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mercoledì 26 marzo 2014

Rocco Sinisgalli. Il nuovo 'De Pictura' di Leon Battista Alberti. Edizioni Kappa, 2006

Leon Battista Alberti,
Presunto autoritratto su placchetta
(foto Sailko)


Rocco Sinisgalli
Il nuovo De Pictura 
di Leon Battista Alberti

Edizioni Kappa, 2006

Isbn 88-7890-731-6



[1] La novità a cui richiama esplicitamente il titolo non ha nulla a che vedere con la scoperta di un ulteriore manoscritto o comunque di una inedita stesura del De Pictura albertiano; si fa riferimento invece ad un diverso modo di leggere i dati e le informazioni a disposizione degli studiosi per giungere, attraverso una nuova edizione critica dell’opera, a risultati spesso divergenti nei confronti di quella che, negli ultimi trent’anni, è stata la versione di riferimento, ovvero l’edizione offerta da Cecil Grayson. 

[2] Quando si parla di De Pictura si finisce quasi sempre per disquisire sulla cronologia delle versioni albertiane; se cioè, posto che ci sono pervenute entrambe, l’opera sia stata scritta prima in latino o in volgare. Ricordiamo (si spera in termini sufficientemente chiari) i termini del problema: la versione latina del De Pictura ci è testimoniata da una ventina di manoscritti, alcuni dei quali riportanti una dedica a Giovanni Francesco Gonzaga ed altri no; quella volgare ci è pervenuta solo in tre esemplari, di cui senza dubbio il meglio conservato è il cod. II.IV.38 della Biblioteca Nazionale di Firenze. La critica moderna (si vedano le pp. 37-40) si è orientata nell’affermare che la stesura della versione latina preceda quella volgare. Grayson in particolare ha sostenuto che un gruppo di manoscritti latini (quello privo della dedica al Gonzaga) fosse antecedente rispetto alla stesura volgare (dedicata a Brunelleschi) ed un secondo insieme di manoscritti (con la dedica al mantovano) fosse cronologicamente successivo alla stessa. La stesura volgare riporta la data del 17 luglio 1436. L’argomentazione principale di Grayson (e, prima di lui, di Mallè) è che il De Pictura in volgare sarebbe stato tradotto dal latino allo scopo di garantire all’opera la massima diffusione presso gli ambienti delle botteghe artistiche fiorentine, presso le quali il latino era ampiamente ignorato. La dedica a Brunelleschi rappresenterebbe, in questo senso, l’omaggio all’esempio più fulgido di una classe di architetti e pittori che, tramite il loro genio, si erano ormai affrancati dalla mera appartenenza alle corporazioni per far emergere con prepotenza il ruolo e la specificità dell’artista. Grayson, insomma, prova a far convivere fra loro due istanze in qualche modo contrastanti: a) la versione volgare deve essere successiva a quella latina proprio per spiegare gli intenti “didascalici” di Alberti; b) la versione latina deve essere comunque stata ripresa successivamente alla volgare perché altrimenti non si spiegherebbe la dedica a Giovan Francesco Gonzaga (per chiarire meglio: non sarebbe stato “politicamente corretto” dedicare l’opera prima ad un principe e poi ad un’artista; la circostanza avrebbe sminuito la posizione sociale del principe). 

De Pictura. Manoscritto 1448 datato 13 febbraio 1518,
Biblioteca Governativa di Lucca

