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Jaynie Anderson
La vita di Giovanni Morelli nell’Italia del Risorgimento
Milano, Officina Libraria, 2019
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima
In Italia
Quando torna in Italia (a Bergamo, presso gli Zavaritt, ovvero la famiglia materna; il padre morì quando Giovanni aveva sei anni) Morelli potrebbe tranquillamente rintanarsi nel privato e vivere delle rendite dell’industria serica da sempre gestita dal parentado. In realtà sono già ben presenti la spinta patriottica e l’aspirazione alla liberazione dell’Italia dal dominio straniero. Su un piano intellettuale, ben presto allaccia rapporti stretti con l’ambiente culturale fiorentino, all’avanguardia sul fronte liberale e sul piano culturale; una delle motivazioni principali è, senza dubbio, la cosiddetta ‘questione della lingua’, volta all’utilizzo del toscano come lingua nazionale; un tema molto caro a Francesco De Sanctis (1817-1883) e ad Alessandro Manzoni (1785-1873), da lui conosciuti e frequentati per decenni. Fra le amicizie fiorentine una particolare attenzione va posta a quella col marchese Niccolò Antinori (1812-1882), che portò a un sodalizio durato fino alla morte del nobile fiorentino. La corrispondenza con Antinori è una delle poche ad essere giunta fino ai nostri giorni e riveste quindi particolare importanza. Morelli si occupa di arte, letteratura, di filosofia, ma è soprattutto roso dalla fiamma politica. Le Cinque giornate di Milano lo trovano in prima linea sulle barricate, a combattere per la liberazione. Comincia un periodo di intenso impegno politico-militare, in cui all’attività bellica vera e propria (che dimostra di gradire particolarmente) si alterna quella diplomatica: è inviato a Francoforte (maggio 1848) per perorare la causa italiana presso la neocostituita Assemblea Nazionale tedesca nei confronti del comune nemico austriaco. Vi rimane tre mesi, ottenendo risultati sconfortanti; il parlamento tedesco dimostra di avere più a cuore la questione del pangermanesimo che degli altri stati nazionali emergenti. Tornato in Italia, si arruola a Venezia, poi si trasferisce a Genova, una delle ultime roccaforti repubblicane; non riesce a raggiungere Roma, dove, nel frattempo, l’esperienza della Repubblica è agli sgoccioli. Il quadro complessivo deve risultare sconfortante: deluso dalla monarchia sabauda e dall’indolenza di Carlo Alberto, Morelli deve prendere atto contemporaneamente del fallimento dei moti rivoluzionari repubblicani.
Morelli viene eletto deputato del Regno di Sardegna per il collegio di Bergamo nel 1860, poi del Regno d’Italia nel 1861 (unico Protestante in Parlamento) e consecutivamente rieletto fino al 1870, quando si dimette in coincidenza della conquista di Roma e della prospettiva di trovare una forma di convivenza (poi espressa con la Legge delle Guarentigie) nei confronti della Chiesa cattolica romana. In quei dieci anni partecipa attivamente alla vita parlamentare, facendo parte di numerose commissioni, ma pronunciando un solo discorso, a favore della salvaguardia del patrimonio artistico italiano. Fra gli incarichi parlamentari un ruolo particolare, dal nostro punto di vista, è quello che assume nel 1861, impegnandosi a visitare l’Umbria e le Marche e a redigere un inventario delle opere d’arte appartenenti a quegli enti ecclesiastici che sono in procinto di essere soppressi per legge. Si tratta di un viaggio famosissimo, che compì, su sua esplicita richiesta, assieme a Giovan Battista Cavalcaselle e a cui accenneremo più avanti; in ogni caso, è anche l’unico viaggio di cui rimane una testimonianza documentaria di prima mano, grazie ai taccuini redatti in preparazione della Relazione presentata al Ministero dell’Istruzione (all’epoca competente in materia artistica), giunti sino a noi e pubblicati sempre da Jaynie Anderson.
Morelli fu poi nominato senatore nel 1873. Va peraltro detto che, all’epoca, il Senato era di nomina regia e la carica di senatore (di tutti i senatori) era a vita. Per questo motivo, ovvero perché non frutto dell’elezione diretta degli aventi diritto (comunque un numero molto limitato di cittadini selezionati per censo e istruzione), la vita politica dell’Italia si svolgeva, in concreto, alla Camera.
Morelli connoisseur
Gli anni ’60 vedono la consacrazione di Morelli come conoscitore. La sua galleria personale diventa meta di visita di studiosi, ma anche di famose cariche politiche. Il deputato eletto a Bergamo conosce tutti. Di particolare significato è la sua amicizia con Austen Henry Layard (1817-1894), archeologo, politico, diplomatico, conoscitore e collezionista inglese tramite il quale il suo nome diventa famosissimo in Inghilterra. Alla morte di Charles Lock Eastlake (24 dicembre 1865) Layard ha serie possibilità di divenire il nuovo direttore della National Gallery, e Morelli gli scrive offrendosi immediatamente per un ruolo di consulenza negli acquisti del museo. A essere nominato fu invece William Boxall (1800-1879), e Layard divenne semplice Trustee del museo; si premurò tuttavia di presentare Boxall a Morelli, il quale sempre lo accompagnò nei suoi viaggi italiani; la stessa cosa avvenne per il successore di Boxall (dal 1874), ovvero l’irlandese Frederic Burton (1816-1900). Il primo viaggio di Morelli in Inghilterra, invece, – ed è un fatto curioso, tenuto conto che aveva viaggiato molto – è solo del 1868. Da quel momento, però, le visite si fecero più frequenti e la fama del conoscitore fu tale da permettergli di incontrare anche la Regina Vittoria.
