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giovedì 19 dicembre 2019

Dore Ashton. [Artisti del XX secolo che scrivono d'arte]. Parte Terza


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Storia delle antologie di letteratura artistica
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Dore Ashton
Twentieth-Century Artists on Art 
[Artisti del XX secolo che scrivono d’arte]

New York, Pantheon Books, 1985, 302 pagine

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Terza 

Fig. 48) Il saggio di Dore Ashton su Richard Lindner, pubblicato nel 1963 dall’editore Harry N. Abrams di New York

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Gli artisti figurativi

Tra gli artisti americani inclusi da Dore Ashton (1928-2017) nella sua antologia Twentieth-Century Artists on Art vorrei assegnare alla categoria di ‘artisti figurativi’ (che ho qui volutamente definito in termini molto ampi e forse imprecisi) rappresentanti di stili (Nuova oggettività, Precisionismo, Surrealismo, Realismo sociale) che affidano alla rappresentazione della figura umana un ruolo centrale, e, in tal modo si legano a movimenti pittorici precedenti l’astrazione. Tutto sommato, si tratta di artisti che oggi sono dimenticati e meriterebbero di essere riscoperti: il loro riferimento all’arte figurativa è stata forse interpretato nel secolo scorso come un elemento formale che li ha resi meno attuali e convincenti. In ordine cronologico di nascita, vorrei ricordare Richard Lindner (1901-1978), Peter Blume (1906-1992), Romare Bearden (1911-1988), David Hare (1917-1992) e Leon Golub (1922-2004).

Richard Lindner rappresenta la linea di congiunzione tra Nuova oggettività tedesca e arte americana. Il pittore tedesco fugge dalla Germania quando i nazisti prendono il potere, recandosi prima nel 1933 in Francia e poi nel 1941 negli Stati Uniti. Pur inserito per molti anni nel mondo accademico dopo la guerra, non sono rintracciabili sue pubblicazioni (né vi è una fondazione che curi il suo ricordo). L’intervista citata dalla Ashton (che gli dedicò una monografia nel 1969) è del 1978. Parlando allo storico dell’arte John Gruen (1926-2016) nel 1978, Lindner afferma: “Ma, come sa, il mio lavoro è davvero un riflesso della Germania degli anni Venti. È stata l'unica volta che i tedeschi sono stati bravi. D'altra parte, la mia ispirazione creativa viene da New York e dalle immagini che vedo nelle riviste americane o in televisione. L'America è davvero un posto fantastico! [78]. A livello di fonti direttamente accessibili sulla rete, di Lindner sono disponibili registrazioni di lunghe interviste autobiografiche presso la Smithsonian Institution [79], quasi che egli fosse più legato alla trasmissione di cultura orale che scritta. 

Fig. 49) Il catalogo della mostra Peter Blume Nature and Metamorphosis, tenutasi alla Pennsylvania Academy of the Fine Arts nel 2005 a cura di Robert Cozzolino e Samantha Baskind. Contiene fra l’altro anche una selezione di scritti del pittore.

Peter Blume è stato un altro artista poco frequentato da gallerie e musei, forse anche perché molto atipico per il mondo a lui contemporaneo. Appartiene ancora, per molti aspetti, al mondo del Precisionismo americano e alle tendenze di ritorno all’ordine che si diffondono in Europa tra le due guerre (il suo amore per l’arte del Rinascimento ha chiari paralleli nell’arte di De Chirico e in quella della Nuova oggettività tedesca). L’attività artistica di Blume comincia negli anni Trenta, a essere onesti senza grande successo. La sua opera più famosa è La città eterna, realizzata in manifesta opposizione al fascismo; nel dipinto Mussolini si presenta come un giocattolino a molla la cui testa deforme spunta dal Colosseo. Come immaginabile, la caricatura ebbe molto successo in America negli anni della guerra. La notorietà in ambito squisitamente artistico subentra solo molto più tardi e ha il suo apice negli anni Settanta.  Il testo scelto dalla Ashton, del 1963, è pubblicato quello stesso anno anche da Eric Protter in Painters on Painting. “Dato che mi occupo della comunicazione delle idee, non mi vergogno affatto di ‘raccontare storie’ nei miei dipinti, perché considero questa una delle funzioni primarie delle arti plastiche [80]. Nel testo Blume parla della sua passione per Caravaggio, del ritorno a uno stile letterario e della necessità di ridare centralità al gesto. Alcuni  scritti dell’artista sono stati pubblicati in un recente catalogo della Pennsylvania Academy of the Fine Arts nel 2005. Non esiste fondazione a lui dedicata.

