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venerdì 25 novembre 2016

'David Sylvester'. Di James Finch (2016). Parte Prima




David Sylvester

di James Finch
Parte Prima

Traduzione di Giovanni Mazzaferro

James Finch è un giovane storico dell'arte che ha appena discusso la sua tesi di PhD su David Sylvester (University of Kent/Tate). Si tratta del primo lavoro che prende in considerazione l'opera complessiva di David Sylvester, uno dei critici d'arte del secondo Novecento più influenti al mondo. Siamo quindi felici e orgogliosi che abbia accettato di scrivere una presentazione della sua tesi appositamente per questo blog. Grazie, James!

Fig. 1) La prima parte dell'autobiografia di David Sylvester


Introduzione

Notoriamente, il critico e curatore inglese David Sylvester (1924-2001), oggetto della mia tesi di PhD, è considerato uno dei migliori scrittori d’arte del XX secolo. Nel 1993 è divenuto il primo critico a ricevere un Leone d’Oro alla Biennale di Venezia. Sylvester si impose come critico d’arte nella Londra post-bellica, sostenendo artisti innovativi in un’epoca in cui l’arte progressista fruiva di poca esposizione e di scarsi incoraggiamenti, nonché facendosi fautore di una prospettiva più internazionale in parallelo alle rinnovate possibilità di viaggiare nel continente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Syvester fu, ad esempio, tra i primi a sostenere artisti come Lucian Freud e Frank Auerbach, il che non gli impedì (con un comportamento per lui tipico, in quanto critico abituato a rivedere continuamente le sue opinioni) di smettere di scrivere di entrambi gli artisti più tardi, quando s’accorse che la qualità delle loro opere era andata diminuendo. Negli anni ’50 divenne particolarmente vicino a Francis Bacon e ad Alberto Giacometti (forse i due artisti più influenti del periodo post-bellico), prima di abbracciare la causa dell’Espressionismo Astratto alla fine dello stesso decennio. Allo stesso modo fu entusiasta della Pop Art negli anni ‘60. Dopo aver organizzato (nel 1969) una retrospettiva sull’opera di René Magritte, gli anni ’70 e ’80 furono dedicati, in larga misura, alla curatela (ne fu anche coautore) del magistrale catalogo ragionato di Magritte (e di una monografia separata a lui dedicata), prima di tornare a recensire, curare e firmare una serie di libri negli anni ’90.

Il ruolo di Sylvester come commentatore e collettore di idee nell’arte europea e americana del dopoguerra è d’importanza palese, specie quando si consideri il modo in cui, grazie ai suoi scritti e alla curatela delle sue mostre, aiutò a costruire le reputazioni di molti degli artisti più importanti e a orientare i discorsi ad essi dedicati. La questione più pressante, quando si voglia scrivere di Sylvester, è trovare una maniera per inquadrare il modus operandi di un critico il cui lavoro era dichiaratamente contrario ad ogni teorizzazione. A differenza di molti fra i più importanti dei suoi contemporanei (ad esempio Clement Greenberg, Lawrence Alloway e John Berger) Sylvester non ha mai sviluppato un programma teorico alla base del suo lavoro di critico. Articolare e sostenere con forza delle tesi preesistenti sviluppandole in saggi particolarmente acuti consente immediatamente al lettore di capire la prospettiva di un critico. Per questo motivo non c’è certo da sorprendersi che i critici moderni più famosi siano spesso quelli che hanno fatto proprio questo in saggi come ’’Avant-Garde and Kitsch’ di Greenberg, che è stato regolarmente antologizzato e (pur in maniera non corretta) associato col pensiero complessivo del critico. Il mio problema, dunque, era come regolarmi con l’assenza di una prospettiva simile nel caso di Sylvester.

