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lunedì 20 aprile 2020

Carlo Cesare Malvasia. Felsina pittrice [Vita di Guido Reni]. Parte Seconda


English Version

Carlo Cesare Malvasia
Felsina pittrice
Lives of the Bolognese Painters


Volume 9
Life of Guido Reni 

[Vita di Guido Reni]


Guido Reni, Pala dei Mendicanti, 1613-1616, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/316-gesu-cristo-in-pieta-pianto-dalla-madonna-e-adorato-dai-santi-petronio-francesco-domenico-procolo-e-carlo-borromeo-br-pala-dei-mendicanti

Edizione critica, traduzione e saggio di Lorenzo Pericolo, note storiche di Lorenzo Pericolo con Elizabeth Cropper, Stefan Albl, Mattia Biffis ed Elise Ferone

Corpus delle illustrazioni stabilito da Lorenzo Pericolo, con Mattia Biffis ed Elise Ferone


Published for the Center for Advanced Study in the Visual Arts, National Gallery of Art, Washington,
2 tomi, Turnhout, Harvey Miller. An imprint of Brepols Publishers, 2019

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda


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'Prima' e 'seconda' maniera

La distinzione fra ‘prima’ e ‘seconda’ maniera nella produzione artistica di Reni è un fatto storico che emerge quasi subito dopo la morte dell’artista (1642) e, sostanzialmente, ha a che fare col mercato: le opere che ricadevano nel primo gruppo erano, tendenzialmente, quelle che spuntavano prezzi maggiori, tant’è che non era raro il caso di intermediari che proponevano a potenziali acquirenti quadri dell’artista eseguiti in tarda età specificando che, al contrario di quanto le date potevano lasciar credere, erano stati eseguiti nella sua ‘prima’ maniera. Inutile pensare che Malvasia (che pure si adegua alla distinzione) proceda a una chiara enunciazione delle differenze fra l’una e l’altra fase stilistica; la sua non è – come si è detto – una monografia come quelle a cui siamo oggi abituati. Inoltre, abbiamo visto che, parlando della ‘seconda’ maniera di Guido, l’erudito bolognese ha modo di esprimere giudizi apparentemente fra loro inconciliabili, che oscillano fra elogio incondizionato e la critica dura. Forse, la distinzione più chiara si ottiene quando Malvasia ragiona al contrario e segnala, parlando delle opere di età più avanzata, che “ove, ancorché a parte a parte ogni cosa sia tanto bella e si ben fatta, tutte assieme nondimeno non mostrano quella grande invenzione, quella ferace composizione, que’ giudiziosi ripieghi di sbattimento favorevoli e di trapassi di lume, quella proprietà nelle figure ed espressioni di affetti che in quell’altre che ho detto, fatte di prima, e tanto eccellenti, assai più praticò” (v. I, p. 114). Esistono opere che devono essere considerate particolarmente rappresentative dell’uno e dell’altro periodo. La cosa migliore è, probabilmente, quella di osservare quanto viene scritto in proposito.

Con riferimento alla ‘prima’ maniera è senza dubbio il caso di citare la Pala dei Mendicanti (vedi foto sopra) e la Strage degli Innocenti. La Pala dei Mendicanti, ovvero I quattro patroni della città di Bologna con San Carlo Borromeo in presenza della Vergine piangente sul Cristo morto, fu eseguita per la Chiesa dei Mendicanti (o Santa Maria della Pietà) di Bologna fra 1613 e 1616 e si trova oggi nella pinacoteca cittadina. Questa fu l’opera – stando a quanto scrisse Malvasia – che chiuse la bocca ai rivali dell’artista “mostrando (…) ch’anch’egli, al pari d’ogn’altro, sapea alzarsi di maniera e dar nel fiero, quando il delicato non fosse stato il suo scopo principale, poiché [n.d.r. le figure] di aggiustata proporzione ancora, hanno ad ogni modo un rilievo e danno in un tal terribile che atterriscono, oltre che l’espressioni e gli affetti non possono bramarsi più proprie e significanti” (v. I, p. 64); ma già prima Malvasia aveva usato parole di lode incondizionata per la Strage degli Innocenti, realizzata fra 1611 e 1612 per la cappella dei conti Berò a S. Domenico, anch’essa oggi in Pinacoteca a Bologna: “E veramente le figure di questa tavola anch’esse hanno una mossa e fanno uno strepito che pare vogliano balzar fuori del quadro; a questo fracasso oppose per contraposto poi la posatura quieta di donna che qui avanti, sedendo in terra con le mani incrocicchiate e gli occhi rivolti al cielo, piagne sovra duo’ bambini svenati, mentre da quello scendono angeletti graziosi con fasci di palme da dispensarsi a quegli innocenti protomartiri, eseguito il tutto con una forza mista di tanta tenerezza, con uno sprezzo moderato così dalla giustezza, con movenze regolate in tali guisa dal decoro che nissuno mai giunse a quel segno” (pp. 54 e 56).