Fig. 50) Tre opere di Romare Bearden, rispettivamente pubblicate nel 1972, 1969 e 1993.

Romare Bearden è stato artista, critico e storico dell’arte. A lui si devono – in cooperazione con autori diversi – numerosi studi, molti dei quali centrati sul ruolo degli artisti afroamericani nella storia dell’arte. Nessuno dei suoi saggi ha però varcato la barriera linguistica dell’inglese. La Fondazione Romare Bearden offre l’elenco completo degli scritti dell’artista, che coprono un periodo lungo cinquant’anni [81]. Anche la sua arte d’impronta sociale, centrata sull’impiego del collage, riflette la sua esperienza di afroamericano nel Sud degli USA. In un articolo [82] pubblicato sulla rivista Leonardo, edita dal MIT a partire dal 1968 come strumento di dialogo tra arte e scienza, Bearden racconta del suo passaggio dalla matematica alla pittura, che avviene grazie a George Grosz. Egli spiega il suo amore per Brueghel e i maestri olandesi, per i mosaici bizantini e la scultura africana. La citazione che ne trae la Ashton relativizza appunto la natura politica della sua arte e si riferisce a Brueghel come punto di riferimento: “Ciononostante, non è mio obiettivo dipingere sul mondo afroamericano in termini di propaganda. È precisamente la mia consapevolezza del fatto che un artista impegnato deve operare delle distorsioni che mi ha fatto dipingere la vita del mio popolo come la conosco - con la stessa passione e leggerezza con cui Brueghel ha dipinto la vita del popolo fiammingo dei suoi giorni. Si possono trarre molte analogie sociali dalle grandi opere di Brueghel - come non ho dubbi che le si possa trarre dalle mie - la mia intenzione, tuttavia, è quella di rivelare attraverso complessità pittoriche la ricchezza di una vita che conosco” [83].

Fig. 51) Il catalogo della mostra su Quattordici artisti americani, pubblicato dal MoMa di New York nel 1946 a cura di Dorothy C. Miller, con dichiarazioni degli artisti. Source: https://www.moma.org/documents/moma_catalogue_3196_300062046.pdf

David Hare è stato scultore (e fumettista) di orientamento surrealista, tuttavia in contatto permanente con gli artisti dell’espressionismo astratto newyorchese. “Credo – si legge nel catalogo della mostra Fourteen Americans del 1946 –  che, per evitare di copiare la natura e allo stesso tempo mantenere la massima connessione con la realtà, sia necessario spezzare la realtà e ricombinarla, creando relazioni diverse destinate a sostituire quelle distrutte. Questi dovrebbero essere rapporti di memoria e associazione” [84]. Non risulta la pubblicazione di una raccolta di scritti. La pagina web degli eredi riporta gli originali di una serie (abbastanza limitata) di articoli a sua firma, senza tuttavia indicarne precisa provenienza e data [85].

Fig. 52) La raccolta di testi Leon Golub: Do Paintings Bite? curata da Hans-Ulrich Obrist e pubblicata da edizioni Hatje Cantz nel 1997.

Leon Golub (1922-2004) è stato pittore e attivista politico. Hans-Ulrich Obrist ha pubblicato nel 1997 una serie di scritti intitolata Leon Golub: Do Paintings Bite? Nelle dichiarazioni del 1959, tratte da un catalogo del MoMa curato da Peter Selz, l’artista spiega il significato della rappresentazione del corpo nella sua pittura. Il modo con cui un pittore può guardare un corpo può variare. È, ad esempio, completamente diverso prima e dopo la Seconda guerra mondiale. “Si vede che l'uomo ha sofferto l’olocausto e che rischia l’annientamento o la mutazione radicale. Le ambiguità di queste enormi forme [nella mia pittura] indicano lo stress della loro vulnerabilità rispetto alle loro capacità di resistenza” [86]. Il corpo umano, raffigurato anche in forma frammentaria, rimane comunque simbolo di eroica e sensuale bellezza: “L'uomo è visto in un gesto eroico; le sue forme, anche frammentate, incarnano la  bellezza e la sensuale vitalità degli organi. La bellezza carnale di ogni frammento si ampia e si contrappone al suo pathos e alla sua monumentalità” [87]. È questa duplicità che permette al pittore un gesto implacabile, quando rappresenta i corpi, pur incarnando ancora il senso di monumentalità tipico dell’arte classica. La fondazione dedicata a Golub e a sua moglie Nancy Spero (1926-2009) non sembra essere attiva in rete [88].


