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lunedì 7 settembre 2020

Joanna Smalcerz. Smuggling the Renaissance. The Illicit Export of Artworks Out of Italy, 1861-1909


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Joanna Smalcerz
Smuggling the Renaissance
The Illicit Export of Artworks Out of Italy, 1861-1909
[Contrabbandare il Rinascimento: l'esportazione illecita delle opere d'arte dall'Italia, 1861-1909]

Leiden, Brill, 2020

Recensione di Giovanni Mazzaferro



Il libro che Joanna Smalcerz ha consegnato alle stampe è, senza dubbio, un’opera di grande coraggio. Ci vuole molto coraggio, infatti, nell’affrontare un tema difficile come quello del contrabbando delle opere d’arte italiane all’estero nei decenni finali dell’Ottocento e nel primo del Novecento. I fatti che emergono, sono, per forza di cose, i più eclatanti, quelli che attirarono l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica, ma anche della politica e degli operatori del mondo dell’arte. Credo che ci siano pochi dubbi sul fatto che quegli avvenimenti siano stati la semplice punta dell’iceberg; non esiste modo, peraltro, di misurare in termini quantitativi un fenomeno per sua natura clandestino. La scelta delle date, naturalmente, non è casuale. Si va dal 1861, anno di nascita del Regno d’Italia, in cui si decise di procrastinare la legislazione a tutela del patrimonio vigente nei singoli stati di antico regime, in attesa di una legge che regolasse la materia, valida per tutto il territorio nazionale, e il 1909, quando si giunse finalmente ad approvare la cosiddetta ‘legge Rosadi’, che andava a colmare il buco normativo (la precedente ‘legge Nasi’ del 1902 si era rivelata poco efficace). Quei quarantotto anni furono un’eternità e non dipesero solo dalla cronica instabilità dei governi italiani che raramente restavano in carica per più di un anno. L’analisi dell’autrice si fonda, naturalmente, sulla ricerca d’archivio e, in particolare, sulle relazioni d’affari, ampiamente documentate, tra Stefano Bardini (1836-1922), famosissimo antiquario toscano con base a Firenze (ancor oggi proverbialmente noto come ‘il principe degli antiquari’) e Wilhelm von Bode (1845-1929), per antonomasia ‘il direttore dei musei berlinesi’ nella Germania guglielmina (la carriera di Bode cominciò nel 1872 con l’assunzione ad assistente curatore nel dipartimento di scultura dei Musei reali di Berlino). Da quelle carte emergono fatti, in parte già noti e in parte no, che dimostrano come entrambi fossero normalmente dediti a comportamenti del tutto illegali (credo che giustamente Smalcerz parli di crimini da colletti bianchi) [1]. Fondata sul rapporto Bardini – Bode, l’analisi in realtà si allarga e coinvolge attori che vanno inquadrati da tre prospettive differenti: i collezionisti, agiscano essi per conto di musei o per sé stessi (si pensi a miliardari tedeschi e americani come Adolf von Beckerath (1834-1915), John Pierpoint Morgan (1837-1913) e Isabella Stewart Gardner (1840-1924)); gli intermediari, ossia gli antiquari come Bardini, ma anche i grandi conoscitori che consigliano e agiscono per conto dei loro ricchi clienti (lo stesso Bode guidò gli acquisti di molti miliardari berlinesi; sul fronte americano basti ricordare Bernard Berenson (1865-1959) e sua moglie Mary (1864-1945)); e si estende, infine, a personaggi meno noti, quelli che noi oggi chiameremmo ‘servitori dello Stato’ come Giuseppe Fiorelli (1823-1896), al vertice della Direzione Generale per Antichità e Belle Arti, dipendente dal Ministero della Pubblica Istruzione; furono figure come quelle di Fiorelli (o di Adolfo Venturi) a cercare di limitare, in assenza di una moderna legislazione, i comportamenti elusivi o eversivi a causa dei quali il patrimonio italiano finiva per varcare illegalmente i confini della penisola.

