate, la Merrifield era convinta che la strada per contrastare la moda
dannosa dei corsetti allacciati troppo stretti fosse di far familiarizzare le
donne con i più bei esempi dell’arte ed era convinta che tale conoscenza
potesse essere acquisita in massima misura ‘attraverso la contemplazione di
belle pitture e sculture’ (p. 23). Insisteva dicendo che né le antiche sculture
greche né i grandi maestri italiani avevano mai dato importanza alle vite
strette. Offri una serie infinita di esempi di bellezze ‘coi fianchi larghi’,
compresa la Venere Medici, la Psyche
di William Theed e la statua della Regina Vittoria di John Gibson (tutte quante
apparse in illustrazione sull’Art Journal
nel corso del 1851) (pp. 26-8, 41). Anche se, ovviamente, le opere d’arte
originali non erano accessibili a tutti, l’autrice fece notare che incisioni
delle statue e dei dipinti più belli, così come piccole ed economiche copie in
gesso erano facilmente reperibili. In particolare la Merrifield raccomandò un gesso
della Greek Slave, di Hiram Powers
(1805-1873), che poteva essere acquistato per appena uno shilling. ‘ Una di
queste statuette […] si dovrebbe trovare nella toilette di ogni ragazza che desideri comprendere e conoscere le
proporzioni e la bellezza della figura umana’ (pp. 23-24) (Figura 12). Esposta
alla Mostra Universale tenutasi al Crystal Palace nel 1851, la statua aveva
fatto clamore. Fu considerata di particolare interesse per le visitatrici e
ebbe un peso non banale nel promuovere il movimento contro la schiavitù. [26]
Per la Merrifield, tuttavia, la sua importanza consisteva nell’essere uno
strumento educativo per rammentare alle giovani donne i mali dei corsetti.
Nell’opinione della Merrifield l’essenziale era che chiunque comprendesse le leggi naturali delle forme e delle proporzioni. Per questo espresse in maniera radicale il desiderio che le conoscenze artistiche fossero condivise fra tutte le classi, nella convinzione che l’accesso universale all’arte potesse essere di beneficio per la società nel suo complesso:
Noi aspiriamo a un giorno in cui l’educazione artistica sia estesa a
tutte le classi, quando la conoscenza del bello sarà aggiunta a quella
dell’utile e quando il buon gusto […] detterà le nostre mode nell’abbigliamento
così come in altre cose […]. Speriamo che lo studio delle forme venga
ulteriormente esteso […] ed entri nello schema generale dell’educazione.
(pp. 95-96).
Si lamentò che lo studio delle
forme fosse stato limitato, sino ad allora, ai soli uomini; questi ultimi
avevano il vantaggio delle lezioni e degli studi accademici, mentre
l’educazione delle donne era ‘sempre ottenuta fra mille difficoltà’. Insistette
sul fatto che ad ogni giovane donna si dovesse dare ‘una conoscenza generale delle
forme e dei principi della bellezza con riferimento al corpo umano’ (p. 22). In
totale disaccordo con chi si poneva scrupoli su ciò che le donne potevano o non
potevano vedere, la Merrifield rifiutò assolutamente il luogo comune che le
donne dovessero essere protette dalla vista di corpi femminili nudi. Certa
gente – dichiarò – era ‘così ottusa’ da ritenere che l’osservazione delle
statue prive di vesti fosse ‘contraria alla delicatezza e alla purezza
dell’animo femminile’, ma ella sperava che ‘la parte pensante della società’
convenisse con lei che ciò poteva solo apportare benefici:
Mentre siamo assolutamente d’accordo sull’opportunità che vi siano
scuole separate per maschi e femmine, noi siamo convinte che la conoscenza
delle forme dovrebbe essere trasmessa a tutte le persone, e che le giovani
donne non saranno mogli o madri peggiori per il fatto di comprendere il
funzionamento del corpo umano e per aver acquisito la capacità di apprezzarne
le sue bellezze. (pp. 22-23)
Esattamente come per il saggio sull’Esposizione
Universale, la Merrifield ritiene che lo studio dell’arte e i doveri femminili
siamo perfettamente compatibili. Anche se i suoi scritti si muovono all’interno
delle logiche prevalenti di decoro e femminilità accettabile, le sue richieste
erano, a quell’epoca, rivoluzionarie e proto-femministe. A suo parere, lo
studio dell’arte aveva la potenzialità di produrre cambiamenti positivi nella
vita delle donne povere. A differenza di Haweis, che si dimostrò sprezzante
sull’ignoranza degli operatori della moda, la Merrifield insistette perché in
particolare le sarte potessero beneficiare dello studio del design. ‘Ora,
supponiamo soltanto che chi disegna i vestiti abbia la conoscenza del pittore
sulle forme e sull’armonia di linee e colori; ci rendiamo conto di che