Nello studio di gran lunga più dettagliato dedicato al suo lavoro (ovvero The Battle for Realism: Figurative Art in Britain during the Cold War 1945-1960, di James Hyman) per presentare l’approccio critico di Sylvester in questo periodo si introduce il concetto di ‘realismo modernista’ (è un’espressione coniata da Hyman). In questo modo Hyman è in grado di mettere Sylvester direttamente a confronto con il ‘realismo socialista’ di Berger nella cosiddetta ‘battaglia per il realismo’. Hyman elabora una tesi affascinante, ma, almeno nel caso di Sylvester, la sua visione d’insieme si dimostra fallace. Se è vero che Sylvester era fermamente convinto negli anni ’50 che la critica artistica di Berger fosse una ‘grave distrazione’ (e lo ritenne anche molto tempo dopo), è anche vero che concentrarsi esclusivamente sulla rivalità con Berger significa porre ai margini gli approcci critici di altri soggetti come Alloway, Patrick Heron e Bryan Robertson (coi quali Sylvester ebbe occasione di confronto e scontro). Inoltre, il concetto di ‘realismo modernista’ di cui è fautore Hyman e che si riassume nelle figure di Bacon e Giacometti, implica l’utilizzo di un’attenzione selettiva nei confronti dell’opera di Sylvester e nega i suoi interessi per l’arte astratta e per l’arte figurativa meno ‘modernista’. Un artista come Victor Pasmore (di cui il critico difese con risolutezza il passaggio coraggioso alle costruzioni geometriche astratte) ad esempio, è semplicemente citato. Le pagine finali del libro, contemporaneamente, sottovalutano l’impegno e l’interesse di Sylvester nei confronti dell’Espressionismo astratto dopo il 1956, quando il movimento cominciò ad avere una sua visibilità a Londra con una qualche regolarità. In sostanza, Hyman sostiene che Sylvester avesse una strategia critica deliberata, a cui si dovrebbe associare la promozione di una forma artistica molto specifica. 

Fig. 2) Victor Pasmore, Astrazione in bianco, verde, nero, blu, rosso, grigio e rosa
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Floating_Abstraction_Victor_Pasmore.jpg?uselang=en-gb

In realtà Sylvester fu il critico che meno si prestò a forme di propaganda, come diventa chiaro se si studia la sua opera complessivamente. Poco più che ventenne Sylvester cominciò a scrivere un trattato pretenziosamente intitolato Principles of Archetypal Symbolism, ma abbandonò il progetto quando si rese conto che la spiegazione dei meccanismi artistici da lui fornita ‘era qualcosa che, semplicemente, mi ero inventato… non aveva fondamenti empirici né strumenti per poter essere verificata’ [1]. Preferiva far maggior affidamento sui suoi sensi piuttosto che sul suo intelletto (una volta gli chiesero come guardava i quadri, e rispose laconicamente: ‘mi limito a guardare’). Tutto ciò lo portò spesso a operare clamorosi voltafaccia, con cui cambiava atteggiamento nei confronti di artisti che aveva precedentemente sostenuto o scioccava i suoi amici recensendone le opere in termini negativi [2]. Proprio perché faceva affidamento sui sensi, alcuni dei migliori scritti di Sylvester riguardano minimi particolari nel meccanismo della visione dell’arte: il critico si sofferma a lungo sulle differenze che esistono quando si guardi un’opera di Pollock alla luce artificiale, a quella artificiale o in presenza di entrambe; allo stesso modo analizza gli effetti che si producono osservando una scultura di Giacometti da distanze e angolazioni differenti. Silvester studiava fedelmente la specificità di ogni esperienza individuale, senza scoprire ‘principi’ omnicomprensivi (il che può spiegare perché fu anche un curatore di grandissimo successo, famoso in particolare per i suoi allestimenti). 

Quest’assenza di ‘un’idea forte’, se da un lato può inizialmente creare difficoltà nell’approcciare il suo lavoro da un punto di vista complessivo, dall’altro apre uno spazio per esaminare i suoi scritti per quello che sono e per attenersi scrupolosamente alla contingenza di un critico d’arte che non sa dove sta per andare. Mi è sembrato più appropriato prendere in considerazione il lavoro di Sylvester analizzando i generi di cui fece uso in epoche diverse nel corso della sua carriera; è stato un modo per enfatizzare il fatto che l’opera di Sylvester ci giunge sempre tramite la mediazione del mondo dell’editoria. Spesso mi è capitato di rifarmi a quanto Malcolm Gee pregava di tenere a mente in merito alla matericità della critica d’arte: 

Un testo scritto è il risultato di una collaborazione in cui fattori terzi rispetto alle idee e alla volontà dell’autore giocano un ruolo fondamentale. La natura del supporto definisce il pubblico del testo, determina la sua forma e influenza il suo stile. La critica d’arte è stata spesso considerata dai suoi autori un genere letterario e, a volte, addirittura accademico, ma in realtà è in grande misura una forma di giornalismo’ [3].

