English Version
Carlo Cesare Malvasia
Felsina pittrice
Lives of the Bolognese Painters
Volume 9
Life of Guido Reni
[Vita di Guido Reni]
Edizione critica, traduzione e saggio di Lorenzo Pericolo, note storiche di Lorenzo Pericolo con Elizabeth Cropper, Stefan Albl, Mattia Biffis ed Elise Ferone
Corpus delle illustrazioni stabilito da Lorenzo Pericolo, con Mattia Biffis ed Elise Ferone
Published for the Center for Advanced Study in the Visual Arts, National Gallery of Art, Washington,
2 tomi, Turnhout, Harvey Miller. An imprint of Brepols Publishers, 2019
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
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'Prima' e 'seconda' maniera
La distinzione fra ‘prima’ e
‘seconda’ maniera nella produzione artistica di Reni è un fatto storico che
emerge quasi subito dopo la morte dell’artista (1642) e, sostanzialmente, ha a
che fare col mercato: le opere che ricadevano nel primo gruppo erano,
tendenzialmente, quelle che spuntavano prezzi maggiori, tant’è che non era raro il caso di intermediari che proponevano
a potenziali acquirenti quadri dell’artista eseguiti in tarda età specificando
che, al contrario di quanto le date potevano lasciar credere, erano stati
eseguiti nella sua ‘prima’ maniera. Inutile pensare che Malvasia (che pure si
adegua alla distinzione) proceda a una chiara enunciazione delle differenze fra
l’una e l’altra fase stilistica; la sua non è – come si è detto – una monografia come
quelle a cui siamo oggi abituati. Inoltre, abbiamo visto che, parlando della
‘seconda’ maniera di Guido, l’erudito bolognese ha modo di esprimere giudizi
apparentemente fra loro inconciliabili, che oscillano fra elogio incondizionato
e la critica dura. Forse, la distinzione più chiara si ottiene quando Malvasia
ragiona al contrario e segnala, parlando delle opere di età più avanzata, che “ove, ancorché a parte a parte
ogni cosa sia tanto bella e si ben fatta, tutte assieme nondimeno non mostrano
quella grande invenzione, quella ferace composizione, que’ giudiziosi ripieghi
di sbattimento favorevoli e di trapassi di lume, quella proprietà nelle figure
ed espressioni di affetti che in quell’altre che ho detto, fatte di prima, e
tanto eccellenti, assai più praticò” (v. I, p. 114). Esistono opere che
devono essere considerate particolarmente rappresentative dell’uno e dell’altro
periodo. La cosa migliore è, probabilmente, quella di osservare quanto viene
scritto in proposito.
Con riferimento alla ‘prima’
maniera è senza dubbio il caso di citare la Pala dei Mendicanti (vedi foto sopra) e la Strage
degli Innocenti. La Pala dei Mendicanti, ovvero I quattro patroni
della città di Bologna con San Carlo Borromeo in presenza della Vergine
piangente sul Cristo morto, fu eseguita per la Chiesa dei Mendicanti (o Santa
Maria della Pietà) di Bologna fra 1613 e 1616 e si trova oggi nella pinacoteca
cittadina. Questa fu l’opera – stando a quanto scrisse Malvasia – che chiuse la
bocca ai rivali dell’artista “mostrando (…) ch’anch’egli, al pari d’ogn’altro, sapea alzarsi di
maniera e dar nel fiero, quando il delicato non fosse stato il suo scopo
principale, poiché [n.d.r. le figure] di aggiustata proporzione ancora, hanno ad ogni modo un
rilievo e danno in un tal terribile che atterriscono, oltre che l’espressioni e
gli affetti non possono bramarsi più proprie e significanti” (v. I, p.