rivoluzione si produrrebbe nell’abbigliamento?” (p. 98). Collegandosi a ciò,
l’autrice si scagliò contro le misere paghe delle sarte, ‘schiave bianche’ che
lavoravano duramente esattamente come i carpentieri e gli imbianchini, ma che
erano pagate la metà, semplicemente perché erano donne. ‘Quale ragione potrebbe
essere addotta – si chiedeva – perché il lavoro di una donna, se egualmente ben
fatto non debba essere pagato quanto quello di un uomo?’ (p. 102). L’educazione
artistica non era vista come un cimento destinato ad autocompiacere le signore
della classe media, ma come uno strumento vitale per migliorare il tenore di
vita delle classi povere. La Merrifield raggiunge il massimo del suo
radicalismo quando suggerisce che le donne dovrebbero svolgere anche un ruolo
professionale, tenendo lezioni nelle scuole femminili per migliorare, moda,
design e illustrazioni (p. 106). In tal modo – afferma – lo studio di arte e
moda da parte delle donne potrebbe condurre a profondi miglioramenti sociali.
Proprio come la Egerton e la
Rigby, la Merrifield contestava in maniera ferma la percezione comune che
l’interesse per l’abbigliamento fosse solo un capriccio femminile.
Concentrandosi soprattutto sul legame fra tale interesse e gli studi artistici
e scientifici conferì alla materia molta maggiore importanza:
Con riferimento alla questione della vanità e della frivolezza, noi
riteniamo che una persona che studi l’armonia dei colori così come applicata
all’abbigliamento […] assorbirà un tale amore per lo studio che il suo animo,
invece di esserne corrotto, potrà giungere, passo dopo passo, a indagare i
fenomeni magnifici della natura e, dallo studio della moda potrà sollevarsi
fino allo studio della filosofia della natura. (p. 173)
In questo senso – dichiarò la
Merrifield – la moda poteva condurre, attraverso l’intermediazione dell’arte,
fino alla scienza.
Conclusioni
Questo è proprio ciò che sembra
essere successo nel suo caso specifico. Nel 1857 a Mrs. Merrifield fu concessa
una pensione civile in riconoscimento dei servizi che aveva reso all’arte, ma a
questo punto, ironicamente, smise di scrivere d’arte preparando invece guide
alla sua città di residenza (Brighton) e studiando la storia naturale. [27] Per
i vent’anni successivi trasferì la sua attenzione alla botanica, in particolar
modo alle alghe marine, e riuscì anche a far dare il suo nome ad una di queste:
la Rityphlea merrifildiae. Scrisse
articoli per giornali scientifici, come Nature
e collaborò nell’allestimento di esposizioni di storia naturale per il Museo di
Brighton, ora trasferito al Booth Museum. [28]
Mantenne inoltre immutate le sua capacità di traduttrice, imparando il
danese, il norvegese e lo svedese per poter leggere la letteratura in materia.
Sull’Oxford Dictionary of National Biography
è catalogata innanzi tutto come algologa, anche se nel censimento del 1881 lei
stessa registrò la sua occupazione come ‘Autrice di opere sull’arte’. [29] Lo
spostamento indolore della Merrifield dall’arte alla scienza mostra come
all’epoca questi due campi fossero strettamente collegati fra loro nella
percezione della gente. Come scrisse la contemporanea storica dell’arte Anna
Jameson (1794-1860): ‘l’una è l’anima dell’altra. L’uomo di grande scienza è un
vero critico d’arte’. [30] Per la Merrifield l’abbigliamento fu un’area in cui
entrambi questi aspetti gemelli della conoscenza confluivano insieme, offrendo
l’opportunità di educare il gusto pubblico. Come molte donne della prima età
vittoriana la Merrifield nutrì scopi filantropici e utilizzò le sue conoscenze
nell’arte e nella scienza al servizio di una comunità più ampia. [31] A dire il
vero, fu proprio questo desiderio pratico di giovare alla società che spesso
giustificava in quel periodo il fatto che le donne scrivessero libri. Il suo
contributo è peraltro tipicamente ‘femminile’ per l’epoca, nel senso che è
sorretto dal concetto di dovere pubblico; tutti i suoi scritti, siano essi
sulla moda, gli affreschi o la botanica, sono presentati con la dichiarazione
di un alto senso morale e spirito patriottico più che per desiderio di fama
personale. Tuttavia, anche se il suo lavoro tende a rimanere nell’ambito della
visione largamente convenzionale della donna come utile contributrice, certi
aspetti degli scritti della Merrifield (in particolare sulla moda) sembrano
rivoluzionari. E’ particolarmente radicale la sua visione dell’abbigliamento
come un’area grazie alla quale le donne possono trasformare la sfera pubblica,
contribuendo attivamente alla reputazione e alla prosperità economica della
nazione.
