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lunedì 9 marzo 2020

Carlo Cesare Malvasia. Felsina pittrice [Vita di Guido Reni]. Parte Prima



Carlo Cesare Malvasia
Felsina pittrice
Lives of the Bolognese Painters


Volume 9
Life of Guido Reni 

[Vita di Guido Reni]



Edizione critica, traduzione e saggio di Lorenzo Pericolo, note storiche di Lorenzo Pericolo con Elizabeth Cropper, Stefan Albl, Mattia Biffis ed Elise Ferone

Corpus delle illustrazioni stabilito da Lorenzo Pericolo, con Mattia Biffis ed Elise Ferone


Published for the Center for Advanced Study in the Visual Arts, National Gallery of Art, Washington,
2 tomi, Turnhout, Harvey Miller. An imprint of Brepols Publishers, 2019

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima


Quarto volume (in due tomi) ad essere pubblicato nell’ambito dell’edizione critica della Felsina pittrice di Carlo Cesare Malvasia (dopo quelli dedicati alla pittura dei primitivi bolognesi, alla vita di Marcantonio Raimondi abbinata al catalogo critico delle stampe relative ad artisti bolognesi e alla figura di Domenichino). Il commento alle pagine che Carlo Cesare Malvasia scrisse su Guido Reni non delude certamente le attese; dimostra, anzi, con quale impegno i curatori dell’iniziativa abbiano intrapreso un lavoro immane, che, nel caso specifico, si concretizza in due tomi di oltre 1000 pagine complessive, in cui sono proposti testo originale italiano e traduzione inglese dell’opera; 683 note storiche al testo in questione (spesso dei veri e propri saggi, tanto da occupare 250 pagine a doppia colonna); la versione italiana degli Scritti originali giunti sino a noi e dedicati a Reni [1]; e, ancora (nel secondo tomo) un saggio critico, intitolato Beyond Perfection: Guido Reni and Malvasia’s Fourth Age of Painting, scritto da Lorenzo Pericolo, che in realtà non è un saggio, ma un libro, e nemmeno un libro qualsiasi, ma un capolavoro di erudizione e lucidità che analizza gli assunti teorici che stanno dietro alla stesura della biografia reniana; un apparato iconografico di oltre 350 illustrazioni quasi tutte a colori e a piena pagina, e, infine, la bibliografia e gli indici.

Naturalmente i curatori (in particolare Elizabeth Cropper nella sua prefazione) ci tengono a chiarire che la pubblicazione non è un catalogo completo o ragionato delle opere di Guido Reni, ma riguarda Guido e Malvasia. La prima cosa da dire è che lo scrittore bolognese si rivela senza dubbio la fonte più preziosa di informazioni in merito al pittore suo concittadino; c’è stato chi ha messo in discussione la reale importanza della fonte, probabilmente aspettandosi qualcosa che Malvasia, erudito della seconda metà del Seicento, non poteva certo dare, ovvero una monografia ‘moderna’, scandita in biografia, catalogo delle opere, recepimento critico e regesto documentario. Come abbiamo visto già in occasione delle recensioni precedenti, quella del nobile e canonico felsineo è, in perfetta sintonia coi suoi tempi, un’opera non lineare, ma che, anzi, spesso si sviluppa ciclicamente riprendendo e approfondendo temi già affrontati in precedenza, in cui i dettagli biografici si mescolano agli aneddoti, ai riferimenti a singole opere (spesso senza seguire un ordine cronologico), alla loro destinazione originaria e contemporanea, ai committenti, a documenti di natura archivistica, ma anche a testimonianze letterarie in prosa e i poesia: “La moderna classificazione di questi [n.d.r. elementi] come distinte categorie è più che il riflesso di una semplice necessità di chiarezza: segue certe tesi moderniste secondo le quali arte e letteratura dovrebbero essere considerate solamente in termini formali, senza un’interpretazione che derivi dalla biografia o dalla storia. Quest’approccio si è radicalmente modificato nel corso dell’ultimo mezzo secolo, ma continua a condizionare l’approccio generale con cui gli storici dell’arte e i critici si avvicinano ai testi della prima età moderna e alle loro relazioni con le opere d’arte” (v. I, p. XVI).