Se la fama dell’uomo e della sua incredibile maestria nell’attribuire i quadri era già ben consolidata, va pur detto che, in sostanza, Morelli non aveva praticamente pubblicato nulla. Fu solo negli anni ’70 che il neo-senatore decise di dedicarsi alla stesura di opere che rimasero nella storia, avvalendosi anche, nella redazione delle medesime, dell’aiuto degli amici e allievi più fidati (a partire da Gustavo Frizzoni, figlio di un amico di famiglia, considerato a sua volta come un figlio da Morelli). Si ricorda, in particolare, una serie di articoli apparsa, in tedesco, sulla rivista Zeitschrift für bildende Kunste fra 1874 e 1876 in cui ci si occupava delle opere conservate in Galleria Borghese a Roma. Curiosamente (ma non troppo) quasi mai il senatore si firmò col suo vero nome, ma utilizzò lo pseudonimo di Ivan Lermolieff, risultante dal suo anagramma con l’aggiunta di un suffisso russo.
Sei anni dopo arrivò la pubblicazione, nel 1880, per i tipi dell’editore Seeman, di Die Werke Italienischer Meister in der Galerien von München, Dresden und Berlin. Ein kritischer Versuch von Ivan Lermolieff. Frutto di un lavoro editoriale durato due anni, in cui fu aiutato nella correzione di manoscritto e bozze da Jean Paul Richter (1847-1937) [9], chiaramente ispirata al lavoro di Otto Mündler edito a proposito della collezione del Louvre nel 1850, l’opera inaugura una serie di pubblicazioni destinate a fare molto discutere, sia per le attribuzioni che vi sono contenute sia per i toni polemici che la contraddistinguono. Su questi aspetti bisogna soffermarsi. Era assolutamente vero che il catalogo generale della pinacoteca monacense, pubblicato nel 1866, era un disastro, come altri conoscitori avevano avuto modo di dire. Ma, nel proporre nuove attribuzioni, Morelli non usò certo il fioretto, e, soprattutto, assunse l’identità di un tartaro ignorante, ma capace di ‘vedere’, per attaccare frontalmente (come scriveva a Lady Eastlake) “gli storici dell’arte tedeschi e la loro arroganza nel parlare dell’arte italiana” (p. 164). Nella lettera alla vedova Eastlake si parla genericamente di storici dell’arte tedesca, ma in realtà l’obiettivo chiaro, specificato, citato decine di volte è uno solo: Wilhelm von Bode (1845-1929), già allora simbolo dell’aggressiva politica museale berlinese. Accanto a Bode, un posto di (sgradevole) primo piano è assegnato al duo Crowe-Cavalcaselle (chiamati spregiativamente i ‘gemelli siamesi’) e ai loro scritti. Morelli, insomma, si dimostra senza dubbio un uomo divisivo. Nel 1883 l’opera fu tradotta in inglese dalla moglie di Richter (che, a dire il vero, si dimostrò inadeguata), non senza essere prima stata privata delle parti più polemiche; tre anni dopo l’editore bolognese Zanichelli pubblicò la versione italiana.
Nel 1889 Morelli si impegnò con la casa editrice Brockaus, con sede a Lipsia, a pubblicare una nuova edizione dei suoi scritti. In realtà il progetto, previsto in tre volumi, si era andato molto ampliando, e senza dubbio non si deve parlare di semplici riedizioni, ma di opere con moltissimo materiale nuovo. Il primo tomo, dedicato alle Gallerie Colonna e Doria Pamphilj a Roma uscì nel 1890; il secondo, uscito a gennaio 1891, era relativo ai dipinti italiani conservati nelle pinacoteche di Monaco e Dresda, con escursioni relative ad altre gallerie europee (inglesi, francesi, ungheresi, austriache e spagnole). Morelli, da tempo malato, morì il 28 febbraio 1891. L’uscita del terzo volume (relativo a Berlino) avvenne postuma nel 1893, grazie all’opera di Gustavo Frizzoni, che mise in ordine gli appunti lasciatigli dal suo mentore e vi antepose una prima biografia del defunto senatore. I primi due volumi furono tradotti e pubblicati in inglese (questa volta con una buona traduzione operata da Constance Jocelyn Ffoulkes) fra 1892 e 1893. Nel 1897 Frizzoni diede poi alle stampe la prima edizione italiana del tomo dedicato alle gallerie romane col titolo Della pittura italiana. Studii storico critici di Giovanni Morelli (Ivan Lermolieff), Le Gallerie Borghese e Doria Pamphili in Roma, Milano, Treves [10].