La copertina di 'Stefano Bardini «principe degli antiquari». Prolegomenon to a biography', di Anita Fiderer Moskowitz, Firenze, Centro Di, 2015

Wilhelm von Bode nel 1920
Fonte: https://www.gettyimages.co.uk/detail/news-photo/bode-wilhelm-von-10-12-1845-kunsthistoriker-news-photo/541040437
 

Alcuni episodi di esportazione illecita

Naturalmente non è qui il caso di ripercorrere tutta la casistica esposta nel volume. Basti ricordare, però, che l’autrice ripercorre con dovizia di particolari le vicende legate all’esportazione illecita degli affreschi di Botticelli riscoperti a Firenze, in Villa Lemmi, nel 1873 e rivenduti da Bardini al Louvre nel 1882; o, ancora, quelle legate alla vendita del busto della cosiddetta Duchessa di Urbino (oggi attribuita a un allievo di Desiderio da Settignano, all’epoca ritenuta di Donatello) proveniente dalla romana collezione Barberini, ceduta sempre da Bardini a Berlino nel 1887. 

Sandro Botticelli, Giovane introdotto tra le arti liberali, 1486 circa, Parigi, Museo del Louvre
Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons

Sandro Botticelli, Venere e le Tre Grazie offrono doni a una giovane, 1486 circa, Parigi, Museo del Louvre
Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons

In entrambi i casi Bardini eluse la legge mettendo in piedi vendite fittizie ad acquirenti stranieri avvenute in Italia; gli acquirenti, a cui Bardini fece sottoscrivere contratti in cui esplicitamente dichiarava di averli informati che l’esportazione era vietata e declinava ogni responsabilità in caso di mancato rispetto del divieto, erano in realtà dei prestanome che ben difficilmente sarebbero stati perseguibili una volta fatte uscire le opere dai confini italiani ed erano reclutati ad hoc dai reali compratori delle opere d’arte. Nel caso dei Botticelli, in sostanza, tutto filò liscio; in quello del busto prelevato da Palazzo Barberini la reazione dello Stato, con interrogatori tramite rogatoria, permise di mettere in evidenza i comportamenti criminali dell’antiquario e di Bode; il rischio di una condanna fu altissimo e sarebbe stato profondamente ‘lesivo’ dell’onorabilità dell’antiquario e del conoscitore tedesco (che peraltro non era imputato) se non fosse sopraggiunta una provvidenziale assoluzione per decorrenza dei termini alla fine del 1890.

Seguace di Desiderio da Settignano, Ritratto della Principessa di Urbino, 1465 circa, Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Bode Museum
Fonte: Daderot tramite Wikimedia Commons

Ma gli esempi, furono, purtroppo, centinaia e una delle parti più interessanti, e anche divertenti, dell’opera è quella in cui l’autrice passa in rassegna le varie modalità con cui manufatti ufficialmente o potenzialmente soggetti alle restrizioni in fatto di esportazione furono contrabbandati all’estero. La più banale (ma probabilmente la più diffusa) fu la corruzione dei funzionari ministeriali chiamati a rilasciare il permesso di esportazione e/o degli agenti di dogana alla frontiera. Una prassi molto comune era anche la sostituzione del contenuto degli imballaggi una volta apposto il sigillo che permetteva di portare le opere fuori dall’Italia (in sostanza: si presentava un’opera di nessun valore all’Ufficio esportazioni, si otteneva la licenza con l’apposizione dei sigilli, poi si apriva il pacco in maniera da non romperli e si inseriva il manufatto oggetto di contrabbando). Le modalità del contrabbando dipendevano, naturalmente, dalle dimensioni dell’opera che doveva essere fatta uscire dal territorio nazionale. Non a caso uno degli elementi che più aveva fatto discutere quando a essere trasferiti di nascosto in Francia furono gli affreschi di Botticelli era che misuravano circa due metri per tre e che nessuno aveva capito come fosse stato possibile anche solo farli uscire dal palazzo fiorentino che li custodiva senza che nessuno se ne accorgesse. In linea di massima, in caso di dimensioni contenute, l’utilizzo di valigie e bauli col sottofondo era piuttosto frequente per cercare di eludere eventuali controlli alla barriera. Mary Berenson andava molto orgogliosa di aver spedito in Inghilterra l’Annunciazione di Piermatteo d’Amelia per la collezione di Isabella Stewart Gardner nascondendolo nel doppio fondo di un baule (il quadro era 102 x 114) riempito di bambole (p. 163). Per inciso, non possiamo non ricordare che, in direzione opposta, Vincenzo Peruggia riportò dalla Francia in Italia la Gioconda di Leonardo nel  doppio fondo di una valigia nel 1913. In casi più isolati a essere coinvolte furono le ambasciate dei paesi stranieri e il Vaticano stesso, i cui bagagli diplomatici non potevano essere oggetto d’ispezione. Ma il fenomeno è davvero variegato e, a volte, assume i contorni della pochade, come quando, nel 1895 i fratelli Canessa, antiquari napoletani, per esportare antichità in Francia, organizzarono una corsa di ciclismo amatoriale (presumo una delle primissime) da Sanremo a Nizza e a tutti i cento partecipanti (tutti conniventi) fu dato un reperto da nascondere sotto la maglia (p. 167).