Anche se non sembra che abbia
avuto le frequentazioni vantaggiose di molte altre donne scrittrici dell’epoca,
la Merrifield pensò chiaramente che il suo sesso e la sua appartenenza alla
classe media non fossero di barriera alcuna alla sua partecipazione alla
cultura scritta e lei è la dimostrazione di come le donne vittoriane potessero
acquisire una notevole considerazione semplicemente grazie alle loro
pubblicazioni, rimanendo al di fuori dei circoli professionali. Le recensioni
contemporanee delle opere della Merrifield mostrano grande rispetto nei
confronti dei suoi risultati ed è evidente che era ammirata non solo nelle
cerchie erudite ma anche come scrittrice d’arte e nell’ambito della comunità
scientifica, a dispetto della sua mancanza di status professionale.
Successivamente sottovalutata,
forse perché di difficile ‘classificazione professionale’, la Merrifield si
merita di essere posta molto più al centro nella storia dell’Inghilterra del
diciannovesimo secolo. Io ho mostrato che, ben lungi dall’essere una mera
traduttrice (come spesso viene presentata) aveva dato un importante contributo
ai dibattiti sui materiali e sulle tecniche pittoriche, sulla diffusione della
teoria dei colori e sulla considerazione della moda in termini estetici. Questo
articolo ha indicato in particolare come il suo approccio ‘scientifico’ e
solidamente razionale alla moda abbia aiutato ad avvalorare il gusto femminile
e a controbattere al luogo comune di lunga data secondo cui le donne erano
interessate solo a una ‘pigra frivolezza’
NOTE
[1] Mary Philadelphia Merrifield, ‘The Harmony
of Colours as exemplified in the Exhibition’, Crystal Palace Exhibition
Illustrated Catalogue (Londra, 1851), pp. I-VIII; pubblicato in origine
come numero speciale della rivista Art Journal.
[2] Prefazione,
Chrystal Palace Exhibition Illustrated Catalogue, p. V.
[3] Merrifield, ‘The Harmony of Colours’, p. V.
[4] Michel-Eugène Chevreul, De la loi du contraste simultané des
couleurs (Parigi, 1839), tradotto da Charles Martel come The Principles of Harmony and Contrast of
Colours (Londra, 1854).
[5] Merrifield, ‘The Harmony of Colours’, p.
I-II, VIII.
[6] Merrifield, ‘The Harmony of Colours’, p.
VIII.
[7] Merrifield, ‘The Harmony of Colours’, p. I.
[8] John Barrell, The Political Theory of Painting from Reynolds to Hazlitt (New
Haven e Londra: Yale University Press, 1986), pp. 65-68; Caroline Palmer.
‘Women Writers on Art and Perceptions of the Female Connoisseur. 1780-1860’
(tesi di dottorato inedita, Oxford Brookes University, 2009), pp. 37-39.
[9] Merrifield, ‘The Harmony of Colours’, pp. VI-VII.
[10] Art Journal (Febbraio, Marzo e Maggio 1855), pp. 37-41. 73-75,
133-37. La Merrifield divenne inoltre una regolare collaboratrice dell’Home Companion: Daily News, 5 ottobre
1855, numero 2927.
[11] Nel 1853 divenne anche
membro della Royal Society of Arts.
[12] ‘On the Harmony of Colours in its
Application to Ladies’ Dress’, Art
Journal, vol. 14 (Gennaio-Aprile 1852); (Gennaio-Aprile, Giugno, Agosto,
Settembre 1853), parti I-VII. Gli articoli erano correlate con un altro
articolo sul vestiario dei bambini apparso sullo Sharpe’s London Magazine. Stando a quanto scritto nella prefazione,
i saggi erano inoltre stati pubblicati sull’americano Godey’s Lady’s Book.