[1] Fra quelli tradotti in italiano meritano senza dubbio di essere ricordati la curatela di G. Morelli, Della pittura italiana. Studii storico-critici. Le Gallerie Borghese e Doria-Pamphili in Roma, nell’edizione Adelphi 1991 e J. Anderson, I taccuini manoscritti di Giovanni Morelli, Milano, Federico Motta, 2000.
[2] La traduzione è di Monica Fintoni.
[3] La stessa accusa che, curiosamente, aveva rivolto Ruskin all’approccio filologico cavalcaselliano, colpevole di aver privato la lettura delle opere d’arte di uno zelo mistico e spirituale, riducendo di fatto la storia dell’arte a uno studio spregiativamente chiamato ‘da antiquario’. Si veda Donata Levi, Cavalcaselle. Il pioniere della conservazione dell’arte italiana, Torino, Einaudi, 1988, pp 193-196.
[4] Vedi Giacomo Agosti, Una maschera longhiana in Anna Chiara Tommasi (a cura di), Giovanni Battista Cavalcaselle conoscitore e conservatore, Venezia, Marsilio, 1998.
[5] Mina Gregori, La figura del conoscitore in F. Caglioti, A. De Marchi, A. Nova (a cura di), I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento, Milano, Officina Libraria, 2018.
[6] Idem, p. 8.
[7] J. Anderson, I Taccuini manoscritti di Giovanni Morelli, cit., p. 27. Curiosamente le posizioni filo-cavouriane e antigaribaldine di Morelli, che risultano chiaramente dai taccuini, la cui edizione è stata curata da Anderson, passano quasi in silenzio nella presente biografia.
[8] Idem, p. 125.
[9] Richter (oggi ancora famoso per i suoi studi leonardeschi) fu una delle amicizie più discusse di Morelli, per via del suo coinvolgimento nel mondo del mercato e, soprattutto, per la disinvoltura dei suoi comportamenti. Fu anche oggetto della gelosia di altri morelliani ‘della prima ora’, a partire da Gustavo Frizzoni.
[10] Poi ripubblicata a cura di Jaynie Anderson nel 1991 (Adelphi editore). Non mi risulta che sia mai uscita un’edizione italiana dei tomi dedicati alle gallerie tedesche nella versione pubblicata da Brockhaus.
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In copertina: Franz von Lenbach, Ritratto di Giovanni Morelli, 1886, Bergamo, Accademia Carrara |
Jaynie Anderson, professoressa emerita all’Università di Melbourne, ha
dedicato gran parte della sua vita professionale allo studio di Giovanni
Morelli (1816-1891), famosissimo conoscitore italiano dell’Ottocento, dedicandogli
quattro volumi [1] e decine di saggi. Ora, rivedendo in parte materiali già
pubblicati e aggiungendone altri, ne realizza la biografia, edita da Officina
Libraria dapprima in inglese col titolo The Life of Giovanni Morelli in
Risorgimento Italy (marzo 2019) e poi in italiano (ottobre 2019) [2].
L’autrice lo chiarisce sin dalla premessa: è stata ed è tuttora affascinata da
Morelli, dall’uomo, dal patriota, dal politico, dal conoscitore.
Un’affermazione ‘scomoda’, specie in Italia, dove la ‘sfortuna’ di Morelli è
cominciata presto, in contrapposizione all’ ‘esemplarità’ della figura di
Giovanni Battista Cavalcaselle. Si pensi, ad esempio, all’evoluzione degli
scritti di Roberto Longhi in cui Morelli, contrapposto al suo ‘rivale’ nato a
Legnago, diventa man mano non solo uno studioso privo del senso della qualità, e semplice
riconoscitore di quadri [3], ma un personaggio compromesso col mercato e indifferente
alle sorti del patrimonio artistico italiano [4]. Non è certo un caso che,
anche di recente, Mina Gregori, distinguendo fra ‘metodo scientifico
morelliano’ e ‘metodo intuitivo cavalcaselliano’ (e longhiano) abbia assegnato
proprio a quest’ultimo (analizzando la crisi della connoisseurship nelle
università) la dignità di stare nella sfera scientifica tramite l'applicazione di un tipo di
procedimento che richiama quello delle scienze naturali [5].
C’è un fatto – e lo dichiaro preliminarmente, assumendone tutte le
responsabilità del caso – che stupisce chi, come il sottoscritto, proviene da
studi universitari completamente diversi, e ha qualche cognizione di statistica:
si tratta dell’ingenuità di certe affermazioni: che senso ha, ad esempio,
insistere sul fatto che più dell’80% delle attribuzioni di Morelli ha resistito
alla storia, quando poi, dall’altra parte [6] si risponde che “le attribuzioni
del Cavalcaselle che sono durate nel tempo sono percentualmente molto più
numerose di quelle proposte da Giovanni Morelli”, in entrambi i casi – sia
chiaro – astenendosi da una qualsiasi esposizione quantitativa di tali
affermazioni? L’unica cosa che si percepisce, in filigrana, è il perpetuarsi di
decenni, ormai secoli, di contrapposizioni, che trovano appunto nella diversa
attribuzione delle opere la loro ragion d’essere e che hanno portato al
risultato che, ormai, di attribuzioni se ne fanno ben poche, per paura di
essere risucchiati in un gorgo.