Scopo della mia ricerca è stato quello di prendere in considerazione l’opera di Sylvester come forma di letteratura e di giornalismo; di illustrare le sue idee in fatto d’arte, come esse ebbero origine e come arrivò a sostenerle nei suoi scritti; e infine di collocarle nel contesto delle pubblicazioni e delle trasmissioni con cui Sylvester ebbe a cimentarsi. 

Fig. 3) Alberto Giacometti, Uomo che cammina, 1960,
Fonte: https://kunstvensters.com/2015/09/20/canon-van-de-moderne-kunst-alberto-giacometti/


La nascita di un critico

Sylvester ha descritto in maniera superba la sua carriera e la sua giovinezza nel saggio ‘Curriculum Vitae’ (che funge da introduzione alla raccolta di saggi pubblicata col titolo About Modern Art) e nell’autobiografia, rimasta incompleta (la prima parte di essa è stata pubblicata col titolo Memoirs of a Pet Lamb) [4]. Questi scritti forniscono alcune informazioni su come Sylvester scoprì la sua vocazione di critico, che gradualmente emerse nei testi poco noti degli anni ’40 (quasi nessuno di essi è stato ristampato). La carriera di Sylvester in qualità di critico cominciò nel 1942, quando, all’età di diciotto anni cominciò a scrivere per il quotidiano socialista Tribune. George Orwell fu il responsabile della pagina letteraria – e dunque il diretto superiore di Sylvester – per la maggior parte dei tre anni in cui scrisse sul giornale. Per buona parte degli anni ’40 Sylvester aspirò, peraltro, a divenire un critico letterario e un poeta piuttosto che un critico d’arte (un desiderio comune a molti altri critici d’arte); numerosi suoi manoscritti inediti di questo periodo possono essere visti nel suo archivio. 

L’educazione ebraica di Sylvester (di cui era orgoglioso, pur non essendo un credente convinto) esercitò una grande influenza sul suo approccio critico (in un’intervista gli capitò di affermare: “quasi tutti i migliori scrittori d’arte sono ebrei: Bernard Berenson, Clement Greenberg, Leo Steinberg…, Gombrich…, Lawrence Gowing… Forse è per via di una qualche strana relazione tra il corpo e l’intelletto) [5]. Anche gli studi letterari furono importanti fattori della sua formazione come critico: il critico letterario di Cambridge F.R. Leavis (a cui spedì alcuni dei suoi primi saggi) fu uno dei suo beniamini e passione ancor maggiore coltivò per la filosofia di Wittgenstein (verso la fine della sua vita Sylvester nominò il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein come il suo personale 'libro del secolo'). Il filosofo di origini austriache probabilmente influenzò il modo di scrivere di Sylvester molto più di quanto fece un qualsiasi altro critico d’arte, come spiegò egli stesso in un’intervista: 

Ho sempre cercato di scrivere col massimo della chiarezza. Ho fatto affidamento su un precetto di Wittgenstein: ‘Qualsiasi cosa possa essere detta, può esser detta in maniera chiara. E su ciò che non si riesce a dire chiaramente bisogna stare zitti.’ Ho sempre escluso dal mio stile una vaga metafisica o complicate costruzioni intellettuali. Ho cercato di scrivere nella maniera più semplice e diretta possibile e molto del lavoro di revisione delle mie opere – e c’è una gran lavoro di revisione – è indirizzato a renderle più semplici e chiare’ [6].

