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Notizie di pittura raccolte dal padre Resta.
Il carteggio con Giuseppe Ghezzi e altri corrispondenti
A cura di Maria Rosa Pizzoni
Roma, UniversItalia, 2018
La Biblioteca dell’Accademia Nazionale e dei Lincei in Roma conserva un codice, segnato 1403 (31 B 9) e intitolato Notizie di pittura raccolte dal padre Resta, che in parte conosciamo sin dalla seconda metà del Settecento. Attingendo a tale codice, infatti, Giovanni Gaetano Bottari presentò nel terzo volume della sua Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura (1759) diverse lettere di padre Sebastiano Resta (1635-1714) indirizzate per lo più a Giuseppe Ghezzi (1634-1721), pittore di origini marchigiane, ben presto trasferitosi a Roma dove godette di una certa fortuna, non solo come artista, ma soprattutto come segretario perpetuo dell’Accademia di San Luca dal 1674 in poi. Quella di Bottari fu, in realtà, una trascrizione parziale; solo oggi si giunge ad averne una pressoché integrale del manoscritto [1], per cura di Maria Rosa Pizzoni [2] che si avvale del gruppo di lavoro facente capo all’Università Romana di Tor Vergata di cui ho già avuto modo di parlare in altra occasione per introdurre alcuni dei temi fondamentali contenuti nel manoscritto. Vale la pena, a questo proposito, elencare autori e titoli dei saggi di accompagnamento alla trascrizione del codice:
- Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Giuseppe Ghezzi e Sebastiano Resta: una vera amicizia;
- Maria Rosa Pizzoni, Il carteggio tra Sebastiano Resta e Giuseppe Ghezzi: uno sguardo sull’arte nella Roma moderna;
- Michela Corso, «Il Perito dell’arte e il Dilettante ingegnoso». Disegni e dipinti quattro e cinquecenteschi nel carteggio tra Sebastiano Resta e Giuseppe Ghezzi;
- Francesco Grisolia, Su Leonardo e i cartoni della Sant’Anna tra Resta, Ghezzi, Bellori e Bottari;
- Ebe Antetomaso, «Notizie di pittura raccolte dal padre Resta»: appunti per una storia di libri, biblioteche e lettori.
Il titolo del manoscritto non è originale di Sebastiano Resta e non indica, quindi, che vi siano contenuti materiali o documenti raccolti dall’erudito oratoriano e lì conservati a futura memoria. Gran parte di tali documenti sono invece costituiti da missive indirizzate da Resta a Ghezzi (una sola lettera ha come mittente Ghezzi e destinatario Resta). Ve ne sono poi altre che Resta ricevette da terzi (Giuseppe Magnavacca da Bologna, Giuseppe Bigellini da Correggio, Giovan Francesco Morelli da Perugia) e che evidentemente inoltrò al suo amico segretario dell’Accademia. Il codice è, insomma, una raccolta di documenti provenienti da Resta, ma appartenuti a Giuseppe Ghezzi e da quest’ultimo conservati. Nel suo saggio Ebe Antetomaso (che lavora alla Biblioteca corsiniana) avanza l’ipotesi (che mi sembra assolutamente condivisibile) che il codice facesse parte di libri e manoscritti acquisiti attorno al 1757 da Monsignor Bottari per conto della Corsiniana dagli eredi di Pier Leone Ghezzi, figlio di Giuseppe e anch’egli artista, morto nel 1755. Al contrario dei libri, immediatamente affluiti alla biblioteca, il codice sarebbe rimasto a lungo sul tavolo di lavoro di Bottari che se ne sarebbe servito, appunto, per trarne lettere da inserire nel volume terzo delle sue Lettere.
Le carte contenute nel codice non sono ordinate. In molti casi, peraltro, sono prive di data; non si tratta, in senso stretto, di sole lettere, ma, più spesso, di biglietti in cui i due si scambiavano informazioni o richieste. La presenza di comunicazioni di questo tipo sono peraltro logiche: Resta e Ghezzi abitavano entrambi a Roma, per cui il carteggio è di contenuti frammentari, lasciando presagire un continuo flusso di brevi messaggi. Se un ordine vi fu, insomma (ma è lecito dubitarne), andò perso in sede di rilegatura. È precisa scelta della curatrice (del tutto condivisibile) presentare i testi nell’ordine con cui si trovano impaginati all’interno del codice. Quando possibile, nelle note a commento, sono posti gli estremi cronologici delle missive, o, più spesso, un intervallo di mesi o anni al cui interno è lecito supporre che siano state scritte, in base a evidenze interne del loro contenuto. Resta il fatto che la consultazione del carteggio si presenta, per tutti questi motivi, estremamente accidentata ed è, per fortuna, molto facilitata non solo dalle note di commento, ma soprattutto dai saggi iniziali, che costituiscono una sorta di percorso tematico all’interno dell’epistolario.