Con tutto ciò, sia chiaro, non ho alcuna intenzione di stroncare una
biografia che si rivela, invece, assolutamente godibile, scandita in tredici
agili capitoli e che, in ultima istanza, è la summa di decenni di
lavoro. Una biografia che – scrive Anderson sin dall’inizio – nasce dal fatto
di avvertire l’urgenza di raccontare la vita di Morelli e di mettere in
evidenza come il suo metodo attributivo fosse, in ultima analisi, rivolto alla
tutela del patrimonio artistico italiano (esattamente l’opposto di quanto
scriveva Longhi); non a caso la prima delle distinzioni ad essere operata è
quella che mira a separare nettamente le figure del senatore bergamasco e di
Bernard Berenson, chiarendo che è a causa di quest’ultimo (che Morelli conobbe
solo superficialmente) se la connoisseurship divenne “un’attività
lucrativa al servizio del mercato antiquario” (p. XXVIII). Deve essere
chiaro, insomma, che quello di Anderson è un libro di grande interesse, basato
sull’analisi di archivi e documenti sparsi un po’ in tutto il mondo, ma
manifestamente partigiano; come tale, rinuncia a cogliere le contraddizioni di
Morelli, quand’anche esse emergano chiaramente dagli stessi documenti. Così
facendo l’autrice rinuncia a cogliere le complessità dell’uomo, e soprattutto
ce ne fornisce un’immagine di eroica coerenza che, oserei dire, non appartiene
a nessuno di noi, poveri mortali. Farò un esempio: parlando della collezione di
Morelli, Anderson scrive che “alcuni degli acquisti rimasero nella sua
collezione, per esempio un ritratto del Cariani e un San Girolamo di
Bartolomeo Montagna ora all’Accademia Carrara. Morelli era orgoglioso dei
dipinti del Bergognone, l’equivalente lombardo del Beato Angelico. Gli piaceva
pensare che Charles Lock Eastlake lo avrebbe voluto per la National Gallery di
Londra, ma non li vendette mai, ritenendo che il patrimonio artistico
appartenesse alla nazione e che ogni gentiluomo dovesse preservare opere rare e
di valore facendosene mero custode” (p. 71).
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Giovanni Busi, detto il Cariani, Sacra Famiglia in un paesaggio, 1530-1540, Bergamo, Accademia Carrara (da Collezione Morelli) Fonte: https://www.lacarrara.it/catalogo/58mr00116/ |
Questo, dunque, pare essere il
contenuto di una lettera scritta da Morelli all’amico fraterno Niccolò Antinori
il 16 ottobre 1857 (cfr. p. 194 nota 25). Se non che nel 1862 Morelli vendette
a Eastlake per la National Gallery il Ritratto di Giovanni Agostino della
Torre con il figlio Niccolò di Lorenzo Lotto e al direttore della National
Gallery, che gli chiedeva se volesse che il suo nome comparisse nell’annuale Report
ai Trustees del museo come precedente possessore (in fondo Morelli era
deputato e si era speso anche pubblicamente contro l’esportazione delle opere
d’arte), rispose di sì, a dire di Anderson perché “intendeva vedersi
riconosciuto il merito di aver introdotto Lorenzo Lotto nel museo britannico: «V.S. mi domanda inoltre se io preferisco forse di vedere al mio
sostituito altro nome in codesto Rapporto che Ella pubblica tutti gli anni? So
purtroppo che non commetto un’azione troppo patriotica nel privare il proprio
paese di un capo d’opera qual è questo quadro del Lotto che io Le ho ceduto –
ma giacché la colpa è mia che io pure e non altri porti la pena! Per fare
piacere a me, pregherei quindi V.S. a non volere minimamente alterare la verità
dei fatti, e lasciare correre che il mio nome figuri in mezzo a quelli degli
altri disgraziati, che al pari di me furono costretti a privarsi de’ migliori
tesori loro»” (p. 205 nota 94). Esiste un modo per
conciliare questi due episodi senza dover pensare, per forza, che Morelli sia
stato un ‘patriota traditore’? Del tutto immodestamente proverò a fornire una
mia interpretazione dei fatti, premesso che essa si basa proprio su una lettura
critica dei materiali forniti da Anderson, qui e altrove. Prima, però, alcune
notazioni di carattere biografico.