Guido Reni, Strage degli innocenti, 1611-1612, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/403-strage-degli-innocenti

I limiti della ‘seconda maniera’ sono evidenti, invece, nel cosiddetto Pallione del Voto, realizzato nel 1630 e oggi anch’esso nella pinacoteca bolognese:  perché nel Pallione sudetto del Voto io potrei, per così dire, opporre che, come la proprietà e viva espressione affettuosa del San Francesco è cosa divina, così non corrisponda quella del san Domenico, di una fisonomia e carnagione così impropria, piena e colorita che non conviensi allo stato austero di religioso, oltre il moto quieto e la statura macchinosa dello stesso, che più tosto fu picciolo; la sua mano ritta poi venga ad uguagliarsi a dirittura con la manca del san Petronio dall’opposta parte, e però tante compagne nella stessa attitudine; la ritta parimente dello stesso san Petronio si osservi anch’essa in una medesima veduta con quella del sant’Ignazio, poco sopra di esso. Lascio il san Procolo in poco graziosa attitudine e tanto simbolica con quella del san Floriano opposto; lascio che, poco degradate le figure di colorito, vengano inante ugualmente tutte, né vi siano introdotte, come dissi, scappate di lumi, opposizioni di sbattimenti e riflessi che, col ben istaccare una dall’altra, favorischino, con mosse, ripieghi e contrasti giudiziosi, tanto famigliari alla sempre in ciò inarrivabile scuola veneziana” (V. I, pp. 114 e 116). 

Guido Reni, Pallione del Voto, 1630, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/312-madonna-col-bambino-in-gloria-e-i-santi-protettori-di-bologna-petronio-francesco-ignazio-francesco-saverio-procolo-e-floriano-br-pala-della-peste

Le critiche mosse sono di vari tipi: da un lato le potremmo definire legate al mancato rispetto della verisimiglianza e, quindi, lesive del dettato controriformato (si pensi al cardinal Paleotti e al suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane): così, ad esempio, san Domenico è troppo rubicondo per essere un austero religioso; le seconde riguardano le carenze nell’invenzione, con la ripetizione di gesti che inficiano la varietas della scena: la mano destra di san Domenico speculare a quella di San Petronio, la sinistra del medesimo san Petronio in sostanza analoga a quella di Sant’Ignazio; ma, su un piano stilistico, l’obiezione maggiore è probabilmente l’ultima, quella in cui si osserva che i lumi, i colori e le ombre sono poco digradati, contribuendo così a dar poco rilievo alle figure che risultano sostanzialmente appiattite su uno stesso piano. E ancora, con riferimento al Trionfo di San Giobbe (1636), di recente sfuggito miracolosamente all’incendio di Notre-Dame a Parigi, si sostiene che le regole di chiarezza della controriforma sono ancora violate dall’immagine dello stesso santo che si potrebbe facilmente confondere con una di Cristo. 