Ghezzi, Resta e il
collezionismo
Quella fra Resta e Ghezzi fu
un’autentica amicizia e il relativo carteggio ne è uno spaccato fedele; Ghezzi
fu artista di livello non elevatissimo, ma non è certo un caso che le sue opere
più note si trovino a Santa Maria della Vallicella (la ‘Chiesa Nuova’), la chiesa degli Oratoriani a Roma; e fu l’oratoriano padre Resta, che lì
viveva, a sponsorizzare il coinvolgimento suo (e di altri suoi amici) nel
programma iconografico della navata dell’edificio religioso in occasione del
Giubileo del 1700.
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Interno della chiesa di Santa Maria in Vallicella, Roma Fonte: Livioandronico2013 tramite Wikimedia Commons |
Ma, al di là di
quest’episodio, è evidente che i rapporti fra i due erano assai più frequenti e
riguardavano il loro coinvolgimento nel mondo dell’erudizione, del mercato, del
collezionismo di disegni (per cui Resta è famosissimo), di stampe, libri e quadri.
Fra disegni e manoscritti appartenuti a Ghezzi il più famoso è, senza ombra di
dubbio, il codice Leicester di Leonardo (per meglio dire, il codice intitolato Della
natura, peso e moto delle Acque). Non bisogna credere, tuttavia, che il
collezionismo del pittore di origini marchigiane sia stato esclusivamente
mirato e di livello eccelso; è noto che, approfittando anche del suo ruolo di
segretario dell’Accademia di San Luca, Ghezzi si rivolgeva spesso agli eredi
dei colleghi defunti offrendosi di rilevare i ‘fondi di bottega’, per poi
operare una cernita fra gli oggetti da trattenere e quelli da rivendere, magari
nel corso dell’annuale esposizione della mostra di dipinti della chiesa dei
marchigiani in Roma, San Salvatore in Lauro, esposizione di cui fu lo storico
organizzatore. Non molto diverso fu il comportamento di Resta, che conosciamo
per la sua titanica operazione di allestimento di album di disegni poi
rivenduti a vari acquirenti (gli album sono oggi quasi tutti dispersi, ma le
postille della maggior parte di essi sono trascritte nel ms. Lansdowne 802,
conservato presso la British Library a Londra). Va peraltro detto che alcune
scelte del padre filippino si spiegano anche con motivi di prestigio e
autorappresentazione: Pizzoni fa notare, ad esempio, che “l’acquisizione
precoce di alcuni fogli rubensiani doveva rappresentare ai suoi [n.d.r. di
Resta] occhi un segno di prestigiosa continuità tra le raccolte di uno degli
artisti-collezionisti più significativi del Seicento e la propria ancora in
formazione” (p. 61). Non c’è da
stupirsi, a ogni modo, se la maggior parte della corrispondenza comprenda
informazioni di Resta sullo stato di avanzamento della collazione dei disegni
per gli album, della loro rilegatura e della loro commercializzazione
(particolarmente sfortunata, perché buona parte di essi fu venduta al vescovo
di Arezzo Giovanni Matteo Marchetti, che morì nel 1704 senza pagarli; da qui la
restituzione di parte dei medesimi, ma soprattutto le continue necessità di
denaro del Resta che utilizzava i suoi introiti anche per la gestione di opere
pie da lui patrocinate); allo stesso modo sono frequenti le segnalazioni di
nuove opportunità di acquisto o vendita, gli scambi di opinioni e anche (perché
no?) i riferimenti a eventuali strategie commerciali certamente prive di
scrupoli, con l’assegnazione di attribuzioni molto ottimistiche a quadri,
stampe, disegni.