Minimalismi

In questa categoria associo minimalisti, post-minimalisti e artisti concettuali. Si torna qui a parlare di artisti che, avendo ottenuto molta attenzione nel secolo scorso, non hanno esitato a far uso costante della scrittura come strumento di comunicazione: anzi, l’elemento concettuale della loro arte (che li accomuna ai costruttivisti d’inizio Novecento) li ha spesso spinti alla ricerca di coordinate teoriche che potessero offrire al pubblico elementi di comprensione. In ordine cronologico di nascita vorrei ricordare Josef Albers (1888-1976), Isamu Noguchi (1904-1988), Tony Smith (1912-1980), Ad Reinhardt (1913-1967), Ellsworth Kelly (1923-2015), Sol LeWitt (1928-2007), Dan Flavin (1933-1996), Carl Andre (1935-), Eva Hesse (1936-1970), Hans Haacke (1936-), Frank Stella (1939-) e Robert Smithson (1938-1972).

Fig. 53) In alto: l’edizione originale di Interaction of Color (1971) e quattro versioni successive, tutte pubblicate da Yale University Press. In basso: traduzioni in tedesco (1972), giapponese (1972), spagnolo (1979), italiano (2013), francese (2008) e cinese (2011)

Josef Albers si trasferisce negli Stati Uniti nel 1933 alla presa del potere dei nazisti, portando con sé la spiccata vocazione alla teorizzazione tipica della cultura artistica tedesca. Il suo manuale sull’Interazione del colore, prima pubblicato in edizione limitata nel 1963 e poi oggetto di numerosissime edizioni della Yale University Press dal 1971, viene tradotto in dodici lingue. Il testo è uno dei punti di riferimento della Optical art. Albers è l’erede non solamente dell’insegnamento alla Bauhaus (dove egli stesso insegna dal 1925), ma di una tradizione che risale alla Farbenlehre di Goethe, la Teoria dei colori del 1810. La Josef and Anni Albers Foundation custodisce un ampissimo archivio e offre molte risorse agi studiosi [89].

La Ashton parla del manuale di Albers, ma trae la sua citazione da un catalogo del 1962. Albers spiega come i colori, se avvicinati, si influenzino l’un l’altro. “Azione, reazione, interazione - o interdipendenza – sono cercati per rendere evidente come i colori s’influenzino e modifichino a vicenda: lo stesso colore, ad esempio - avvicinato ad un fondale oppure a colori diversi - sembra diverso. Ma anche colori diversi possono essere resi uguali. E si può mostrare che tre colori possono essere letti come quattro, e allo stesso modo tre colori come due, e anche quattro come due. Tali inganni cromatici dimostrano che quasi mai vediamo i colori indipendentemente tra loro e quindi invariati. Ogni colore cambia continuamente: con il mutare della luce, con il mutare della forma e del posizionamento, e con la precisa calibrazione della quantità (l'estensione reale) o del numero (la ripetizione). E altrettanto influenti sono i cambiamenti nella percezione che dipendono dai cambiamenti dell'umore e, di conseguenza, dalla ricettività. Tutto ciò serve a rendere conto dell'esaltante discrepanza tra fatto fisico ed effetto psichico del colore” [90].

Fig. 54) A sinistra: il saggio di Dore Ashton su Noguchi. East and West del 1992. A destra: la raccolta di saggi e conversazioni dello scultore, pubblicata dall’editore Abrams nel 1994.

Allo scultore Isamu Noguchi Dore Ashton dedica un saggio nel 1992. Oggi abbiamo a disposizione una sua raccolta di scritti e conversazioni, pubblicata dall’editore Harry N Abrams, curata da Diane Apostolos-Cappadona e Bruce Altshulera e sostenuta dalla Isamu Noguchi Foundation di Tokio.  Pur non essendo formalmente un minimalista, il suo interesse è tutto centrato su forme astratte e autorappresentative in pietra o metallo. Il brano citato da Dore Ashton è tratto dal catalogo della già citata mostra Fourteen Americans del 1946. “L'essenza della scultura è per me la percezione dello spazio, il continuum della nostra esistenza. Tutte le dimensioni sono solo misure di essa, come nella prospettiva relativa della nostra visione si trovano il volume, la linea ed il punto, che danno forma, distanza, proporzione. Il movimento, la luce e il tempo stesso sono anche qualità dello spazio. Lo spazio è altrimenti inconcepibile. Questi sono gli elementi essenziali della scultura e poiché il nostro concetto di essi cambia, così deve cambiare la nostra scultura” [91]. Il Museo Noguchi di New York conserva gli archivi dello scultore [92]. Vi è anche un Museo Noguchi a Tokio, che non sembra offrire fonti primarie sul suo sito internet [93].