Da notare, peraltro, che a fronte di limitazioni all’esportazione, singole nazioni prevedevano dazi anche per l’importazione d’opere d’arte. Nel 1883, ad esempio, gli Stati Uniti previdero il pagamento di un’aliquota del 30% sul valore di tali opere per l’importazione delle medesime. Anche qui, naturalmente, si imposero pratiche per l’elusione del dazio; una delle più frequenti era la semplice presentazione alla dogana di un inventario falso con i valori dei prezzi di acquisto artificialmente abbassati e le attribuzioni dei quadri travisate a favore di illustri sconosciuti.
 

Il contesto storico

La seconda parte dell’Ottocento vede il trionfo in Europa dell’idea di Rinascimento come epoca che pone le basi per il pieno affermarsi della libertà individuale. Su un piano culturale, opere come la Civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt (1860), precedute dal suo Cicerone, che ebbe almeno una decina di edizioni in pochi decenni, segnano la nascita di una narrazione che impone all’interesse dei collezionisti, degli amatori, degli storici dell’arte il Quattrocento e il primo Cinquecento italiano, con particolare riferimento a Firenze. Sin dalla metà degli anni ’50 (quindi da prima dell’Unità d’Italia) sul mercato si affacciarono le grandi istituzioni museali, a partire dalla National Gallery di Charles Lock Eastlake, impegnate in un programma di allestimento di collezioni artistiche che rendesse appieno l’idea dello sviluppo dell’arte italiana nel XV e XVI secolo, ma che, soprattutto, conferisse prestigio alla nazione in rapporto agli esempi di altri istituti come il Louvre. La politica di acquisti inglese continuò almeno fino a tutti gli anni ’60, e fu sostenuta anche da una forte domanda interna proveniente dalla gentry e dalla nobiltà locale, che diede vita a collezioni da sogno nelle rispettive dimore di rappresentanza. Nei decenni finali dell’Ottocento, però, le cose cambiarono e la grande depressione agricola colpì le rendite dei proprietari fondiari (ossia dell’aristocrazia) sia in termini di rendimento annuale sia in termini di valore del patrimonio. Da non dimenticare poi che, nel 1894, in Inghilterra fu introdotta una tassa di successione dell’8% sui passaggi ereditari. L’inghilterra passò improvvisamente da essere grande importatrice di opere d’arte a grande esportatrice delle medesime. Ebbe inizio quello che prese il nome di ‘Great Exodus’ [2]; i manufatti artistici presero a viaggiare verso i paesi dei ‘nuovi ricchi’, in particolare la Germania e gli Stati Uniti.

Ed è fondamentalmente a collezionismo tedesco e americano che si rivolge l’analisi dell’autrice. La Germania guglielmina pone subito in essere una politica di acquisizioni aggressiva che trova appunto in Wilhelm von Bode il suo interprete di maggior talento. Si tratta di costruire l’identità di una nazione, sia tramite il recupero dell’arte medievale tedesca sia grazie al ricorso a un linguaggio visivo comune; quel linguaggio è appunto mutuato dal Rinascimento italiano. Non ci sono pongono troppi scrupoli sulle modalità utilizzate per raggiungere l’obiettivo, purché non scoppino degli scandali; il contrabbando è tranquillamente praticato da Bode e dai musei berlinesi. Mi si permetta, a questo punto, un’osservazione: la pratica di trasferire illegalmente all’estero opere d’arte italiane era vecchia di secoli, eppure non aveva mai varcato dei limiti. Sicuramente li aveva conosciuti nella stagione delle acquisizioni museali della National Gallery. Se il collezionismo privato inglese (e quello del South Kensigton Museum) non guardavano nemmeno allora troppo per il sottile, uomini come Eastlake, che agivano nell’interesse dell’Impero vittoriano, posero sempre come condizione nelle loro trattative il pieno rispetto della legge locale e subordinarono il pagamento delle opere al fatto che il venditore ottenesse il permesso all’esportazione. Era rigorosamente esclusa ogni forma di contrabbando [3].