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Lorenzo Lotto, Ritratto di Giovanni Agostino della Torre e del figlio, 1515-1516 circa, Londra, National Gallery Fonte: https://www.nationalgallery.org.uk/paintings/lorenzo-lotto-giovanni-agostino-della-torre-and-his-son-niccolo |
Note
biografiche
Johannes Morell nacque a Verona nel 1816. Padre e madre facevano parte
entrambi di ricche famiglie protestanti (di rito evangelico) di origini
svizzere, trasferitesi in Italia (rispettivamente a Verona e Bergamo) nel corso
del XVIII secolo. Pur studiando fuori dell’Italia (fra Svizzera e Germania) dal
1826 al 1838 e viaggiando in Europa dal 1838 al 1840, Morell si sentiva
profondamente italiano, tanto da cambiare ufficialmente il suo nome, al momento
del rientro in Italia, in Giovanni Morelli. In Germania, Morelli si laureò in
medicina (senza mai praticare la professione). È in questo contesto che (a mio avviso del
tutto giustamente) Anderson individua l’humus del successivo ‘metodo
scientifico morelliano’; il giovane studioso si forma sui libri di un
famosissimo esperto di anatomia comparata dell’epoca, il francese Georges
Cuvier (1769-1832). Cuvier teorizzò la “correlazione delle parti”, in base alla
quale studiando in maniera approfondita l’anatomia comparata era possibile
determinare, ad esempio, “da un artiglio fossilizzato la forma della scapola
di un animale. Il parallelo con i successivi schemi anatomici morelliani,
secondo i quali si possono riconoscere un Botticelli o un Giorgione a partire
da un particolare significativo come un orecchio, un occhio, un piede, è
evidente; una più ampia serie di confronti consente al conoscitore di proporre
un’attribuzione. Morelli adottava, tra gli altri, il principio cuveriano della
subordinazione delle parti, secondo il quale alcuni tratti sono più
significativi di altri” (p. 16). Non si può certo dimenticare, poi,
l’influsso di Goethe, che per il giovane Johannes era un vero e proprio mito, e
della sua sterminata produzione scientifica. Ma ciò che veramente impressiona è
il livello delle frequentazioni e dei personaggi che Morelli ebbe modo di
conoscere sin dagli anni universitari, nel campo delle scienze, ma anche della
letteratura, della filosofia e, naturalmente, dell’arte; la sua è una vera e
propria immersione negli ambienti più qualificati del romanticismo tedesco.
Basti citare, nell’ambito degli studi sull’arte, gli incontri con Carl Friedrich von Rumohr (1785-1843) e Gustav Friedrich Waagen (1794-1868) e l’amicizia con Otto Mündler, maturata a Parigi nel 1839. La
frequentazione di Mündler, protestante, autodidatta, fortemente coinvolto nel
mercato dell’arte, non può certo passare in secondo piano, se non altro perché
il tipo di opere che Morelli diede alla stampe a partire dalla fine degli anni
Settanta dell’Ottocento ricalca l’Essai d’une Analyse Critique de la Notice
des Tableaux Italiens du Musée National du Louvre accompagné d’Observations et
de Documents relatifs à ces mêmes Tableaux del 1850, scritto dallo studioso
tedesco: non una storia dell’arte in senso stretto, ma la revisione critica
delle attribuzioni delle opere possedute dal Louvre, volta a sovvertire molte
delle erronee affermazioni contenute nei cataloghi ufficiali del museo.
In Italia
Quando torna in Italia (a Bergamo, presso gli Zavaritt, ovvero la famiglia materna; il padre morì quando Giovanni aveva sei anni) Morelli potrebbe tranquillamente rintanarsi nel privato e vivere delle rendite dell’industria serica da sempre gestita dal parentado. In realtà sono già ben presenti la spinta patriottica e l’aspirazione alla liberazione dell’Italia dal dominio straniero. Su un piano intellettuale, ben presto allaccia rapporti stretti con l’ambiente culturale fiorentino, all’avanguardia sul fronte liberale e sul piano culturale; una delle motivazioni principali è, senza dubbio, la cosiddetta ‘questione della lingua’, volta all’utilizzo del toscano come lingua nazionale; un tema molto caro a Francesco De Sanctis (1817-1883) e ad Alessandro Manzoni (1785-1873), da lui conosciuti e frequentati per decenni. Fra le amicizie fiorentine una particolare attenzione va posta a quella col marchese Niccolò Antinori (1812-1882), che portò a un sodalizio durato fino alla morte del nobile fiorentino. La corrispondenza con Antinori è una delle poche ad essere giunta fino ai nostri giorni e riveste quindi particolare importanza. Morelli si occupa di arte, letteratura, di filosofia, ma è soprattutto roso dalla fiamma politica. Le Cinque giornate di Milano lo trovano in prima linea sulle barricate, a combattere per la liberazione. Comincia un periodo di intenso impegno politico-militare, in cui all’attività bellica vera e propria (che dimostra di gradire particolarmente) si alterna quella diplomatica: è inviato a Francoforte (maggio 1848) per perorare la causa italiana presso la neocostituita Assemblea Nazionale tedesca nei confronti del comune nemico austriaco. Vi rimane tre mesi, ottenendo risultati sconfortanti; il parlamento tedesco dimostra di avere più a cuore la questione del pangermanesimo che degli altri stati nazionali emergenti. Tornato in Italia, si arruola a Venezia, poi si trasferisce a Genova, una delle ultime roccaforti repubblicane; non riesce a raggiungere Roma, dove, nel frattempo, l’esperienza della Repubblica è agli sgoccioli. Il quadro complessivo deve risultare sconfortante: deluso dalla monarchia sabauda e dall’indolenza di Carlo Alberto, Morelli deve prendere atto contemporaneamente del fallimento dei moti rivoluzionari repubblicani.
Deputato e senatore
Nonostante il suo diretto e attivo coinvolgimento nei moti del ’48,
Morelli non venne mai esiliato; un privilegio probabilmente legato al suo
status sociale (Cavalcaselle, ad esempio, si dovette rifugiare prima in Francia
e poi in Inghilterra). I dieci anni successivi furono dedicati agli studi,
soprattutto artistici. Morelli comincia a
comprare i primi quadri della sua collezione e a consigliare agli amici quadri
che varrebbe la pena acquistare per creare una raccolta di opere di livello. È
il caso, ad esempio, di Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879).