Fig. 55) L’intervista di Tony Smith a Samuel Wagstaff, Jr. su Artforum del 1966

Lo scultore Tony Smith è considerato uno degli artisti che hanno segnato il passaggio da un’arte di tipo espressionista a una produzione (prevalentemente scultorea) di tipo minimalista. In un’intervista al curatore Samuel Wagstaff, Jr. (1921-1987), pubblicata su Artforum nel 1966, Smith spiega il meccanismo creativo che lo conduce a una riduzione delle forme: “Sono interessato all'inscrutabilità e alla misteriosità dell’oggetto. (...) Quando inizio a progettare, esso è quasi banale e poi naturalmente si riduce nel senso di un'economia. Non sono consapevole di come luce e ombra cadano sui miei pezzi. Sono semplicemente a conoscenza della forma base. Sono interessato all’oggetto, non agli effetti, le piramidi sono solo geometria, non un effetto” [94]. Non è stata ancora pubblicata alcuna raccolta di scritti né vi sono testi dell’artista messi in rete dalla fondazione, sebbene vi sia una lista di interviste e dichiarazioni tra 1966 e 1978 [95].

Fig. 56) A sinistra: il catalogo della mostra The new decade; 35 American painters and sculptors, tenutasi al MoMa di New York nel 1955. Al centro: la raccolta di scritti di Ad Reinhardt, qui nell’edizione dell’University of California Press del 1991. A destra: l’edizione di scritti e conversazioni pubblicata in tedesco nel 1994.

Ad Reinhardt è stato elemento di contatto tra astrazione espressionista e minimalismo, al punto che critici diversi lo hanno collocato alternativamente in uno o nell’altro ambito. E tuttavia nei suoi scritti egli ha giudizi durissimi nei confronti della scuola di New York.  Il testo citato dalla Ashton nega valore all’action painting come fenomeno di azione fisica. “La pittura è speciale, separata, una questione di meditazione e contemplazione, per me non è un’azione fisica o uno sport sociale. È quanta più coscienza possibile” [96]. Sono parole tratte dal catalogo della mostra The new decade; 35 American painters and sculptors curata dal critico e storico dell’arte John I. H. Baur (1909-1987) al MoMa di New York nel 1955. Una collezione di scritti di Ad Reinhardt è stata pubblicata da Viking Press nel 1975 a cura di Barbara Rose, e ripubblicata da University of California Press nel 1991 e nel 2008. Il titolo (Art as Art) fa chiaro riferimento all’idea dell’arte per l’arte. Una selezione di scritti e conversazioni con l’artista è stata pubblicata in tedesco nel 1994 e ristampata nel 1998.

Fig. 57) Il volume intervista di Hans Ulrich Obrist a Ellsworth Kelly, intitolato Thumbing through the Folder: A Dialogue on Art and Architecture, pubblicato nel 2010


Il minimalismo di Ellsworth Kelly è associato ai contrasti dei colori del cosiddetto hard-edge painting (la pittura a contrasti netti), la reazione californiana all’espressionismo astratto newyorkese. La pagina della Fondazione Kelly offre una lista molto ampia di dichiarazioni dell’artista a partire dai tardi anni Quaranta; non esiste tuttavia una raccolta a stampa di tale materiale [97]. Da segnalare anche un’intervista con Hans Ulrich Obrist rilasciata nel 2009. Il brano citato da Dore Ashton è tratto da un’intervista con uno dei più famosi storici dell’arte e curatori del secolo scorso, ovvero Henry Geldzahler (1935-1994), pubblicata nel 1964. “Non mi interessano i contrasti. Sono interessato alla massa e al colore, al bianco e nero. I contrasti si verificano perché le forme hanno il massimo effetto. Voglio che le masse abbiano il loro effetto. Quando lavoro con forme e colori, ottengo i contrasti. ... nel mio lavoro, è impossibile separare i bordi dalla massa e dal colore” [98].