64); ma già prima Malvasia aveva usato parole di lode incondizionata per la Strage
degli Innocenti, realizzata fra 1611 e 1612 per la cappella dei conti Berò
a S. Domenico, anch’essa oggi in Pinacoteca a Bologna: “E veramente le figure di questa
tavola anch’esse hanno una mossa e fanno uno strepito che pare vogliano balzar
fuori del quadro; a questo fracasso oppose per contraposto poi la posatura
quieta di donna che qui avanti, sedendo in terra con le mani incrocicchiate e
gli occhi rivolti al cielo, piagne sovra duo’ bambini svenati, mentre da quello
scendono angeletti graziosi con fasci di palme da dispensarsi a quegli
innocenti protomartiri, eseguito il tutto con una forza mista di tanta
tenerezza, con uno sprezzo moderato così dalla giustezza, con movenze regolate
in tali guisa dal decoro che nissuno mai giunse a quel segno” (pp.
54 e 56).
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Guido Reni, Strage degli innocenti, 1611-1612, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/403-strage-degli-innocenti |
I limiti della ‘seconda maniera’
sono evidenti, invece, nel cosiddetto Pallione del Voto, realizzato nel
1630 e oggi anch’esso nella pinacoteca bolognese: “perché nel Pallione sudetto del Voto io potrei, per così dire, opporre
che, come la proprietà e viva espressione affettuosa del San Francesco è cosa
divina, così non corrisponda quella del san Domenico, di una fisonomia e
carnagione così impropria, piena e colorita che non conviensi allo stato
austero di religioso, oltre il moto quieto e la statura macchinosa dello
stesso, che più tosto fu picciolo; la sua mano ritta poi venga ad uguagliarsi a
dirittura con la manca del san Petronio dall’opposta parte, e però tante
compagne nella stessa attitudine; la ritta parimente dello stesso san Petronio
si osservi anch’essa in una medesima veduta con quella del sant’Ignazio, poco
sopra di esso. Lascio il san Procolo in poco graziosa attitudine e tanto
simbolica con quella del san Floriano opposto; lascio che, poco degradate le
figure di colorito, vengano inante ugualmente tutte, né vi siano introdotte,
come dissi, scappate di lumi, opposizioni di sbattimenti e riflessi che, col
ben istaccare una dall’altra, favorischino, con mosse, ripieghi e contrasti
giudiziosi, tanto famigliari alla sempre in ciò inarrivabile scuola veneziana”
(V. I, pp. 114 e 116).
Le critiche mosse sono di vari tipi: da un lato le potremmo
definire legate al mancato rispetto della verisimiglianza e, quindi, lesive del
dettato controriformato (si pensi al cardinal Paleotti e al suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane): così, ad esempio, san Domenico è troppo rubicondo per
essere un austero religioso; le seconde riguardano le carenze nell’invenzione,
con la ripetizione di gesti che inficiano la varietas della scena: la
mano destra di san Domenico speculare a quella di San Petronio, la sinistra del
medesimo san Petronio in sostanza analoga a quella di Sant’Ignazio; ma, su un
piano stilistico, l’obiezione maggiore è probabilmente l’ultima, quella in cui
si osserva che i lumi, i colori e le ombre sono poco digradati, contribuendo
così a dar poco rilievo alle figure che risultano sostanzialmente appiattite su
uno stesso piano. E ancora, con riferimento al Trionfo di San Giobbe
(1636), di recente sfuggito miracolosamente all’incendio di Notre-Dame a Parigi,
si sostiene che le regole di chiarezza della controriforma sono ancora violate
dall’immagine dello stesso santo che si potrebbe facilmente confondere con una
di Cristo.
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Guido Reni, Trionfo di San Giobbe, 1636, Parigi, Notre Dame Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Trionfo_di_san_Giobbe_-_Reni.jpg |
Per giungere infine al Bacco e Arianna (1640) destinato alla
regina d’Inghilterra e tagliato in pezzi già nel 1650 (l’unico frammento
sicuramente identificato è l’Arianna sempre in Pinacoteca a Bologna),
vedendo il quale “io non seppi tanto biasimare il Bernini o il Cortona che
si fosse che lo chiamò il quadro della processione, per osservarsi molti di
que’ personaggi ivi espressi a coppia a coppia dar nella stessa o poco
dissimile attitudine” (v. I, p. 118). Complessivamente, pare che a essere
messe in discussione, con riferimento alla ‘seconda’ maniera, siano le capacità
di Guido come pittore storico (di ambientazione sacra o profana) (v. II, p. 68).