Nel caso americano siamo presenti, più che a una precisa campagna di acquisizioni a livello museale finanziata dal governo, a una serie di ‘nuovi’ miliardari per i quali era importante trovare strumenti per autorappresentarsi.  Alcuni di essi – scrive giustamente Smalcerz – si consideravano, di fatto, dei nuovi Medici, dei mercanti che avevano fatto fortuna e, grazie a essa, si trasformavano in patrocinatori delle arti e in consumatori di beni di lusso. La forte domanda americana e tedesca, ad ogni modo, spiega l’impennata delle quotazioni dei prezzi delle opere d’arte italiane, in un processo concorrenziale senza esclusione di colpi, l’affermarsi in Italia di figure di antiquari di grande talento, ma privi di qualsiasi scrupolo di carattere morale e, in ultima analisi, i tentativi affannosi e quasi sempre perdenti dello Stato italiano di bloccare le esportazioni.
 

La legislazione italiana

Una cosa va messa in chiaro: anche il neonato stato italiano aveva necessità di porre a fondamento della sua unità un linguaggio culturale comune che si identificava, di fatto, nel Rinascimento; ma, rispetto a Germania o Stati Uniti, c’era una grande differenza: abbondava di opere, ma non aveva i soldi per trattenerle. Se posso fare una critica, se fossi stato in Smalcerz avrei insistito di più su questo punto. Il bilancio del neonato stato italiano risentiva delle spese contingenti delle guerre (da non dimenticare la terza guerra d’indipendenza del 1866 e la conquista del Lazio e di Roma nel 1870), ma più in generale di uno stato di arretratezza economica che era riflesso della situazione preunitaria. Così, ad esempio, nel 1866, fu imposta la circolazione forzosa delle banconote, che come diretta conseguenza portò all’accaparramento della moneta metallica e alla svalutazione di quella cartacea; nel 1869, per fare cassa, entrava in vigore la famigerata tassa sul macinato che sarebbe stata abolita solo quindici anni dopo e che portò a rivolte in tutto il Paese. Le leggi eversive dei beni ecclesiastici, in questo contesto, assicuravano ulteriori incassi all'erario, da girare in parte ai Comuni. Difficile, insomma, opporre resistenza alla ‘potenza di fuoco’ economica altrui. Eppure, come detto prima, bisognò aspettare fino al 1909 per avere una legge unitaria in materia di contrasto all’esportazione. Perché?

Questo resta uno degli aspetti più dibattuti. Smalcerz, innanzi tutto, ricorda i tentativi che si susseguirono nel corso degli anni in Parlamento. Sin da metà degli anni ’60 era stata istituita presso il Ministero della Pubblica Istruzione (all’epoca competente in materia) una ‘Commissione per la legge di conservazione degli oggetti d’arte e d’antichità’. Nel 1872, anche in seguito alla vendita (del tutto legale) della Madonna Conestabile di Perugia all’Hermitage (un episodio che ebbe grande risalto sulla stampa e anche in sede parlamentare), il ministro Cesare Correnti presentò in Parlamento un progetto di legge per la conservazione e tutela che fu bocciato a grande maggioranza in Senato; altro tentativo ne 1875 da parte di Ruggiero Bonghi, successore di Correnti, e nuova bocciatura; nuova bozza presentata nel 1877 da Michele Coppino, nuovamente bocciata. L’anno successivo fu la volta di Francesco De Sanctis (come si vede i ministri cambiavano spesso) a presentare un ulteriore progetto, anch’esso respinto nel 1878. E potremmo andare avanti ancora con i tentativi nuovamente di Coppino (1886 e 1888), Pasquale Villari (1892), Ferdinando Martini (1892) e Nicolò Gallo (1898 e 1900), tutti, invariabilmente, bocciati. Il vero motivo del contendere stava nella contrapposizione fra la tutela assoluta della proprietà privata (lo Stato italiano nacque liberale) e il prevalere di un interesse generale che la limitasse per legge. Sin qui tutto è noto.