[13] Mary Philadelphia Merrifield, Dress as a Fine Art (Londra, Arthur
Hall, Virtue and Co., 1854), p. 96. Da qui in poi i riferimenti alle
pagine di questo libro saranno forniti all’interno del testo.
[14] Dress as a Fine Art (Boston: John P.
Jewett & Co. 1854), p. III.
[15] Naturalmente più tardi, nel
corso del secolo, arte e moda divennero sempre più legate nel concetto di
estetica del vestire.
[16] [Elizabeth Rigby] ‘The Art of Dress’,
pubblicato prima sulla Quarterly Review,
no. 79 (Marzo 1847), 372-99 e ristampato col titolo di Music, and the Art of Dress (Londra, John Murray, 1852), pp.
95-110. La Rigby sposò Charles Eastlake nel 1849, divenendo Lady
Eastlake nel 1850, ma sia il saggio sia il libro furono pubblicati anonimi. Si veda Susanna Avery-Quash e Julie
Sheldon, Art for the Nation. The
Eastlakes and the Victorian Art World (Londra, National Gallery, 2011); The Letters of Elizabeth Rigby, Lady
Eastlake, a cura di Julie Sheldon (Liverpool, Liverpool University Press,
2009).
[17] Rigby, Music, and the Art of Dress, p. 73.
[17] Rigby, Music, and the Art of Dress, p. 73.
[18] James R. Planché, History of British Costume, from the Earliest Period to the Close of
the Eighteenth Century (Londra, C. Knight, 1834), pp. XII-XIII.
[19] ‘Prefazione’, [Mary Margaret Egerton], The Book of Costume: Or, Annals of Fashion:
From the Earliest Period to the Present Time (Londra, Henry Colburn, 1846).
La Egerton, contessa di Wilton, era figlia del Conte di Derby e
dell’attrice Elizabeth Farren.
[20] Rigby, Music,
and the Art of Dress, pp. 67, 71-72.
[21] Rigby, Music,
and the Art of Dress, pp. 99-102.
[22] Rigby, Music, and the Art of Dress, pp.
104-06.
[23] La Merrifield sostenne che piedi
bellissimi si potevano trovare solo tra gli Egizi e le donne Indù.
[24] Molte delle sue
illustrazioni esemplificative erano disegnate da Trachten und Gebräuche der Neugriechen (Roma, 1825, Berlino, 1831).
[25] Helena Wojtczak, Women of Victorian Sussex (Hastings: Hastings Press, 2003), pp. 36-37.
[26] Alison Smith, The Victorian Nude: Sexuality, Morality and Art (Manchester:
Manchester University Press, 1996), pp. 82-84; Deborah Cherry, Beyond the Frame: Feminism and Visual
Culture, Britain 1850-1900 (Abingdon: Routledge, 2000), pp. 110-11.
[27] Mary Philadelphia Merrifield, Brighton, Past and Present. A Handobook
for Visitors and Residents, Brighton (1857); A Sketch of the Natural History of Brighton and its Vicinity
(Brighton, 1860).
[28] Il suo erbario fu conservato
al Natural History Department del British Museum e si trova al Natural History
Museum. La Plant Sciences Library, Università di Cambridge, conserva sua
corrispondenza relativa soprattutto al suo erbario (GB/NNAF/P131989). La
Merrifield diede anche il suo contributo alla collezione dei Royal Botanic
Gardens a Kew.
[29] Census Returns of England and Wales, 1881, Kew, Surrey, England: The National
Archives of the UK (TNA): Public Record Office (PRO), 1881. Class: RG11; Piece:
1663; Folio: 108; Page 15, GSU roll: 1341397.
[30] [Anna Jameson], ‘Sculpture in England’, Monthly Chronicle, no. 3 (1839), 529.
[31] Un esempio pratico degli
scopi filantropici della Merrifield è il suo coinvolgimento nella Sussex and
Brighton Ladies’ Sanitary Association. Si veda Wojtczak, Women of Victorian Sussex, pp. 152-53, 157. Quest’associazione
consigliava i poveri su come pulire in maniera effettiva le loro case, fornendo
gli spazzoloni e i detersivi per farlo. La Merrifield è registrata come
segretaria onoraria della società e pubblicò ‘The Need of Sanitary Knowledge to
Women’ sul St James’s Magazine, 1 (Aprile 1861), 90-97.
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