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Guido Reni, Arianna, Frammento dal Bacco e Arianna, 1640, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/345-arianna |
Fra Bologna e Roma, in cerca
di riferimenti
Uno degli aspetti più
sconcertanti della biografia è che, salvo eccezioni, Malvasia comincia a
parlare di ‘prima’ maniera con riferimento a quadri dipinti dal 1610 in poi (v.
II, p. 64). Sono assenti le opere della giovinezza. La questione della
formazione di Guido costituisce un problema critico a sé, che serve a collocare
Guido nell’alveo della tradizione della pittura bolognese e che, a sua volta,
contribuisce a chiarire meglio il ruolo di altri pittori, come i Carracci,
nell’ambito della stessa tradizione. In questo senso, la distinzione fra
‘prima’ e ‘seconda’ maniera mi sembra, personalmente, una sovrastruttura che in
qualche modo fa fronte alle esigenze del pubblico dell’epoca (che si aspetta
una distinzione di questo tipo), più che una reale dicotomia avvertita
dall’erudito bolognese. Gli inizi di Reni sono presso il manierista Denijs
Calvaert (1540-1619) e, successivamente, presso la scuola carraccesca. Guido si
abbevera, insomma, alla fonte del “dotto compendio” carraccesco, e, in particolare,
a quella di Ludovico. Stando a quanto scrive Malvasia, nel 1604, ossia ben
presto, e soprattutto alla vigilia della sua prima permanenza a Roma, Reni ha
pienamente raggiunto la padronanza dei mezzi artistici dei Carracci (una
circostanza in merito alla quale Annibale avrebbe allertato Ludovico,
esortandolo a non eccedere negli insegnamenti nei confronti di un alunno così
dotato) e ne dà prova nel suo San Benedetto che riceve doni dai contadini
facente parte del ciclo pittorico del chiostro di San Michele in Bosco
(purtroppo andato in rovina assai presto).
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Giacomo Maria Giovannini da Guido Reni, San Benedetto che riceve doni dai contadini, tratto da Carlo Cesare Malvasia, Il Claustro di San Michele in Bosco, Bologna, 1694 Fonte: https://aperto.pinacotecabologna.beniculturali.it/opere/pn-4642 |
Stando a Malvasia, il risultato fu di
tale impatto da far dire che per ‘morbidezza, venustà e grandezza’ l’allievo
avesse superato i maestri: “Finse che dalla parte sopra di un monte uscito da un antro il santo,
con una certa piacevolezza che punto non pregiudica alla gravità, riceva vari
doni offertigli da que’ rusticani abitatori vari di sesso, di età, di
carnagione, diversi di proporzione, d’attitudini e di vestiri. Sul gusto di
Rafaelle una graziosa giovane ricinta di sottilissimi veli, con canestrelli
d’uvova, sopra la cui spalla una compagna più vecchia, sul gusto del Correggio,
posta la mano e la testa ridente, guardano ambidue gli spettatori con tanta
vivacità e spirito che par che spirino. Sul gusto di Tiziano un pastorello che,
sonando un flauto con certe mani di viva e tenera carne, viene attentamente da
un altro, di non minor bellezza, ascoltato. Sul gusto di Annibale una donna con
un bambino lattante in collo ed un altro adulto che con la destra ella spinge
ad offerire una canestrella di pomi, da’ quali non sa il golosello staccar gli
occhi; e lasciandone tanti altri, sul principio un gran nudo intero, così
terribile e risentito nel tirare per forza un asinello restio che pareva che
Michelangelo l’avesse in tal forma contornato, perché più tenero poi e più
ricoperto di vera carne ei venisse dalla scuola di Lombardia” (v. I,
p. 36). Quando giunge a Roma, insomma (forse sull’onda della sua copia della Santa
Cecilia di Raffaello), Reni è un artista fatto e finito, il che permette a
Malvasia di sminuire l’importanza del periodo romano sotto un duplice punto di
vista: da un lato l’influsso di Raffaello e dello studio dell’antico (a cui si
fa riferimento di sfuggita e quasi in fondo alla biografia) e dall’altro il
periodo ‘caravaggesco’ della pittura reniana, che ha il suo apice nella Crocifissione
di San Pietro (1604-1605) per la chiesa di San Paolo alla Tre Fontane, oggi
alla Pinacoteca Vaticana.