Raffaello, Madonna Conestabile, 1504 circa, San Pietroburgo, Museo dell'Hermitage
Fonte: https://www.hermitagemuseum.org/wps/portal/hermitage/digital-collection/01.+Paintings/29672/

Fra antico e moderno

Mi piacerebbe moltissimo dilungarmi sugli aspetti legati alla percezione dell’editto Pacca prima e dopo lo Stato unitario. In particolare ho l’impressione che l’autrice tenda a sovrastimare l’importanza di interventi come quelli di Cavalcaselle nel 1862-63 presso il Ministro della Pubblica Istruzione (bisognerà ricordare che le sue memorie erano soprattutto rivolte a farsi assumere al Ministero, e dunque non mi stupisco che non siano state tradotte in disegni di legge) o di Morelli nel suo unico intervento in Parlamento il 19 luglio 1862. L’impressione è che da parte di due figure che rappresentano oggi il simbolo della connoisseurship italiana vi sia stata una certa reticenza a parlare dell’editto Pacca, espressione della politica legislativa dello Stato Pontificio, da loro combattuto in prima persona negli anni precedenti.

Mi sembra però importante spendere ancora due parole sulla scelta di mantenere in vigore le legislazioni preesistenti perché ho idea che possa aiutare a spiegare alcuni comportamenti soprattutto da parte degli antiquari. La nascita dell’Italia ‘moderna’ e liberale coincide infatti con il ricorso, in termini di tutela, a una normativa ‘antica’, quella appunto del cardinal Pacca, emanato nel 1820, e di analoghi provvedimenti degli Stati di antico regime, limitativi della ‘sacralità’ della proprietà privata. Non ho alcun riscontro in merito, ma mi pare possibile che chi apparteneva al mondo del commercio dell’arte ne sia rimasto profondamente deluso. Incidentalmente, va ricordato, come Emiliani ha ampiamente messo in evidenza ai suoi tempi, che l’unico stato a non aver emanato disposizioni normative in merito era proprio il Regno di Sardegna, la cui macchina burocratica fu il nucleo fondante dell’Italia unita.

Assai probabile che molti operatori del mercato dell’arte abbiano trovato in tutto ciò una forma di giustificazione e di autoassoluzione per la pratica del contrabbando. Se in effetti si ‘sorvola’ sull’esistenza di un interesse generale che lo giustificava, l’editto Pacca (che prevedeva il pagamento di un dazio del 20% in caso di concessione del permesso all’esportazione) diventava solamente un modo per rimpolpare le casse dell’erario tramite l’applicazione di un sistema di dazi [4]. Come in tutte le situazioni (anche odierne) in cui si faceva ricorso a forme di evasione fiscale, il mancato rispetto della legge diventava, in sostanza, ‘obiezione di coscienza’ e magari permetteva a chi lo praticava di ricevere una tacita solidarietà.