Storiografia, mercato,
attribuzionismo
Ciò che tuttavia appare
chiaramente dalla lettura delle carte è che l’attività collezionistica di Resta
(e questo è un fatto che Ghezzi gli riconosce implicitamente) non ha scopo
meramente commerciale, ma sottende anche una visione storiografica in cui i
documenti, i libri e (soprattutto) i disegni sono fonti indispensabili per la
spiegazione del dipanarsi del fare artistico. Scrive Pizzoni: “Le importanti
carte d’archivio reperite, con riferimenti cronologici certi, rappresentavano
per lui punti fermi da combinare – e a volte incastrare forzatamente – ad altri
tasselli, all’analisi stilistica delle opere, allo studio delle fonti scritte e
alle notizie orali raccolte personalmente, e non ultimo a teorie, ipotesi e
congetture con cui egli cercava di operare una convincente ricostruzione dei
diversi episodi storico artistici che via via entravano nel suo raggio di
interessi” (p. 71). È ben noto che il prototipo dell’artista, per Resta, è
costituito da Correggio; e proprio nel caso di Correggio il nostro dimostra una
particolare attenzione nel cercare notizie d’archivio, inoltrando richieste
anche ad altri eruditi a lui noti. Fra le missive compare, ad esempio, il testo
del contratto relativo alla commissione della Notte (oggi a Dresda),
trascritto dal bolognese Giuseppe Magnavacca a favore di Resta, e poi inoltrato
a Ghezzi, proprietario, nel 1713, di un non meglio identificabile ‘abbozzo’ del
quadro. L’occasione è utile per permettere all’oratoriano di sostenere la tesi
secondo cui Correggio progettava le sue opere sia con disegni sia con dipinti
preparatori (di questi ultimi, oggi, non abbiamo traccia); e Resta motiva tale
suggestione parlando di un irrefrenabile gusto del colore dell’artista, che lo
spingeva ad abbandonare il disegno a favore del pennello anche in via
preliminare all’esecuzione dell’opera vera e propria.
‘Fortuna’ e ‘sfortuna’ di
padre Resta
Come già detto in altre
occasioni, la figura di padre Resta è stata spesso oggetto di pesanti
valutazioni sin dalla seconda metà del Settecento. Resta fu considerato il
modello dell’erudito ‘furbo’ che riconosceva capolavori laddove si era di
fronte a opere di basso livello, col solo scopo di venderli a prezzi elevati;
solo oggi si tende a valutare le cose operando almeno una parziale
rivalutazione del suo operato, innanzi tutto contestualizzandolo. Da questo
punto di vista pare assodato che Resta godesse ai suoi tempi di buona fama. Scrive
Pizzoni. “Da più voci pervengono attestazioni che arricchiscono la fama del
filippino come conoscitore ed erudito riconosciutagli dai contemporanei,
sconfinante dagli stretti ambiti del mercato artistico e del collezionismo per
i quali Resta era maggiormente rinomato fino a qualche decennio fa. La
condivisione di progetti artistici e letterari da parte di Ghezzi, il
riconoscimento che ne fece Maratti quale affidabile esperto di Correggio a cui
rivolgersi per perizie di opere attribuite all’artista, fino ad arrivare alle
informazioni sulle vicende del cartone di Leonardo da lui fornite a Bellori ne
sono gli esempi più eclatanti” (p. 57). Sulla questione del cartone della
Sant’Anna, di cui Resta riteneva di possedere la seconda di tre versioni
realizzate da Leonardo (entrata in suo possesso fra 1690 e 1696) si sofferma
Francesco Grisolia, al cui saggio rimando. Bottari stampò nel terzo tomo della
sua Raccolta la lettera relativa, contenuta nelle Notizie di pittura;
in realtà le comunicazioni sull’argomento, nel codice, sono due, quasi
identiche, e non sono lettere in senso stretto, ma appunto biglietti del tipo di quelli illustrati in precedenza. Nel primo caso il destinatario è anonimo; nel secondo
è Bellori. Non sappiamo come mai i due testi fossero in possesso di Ghezzi; è
ipotizzabile che siano stati consegnati a quest’ultimo da Resta dopo aver
assolto alla loro funzione. Ora, è assolutamente vero che, parlando di Leonardo
in questa occasione, il filippino commette errori grossolani; sostiene, ad
esempio, che Leonardo morì nel 1542 (ovvero venticinque anni dopo la reale data
del decesso), rifacendosi a un’affermazione di Giovan Battista Armenini o che
il vinciano non aveva mai dipinto il quadro vero e proprio, limitandosi ai
cartoni preparatori. Tutti questi sono stati argomenti utilizzati per
screditare Resta come un ciarlatano. Ma è altrettanto vero che il semplice
fatto che il destinatario di uno dei due biglietti sia Bellori certifica che
era ritenuto un interlocutore credibile e affidabile.
Una cultura visiva
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Carlo Maratti, Caricatura di Padre Sebastiano Resta, Chatsworth, Duke of Devonshire Collection Fonte: https://www.padrerestaproject.eu/ |
Un dato emerge chiaramente dal
carteggio, ossia che Resta, con tutti i suoi errori e le sue forzature, è
comunque forte di una cultura visiva esercitata sui quadri, i disegni e le
stampe. Come tale, non può essere liquidato in due parole. Mi limiterò a due
esempi. Il primo è relativo a un quadretto leonardesco (non meglio
identificato) che è visibile in ambienti antiquari romani attorno al 1695 (cfr.