A ogni modo, per semplificare le cose e per ovviare al fatto che lo spazio dedicato all’analisi stilistica delle opere nelle note storiche di commento era forzatamente limitato, i curatori hanno deciso di comportarsi diversamente rispetto a occasioni precedenti, collocando le illustrazioni in ordine cronologico e non di citazione nel testo malvasiano. Potrebbe sembrare una sciocchezza, ma è appena il caso di ricordare che Lorenzo Pericolo, assieme a Mattia Biffis ed Elise Ferone, hanno dovuto stabilire un corpus di riferimento, prendendo posizione in merito all’originalità o meno delle opere (e sappiamo quanto sia stato importante il fenomeno delle copie con riferimento a Guido Reni) e avanzando ipotesi di datazione su basi stilistiche. Per rendere tali ipotesi più evidenti si è scelto di inserire nell’apparato delle illustrazioni anche un certo numero di opere di Guido Reni non citate espressamente da Malvasia, ma richiamate, ad esempio, nelle note storiche di commento. Si è cioè cercato di conciliare esigenze di linearità espositiva e completezza, mantenendo inalterato l’approccio all’opera, doverosamente rispettando il contesto in cui fu materialmente scritta.

Copia dall'autoritratto di Guido Reni, Roma, Galleria di Palazzo Barberini
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Guido_Reni_-_Self-portrait_2.jpg

Testo della bandella

La recensione a un’opera così ambiziosa e di tali dimensioni, se vuol essere rispettosa dei lettori, non può che essere di dimensioni particolarmente estese. Per questo motivo ho scelto di riportare qui di seguito il testo della bandella dei due volumi, che può essere utile a chi voglia semplicemente avere un’idea generale dei contenuti dei due tomi:

Celebrato da Malvasia come il creatore e il promotore della nuova maniera moderna. Guido Reni (1575-1642) introduce la quarta età della pittura, un periodo segnato da una rielaborazione originale e talvolta coraggiosa della nozione di perfezione artistica sviluppata dai Carracci e incarnata, più specificamente, dalla “sintesi degli stili” di Ludovico. Dopo la morte dei Carracci l’arte italiana sarebbe potuta andare incontro a un nuovo declino, ma grazie a Guido e Domenichino, a Francesco Albani e Guercino la pittura è riconsegnata a una piena fioritura e, come risultato ultimo, la lezione dei Carracci si diffonde e trionfa in tutt’Italia. Nel giudicare il ruolo di Guido nel promuovere quest’avanguardia artistica, Malvasia si trova, in una situazione di empasse teorica. Da un lato non sa resistere alla sua infatuazione per l’opera di Guido. Frutto di potenzialità affascinanti, i quadri di Guido costituiscono la rappresentazione più fastosa della modernità nella misura in cui riflettono la ricerca infinita verso un raffinamento estetico e una bellezza trascendentale sia nella rappresentazione del corpo umano sia nell’orchestrazione di luce, colore e impasto. D’altro canto, Malvasia si rivela esitante nell’abbracciare “l’ultima maniera” di Guido. Agli occhi di Malvasia, la tarda produzione di Guido è eccessivamente sofisticata e contemporaneamente contaminata da questa stessa sofisticatezza: la delicatezza tende alla fiacchezza, il trascendente si fonde con l’inutile astrazione e la sprezzatura vira verso un’apparente negligenza. Inoltre, per Malvasia, Guido è sia un modello di virtù sia la vittima viziosa del demone del gioco d’azzardo. Con acutezza, Malvasia loda il Guido in grado di fare fortuna, l’artista sicuro di sé in grado di riscrivere i meccanismi del mercato dell’arte, facendo impennare esponenzialmente il valore della pittura. E tuttavia, Malvasia non può fare a meno di condannare il Guido che dilapida denaro, il pittore indebitato che mette a rischio la sua reputazione e la qualità della sua sublime produzione. (…)”.