Guido Reni, Trionfo di San Giobbe, 1636, Parigi, Notre Dame
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Trionfo_di_san_Giobbe_-_Reni.jpg


Per giungere infine al Bacco e Arianna (1640) destinato alla regina d’Inghilterra e tagliato in pezzi già nel 1650 (l’unico frammento sicuramente identificato è l’Arianna sempre in Pinacoteca a Bologna), vedendo il quale “io non seppi tanto biasimare il Bernini o il Cortona che si fosse che lo chiamò il quadro della processione, per osservarsi molti di que’ personaggi ivi espressi a coppia a coppia dar nella stessa o poco dissimile attitudine” (v. I, p. 118). Complessivamente, pare che a essere messe in discussione, con riferimento alla ‘seconda’ maniera, siano le capacità di Guido come pittore storico (di ambientazione sacra o profana) (v. II, p. 68).

Guido Reni, Arianna, Frammento dal Bacco e Arianna, 1640, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/345-arianna


Fra Bologna e Roma, in cerca di riferimenti

Uno degli aspetti più sconcertanti della biografia è che, salvo eccezioni, Malvasia comincia a parlare di ‘prima’ maniera con riferimento a quadri dipinti dal 1610 in poi (v. II, p. 64). Sono assenti le opere della giovinezza. La questione della formazione di Guido costituisce un problema critico a sé, che serve a collocare Guido nell’alveo della tradizione della pittura bolognese e che, a sua volta, contribuisce a chiarire meglio il ruolo di altri pittori, come i Carracci, nell’ambito della stessa tradizione. In questo senso, la distinzione fra ‘prima’ e ‘seconda’ maniera mi sembra, personalmente, una sovrastruttura che in qualche modo fa fronte alle esigenze del pubblico dell’epoca (che si aspetta una distinzione di questo tipo), più che una reale dicotomia avvertita dall’erudito bolognese. Gli inizi di Reni sono presso il manierista Denijs Calvaert (1540-1619) e, successivamente, presso la scuola carraccesca. Guido si abbevera, insomma, alla fonte del “dotto compendio” carraccesco, e, in particolare, a quella di Ludovico. Stando a quanto scrive Malvasia, nel 1604, ossia ben presto, e soprattutto alla vigilia della sua prima permanenza a Roma, Reni ha pienamente raggiunto la padronanza dei mezzi artistici dei Carracci (una circostanza in merito alla quale Annibale avrebbe allertato Ludovico, esortandolo a non eccedere negli insegnamenti nei confronti di un alunno così dotato) e ne dà prova nel suo San Benedetto che riceve doni dai contadini facente parte del ciclo pittorico del chiostro di San Michele in Bosco (purtroppo andato in rovina assai presto). 

Giacomo Maria Giovannini da Guido Reni, San Benedetto che riceve doni dai contadini, tratto da Carlo Cesare Malvasia, Il Claustro di San Michele in Bosco, Bologna, 1694
Fonte: https://aperto.pinacotecabologna.beniculturali.it/opere/pn-4642

Stando a Malvasia, il risultato fu di tale impatto da far dire che per ‘morbidezza, venustà e grandezza’ l’allievo avesse superato i maestri: “Finse che dalla parte sopra di un monte uscito da un antro il santo, con una certa piacevolezza che punto non pregiudica alla gravità, riceva vari doni offertigli da que’ rusticani abitatori vari di sesso, di età, di carnagione, diversi di proporzione, d’attitudini e di vestiri. Sul gusto di Rafaelle una graziosa giovane ricinta di sottilissimi veli, con canestrelli d’uvova, sopra la cui spalla una compagna più vecchia, sul gusto del Correggio, posta la mano e la testa ridente, guardano ambidue gli spettatori con tanta vivacità e spirito che par che spirino. Sul gusto di Tiziano un pastorello che, sonando un flauto con certe mani di viva e tenera carne, viene attentamente da un altro, di non minor bellezza, ascoltato. Sul gusto di Annibale una donna con un bambino lattante in collo ed un altro adulto che con la destra ella spinge ad offerire una canestrella di pomi, da’ quali non sa il golosello staccar gli occhi; e lasciandone tanti altri, sul principio un gran nudo intero, così terribile e risentito nel tirare per forza un asinello restio che pareva che Michelangelo l’avesse in tal forma contornato, perché più tenero poi e più ricoperto di vera carne ei venisse dalla scuola di Lombardia” (v. I, p. 36). Quando giunge a Roma, insomma (forse sull’onda della sua copia della Santa Cecilia di Raffaello), Reni è un artista fatto e finito, il che permette a Malvasia di sminuire l’importanza del periodo romano sotto un duplice punto di vista: da un lato l’influsso di Raffaello e dello studio dell’antico (a cui si fa riferimento di sfuggita e quasi in fondo alla biografia) e dall’altro il periodo ‘caravaggesco’ della pittura reniana, che ha il suo apice nella Crocifissione di San Pietro (1604-1605) per la chiesa di San Paolo alla Tre Fontane, oggi alla Pinacoteca Vaticana. 