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Francesco Hayez, Ritratto di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, 1851, Milano, Museo Poldi Pezzoli Fonte: https://artsandculture.google.com/asset/pgF_dyGhZ_dMww |
È davvero un peccato che degli appunti presi
in giro per il Nord Italia a visitare gallerie private e collezioni pubbliche
non sia rimasto nulla. Nel 1859, ad esempio, sappiamo che visitò Parma, Modena,
Bologna e Ferrara, ma non ci è giunto alcun resoconto. In anni successivi
Morelli scrisse di aver operato nel 1858 una stima dei quadri della collezione
del marchese Costabili a Ferrara; anche qui, purtroppo, nulla risulta e sarebbe
importante capire per quale motivo lo fece (se effettivamente fu nel 1858 è impossibile. come si è scritto, che lo abbia fatto in vista di una possibile incamerazione da parte dello Stato Italiano). Ma al divampare della II guerra
d’Indipendenza Morelli è di nuovo in prima linea, a Bergamo, a comandare la
Guardia Nazionale in attesa dell’arrivo delle truppe sabaude. Il Morelli di
quegli anni, tuttavia, ha maturato una visione politica che, nel corso dei moti
del ’48-’49, gli era sconosciuta. Ha vinto ogni suo giudizio negativo nei
confronti della monarchia (probabilmente anche grazie all’abdicazione di Carlo
Alberto a vantaggio di Vittorio Emanuele II) e, soprattutto, è divenuto grande
ammiratore di Camillo Benso conte di Cavour. In una lettera indirizzata il 16
giugno 1861 a Niccolò Antinori così scrive: “A Rieti ci colse la notizia
della morte di Cavour. Fu davvero un fulmine a ciel sereno. Io ne rimasi come
istupidito, e per molti giorni non seppi riavermi da quell’inaspettato colpo.
Io non sono certamente fra quelli che fanno dipendere la sorte d’una nazione
dall’esistenza d’un solo uomo, sia pur’egli grande quanto Cavour, ma con tutta
la ferma fede che ho nell’avvenire d’Italia non posso però [fare] a
meno di temere i pericoli ai quali ci espone la perdita di quell’uomo. Nessuno
degli uomini di stato, conosciuti in Italia, ha un passato quale lo avea Cavour
– passato che imponeva a tutti i partiti, e dentro e fuori al Parlamento”
[7]. Al contrario, le riserve contro Garibaldi e il ‘partito repubblicano’, che
pure si adatta all’idea di avere un’Italia monarchica, purché sia unita, sono
fortissime: “Ciò che voleva e vuole Garibaldi è il trionfo di una minorità
violenta la quale, dopo un’assai lunga attesa ritiene che sia venuta la sua
ora, è il rovesciamento del governo che lavora senza posa a costituire l’Italia,
è la rivolta contra la saviezza e la prudenza. Queste provocazioni intempestive
di un partito senza viste politiche e senza programma stabilito, che sacrifica
alla sua ambizione, ai suoi capricci e ai suoi odj le conquiste che l’Italia
deve alla sua perseveranza e al suo coraggio e al suo coraggio, al suo bon
senso, e ch’essa non può consolidare che colla sua saviezza e concordia…”
[8].
Morelli viene eletto deputato del Regno di Sardegna per il collegio di Bergamo nel 1860, poi del Regno d’Italia nel 1861 (unico Protestante in Parlamento) e consecutivamente rieletto fino al 1870, quando si dimette in coincidenza della conquista di Roma e della prospettiva di trovare una forma di convivenza (poi espressa con la Legge delle Guarentigie) nei confronti della Chiesa cattolica romana. In quei dieci anni partecipa attivamente alla vita parlamentare, facendo parte di numerose commissioni, ma pronunciando un solo discorso, a favore della salvaguardia del patrimonio artistico italiano. Fra gli incarichi parlamentari un ruolo particolare, dal nostro punto di vista, è quello che assume nel 1861, impegnandosi a visitare l’Umbria e le Marche e a redigere un inventario delle opere d’arte appartenenti a quegli enti ecclesiastici che sono in procinto di essere soppressi per legge. Si tratta di un viaggio famosissimo, che compì, su sua esplicita richiesta, assieme a Giovan Battista Cavalcaselle e a cui accenneremo più avanti; in ogni caso, è anche l’unico viaggio di cui rimane una testimonianza documentaria di prima mano, grazie ai taccuini redatti in preparazione della Relazione presentata al Ministero dell’Istruzione (all’epoca competente in materia artistica), giunti sino a noi e pubblicati sempre da Jaynie Anderson.
Morelli fu poi nominato senatore nel 1873. Va peraltro detto che, all’epoca, il Senato era di nomina regia e la carica di senatore (di tutti i senatori) era a vita. Per questo motivo, ovvero perché non frutto dell’elezione diretta degli aventi diritto (comunque un numero molto limitato di cittadini selezionati per censo e istruzione), la vita politica dell’Italia si svolgeva, in concreto, alla Camera.