Malvasia spiega la circostanza come un semplice
episodio, dovuto più che altro alle pressioni del Cavalier d’Arpino, mentore
romano di Guido e desideroso di far terra bruciata attorno a Michelangelo
Merisi. Le cose non stanno, ovviamente, in questa maniera e Pericolo, molto
acutamente, segnala come, così facendo, lo storico bolognese fallisca
nell’individuare almeno due aspetti compositivi legati alla pittura
caravaggesca che ebbero influenza duratura sulla pittura di Guido, ovvero la
tendenza a dipingere figure fortemente in primo piano rispetto alla cornice o,
in alternativa, la preferenza evidente per la realizzazione di mezze figure.
Ma per Malvasia, in realtà, Guido
Reni, tramite i Carracci, è l’anti-Caravaggio. Le circostanze che lo incoronano
tale sono, storicamente, poco attendibili. Un quadro romano del Merisi sarebbe
giunto a Bologna presso i Carracci (con Annibale ancora presente, quindi entro
il 1595). Vistolo, Ludovico “rimase stordito quando altro non seppe rintralciarne che un gran
contrasto di lumi e d’ombre, che un’ubbidienza troppo fedele al naturale, senza
decoro, con poca grazia, minor intelligenza” (v. I, pp. 26 e 28). A
questo punto, nella narrazione interviene, in prima persona, Annibale: “Saprei ben io, soggions’egli, un
altro modo per far gran colpo, anza da vincere e mortificare costui; a quel
colorito fiero vorrei contrapporne uno affatto tenero; prende egli un lume
serrato e cadente, ed io lo vorrei aperto e in faccia; cuopre quegli le
difficoltà dell’arte fra l’ombre della notte, ed io a un chiaro lume di mezzo
giorno vorrei scoprire i più dotti ed eruditi ricerchi; quanto ved’egli nella
natura, senza isfiorarne il buono e’l meglio, tanto mette giù, ed io vorrei
scegliere il più perfetto delle parti, un più aggiustato, dando alle figure
quella nobiltà ed armonia di che manca l’originale” (v. I, p. 28).
Quello pronunciato da Annibale, di fatto, è un manifesto artistico e forse
anche la più densa spiegazione della poetica di Guido. Il vero punto della
questione – sottolinea Pericolo – è perché Malvasia metta in bocca proprio ad
Annibale queste parole, quando il prototipo della perfezione nella sua opera è
Ludovico. Così facendo l’autore ottiene due obiettivi: fornisce una visione di
Annibale diversa da quella che lo vuole aderire alla scuola romana e nuovo
interprete di quella tradizione nella Galleria Farnese e, soprattutto, crea un
ponte fra la terza e la quarta età della pittura: Annibale teorizza ciò che
Guido porta a compimento, e alla base di tale teoria sta la creazione di una
maniera nuova, che va oltre la perfezione, e che è reazione al ‘naturalismo’ di
Caravaggio: la nuova maniera moderna.
Fra naturalismo, bellezza
ideale e pittura chimerica
Un punto deve essere chiaro:
quella che Annibale a parole, e Guido nelle sue opere, contrappongono a Caravaggio
è, per Malvasia, una pittura che imita la natura, tramite un processo che la
nobilita attingendo al mondo delle idee. Per Malvasia le invenzioni di Reni non
sono chimeriche, nemmeno nella ‘seconda’ maniera, come scrive, invece, Scannelli
nel suo Microcosmo della pittura, riportando un giudizio di Fabio Della
Cornia con riferimento a un dipinto non meglio identificato del bolognese.