L’amore per Wittgenstein spinse quasi Sylvester ad andare a Cambridge a frequentare i corsi di scienze morali, abbinando gli studi di filosofia e psicologia, prima che invece decidesse di trasferirsi a Parigi ‘con la vaga speranza che gli studi degli artisti potessero divenire la mia università’ [7]. Fu proprio quello che accadde. Sylvester frequentò regolarmente gli studi di artisti affermati come Brancusi, Laurens, Masson, Léger (che considerava ‘un essere umano fra i più meravigliosi’) [8], e, più importante di tutti, Giacometti. Le osservazioni e le conversazioni avvenute nel corso di queste visite permisero a Sylvester di sviluppare le sue idee, e i suoi scritti sono pieni di riferimento a quelle discussioni. Secondo le parole di Frank Auerbach: ‘Francis Bacon, con tono abbastanza sarcastico, disse che lui [Sylvester] scoprì le sue preferenze parlando con le persone giuste. Ma anche questo è un talento’ [9].


Fra il 1947 e il 1950 fece regolarmente la spola fra Parigi e Londra approfittando del fatto che viaggiare, dopo la Seconda Guerra Mondiale, era divenuto nuovamente possibile. In questo modo accreditò la sua fama di commentatore d’arte parigina e dell’ ‘École de Paris’. Intervenne regolarmente nel corso dei programmi radio in lingua francese del BBC French Service (una volta gli capitò di discutere con Roland Barthes delle abitudini francesi e britanniche in fatto di bere), scrisse un saggio su Klee pubblicato su Les temps modernes, all’epoca diretto da Maurice Merleau-Ponty e divenne il fautore londinese di molti artisti come Jean Hélion e, ancora, una volta Giacometti. Quest’ultimo non ebbe paladino più strenuo di Sylvester, con i suoi scritti e con le mostre a lui dedicate che organizzò. 

Fig. 5) Paul Klee, A proposito di scacchi, 1937, Kunsthaus Zürich.
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Paul_Klee_Ueberschach.jpg

In Inghilterra, allo stesso tempo, Sylvester si era avvicinato ad Henry Moore, l’artista inglese più famoso dell’epoca e un preziosissimo contatto per il giovane critico. Moore lo assunse per un breve periodo in qualità di primo segretario e gli garantì l’invito a organizzare (a soli 26 anni) la mostra del 1951 alla Tate Gallery, facendo decollare la sua carriera di curatore. In realtà non c’era nessun calcolo dietro al modo in cui Sylvester attirò l’attenzione di Moore (in un articolo scritto sul Tribune aveva sostenuto che Moore era ‘con l’eccezione di Picasso, il più grande artista dai tempi di Cézanne’) [10]. Col senno di poi, tuttavia, fu scaltro, legandosi contemporaneamente a due artisti così differenti come Moore e Giacometti (di quest’ultimo egli stesso disse che il suo approccio alla scultura muoveva ‘da posizioni opposte a quelle di Moore’); in tal modo riuscì a trarre vantaggio da entrambi [11].

Fig. 6) Henry Moore, Figura reclinata, 1951, Fitzwilliam Museum, Cambridge.
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/Henry_Moore#/media/File:HenryMoore_RecliningFigure_1951.jpg

Negli anni ‘50

Nel corso degli anni ’50 Sylvester scrisse per una serie di pubblicazioni con sede a Londra, a partire dall’ Art News and Review. Questa rivista, pubblicata ancor oggi col titolo (più alla moda) di ArtReview, era appena nata e diede preziose opportunità a giovani scrittori come Sylvester, Alloway e Reyner Banham. Sylvester passò presto al magazine della BBC The Listener, che raggiungeva un pubblico molto più ampio e pagava meglio i suoi collaboratori; in più, nel 1953, su richiesta di Stephen Spender, divenne consulente in materia artistica e collaboratore del periodico Encounter (segretamente finanziato dalla CIA): una posizione che sembrava fatta apposta per lui, all’epoca entusiasta della cultura americana e disilluso della sinistra. In una rara presa di presa di posizione pubblica in materia politica Sylvester disse: ‘Sono stato all’ala sinistra del Labour Party ma le cose sono cambiate dopo [il colpo di stato comunista in] Cecoslovacchia nel 1948. Non ho nemmeno dovuto attendere i fatti d’Ungheria del ’56. Ho capito prima che non si può andare a letto coi comunisti senza prendersi una malattia venerea’ [12] (tutto ciò potrebbe indurci a pensare che i suoi primi scritti avessero lo stesso indirizzo politico del suo quasi coetaneo (nonché anch’egli collaboratore del Tribune) John Berger, ma in realtà anche negli articoli pubblicati sul Tribune raramente si colgono palesi prese di posizione politiche). Sylvester apparteneva alla generazione di Spencer e del Dio che ha fallito [13], e senza dubbio questo fatto contribuì a che Spencer lo invitasse a lavorare sulla rivista. Spencer voleva che Encounter fosse un prodotto ‘eccellente in termini creativi, eccellente in materia di arti e totalmente disinteressato alla politica’ [14]; le intenzioni di Sylvester, come critico d’arte erano simili: la politica era considerata superflua rispetto al valore intrinseco di un dipinto o di una scultura [15].