Morelli connoisseur
Gli anni ’60 vedono la consacrazione di Morelli come conoscitore. La sua galleria personale diventa meta di visita di studiosi, ma anche di famose cariche politiche. Il deputato eletto a Bergamo conosce tutti. Di particolare significato è la sua amicizia con Austen Henry Layard (1817-1894), archeologo, politico, diplomatico, conoscitore e collezionista inglese tramite il quale il suo nome diventa famosissimo in Inghilterra. Alla morte di Charles Lock Eastlake (24 dicembre 1865) Layard ha serie possibilità di divenire il nuovo direttore della National Gallery, e Morelli gli scrive offrendosi immediatamente per un ruolo di consulenza negli acquisti del museo. A essere nominato fu invece William Boxall (1800-1879), e Layard divenne semplice Trustee del museo; si premurò tuttavia di presentare Boxall a Morelli, il quale sempre lo accompagnò nei suoi viaggi italiani; la stessa cosa avvenne per il successore di Boxall (dal 1874), ovvero l’irlandese Frederic Burton (1816-1900). Il primo viaggio di Morelli in Inghilterra, invece, – ed è un fatto curioso, tenuto conto che aveva viaggiato molto – è solo del 1868. Da quel momento, però, le visite si fecero più frequenti e la fama del conoscitore fu tale da permettergli di incontrare anche la Regina Vittoria.
Se la fama dell’uomo e della sua incredibile maestria nell’attribuire i quadri era già ben consolidata, va pur detto che, in sostanza, Morelli non aveva praticamente pubblicato nulla. Fu solo negli anni ’70 che il neo-senatore decise di dedicarsi alla stesura di opere che rimasero nella storia, avvalendosi anche, nella redazione delle medesime, dell’aiuto degli amici e allievi più fidati (a partire da Gustavo Frizzoni, figlio di un amico di famiglia, considerato a sua volta come un figlio da Morelli). Si ricorda, in particolare, una serie di articoli apparsa, in tedesco, sulla rivista Zeitschrift für bildende Kunste fra 1874 e 1876 in cui ci si occupava delle opere conservate in Galleria Borghese a Roma. Curiosamente (ma non troppo) quasi mai il senatore si firmò col suo vero nome, ma utilizzò lo pseudonimo di Ivan Lermolieff, risultante dal suo anagramma con l’aggiunta di un suffisso russo.
Sei anni dopo arrivò la pubblicazione, nel 1880, per i tipi dell’editore Seeman, di Die Werke Italienischer Meister in der Galerien von München, Dresden und Berlin. Ein kritischer Versuch von Ivan Lermolieff. Frutto di un lavoro editoriale durato due anni, in cui fu aiutato nella correzione di manoscritto e bozze da Jean Paul Richter (1847-1937) [9], chiaramente ispirata al lavoro di Otto Mündler edito a proposito della collezione del Louvre nel 1850, l’opera inaugura una serie di pubblicazioni destinate a fare molto discutere, sia per le attribuzioni che vi sono contenute sia per i toni polemici che la contraddistinguono. Su questi aspetti bisogna soffermarsi. Era assolutamente vero che il catalogo generale della pinacoteca monacense, pubblicato nel 1866, era un disastro, come altri conoscitori avevano avuto modo di dire. Ma, nel proporre nuove attribuzioni, Morelli non usò certo il fioretto, e, soprattutto, assunse l’identità di un tartaro ignorante, ma capace di ‘vedere’, per attaccare frontalmente (come scriveva a Lady Eastlake) “gli storici dell’arte tedeschi e la loro arroganza nel parlare dell’arte italiana” (p. 164). Nella lettera alla vedova Eastlake si parla genericamente di storici dell’arte tedesca, ma in realtà l’obiettivo chiaro, specificato, citato decine di volte è uno solo: Wilhelm von Bode (1845-1929), già allora simbolo dell’aggressiva politica museale berlinese. Accanto a Bode, un posto di (sgradevole) primo piano è assegnato al duo Crowe-Cavalcaselle (chiamati spregiativamente i ‘gemelli siamesi’) e ai loro scritti. Morelli, insomma, si dimostra senza dubbio un uomo divisivo. Nel 1883 l’opera fu tradotta in inglese dalla moglie di Richter (che, a dire il vero, si dimostrò inadeguata), non senza essere prima stata privata delle parti più polemiche; tre anni dopo l’editore bolognese Zanichelli pubblicò la versione italiana.
Nel 1889 Morelli si impegnò con la casa editrice Brockaus, con sede a Lipsia, a pubblicare una nuova edizione dei suoi scritti. In realtà il progetto, previsto in tre volumi, si era andato molto ampliando, e senza dubbio non si deve parlare di semplici riedizioni, ma di opere con moltissimo materiale nuovo. Il primo tomo, dedicato alle Gallerie Colonna e Doria Pamphilj a Roma uscì nel 1890; il secondo, uscito a gennaio 1891, era relativo ai dipinti italiani conservati nelle pinacoteche di Monaco e Dresda, con escursioni relative ad altre gallerie europee (inglesi, francesi, ungheresi, austriache e spagnole). Morelli, da tempo malato, morì il 28 febbraio 1891. L’uscita del terzo volume (relativo a Berlino) avvenne postuma nel 1893, grazie all’opera di Gustavo Frizzoni, che mise in ordine gli appunti lasciatigli dal suo mentore e vi antepose una prima biografia del defunto senatore. I primi due volumi furono tradotti e pubblicati in inglese (questa volta con una buona traduzione operata da Constance Jocelyn Ffoulkes) fra 1892 e 1893. Nel 1897 Frizzoni diede poi alle stampe la prima edizione italiana del tomo dedicato alle gallerie romane col titolo Della pittura italiana. Studii storico critici di Giovanni Morelli (Ivan Lermolieff), Le Gallerie Borghese e Doria Pamphili in Roma, Milano, Treves [10].