Fig. 58) Il volume di testi di critica d’arte di Sol Lewitt, a cura di Adachiara Zeri, pubblicato da Editrice Inonia nel 1994

Il nome di Sol LeWitt è indissolubilmente legato alla nascita di concettualismo e minimalismo. I suoi brevi Paragraphs on Conceptual Art [99], pubblicati sulla rivista Artforum del giugno 1967, sono considerati come uno dei testi principali di questo orientamento. Ad essi si aggiunge un numero limitato di altri scritti, pubblicati in cataloghi fin dalla fine degli anni Settanta [100]. I Testi critici di Sol Lewitt sono stati raccolti in inglese e italiano da Adachiara Zevi nel 1994 (editore Editrice Inonia nella serie “Libri di A.E.I.U.O. : Incontri Internazionali d'Arte”). Dore Ashton pubblica alcuni brani dei Paragraphs: “Mi riferirò al tipo di arte in cui sono coinvolto come ‘arte concettuale’. Nell'arte concettuale l'idea o il concetto è l'aspetto più importante dell'opera. Quando un artista utilizza una forma concettuale di arte, significa che tutta la pianificazione o le decisioni vengono prese in anticipo e l'esecuzione è una questione di pura meccanica. L'idea diventa una macchina che produce l'arte. Questo tipo di arte non è teorica o illustrativa; è intuitiva, è coinvolta con tutti i tipi di processi mentali ed è senza scopo” [101].

Dan Flavin è oggi molto conosciuto per le sue composizioni di luce fluorescente, che l’autrice mette in correlazione col costruttivismo del primo Novecento. Il testo è tratto dall’articolo An Autobiographical Sketch… in daylight or cool white pubblicato su Artforum del 1965, uno scritto assai breve per la verità in cui l’artista – di cui si inizia a parlare in quegli anni – riflette sul concetto kantiano del sublime. La Ashton sceglie un passo dell’articolo in cui si illustrano le ragioni estetiche della scelta del mezzo (il neon illuminato che divide lo spazio), evitando le parti più teoriche. “Con il tempo, sono giunto a queste conclusioni per quel che riguarda la luce fluorescente e su cosa si sarebbe potuto fare con essa in modo plastico. L'intero contenitore spaziale interno e le sue parti-pareti, il pavimento e il soffitto, avrebbero sostenuto la striscia di luce, ma non ne avrebbero limitato il suo effetto se non per avvolgerlo. (…) Comprendendo ciò, sapevo che lo spazio reale di una stanza poteva essere suddiviso e modificato includendo un’illusione di luce reale (luce elettrica) in punti cruciali della composizione della stanza” [102]. Si tratta ancora oggi del testo più importante di Flavin. Non esiste, peraltro, una sua raccolta di scritti e il Dan Flavin Art Institute non sembra offrire risorse elettroniche su fonti primarie [103].


Fig. 59) La collezione di scritti di Carl Andre, pubblicata nel 2005 da MIT Press a cura di James Meyer

Del poeta e scultore minimalista Carl Andre esiste dal 2005 una raccolta di scritti che copre gli anni 1959-2006 a cura di MIT Press. Inoltre la Tate Publishing di Londra e The Carl Andre and Melissa L. Kretschmer Foundation stanno lavorando alla creazione di un catalogo elettronico della sua produzione lirica, che comprende circa 1500 poesie [104]. Per la sua antologia la Ashton utilizza il testo di una conferenza tenuta nel 1968. Il brano riflette – nello stile molto vicino all’aforisma – la natura concettuale dell’arte di Andre: “Non vi è un contenuto simbolico nel mio lavoro. Non è come una formula, ma come una reazione chimica. Una buona opera d'arte, una volta esposta e mostrata ad altre persone, è un fatto sociale. (...) L'arte dell'associazione è quando l'immagine è associata a cose diverse da ciò che l'opera stessa è. L'arte dell'isolamento ha il suo focus con un'associazione minima con le cose e non con se stessa. L'idea è l'esatto contrario della comunicazione multimediale. Il mio lavoro è esattamente l'opposto dell'arte dell'associazione. Cerco di ridurre al minimo la funzione di creazione delle immagini del mio lavoro” [105].

Fig. 60) Il diario di Eva Hesse, pubblicato nel 2016

Eva Hesse è stata una giovane scultrice postminimalista, vissuta tra Stati Uniti e Germania, morta giovanissima a causa di una tragica malattia. Di lei restano i Diari, pubblicati nel 2016 a cura di Barry Rosen e Tamara Bloomberg, e il mito di un’esistenza d’artista tanto intensa quanto infelice. Così come molta parte dei Diari, anche il brano citato da Dore Ashton, risalente al 1969 e tratto dal catalogo di una mostra newyorkese, è in versi:

Volevo arrivare alla non arte, al non referenziale,
al non antropomorfo, al non geometrico, al non, al niente,
al tutto, ma di un altro tipo, visione, specie,
totalmente da un altro punto di riferimento ...
quella visione o il concetto si realizzeranno tramite rischio totale,
libertà, disciplina.
Lo farò” [106].