[3] Rocco Sinisgalli la pensa diversamente. Ciò che a noi più importa è che la sua tesi si basa sull’analisi scrupolosa dei testi. È partendo da una nuova traduzione del De Pictura latino (che evidenzia anche numerosi travisamenti da parte del Grayson, non perfettamente padrone della lingua) che giunge a concludere che la versione volgare precede quella latina. L’analisi dei manoscritti in volgare ed in latino evidenzia un progressivo perfezionamento delle tesi presentate da Alberti, sintomo di un continuo lavoro di sistemazione e di affinamento del materiale da parte dell’autore. Il volgare, dunque, prima del latino; e prima del latino perché si tratterebbe di un “brogliaccio di lavoro”, dedicato a Brunelleschi non solo come omaggio all’artista, ma come richiesta di aiuto rivolta al grande artista per aiutarlo a penetrare meglio “la nuova scienza” di cui si andava avvalendo. Pericolosi equivoci vengono poi risolti in maniera originale: la “dedica” al Gonzaga non sarebbe in realtà una dedica; tale sarebbe solo nella scorretta traduzione del Grayson (pp. 39-40), mentre si tratterebbe semplicemente di uno scritto con cui Alberti avrebbe accompagnato una copia del manoscritto, da lui donata a Giovan Francesco. A noi pare che la tesi di Sinisgalli trovi poi un implicito sostegno dal numero di manoscritti che, ad oggi, ci testimoniano l’opera; come dicevamo prima, tre soli esemplari per il volgare e venti per il latino. È vero che, in queste faccende, conta molto anche la fortuna, ma se la volgare fosse stata un’edizione “divulgativa” ad uso e consumo degli artisti fiorentini ed italiani ci saremmo aspettati una proporzione ben diversa. 

[4] Sinisgalli non si ferma qui: a parte gli errori di traduzione operati dal Grayson, nota infatti come l’edizione inglese offerta da quest’ultimo sia condotta sulla collazione dei manoscritti latini; non sono tuttavia indicati i criteri filologici secondo cui un termine è preferito all’altro o viceversa (p. 41). È ferma convinzione dello studioso italiano che Leon Battista abbia continuato a lavorare al manoscritto per diversi anni, e che i vari manoscritti ne possano testimoniare gli sviluppi. Non solo. Grayson, di fatto, trascura completamente l’editio princeps (in latino) dell’opera, pubblicata a Basilea nel 1540. Non è chiaro perché si comporti in questa maniera. Secondo Sinisgalli la princeps di Basilea rappresenta lo stadio ultimo delle fatiche albertiane, contenute in un manoscritto che viene chiamato convenzionalmente “per eccellenza” (e di cui non abbiamo purtroppo alcuna testimonianza). Tale manoscritto potrebbe essere stato redatto da Alberti fra il 1466 ed il 1468 (p. 26) e consegnato in dono a Giovanni Regiomontano, erudito tedesco che di Alberti fu amico e che, una volta lasciata l’Italia, lo avrebbe riportato con sé allo scopo di pubblicarlo. Morto il Regiomontano, il manoscritto sarebbe stato custodito in ambienti assai vicini ad Albrecht Dürer (cfr. pp. 27-29), che sicuramente ebbe modo di consultarlo e probabilmente di averlo in proprietà, e sarebbe poi pervenuto a Tommaso Venatorius, curatore della princeps di Basilea. L’editio princeps sarebbe dunque tratta dal manoscritto “per eccellenza”, perfezionato attorno al 1466-1468 dallo stesso Alberti, e come tale espressione più fedele del suo pensiero. Per questo motivo l’edizione critica di Sinisgalli si differenzia da quella di Grayson, non essendo, nella sua lezione latina, il prodotto di una collazione di manoscritti, ma la trascrizione della princeps di Basilea (la princeps è inoltre riprodotta in versione fotograficamente ridotta alle pp. 541-573). Le tesi di Sinisgalli sono coraggiose e suggestive; ci vorranno ancora anni di lavoro per poterle suffragare o smentire. Indipendentemente da ciò esiste un ulteriore merito da ascrivere allo studioso italiano, ed ha a che fare con la fortuna editoriale dell’opera.

Frontespizio dell'editio princeps di Basilea (1540)
Library, National Gallery of Art, Washington, DC, David K. E. Bruce Fund

[5] La fortuna editoriale del De Pictura si basa esclusivamente sulla sua versione latina, ed in particolare sulla princeps di Basilea. L’edizione in volgare (testimoniata dai tre manoscritti di cui si parlava all’inizio) non ebbe alcun seguito fino al 1847, anno in cui Anicio Bonucci la diede alle stampe (cfr. p. 37). È basandosi sulla princeps di Basilea che furono condotte le prime traduzioni italiane, prima ad opera di Ludovico Domenichi (1547) e soprattutto da Cosimo Bartoli nel 1568 (di Bartoli dovremo pur dire che tradusse anche il De re aedificatoria nel 1550 ed il De Statua sempre nel 1568). La versione di Bartoli fu a sua volta inserita nell’editio princeps del Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci (Parigi, 1651). Insomma, si tratta di un testo che non può essere trascurato perché con esso ebbero a confrontarsi per secoli artisti ed ambienti eruditi (estendendo la propria influenza fino ai Balcani; si veda in merito The Greek Translation of Leonardo da Vinci’s Trattato della Pittura by Panagiotis Doxaras: the Athenian Codex (1724)).