Guido Reni, Crocifissione di San Pietro, 1604-1605, Musei Vaticani
Fonte: http://www.museivaticani.va/content/museivaticani/it/collezioni/musei/la-pinacoteca/sala-xii---secolo-xvii/guido-reni--crocifissione-di-s--pietro.html

Malvasia spiega la circostanza come un semplice episodio, dovuto più che altro alle pressioni del Cavalier d’Arpino, mentore romano di Guido e desideroso di far terra bruciata attorno a Michelangelo Merisi. Le cose non stanno, ovviamente, in questa maniera e Pericolo, molto acutamente, segnala come, così facendo, lo storico bolognese fallisca nell’individuare almeno due aspetti compositivi legati alla pittura caravaggesca che ebbero influenza duratura sulla pittura di Guido, ovvero la tendenza a dipingere figure fortemente in primo piano rispetto alla cornice o, in alternativa, la preferenza evidente per la realizzazione di mezze figure.

Ma per Malvasia, in realtà, Guido Reni, tramite i Carracci, è l’anti-Caravaggio. Le circostanze che lo incoronano tale sono, storicamente, poco attendibili. Un quadro romano del Merisi sarebbe giunto a Bologna presso i Carracci (con Annibale ancora presente, quindi entro il 1595). Vistolo, Ludovico “rimase stordito quando altro non seppe rintralciarne che un gran contrasto di lumi e d’ombre, che un’ubbidienza troppo fedele al naturale, senza decoro, con poca grazia, minor intelligenza” (v. I, pp. 26 e 28). A questo punto, nella narrazione interviene, in prima persona, Annibale: “Saprei ben io, soggions’egli, un altro modo per far gran colpo, anza da vincere e mortificare costui; a quel colorito fiero vorrei contrapporne uno affatto tenero; prende egli un lume serrato e cadente, ed io lo vorrei aperto e in faccia; cuopre quegli le difficoltà dell’arte fra l’ombre della notte, ed io a un chiaro lume di mezzo giorno vorrei scoprire i più dotti ed eruditi ricerchi; quanto ved’egli nella natura, senza isfiorarne il buono e’l meglio, tanto mette giù, ed io vorrei scegliere il più perfetto delle parti, un più aggiustato, dando alle figure quella nobiltà ed armonia di che manca l’originale” (v. I, p. 28). Quello pronunciato da Annibale, di fatto, è un manifesto artistico e forse anche la più densa spiegazione della poetica di Guido. Il vero punto della questione – sottolinea Pericolo – è perché Malvasia metta in bocca proprio ad Annibale queste parole, quando il prototipo della perfezione nella sua opera è Ludovico. Così facendo l’autore ottiene due obiettivi: fornisce una visione di Annibale diversa da quella che lo vuole aderire alla scuola romana e nuovo interprete di quella tradizione nella Galleria Farnese e, soprattutto, crea un ponte fra la terza e la quarta età della pittura: Annibale teorizza ciò che Guido porta a compimento, e alla base di tale teoria sta la creazione di una maniera nuova, che va oltre la perfezione, e che è reazione al ‘naturalismo’ di Caravaggio: la nuova maniera moderna.