Nel 1957 Sylvester sostituisce temporanemente Berger sul New Statesman e poi si assicura in via definitiva la colonna d’arte sul giornale nel 1960. Pur avendo raggiunto una posizione a lungo desiderata, ben presto ne rimane insoddisfatto perché ‘[…] mi mancava lo spazio per sviluppare le mie idee quando esse meritavano e non mi sembrava di andare in giro con una scorta inesauribile di buoni spunti’ [16]. Aggiunge inoltre che ‘era troppo facile fare una critica d’arte dissacrante, e così decisi deliberatamente di scrivere solo dell’arte che mi piaceva’ [17]. Nel 1962, quindi, abbandona il New Statesman ‘d’istinto’. Non è ben chiaro se per fortuna o per progetto, ebbe comunque la fortuna di accasarsi al nuovo Sunday Times Magazine, la prima pubblicazione inglese progettata sul modello delle riviste americane a colori, con più del 50% delle pagine dedicato alla pubblicità [18]. Karl Miller, che era stato il responsabile letterario di Sylvester al New Statesman, nel 1969 ricordava che, quando uscì la prima volta, la rivista era ‘di tipo nuovo, elegante e stimolante’. Se (come affermava Miller) la rivista ‘può rivendicare di aver contribuito agli sviluppi e agli esperimenti dell’arte degli anni ‘60’, Sylvester giocò sicuramente un ruolo significativo in tutto ciò nel suo duplice ruolo di redattore e collaboratore [19]. Sul Sunday Times Magazine scrisse di Pop Art (sia inglese sia Americana) e, grazie alla seducente veste grafica della rivista, fu in grado di raggiungere un pubblico assai più ampio di quello delle pubblicazioni specializzate in arte o anche di quello di quotidiani come il New Statesman

Sylvester faceva parte di un gruppo emergente di talentuosi critici d’arte britannici la cui formazione divergeva dalla classica educazione avuta ad Ofxord o a Cambridge da un Fry o da un Bell. Vale la pena notare, tuttavia, che, a dispetto della loro mancanza di un curriculum universitario, scrittori come Sylvester e Berger ebbero l’opportunità di lavorare per la BBC e per il New Statesman sin da giovani. La BBC, in particolare, fece lavorare con regolarità Sylvester nel corso degli anni ’50 e ’60, periodo in cui la sua attività di critico raggiunse il massimo della prolificità (dal canto suo, il critico descrisse la BBC come ‘un mecenate illuminato dell’arte moderna’, che fece per essa di gran lunga di più di ogni altra pubblicazione in circolazione in quel periodo). Oltre al suo lavoro sul periodico The Listener, Sylvester intervenne con regolarità alla radio, sia con apposite recensioni e letture, sia prendendo parte a dibattiti e intervistando artisti. Ben poco di questo materiale è poi apparso a stampa e la mia tesi si avvale di ricerche sistematiche fatte negli archivi della BBC, dove sono conservate le trascrizioni di molti di quei programmi [20].