lettera 11). Di quel quadro, che Maratti (stando alla lettera) ha detto essere
di Leonardo o “d’un suo discepolo miglior di lui”, Resta non crede che l’autore
sia proprio il vinciano: “la tinta è di Cesare da Sesto, e ‘l contorno
leonardesco perché suo discepolo. L’aria della Madonna mai mai [sic] fu
in mente di Leonardo, se non è che la vedesse espressa dalla mente di Cesare”
(p. 155). Maria Corso fa notare come la lettera sia un’occasione “per far
sfoggio della sua dimestichezza con la scuola lombarda tra Quattro e
Cinquecento” (p. 84), ma tale dimestichezza non è solo espressa con
genealogie o dati d’archivio, quanto con un franco giudizio di carattere
stilistico: quel quadro è di Cesare da Sesto, è leonardesco perché Cesare era
discepolo di Leonardo (e lavorò a Roma), e perché l’aria della Madonna non è
quella tipica di Leonardo, ma, appunto, di Cesare: “il quadretto che gira
superbo è, dolce è, di Leonardo non è; di Cesare da Sesto sì” (p. 156). Da
notare, peraltro, che in questa circostanza, Resta rifugge dall’attribuzione
più prestigiosa a favore di una meno nota, ma che contribuisce a delineare i
contorni di una scuola.
Anche nel secondo caso l’erudito
originario di Milano si confronta con la decifrazione di un quadro, questa
volta posseduto da Ghezzi. Si tratta molto probabilmente (l’identificazione di
Michela Corso mi sembra inoppugnabile) de La prova della vestale Tuccia,
oggi in collezione privata e attribuito (non unanimemente) a Jacopo Ripanda. In
una serie di lettere (26, 33 e 34) Resta giunge ad assegnarla al perugino
Benedetto Bonfigli, in sostanza coetaneo di Perugino. Sbaglia, e subito si
potrebbe notare che arriva all’attribuzione ammettendo candidamente di non aver
mai visto un quadro di Bonfigli, ma solo suoi disegni; tuttavia il suo metodo è
quello di un avvicinamento progressivo all’autografia tramite considerazioni da
proto-conoscitore. Nella prima lettera – è ancora Michela Corso a spiegare -
Resta scrive: “«Il Promontorio di quel masso di paese indica Benedetto
Buonfiglio perugino, quale fioriva un tantino prima di Pietro Perugino, ma le
figure mostrano poter essere d’altro autore, come del Pinturicchio o Cosmo
Rosselli, e forsi Pietro Perugino istesso, in soma di quei tempi». Al fine di
precisare la propria impressione, Resta fa appello alla sua memoria visiva,
considerando per confronto con l’opera che Ghezzi gli aveva inviato alcuni
disegni in passato a lui appartenuti: «La figura in schiena da un disegno che
hebbi, mi pare di Andrea del Verrocchio maestro di Leonardo, ma per essere di
lui mi pare essere troppo bella e tenera»” (p. 91). Nelle lettere
successive l’oratoriano riesce a decifrare il soggetto e si orienta sempre più
verso l’ambito umbro, tra Perugino, Pinturicchio e Bonfigli. “A far pendere
l’ago della bilancia più risolutamente verso Perugia è un confronto con le
fisionomie di Perugino «che davano nelle medesime idee» anche se «Pietro sapeva
di più, ed era di contorni più virili ne’ membri humani» […] «Quel
soldatino addietro che tiene la sinistra su la spada et anco la faccia
dell’altro hanno fisionomia di Pietro», mentre «il modo del toccare le foglie o
fondi così gagliarde e grandi avanti quanto l’indietro sono più del
Pinturicchio che d’altri due nominati»”. Di Bonfigli, poi, Resta cita un
disegno di una Pietà “«con molte figure che mi ricordano questo stile, e ci
vedevo un’alba de’ profili raffaeleschi non ancora comparso Raffaele al nostro
orizzonte […] L’inventione poi del monte era tutta totalmente questa,
siccome questi contorni di coscie e gambe erano di questa proportione esile»”
(p. 94).
Si può dire tutto di Resta e dei suoi
tanti errori, in buona o cattiva fede, ma è fuori di dubbio che non dovevano
essere tantissimi, sul finire del Seicento, ‘i dilettanti’ con una simile cultura
visiva riferita all’arte di fine Quattro e inizio Cinquecento (in sostanza: ai 'primitivi'). Per questo
motivo la figura del padre filippino merita sicuramente di essere studiata con
attenzione.
NOTE
[1] Uso il termine ‘pressoché’
per via del fatto che non sono riportati i testi di una lettera di Francesco
Solimena a Onofrio Avellino (1720) e di una descrizione del teatro di Vicenza,
entrambi privi di una qualsiasi connessione con padre Resta (cfr. p. 12).
[2] La trascrizione è a cura di
Giulia Cerquozzi, Michela Corso e Maria Rosa Pizzoni. Le note al testo sono di
Maria Corso e Maria Rosa Pizzoni.
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