Fra naturalismo, bellezza ideale e pittura chimerica

Un punto deve essere chiaro: quella che Annibale a parole, e Guido nelle sue opere, contrappongono a Caravaggio è, per Malvasia, una pittura che imita la natura, tramite un processo che la nobilita attingendo al mondo delle idee. Per Malvasia le invenzioni di Reni non sono chimeriche, nemmeno nella ‘seconda’ maniera, come scrive, invece, Scannelli nel suo Microcosmo della pittura, riportando un giudizio di Fabio Della Cornia con riferimento a un dipinto non meglio identificato del bolognese. Lorenzo Pericolo sottolinea tuttavia come Carlo Cesare, ancorando il suo Guido al naturalismo, non riesca a condurre in porto con coerenza forse l’elemento più importante della sua interpretazione critica del pittore, ovvero l’esistenza di una poetica del sovrannaturale, che tende a slegarsi rispetto alla pura imitazione del dato naturale, ma anche ad andare oltre la semplice ‘selezione’ delle parti migliori della natura stessa. Su questi elementi, Malvasia ebbe modo di riflettere, come testimonia un appunto che si trova negli Scritti originali e che non fu poi trascritto nella Felsina, sempre in proposito alla presunta debolezza della seconda maniera:  Questa sua maniera ultima non incontrò, tenuta per molto debile e fiacca, questa che più tosto era una delicatezza non più usata e nuova, nuova dico, ma non però così lontana dal possibile, come quella che si osserva essere nel naturale non ordinario, né sempre, ma nel più nobile e perfetto, massime trattandosi di rappresentare idee divine e celesti, come di Dio, della Vergine, santi, angeli e simili, in dimostrarci le quali, dovendosi staccare dal naturale terreno, non sarebbe anzi stato inconveniente giocare d’idea e dare nel soprannaturale; ché perciò vediamo le sue teste esser comunemente dette di paradiso, come che habbino più del divino che dell’humano” (v. I, p. 492). Tutto ciò non è frutto di semplice ispirazione, ma di studio e di applicazione continua. Il Guido di Malvasia è un uomo che dà in escandescenze quando gli si attribuiscono doti innate e naturali che gli permettono di realizzare opere divine; la sua è un’arte che affonda le sue radici nello studio della natura, dei fenomeni ottici e nella pratica ininterrotta.

Nel definirla, Malvasia usa frequentemente termini come ‘divino’, ‘delicato’ e ‘sublime’. Pericolo richiama in maniera impeccabile qual è l’humus letterario su cui trovano fondamento, nel contesto dell’epoca, questi concetti, facendo riferimento agli scritti di Francesco Patrizi (Della poetica, 1586), Matteo Peregrini (Delle acutezze, 1639) ed Emanuele Tesauro (Il Cannocchiale aristotelico, 1654). E nell’arco di tutta la biografia, Carlo Cesare fa riferimento, sempre implicitamente, a concetti distorsivi della rappresentazione mimetica della natura, venendo a definire un modo di rendere il corpo in maniera sovranaturale che è frutto di una fusione (e non di un’opposizione) di elementi: la cosiddetta maniera divina. Alla bellezza dei torsi umani, alla delicatezza e alla varietà delle teste, alla perfezione nei piedi e nelle mani si affianca e si afferma negli anni uno schiarimento evidente della tavolozza che si sostanzia tecnicamente nell’uso della biacca (la ‘maniera bianca’), a cui Malvasia abbina non solo il desiderio dell’artista di raggiungere una maggiore soavità dell’immagine, ma anche l’esigenza di renderla duratura nel tempo: “e certo che si osserva ogni dì più avverarsi il suo presagio, che dove le pitture de gli altri perdono tanto col tempo, le sue acquistariano, ingiallendosi quella biacca e pigliando una certa patena che riduce il colore ad un vero e buon naturale, ove l’altre annerendosi troppo, ed in quella affumicata oscurità uguagliandosi, non lasciano conoscere e distinguere il più e’l meno, le mezze tente e i lumi principali” (v. I, p. 184).