Lorenzo Pericolo sottolinea tuttavia come Carlo Cesare, ancorando il suo Guido
al naturalismo, non riesca a condurre in porto con coerenza forse l’elemento
più importante della sua interpretazione critica del pittore, ovvero
l’esistenza di una poetica del sovrannaturale, che tende a slegarsi rispetto
alla pura imitazione del dato naturale, ma anche ad andare oltre la semplice
‘selezione’ delle parti migliori della natura stessa. Su questi elementi,
Malvasia ebbe modo di riflettere, come testimonia un appunto che si trova negli
Scritti originali e che non fu poi trascritto nella Felsina,
sempre in proposito alla presunta debolezza della seconda maniera: “Questa sua maniera ultima non incontrò, tenuta per molto
debile e fiacca, questa che più tosto era una delicatezza non più usata e
nuova, nuova dico, ma non però così lontana dal possibile, come quella che si
osserva essere nel naturale non ordinario, né sempre, ma nel più nobile e
perfetto, massime trattandosi di rappresentare idee divine e celesti, come di
Dio, della Vergine, santi, angeli e simili, in dimostrarci le quali, dovendosi
staccare dal naturale terreno, non sarebbe anzi stato inconveniente giocare
d’idea e dare nel soprannaturale; ché perciò vediamo le sue teste esser
comunemente dette di paradiso, come che habbino più del divino che dell’humano”
(v. I, p. 492). Tutto ciò non è frutto di semplice ispirazione, ma di studio e
di applicazione continua. Il Guido di Malvasia è un uomo che dà in
escandescenze quando gli si attribuiscono doti innate e naturali che gli permettono di
realizzare opere divine; la sua è un’arte che affonda le sue radici nello
studio della natura, dei fenomeni ottici e nella pratica ininterrotta.
Nel definirla, Malvasia usa
frequentemente termini come ‘divino’, ‘delicato’ e ‘sublime’. Pericolo richiama
in maniera impeccabile qual è l’humus letterario su cui trovano fondamento, nel
contesto dell’epoca, questi concetti, facendo riferimento agli scritti di
Francesco Patrizi (Della poetica, 1586), Matteo Peregrini (Delle
acutezze, 1639) ed Emanuele Tesauro (Il Cannocchiale aristotelico,
1654). E nell’arco di tutta la biografia, Carlo Cesare fa riferimento, sempre
implicitamente, a concetti distorsivi della rappresentazione mimetica della
natura, venendo a definire un modo di rendere il corpo in maniera sovranaturale
che è frutto di una fusione (e non di un’opposizione) di elementi: la
cosiddetta maniera divina. Alla bellezza dei torsi umani, alla delicatezza e
alla varietà delle teste, alla perfezione nei piedi e nelle mani si affianca e
si afferma negli anni uno schiarimento evidente della tavolozza che si
sostanzia tecnicamente nell’uso della biacca (la ‘maniera bianca’), a cui
Malvasia abbina non solo il desiderio dell’artista di raggiungere una maggiore
soavità dell’immagine, ma anche l’esigenza di renderla duratura nel tempo: “e certo che si osserva ogni dì
più avverarsi il suo presagio, che dove le pitture de gli altri perdono tanto
col tempo, le sue acquistariano, ingiallendosi quella biacca e pigliando una
certa patena che riduce il colore ad un vero e buon naturale, ove l’altre
annerendosi troppo, ed in quella affumicata oscurità uguagliandosi, non
lasciano conoscere e distinguere il più e’l meno, le mezze tente e i lumi
principali” (v. I, p. 184).