Guido Reni, Sansone, 1617-1619 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Reni_Samson_Bologna.jpeg


Un idolo da inquadrare storicamente

Malvasia (1616-1693) fece in tempo a conoscere Guido Reni (che morì nel 1642). La biografia malvasiana riporta diversi episodi legati a scambi di opinioni o aneddoti fra il giovane Carlo Cesare e l’ormai anziano Guido. Non sappiamo quando la reciproca frequentazione ebbe inizio, ma sicuramente s’interruppe all’inizio del 1639, quando il primo si trasferì a Roma per motivi di studio, facendo ritorno a Bologna solo nel 1647. Molto probabilmente il giovane fu introdotto nello studio del pittore dal più anziano cugino, il conte Cornelio Malvasia, che, in veste di agente di Francesco I d’Este, duca di Modena, aveva rapporti con il pittore sin dai primi anni Trenta. Una cosa è certa: per Carlo Cesare, che aveva ricevuto un’istruzione anche in ambito pittorico, l’anziano Guido doveva essere un idolo. A dire il vero, Reni era, all’epoca, l’idolo di tutta Bologna, l’artista le cui opere erano ricercate e lautamente pagate in tutta Europa, l’orgoglio (ma anche la gallina dalle uova d’oro) di tutta una città. Vi piace la musica? Fate finta che a un ventenne odierno sia data l’opportunità di frequentare da vicino Bono Vox e potrete forse capire quali dovessero essere i sentimenti di Malvasia in quegli anni giovanili.

La circostanza rese senza dubbio difficoltoso a Malvasia il dovere trattare di Guido nella sua Felsina (dagli Scritti originali risulta che l’erudito lavorò alla biografia almeno dal 1664). Si trattava, in fondo, di dover spogliare un idolo della sua aura mitica e di calarlo in un contesto storico di sviluppo del fare artistico. Se seguiamo le indicazioni contenute nel proemio della versione edita a stampa della Felsina, tutto sembra, in qualche modo, chiaro: raggiunta la “perfetta maniera” dai Carracci, sintesi e quintessenza di tutti gli stili, come era possibile andare oltre? L’eredità dei Carracci è raccolta da quattro loro epigoni, che, pur non raggiungendo la loro perfetta completezza furono comunque in grado di superarli e portare l’arte verso nuovi sviluppi in specifici aspetti: “nella nobiltà e celesti idee, come un Guido; ne gli eruditi ritrovi e nella espression de gli affetti. Come un Menichino; né scherzi poetici e nella grazia, come un Albani; nella forza del chiaroscuro e nel bel scomparto de’ colori come un Guercino, che tutti in un tempo stesso vivendo ed emulandosi, il nuovo titolo di gran madre anche della pittura alla gran madre de’ studi [n.d.r. ovvero a Bologna] accrebbero e confirmarono” (v. I, p. 14). Guido Reni, Domenichino, Albani e Guercino sono dunque i quattro Evangelisti (l’espressione è usata per primo da Francesco Scannelli nel Microcosmo della pittura del 1657) della quarta età (quella contemporanea) della pittura, definita anche come 'nuova maniera moderna'. Ma – aggiunge Malvasia citando proprio Scannelli - fra questi quattro, Reni fu quello che, alla scomparsa dei Carracci fu “prima guida” perché più anziano, perché (almeno in parte) li sopravanzò e, infine, perché fu maestro di Albani e Domenichino. Guido Reni, dunque, ha un ruolo privilegiato.

In realtà se si va a leggere una prima versione del proemio, che Malvasia aveva scritto in precedenza e che è ora conservata negli Scritti originali si può ben percepire l’evoluzione del pensiero dell’autore nel tentativo di collocare storicamente Guido Reni, ma più in generale, nella visione complessiva della scansione delle varie età della pittura.

Guido Reni, Ritratto della madre, 1617-1620 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons


Terza e quarta età della pittura

Lorenzo Pericolo delinea tale evoluzione con grandissima chiarezza. La prima versione del proemio propone una situazione in cui i Carracci e Guido sono collocati, sostanzialmente, sullo stesso piano: da un lato il vigore dei primi, dall’altra la delicatezza del secondo. La dicotomia è riproposta sostanzialmente negli stessi termini in un’annotazione alla vita dei Carracci scritta nel 1672: “Non vi è dubbio che, quando scrisse la prima versione del proemio, Malvasia non aveva ancora fatto emergere l’idea innovativa che i Carracci, sintetizzando gli stili canonici della pittura italiana, avessero sorpassato tutti i maestri precedenti e configurato un nuovo paradigma di perfezione pittorica” (v. II, p. 29). Pensava piuttosto che l’arte avesse raggiunto il suo apice con Guido Reni. Il predominio reniano è legato all’ottimismo di fondo con cui l’erudito guarda alla ‘novità’ (è appena evidente che Malvasia è un ‘modernista’ ed è percepibile l’influenza del pensiero di Alessandro Tassoni in merito – cfr. v. II, p. 208, n. 2). La 'novità' è, acriticamente, percepita come priva di alcuna relazione con la storia, qualcosa che “spunta dal nulla e non necessariamente comporta una mediazione o una riflessione sul passato” (v. I, p. 28). Pericolo chiarisce subito che la ’novità’ malvasiana non ha nulla a che vedere con la ‘moda’ e che la supremazia reniana si basa su solide fondamenta di delicatezza, regalità o nobiltà, ma resta il fatto che manca un collegamento storico credibile fra Reni e chi lo ha preceduto. La prima versione del proemio fu abbandonata e poi riutilizzata (ma con una rielaborazione complessiva che la depotenziò) per le vite di Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli. La seconda stabilisce, invece, nuovi criteri di giudizio, a partire dal fatto che la perfezione in pittura è raggiunta dal “dotto compendio” dei Carracci (in particolare di Ludovico) e che ora la ‘novità’ è sempre messa in relazione col passato, ovvero con quanto è stato fatto prima.

Credo sia molto importante sottolineare qui alcuni aspetti che non hanno direttamente a che fare con la biografia di Guido, quanto piuttosto con l’intera struttura dell’opera. Malvasia scrive una storia che si estende fino alla seconda metà del Seicento (di fatto, un secolo più in là delle Vite vasariane). Ponendo i Carracci a vertice della maniera moderna, espande quest’ultima fino alla fine del Cinquecento. Tutto ciò solleva una serie di problemi a cui non sempre Malvasia riesce a dare risposta (cfr. v. II, p. 50 ss.): “ In primo luogo, il dipanarsi della terza età della pittura è segnato da uno o due vertici? Il declino manierista fra l’epoca di Michelangelo e quella di Ludovico è il sottoprodotto di una perfezione pienamente raggiunta o di una ancora incompleta? […] L’insistenza di Malvasia sul “dotto compendio” come nocciolo del progetto e del portato artistico di Ludovico implica che i maestri canonici della pittura rinascimentale prefigurano, ma non incarnano la perfezione: essi costituiscono singoli aspetti di perfezione, l’assemblaggio e la ricomposizione dei quali sono interamente un risultato conseguito da Ludovico” (cfr. V. I, p. 51).

Guido Reni, Assunzione della Vergine, 1627, Santa Maria Assunta, Castelfranco Emilia
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Assunzione_di_Maria.jpg