Un terzo filone del lavoro di Sylvester per la BBC è costituito dalla televisione. Ne fanno parte numerosi programmi da lui scritti, diretti o presentati. Il più importante di questi fu la serie Ten Modern Artists, del 1964, per la quale fu definito divulgatore d’arte in grado di rivaleggiare con Kenneth Clark [21]. È vero che Sylvester non realizzò mai un singolo capolavoro come la Civilization di Clark o i Ways of Seeing di Berger; ma fu comunque un volto e una voce consueta e rinomata alla televisione e alla radio nel periodo post-bellico, nonché parte integrante del modo con cui la Terza Rete della BBC (quella di indirizzo più ‘intellettuale’) presentò al pubblico britannico materiale di grande qualità, di gran lunga con meno concessioni di quanto non succeda oggi (in via del tutto incidentale: nelle celebrazioni per il settantesimo anniversario della fondazione della Terza Rete BBC, tenutesi quest’anno, il nome di Sylvester è stato appena citato). 

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NOTE

[1] TGA (Tate Gallery Archive) 200816/5/1/2.

[2] John Tusa, On Creativity: Interviews Exploring the Process (Londra: Methuen, 2004), p. 247.

[3] Malcolm Gee, ‘The Nature of Twentieth-century Art Criticism’ in Art Criticism Since 1900, a cura di Malcolm Gee (Manchester: Manchester University Press, 1993), pp. 3-21 (p. 4).

[4] Bozze di diversi capitoli successive dell’autobiografia si trovano presso il Tate Archive.

[5] Intervista con Michael Kustow, Jewish Quarterly, Autunno 2000, p.8.

[6] John Tusa, intervista con David Sylvester, trasmessa su BBC Radio 3, il 3 dicembre 2000 http://www.bbc.co.uk/programmes/p00nc3yd#play [ultimo accesso il 21 luglio 2016].

[7] TGA 200816/5/1/3/1.

[8] Sylvester intervistato da Richard Wollheim, British Library. 

[9] Dichiarazione di Auerbach all’autore di questo scritto, 18 febbraio 2014.

[10] Anthony Sylvestre [David Sylvester], ‘Henry Moore’, Tribune, 5 gennaio 1945, p. 19.

[11] Lettera di Sylvester a Donald Hall, 4 October 1965, TGA 200816/2/1/24. Per Sylvester e Moore si veda Martin Hammer, ‘Ambivalence and Ambiguity: David Sylvester on Henry Moore’, in Henry Moore: Sculptural Process and Public Identity, Tate Research Publication, 2015, https://www.tate.org.uk/art/research-publications/henry-moore/martin-hammer-ambivalence-and-ambiguity-david-sylvester-on-henry-moore-r1151307, ultimo accesso 03 November 2016.

[12] Citato in Nicholas Wroe, ‘Sacred Monster, National Treasure’, Guardian, 1 luglio 2000. 

[13] [n.d.t. “The God that Failed” è un libro uscito nel 1949 che raccoglie le testimonianze di sei intellettuali ex-comunisti disillusi. Oltre a Stephen Spender vi sono Louis Fischer, André Gide, Arthur Koestler, Ignazio Silone e Richard Wright. La presenza di Silone e il clima da guerra fredda fecero sì che l’anno dopo (nel 1950) fosse tradotto in Italia col titolo Testimonianze sul comunismo (Il Dio che ha fallito).]

[14] Spender citato in Howard, p. 55.

[15] Sotto questo punto di vista, la critica d’arte di Sylvester differiva da quella cinematografica, in cui spesso richiamava le problematiche politiche sollevate dal cinema americano. 

[16] Sylvester, ‘Curriculum Vitae’, p. 22. 

[17] Gayford, ‘The Eye’s Understanding’, p. 39.

[18] Nei ricordi di Sylvester ‘fu lui [Boxer] che mostrò di persona come trasformare completamente una rivista fotografica’. Sylvester in Mark Amory, ed., The Collected and Recollected Marc (London: Fourth Estate, 1993), p. 30.

[19] Miller, ‘A Sunday Dilemma: Getaway People and Ghetto People’, Sunday Times Magazine, 14 dicembre 1969, pp. 27-32 (p. 32).

[20] Ho visto, ascoltato o letto trascrizioni di almeno 250 programmi a cui partecipò Sylvester (anche se non sono stato in grado di aver accesso alle trascrizioni di un numero molto maggiore di programmi a cui partecipò).

[21] ‘When Television Turns to the Arts’, The Times, 11 aprile 1964, p. 12.



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