Un’analisi complessiva

Quella di Smalcerz vuole essere un’analisi complessiva del fenomeno del contrabbando che, partendo dal dato d’archivio ne esamini le implicazioni politiche e psico-sociologiche. L’obiettivo, senza dubbio, è ambizioso; il risultato – mi permetto di dire – non sempre felicissimo. Non trovo, ad esempio, del tutto convincente affermazioni del tipo: “In alcune circostanze e in determinate condizioni, le opere d’arte divennero agenti sociali e questo libro sostiene che, nel diventarlo, si dimostrarono molto potenti” (p. 24). A questo proposito, recependo precedenti teorie, Smalcerz introduce il termine ‘attanti’ che sta a indicare forze che entrano in gioco in un processo sociale, indipendentemente dal loro essere persone fisiche od oggetti. Le opere d’arte sono quindi degli attanti. “L’aura dell’umana ingegnosità, dei talenti divini di artisti venerati come Raffaello o Michelangelo che emanava da queste opere d’arte era seduttiva e irresistibile, una costruzione mentale che, se possibile, era più cogente delle qualità visuali delle opere vere e proprie (p. 100). In sostanza, l’autrice si richiama, modificandone il significato, al dibattito controriformato sulla ‘potenza delle immagini’. Autori come Paleotti sostenevano la necessità che i quadri avessero determinati contenuti visuali perché il loro fine ultimo era quello di ‘docere, movere et delectare’; qui la potenza delle immagini non fa più riferimento (soltanto) alle qualità formali dell’opera, ma si dimostra irresistibile, tanto irresistibile da spingere i collezionisti a forzare la legge, perché incorpora le qualità divenute leggenda di chi le ha realizzate. Tutto questo meccanismo, senz’altro suggestivo, ha, a mio avviso, un unico punto debole: elimina il libero arbitrio e, in ultima analisi, la responsabilità individuale dei comportamenti; in sostanza, diventa un modello teorico che assolve, dimenticando che l’uomo ha sempre una scelta fra cui optare (e il caso di Eastlake, che si ferma quando non ha la possibilità di acquistare legalmente un’opera rispetto a Bode, che non lo fa, mi pare indicativo). A questo proposito mi permetto di divagare e di ricordare la storia di Filippo De Ferrari (1850-1917), figlio di Raffaele, duca di Galliera, uno degli uomini più ricchi d’Europa a metà Ottocento; Filippo fu uno dei più famosi collezionisti di francobolli della storia, eppure rimase coinvolto in vicende (accuratamente insabbiate) di cleptomania [5]. Ora, è fuori di dubbio che Filippo avesse qualche problema, ma si fatica a credere quale possa essere stata la ‘potenza dei francobolli’, in termini di attiva partecipazione a un’elaborazione del desiderio da parte del collezionista.

Altro aspetto francamente discutibile (o, se si preferisce, poco produttivo) è l’applicazione, nel capitolo finale, della teoria delle reti sociali al caso delle pratiche di contrabbando degli ultimi decenni dell’Ottocento. Ho avuto modo di leggere qualcosa di analogo (con l’applicazione della stessa, identica, terminologia) in Elisa Goudriaan, Florentine Patricians and Their Networks. Structures Behind the Cultural Success and the Political Representation of the Medici Court (1600-1660) e l’impressione, ancora una volta, è che ci si trovi di fronte all’inserimento di una sovrastruttura artificiale. Intendiamoci: tutti siamo perfettamente consapevoli dell’importanza di studiare gli ambienti e le conoscenze dei protagonisti della storia, ma applicare un modello precostituito rischia, a mio personalissimo avviso, di produrre stereotipi e di andare contro a un tipo di insegnamento haskelliano (si veda Mecenati e pittori) in cui la descrizione dei fenomeni testimonia innanzi tutto della loro unicità e dell’estrema cautela che occorre utilizzare per ricondurli in analisi più generali.

NOTE

[1] Le attività illecite di Bode non erano certo ignote, e furono anzi uno dei motivi per cui, dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, il Kunsthistorisches Institut di Firenze fu riconsegnato alla gestione tedesca con diversi anni di ritardo. Oltre alle collezioni librarie e fotografiche, che facevano assai gola agli storici dell’arte italiana, si voleva punire (e forse evitare che si ripetesse) un comportamento che aveva visto giovani studiosi tedeschi inviati da Bode tenere sotto controllo il territorio in cerca di occasioni di acquisto. Si veda la recensione a F. Caglioti, A. De Marchi, A. Nova (a cura di), I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento.

[2] La risposta più eclatante al ‘Great Exodus’ fu la nascita del National Art Collections Fund (oggi Art Fund) agli inizi del Novecento, iniziativa di privati che permise la costituzione di un fondo mirato all’acquisizione da privati per i musei inglesi di opere che altrimenti rischiavano di espatriare. Il primo esempio di quadro ‘salvato’ in questa maniera fu la famosissima Venere Rokeby di Diego Velázquez. Nell’intera operazione ebbe un ruolo fondamentale, quanto dimenticato, Lady Christiana Herringham.

[3] Su Eastlake si veda S. Avery-Quash, Julie Sheldon, Art for the Nation. The Eastlakes and the Victorian Art World e, di imminente pubblicazione, S. Avery-Quash, G. Mazzaferro, Michelangelo Gualandi (1793-1887): An Unofficial ‘Travelling Agent’ for Sir Charles Eastlake in «Journal of the History of Collections», con la corrispondenza appena riscoperta intercorsa fra il direttore della National Gallery e il mercante ed erudito bolognese Michelangelo Gualandi fra 1855 e 1865.