[6] Sinisgalli presenta innanzi tutto i testi fra loro comparati del De Pictura rispettivamente nella versione in volgare, nella princeps di Basilea, nella sua nuova traduzione della princeps in italiano ed in inglese. Segue un ricchissimo apparato di note ragionate (pp. 275-469) in italiano ed in inglese. In esse “parecchi problemi riguardanti parole, locuzioni e frasi vengono estratti ed esaminati in relazione alle traduzioni e ai commenti non solo di Grayson, ma anche di J. L. Schefer, che tradusse il De Pictura in francese nel 1992, di O. Batschmann e C. Schaublin che fecero la stessa cosa in tedesco nel 2000, e di John Spencer che realizzò una traduzione inglese dal volgare con alcune aggiunte dal latino nel 1956 (ristampa del 1966) [n.d.r. in questa collezione è presente la ristampa della seconda edizione]” (p. 49). Segue una sezione intitolata Confronti (pp. 471-509) in cui “ho ripreso dalle note alcuni significativi passaggi, rispettivamente dal volgare, dal latino di Basilea... e dalle mie due traduzioni, in italiano e in inglese, ponendoli su pagine a fronte, sempre su colonne parallele fianco a fianco, con i medesimi passaggi tradotti da Grayson, Schefer, Batschmann/Schaublin e Spencer” (ibidem). Ma la ricchezza dell’opera è quasi infinita: è doveroso ad esempio citare anche le pagine dedicate alle varianti fra la princeps di Basilea e la versione latina collazionata da Grayson (pp. 513-528). 

[7] Abbiamo volutamente lasciato per ultimo uno degli aspetti più significativi, ovvero quello iconografico, in cui Sinisgalli può davvero dare il meglio di sé. Sono oltre 120 le pagine con cui viene illustrata l’opera; e sono oltre duecento i disegni ed i diagrammi di propria mano con cui lo studioso (che è storico della prospettiva) ha tradotto visualmente le indicazioni geometriche e prospettiche che Alberti fornisce nel De Pictura. E qui, invece di concludere, bisognerebbe cominciare, perché come noto l’assenza di illustrazioni nei manoscritti albertiani è uno degli aspetti più dibattuti da storici dell’arte e filologi; c’è chi, infatti, addebita alla mala sorte il fatto che in pratica non ci sia giunta alcun disegno o diagramma di pugno dell’Alberti e chi, invece, riconduce questa circostanza ad una precisa volontà di Alberti stesso. Ma non intendiamo qui tediare ulteriormente il lettore e preferiamo rimandare alle note apposte al saggio di Mario Carpo e Francesco Furlan Riproducibilità e trasmissione dell’immagine tecnico-scientifica nell’opera dell’Alberti pubblicato all’interno della Descriptio Urbis Romae (Firenze, Leo S. Olschki, 2005). 

[8] Secondo indicazioni dell’autore di quest’opera sono state stampate solo 250 copie.

[9] L’opera è stata pubblicata in inglese nel 2011 da Cambridge University Press e da ottobre 2013 è disponibile (in inglese) a un prezzo assai più contenuto come ebook. Sempre nel 2011 Lucia Bertolini ha pubblicato, nell’ambito dell’Edizione Nazionale delle Opere di Leon Battista Alberti, un’edizione diplomatica della redazione volgare del De Pictura, in cui appare gelida nei confronti di Sinisgalli: “L’editore, ottimo conoscitore della prospettiva, si attribuisce il merito di aver dimostrato, nel 2006, la precedenza della redazione volgare su quella latina, pur citando il lavoro in cui quella priorità era già stata acclarata per via filologica nel 2000” (Leon Battista Alberti, De Pictura. Redazione volgare. A cura di Lucia Bertolini, p. 78). Il lavoro del 2000, ovviamente, era della Bertolini.

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