Non vi sono dubbi sul fatto che la storia dell’attribuzionismo abbia una sua
vita prima e dopo la pubblicazione dei volumi di Morelli. Il numero delle opere
(grafica compresa) che vengono ‘ribattezzate’ dallo studioso italiano è enorme;
a volte le proposte sono sbagliate; molto più spesso no. È fuori di dubbio, ad
esempio, che la storia della giovinezza di Raffaello (che pure aveva avuto una
recente trattazione con la biografia di Crowe e Cavalcaselle) fu ampiamente
riscritta. Si pensi, a puro titolo di esempio, alle sorte toccata al cosiddetto
‘Libretto di Raffaello’, un tempo appartenuto a Giuseppe Bossi e poi passato all’Accademia
di Venezia. La paternità dei disegni, fino al 1880, non fu mai messa in
discussione e fu Morelli a far sì che si capisse che non si trattava di
‘esercizi di stile’ del giovane pittore umbro. In fondo, se oggi praticamente
nessuno (al di fuori degli specialisti) conosce il Libretto lo si deve
proprio a Morelli. Con Morelli, come già con Mündler e con Cavalcaselle, si entra in quella
fase storica in cui le sorti di un quadro dipendono dall’attribuzione che gli
viene data dai grandi esperti del settore. Si pensi alla Venere di Dresda
del Giorgione, assegnata appunto al pittore di Castelfranco Veneto dallo
studioso italiano e in precedenza ritenuta una copia modesta da Tiziano; e, in
antitesi, alla ‘sfortuna’ della Maria Maddalena leggente (sempre a
Dresda) ascritta in precedenza a Correggio, ma attribuita da Morelli ad Adriaen
van der Werff, e per questo motivo relegata nei seminterrati del museo, dove fu
distrutta nel corso dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale.
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Giorgione, Venere dormiente (o Venere di Dresda), 1508, Dresda, Gemäldegalerie Fonte: https://artsandculture.google.com/asset/xgFm1GCECrnfQA?hl=es |
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Maria Maddalena leggente, incisione da un dipinto a olio conservato alla Gemaldegälerie, attribuito in origine a Correggio e ritenuto da Morelli di pittore fiammingo. Distrutto nel corso dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Correggio,_maddalena_leggente,_perduto.jpg |
Ma, nel caso di Morelli, il problema non è soltanto quello di prendere in
considerazione le singole attribuzioni, quanto il metodo tramite cui ad esse
giunse, il celeberrimo ‘metodo scientifico morelliano’. Di tale metodo, dei
rapporti con Cavalcaselle e Bode e dell’idea di patrimonio del senatore
bergamasco di adozione parleremo nella seconda parte di questa recensione.
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NOTE
[2] La traduzione è di Monica Fintoni.
[3] La stessa accusa che, curiosamente, aveva rivolto Ruskin all’approccio filologico cavalcaselliano, colpevole di aver privato la lettura delle opere d’arte di uno zelo mistico e spirituale, riducendo di fatto la storia dell’arte a uno studio spregiativamente chiamato ‘da antiquario’. Si veda Donata Levi, Cavalcaselle. Il pioniere della conservazione dell’arte italiana, Torino, Einaudi, 1988, pp 193-196.
[4] Vedi Giacomo Agosti, Una maschera longhiana in Anna Chiara Tommasi (a cura di), Giovanni Battista Cavalcaselle conoscitore e conservatore, Venezia, Marsilio, 1998.
[5] Mina Gregori, La figura del conoscitore in F. Caglioti, A. De Marchi, A. Nova (a cura di), I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento, Milano, Officina Libraria, 2018.
[6] Idem, p. 8.
[7] J. Anderson, I Taccuini manoscritti di Giovanni Morelli, cit., p. 27. Curiosamente le posizioni filo-cavouriane e antigaribaldine di Morelli, che risultano chiaramente dai taccuini, la cui edizione è stata curata da Anderson, passano quasi in silenzio nella presente biografia.
[8] Idem, p. 125.
[9] Richter (oggi ancora famoso per i suoi studi leonardeschi) fu una delle amicizie più discusse di Morelli, per via del suo coinvolgimento nel mondo del mercato e, soprattutto, per la disinvoltura dei suoi comportamenti. Fu anche oggetto della gelosia di altri morelliani ‘della prima ora’, a partire da Gustavo Frizzoni.
[10] Poi ripubblicata a cura di Jaynie Anderson nel 1991 (Adelphi editore). Non mi risulta che sia mai uscita un’edizione italiana dei tomi dedicati alle gallerie tedesche nella versione pubblicata da Brockhaus.
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