[4] Lo stesso si può dire probabilmente della scelta di sospendere l’abolizione dei fedecommessi per le principali gallerie private romane nel 1871, dopo la conquista di Roma, quando i medesimi erano già stati aboliti nel 1866 a livello nazionale.

[5] Sulla famiglia De Ferrari si veda AA.VV. I Duchi di Galliera. Alta finanza, arte e filantropia tra Genova e l’Europa nell’Ottocento, Genova, Marietti, 1991.

2 commenti:

  1. La spregiudicatezza dei Berenson è cosa nota, non solo nei confronti degli italiani: ad esempio il ritratto di Filippo IV di Velazquez sempre per Isabella Stewart Gardner, svenduto dall'anziano propietario di Kingston Lacy (oggi National Trust) perché Berenson gli fece credere che non era un originale...
    Detto questo, parlerei anche della straordinaria emorragia di beni archeologici, che la legge del 1909 non ha di certo fermato (proprio in quegli anni escono il tesoro di Boscoreale al Louvre, il carro etrusco di Monteleone di Spoleto al Met, la Dea di Taranto a Berlino...ma naturalmente gli scavi clandestini sono sempre più difficili da intercettare).
    E tristemente ricordo, come diceva Federico Zeri, che spesso le opere importanti sono uscite legalmente dall'Italia coll'avallo delle autorità...a parte il famoso caso della vendita Barberini del 1934, autorizzata da Regio Decreto, parlo (tutti fatti degli ultimi 5-10 anni!) del passaggio di confine tramite Ufficio Esportazione di: un Santo di Ribera di Collezione Imperiali a Roma, comprato dal Met, non riconosciuto dai funzionari (anche se pubblicato da Antonio Vannugli sul Burlington Magazine!); una Madonna di Annibale Carracci scoperta a Bologna da Daniele Benati, e poi venduta a Vienna; un ritratto di Camillo Borghese opera del barone Gerard, comprato dalla Frick Collection di New York (l'antiquario non dichiarò il nome del ritrattato ai funzionari, che però è scritto sul telaio!...). E, cosa che più mi ha stupito perche' opera conosciutissima, la fresca uscita della Suonatrice di chitarra di Simon Vouet dalla Collezione Patrizi di Roma, anch'essa per i Met (scoperta per caso da me consultando il sito del Museo americano). Permessi tanto stupefacenti che persino Keith Christiansen, prima di confermare l'acquisto del Ribera (come il Vouet era nella stessa collezione dal XVII secolo!) pare fosse volato a Roma per controllare la regolarità del Permesso di esportazione di persona...
    Che ne pensate? Tutto legale oggi, ma evidentemente molto strano. Grazie
    Gabriele, Urbino

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    1. Gabriele, grazie! Il discorso sarebbe lunghissimo e sicuramente esula dal contenuto del libro in questione, che si basa fondamentalmente sull'esame delle carte di Bardini e Bode. Tuttavia, non intendo eludere la domanda. Premesso che i casi di corruzione e/o elusione della legge esistono oggi come esistevano allora, cercherei di tenere presente il quadro complessivo. In questo senso, mi pare di poter dire che il 'mito' del Rinascimento è oggi assai meno avvertito di quanto non fosse a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Il mondo, inutile negarlo, non è più eurocentrico, o comunque lo è molto meno. In questo senso i nuovi ricchi, provenienti dal mondo arabo (anni '70) e oggi da quello cinese, sono poco interessati al collezionismo di opere d'arte rinascimentali, perché provengono da culture completamente differenti, se non addirittura da mondi in cui esistono pregiudiziali religiose nei confronti delle immagini. Non esistono più, insomma, o sono pochissimi, i miliardari che collezionano opere rinascimentali (se si fa eccezione per nomi come Leonardo, che però sono divenuti miti 'pop'). In questo senso, mi pare di poter dire che il fenomeno dell'esportazione irregolare di manufatti artistici sia, oggi, sicuramente inferiore all'apice raggiunto ai tempi di Berenson, vuoi per una legislazione non perfetta, ma più efficace, vuoi per un oggettivo calo della domanda.

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