Malvasia – si è detto – non giunge a rivendicare per Reni il fatto che la sua sia volutamente una pittura ‘chimerica’ (del resto aveva utilizzato il medesimo aggettivo per stigmatizzare la mancata adesione alla natura del manierismo). Tuttavia espone una serie di esempi in cui “il trattamento del corpo da parte di Guido, sia esso giovane o vecchio, implica un sottile snaturamento della natura; grazie al suo intervento, l’arte stempera la natura nell’artificio. Le linee, i contorni, il rilievo, il chiaroscuro, il colore, la pennellata: tutti gli elementi tecnici della rappresentazione nascondono la natura nel momento in cui la rendono bella. Attraverso l’alchimia della natura, la forza non si trasforma esattamente in delicatezza, né la deformità nella grazia. Piuttosto, forza e delicatezza, deformità e leggiadria si fondono insieme senza perdere la loro specificità. Ciò facendo, l’arte allarga il suo dominio grazie all’addolcimento degli estremi e all’abbellimento della carne in decadimento. Quando insiste su grazia, dolcezza, delicatezza e nobiltà come componenti specifiche della perfezione di Guido, Malvasia celebra anche il processo attraverso il quale l’artifizio dell’abbellimento della natura non solo si manifesta in sé, ma mostra anche il suo agire come paradosso in essere, sia esso la fusione degli opposti o l’abbellimento del mostruoso. Sotto questo punto di vista, la “dolcezza” di Guido non è esattamente la dolcezza dell’espressione, ma soprattutto la sistemazione della natura, anche di quella grezza, attraverso l’abilità puramente visiva dell’artista” (v. II, pp. 70-71).

Siamo chiaramente di fronte a una situazione di stallo, ed è merito di Pericolo metterne in evidenza i contenuti: Guido Reni, idolo di gioventù, dapprima è l’apice dello sviluppo storico malvasiano assieme a Ludovico Carracci, poi diviene primus inter pares della generazione successiva ai Carracci e manifesta una fase finale della sua produzione artistica caratterizzata da progressiva decadenza e debolezza; ma contemporaneamente lo scrittore continua a mettere in evidenza aspetti della sua poetica che tradiscono la sua simpatia nei confronti dell’artista: “Nel corso del tempo Guido arrivò a liberarsi dai limiti che gli poneva la natura dando vita a un corpo che andava oltre di essa, superiore in snellezza e magnificato dalla sintesi degli opposti. Anche se Malvasia esitò all’idea che Guido potesse aver semplicemente abbandonato la natura, è cosa rilevante che, tutto sommato, abbia difeso altri aspetti dello stile supernaturale di Guido intimamente correlati alla nozione artistica di divinità” (v. II, p. 78). A questo proposito l’erudito bolognese difende a spada tratta il modo di drappeggiare dell’artista. È così, ad esempio, che di fronte alle critiche riguardanti l’affresco della Gloria di San Domenico nell’omonima chiesa bolognese (1613-1615), critiche secondo cui le pieghe dei drappeggi del santo, di Cristo e della Vergine erano decisamente eccessive e innaturali, Malvasia replica che “cadendo questa supposta grandezza in oggetti sovranaturali, potevano e dovevano bene scostarsi dalle angustie terrene, e l’ampiezza di que’ panni in que’ personaggi celesti fare appunto quell’istesso effetto che gran strasico di manto attorno a nobile matrona, o gran coda alle cappe magne de’ cardinali, a’ quali esternamente ancor esse aggiongono tanto di decoro e di maestà (v. I, p. 62). E, in proposito, Carlo Cesare richiama lo studio delle opere di Dürer, di cui viene ripresa la ricchezza dei panni, abbandonando però la secchezza della pittura del Nord-Europa.

Guido Reni, Gloria di San Domenico, 1613-1615, Bologna, Chiesa di San Domenico
Fonte: https://www.wikiwand.com/it/Basilica_di_San_Domenico_(Bologna)

Inutile dire che la lettura della biografia di Reni pone al lettore decine di altri spunti di riflessione, che non è possibile passare in rassegna per ragioni di spazio. C’è un argomento, tuttavia, che non è possibile passare sotto silenzio e che sarà oggetto della terza (e ultima) parte di questa recensione: si tratta dell’importanza del denaro e della presenza del mercato all’interno delle pagine dedicate a Guido nella Felsina.


Fine della Parte Seconda
 

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