Malvasia – si è detto – non
giunge a rivendicare per Reni il fatto che la sua sia volutamente una pittura
‘chimerica’ (del resto aveva utilizzato il medesimo aggettivo per stigmatizzare
la mancata adesione alla natura del manierismo). Tuttavia espone una serie di
esempi in cui “il
trattamento del corpo da parte di Guido, sia esso giovane o vecchio, implica un
sottile snaturamento della natura; grazie al suo intervento, l’arte stempera la
natura nell’artificio. Le linee, i contorni, il rilievo, il chiaroscuro, il
colore, la pennellata: tutti gli elementi tecnici della rappresentazione
nascondono la natura nel momento in cui la rendono bella. Attraverso l’alchimia
della natura, la forza non si trasforma esattamente in delicatezza, né la
deformità nella grazia. Piuttosto, forza e delicatezza, deformità e leggiadria
si fondono insieme senza perdere la loro specificità. Ciò facendo, l’arte
allarga il suo dominio grazie all’addolcimento degli estremi e all’abbellimento
della carne in decadimento. Quando insiste su grazia, dolcezza, delicatezza e
nobiltà come componenti specifiche della perfezione di Guido, Malvasia celebra
anche il processo attraverso il quale l’artifizio dell’abbellimento della
natura non solo si manifesta in sé, ma mostra anche il suo agire come paradosso
in essere, sia esso la fusione degli opposti o l’abbellimento del mostruoso.
Sotto questo punto di vista, la “dolcezza” di Guido non è esattamente la
dolcezza dell’espressione, ma soprattutto la sistemazione della natura, anche
di quella grezza, attraverso l’abilità puramente visiva dell’artista”
(v. II, pp. 70-71).
Siamo chiaramente di fronte a una
situazione di stallo, ed è merito di Pericolo metterne in evidenza i contenuti:
Guido Reni, idolo di gioventù, dapprima è l’apice dello sviluppo storico
malvasiano assieme a Ludovico Carracci, poi diviene primus inter pares
della generazione successiva ai Carracci e manifesta una fase finale della sua
produzione artistica caratterizzata da progressiva decadenza e debolezza; ma
contemporaneamente lo scrittore continua a mettere in evidenza aspetti della
sua poetica che tradiscono la sua simpatia nei confronti dell’artista: “Nel corso del tempo Guido arrivò
a liberarsi dai limiti che gli poneva la natura dando vita a un corpo che
andava oltre di essa, superiore in snellezza e magnificato dalla sintesi degli
opposti. Anche se Malvasia esitò all’idea che Guido potesse aver semplicemente
abbandonato la natura, è cosa rilevante che, tutto sommato, abbia difeso altri
aspetti dello stile supernaturale di Guido intimamente correlati alla nozione
artistica di divinità” (v. II, p. 78). A questo proposito l’erudito
bolognese difende a spada tratta il modo di drappeggiare dell’artista. È
così, ad esempio, che di fronte alle critiche riguardanti l’affresco della Gloria
di San Domenico nell’omonima chiesa bolognese (1613-1615), critiche secondo
cui le pieghe dei drappeggi del santo, di Cristo e della Vergine erano
decisamente eccessive e innaturali, Malvasia replica che “cadendo questa supposta
grandezza in oggetti sovranaturali, potevano e dovevano bene scostarsi dalle
angustie terrene, e l’ampiezza di que’ panni in que’ personaggi celesti fare
appunto quell’istesso effetto che gran strasico di manto attorno a nobile
matrona, o gran coda alle cappe magne de’ cardinali, a’ quali esternamente
ancor esse aggiongono tanto di decoro e di maestà” (v. I, p. 62). E,
in proposito, Carlo Cesare richiama lo studio delle opere di Dürer,
di cui viene ripresa la ricchezza dei panni, abbandonando però la secchezza
della pittura del Nord-Europa.
Guido Reni, Gloria di San Domenico, 1613-1615, Bologna, Chiesa di San Domenico Fonte: https://www.wikiwand.com/it/Basilica_di_San_Domenico_(Bologna) |
Inutile dire che la lettura della
biografia di Reni pone al lettore decine di altri spunti di riflessione, che
non è possibile passare in rassegna per ragioni di spazio. C’è un argomento,
tuttavia, che non è possibile passare sotto silenzio e che sarà oggetto della
terza (e ultima) parte di questa recensione: si tratta dell’importanza del
denaro e della presenza del mercato all’interno delle pagine dedicate a Guido
nella Felsina.
Fine della Parte Seconda
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