Contraddizioni su Guido

Il ruolo di Guido nel passaggio fra primo e secondo proemio risulta essere ridimensionato in seguito all’assunzione dei Carracci come paradigma (anche se, come detto, Reni è un primus inter pares rispetto a Domenichino, Albani e Guercino). Va peraltro aggiunto che Malvasia non sempre si dimostra coerente e lascia emergere chiare contraddizioni nella valutazione dell’operato dell’artista bolognese, frutto probabilmente del permanere nel testo di parti scritte precedentemente alla rielaborazione del proemio. È il caso, ad esempio, della valutazione della “seconda maniera” di Guido, ovvero della sua produzione artistica negli anni finali della carriera (grosso modo, dal 1630 in poi). In proposito capita di leggere: “Affaticavasi anche, non mai saziandosi, (…) nell’ultime sue pitture, mostrandocele sempre più erudite, con nuovi ricerchi e mille galanterie, con certi lividetti ed azzurrini mescolati fra le mezze tente e fra le carnaggioni (…), quali si osservano nelle carni delicate, che rendono un certo diafano, ma più poi ed evidentemente qualora il lume cade sopra di esse, passando in particolare per finestre chiuse, massime di vetro, non essendo queste sue invenzioni chimeriche (…); ma nuove osservazioni, da gli antichi trasandate, che in altre professioni ancora vediamo tutto dì scaturire dalle più feconde e spiritose miniere de’ moderni ingegni, con invidia de’ passati.” (v. I, p. 182). Torna il tema della fiducia quasi cieca nella novità; e Guido si dimostra un artista che sperimenta, affaticandosi senza mai saziarsi, attorno alla resa ottica della natura. Malvasia prosegue sostenendo che, mentre la prima maniera di Guido è destinata a piacere ai curiosi (ovvero al pubblico degli amatori), la seconda è particolarmente cara ai dotti (e quindi ad artisti e, più in generale, agli intendenti). “E questa è quella che chiamano seconda maniera di Guido, che come perciò incognita anche e forestiera, non giongerà che col tempo ad addimesticarsi, a farsi ben conoscere e finalmente ad assodarsi nella comune affezione e concetto. Strillino pure a lor voglia i malevoli, che si conosceranno un giorno queste finezze per inimitabili (…). Piacerà però sempre a’ più dotti la seconda maniera quanto la prima a’ più curiosi. Fermerà quella, ma insegnerà questa, e se di languida e troppo delicata avrà nome presso la commune opinione, da gl’intendenti sarà esaltata per la più scientifica e sovrana” (ibidem). Appare evidente come, utilizzando queste parole, e sostenendo che la seconda maniera di Reni non è frutto di fantasia, ma tende a riprodurre scientificamente i fenomeni naturali, Malvasia collochi l’artista su un sentiero che, risalendo a ritroso, giunge fino a Leonardo. Vale qui la pena di ricordare che nel 1739 il pittore toscano Antonio Franchi sosteneva di possedere una copia manoscritta del Trattato della pittura di Leonardo appartenuta ai suoi tempi a Guido Reni. Quell’esemplare, se davvero appartenne a Guido Reni, non è stato individuato (va peraltro detto che l’artista bolognese non era uomo particolarmente colto). In ogni caso è chiaro che, in queste righe, Guido rappresenta ancora il culmine del fare artistico, come sostenuto nella prima parte del proemio, in nome della sua continua ricerca di novità.

Eppure Malvasia, alcune pagine prima (ma evidentemente in un periodo successivo) fornisce un’interpretazione della seconda maniera reniana praticamente antitetica affrontando il grosso problema del gioco d’azzardo, a cui il pittore bolognese era dedito patologicamente. Parlando delle opere realizzate per pagare i propri debiti Malvasia le definisce più frutto della necessità che del genio; e se è pur vero che in questo novero sembra ricondurre una produzione seriale, va detto che subito dopo aggiunge: “Dirò di più e con ogni ingenuità (accomodandomi in ciò alla comune opinione) che nel numero delle prime e più tremende né anche si deggiano riporre quell’altre che chiamano di seconda maniera, ancorché per altro più di quelle prime scientifiche, più gentili e ricerche, onde ebbero ed hanno tanto applauso” (v. I, p. 114). Siamo di fronte a una vera e propria inversione a U, di fronte alla quale Pericolo si chiede come mai Malvasia abbia deciso di conservare nel testo brani divenuti evidentemente obsoleti in seguito alla maturazione di una visione della storia dell’arte evidentemente mutata nel corso degli anni. Non esiste una risposta precisa, ma l’autore fa comunque presente che sostenere fino alle estreme conseguenze il sostanziale fallimento dell’esperienza artistica di Guido avrebbe svuotato di senso anche la principale novità della Felsina, ovvero l’inserimento di una quarta era artistica successiva alla maniera moderna, che sarebbe divenuta semplicemente la stanca prosecuzione della gloriosa terza età della pittura.

Guido Reni, Rapimento di Europa, 1640, Londra, National Gallery
Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons

Ma è tempo di cercare di definire meglio i contorni della prima e della seconda maniera di Guido. Lo faremo nella seconda parte della recensione.


Fine della Parte Prima
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NOTE

[1] Come noto, la biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna conserva una parte dei materiali (chiamati convenzionalmente Scritti originali) che Malvasia utilizzò e scrisse in vista della pubblicazione a stampa della Felsina. Nel caso specifico le pagine che trattano di Guido Reni vanno dalla 87r alla 134v, ma solo dieci (da 124r a 134v) presentano note e documenti che testimoniano la raccolta dei dati, mentre quelle precedenti contengono una prima versione, non particolarmente diversa da quella a stampa, della biografia. È scontato che in realtà i materiali di lavoro dovevano essere molto più ampi (cfr. vol. II pp. 9 e seguenti) e dovevano comprendere anche molte lettere da cui Carlo Cesare selezionò estratti.

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