Gli archivi dell’artista sono disponibili alla Smithsonian Institution [107].

Fig. 61) Scritti di Hans Haacke: il saggio Framing and Being Framed del 1975, la conversazione con Pierre Bordieu Free Exchange (1995) e la collezione di scritti Working Conditions curata da Alexander Alberro e pubblicata dal MIT (2016).

Hans Haacke è uno scultore concettuale che molto ha scritto della propria arte, a partire dal testo Framing and Being Framed del 1975, in cui si confronta con sociologi e politologi. Nel 1995 ha pubblicato, insieme al sociologo francese Pierre Bourdieu (1930–2002), il testo della conversazione Free Exchange. Una raccolta dei suoi scritti è stata pubblicata da MIT Press nel 2016 (Working Conditions. The Writings of Hans Haacke) a cura di Alexander Alberro. Il brano citato dalla Ashton è invece tratto da un’intervista del 1978, e spiega che non vi è arte senza un significato politico più recondito. “Qualsiasi prodotto o attività progettati per comunicare sentimenti e idee - e le opere d'arte certamente appartengono a questa categoria - svolgono una funzione sociale e sono quindi implicitamente, se non esplicitamente, anche di importanza politica. Quello che sto dicendo qui non è ovviamente nuovo. Credo che sia generalmente accettato nelle scienze sociali. La teoria in merito di cultura da parte di critici e artefici, sia in Europa sia qui [negli Stati Uniti], sembra muoversi anche in quella direzione ... [...] Non esiste alcun elemento strutturale assolutamente immune al significato e alla storia. I significati, indipendentemente dal fatto che siano riconosciuti o meno, hanno avuto un'importanza ideologica. La negazione della loro esistenza non li cancella e la negazione di per sé è ideologicamente abbastanza significativa” [108].

Fig. 62) Scritti di Frank Stella. In alto, da sinistra a destra: il saggio Working Space nell’edizione americana (1986), francese (1987) e giapponese (1989). In basso, da sinistra a destra: la collezione di scritti (2001), in edizione inglese e tedesca, a cura di Franz-Joachim Verspohl (2001), e, infine, il testo in italiano su Caravaggio (2010)

Frank Stella non è solamente uno degli artisti di riferimento del XX secolo, ma uno tra quelli che si è certamente dedicato con maggiore impegno alla letteratura artistica. Il suo saggio Working Space – in cui egli si confronta prima con la storia dell’arte rinascimentale e barocca e poi con l’avanguardia del primo Novecento – è stato pubblicato da Harvard University Press nel 1986, ed è comparso in francese nel 1987 e giapponese nel 1989. Le sezioni del saggio su Caravaggio sono comparse separatamente in italiano nel 2010 (editore Abscondita). Una raccolta di suoi scritti è stata curata in inglese e tedesco da Franz-Joachim Verspohl nel 2001. La sua corrispondenza e i suoi manoscritti sono oggi disponibili allo Smithsonian Institute [109]. Forse la Ashton gli assegna un’importanza inferiore a quella che oggi gli viene universalmente attribuita. La breve citazione è tratta da una lezione tenuta a Brooklyn nel 1959, in cui l’artista spiega l’uso della tecnica nella sua arte. “Due problemi dovevano essere affrontati. Uno era spaziale e l'altro metodologico. Nel primo caso ho dovuto fare qualcosa a proposto della pittura relazionale, ovvero del bilanciamento delle varie parti del dipinto l'una rispetto all'altra. L’ovvia risposta è stata la simmetria: rendere la stessa immagine dappertutto. Rimaneva comunque la questione di come farlo in modo da rendere la profondità. Un'immagine simmetrica o una configurazione posizionata simmetricamente su uno sfondo aperto non trova il suo bilanciamento nello spazio illusionistico. La soluzione a cui sono arrivato (e probabilmente ce ne sono molte altre, anche se ne conosco solo una, ovvero la densità del colore), forza lo spazio illusionistico fuori dal dipinto a intervalli costanti usando uno schema regolato. Rimaneva semplicemente il problema di trovare un metodo di applicazione della pittura che seguisse e completasse la soluzione progettuale. Ciò è stato fatto utilizzando la tecnica e gli strumenti degli imbianchini” [110].

Fig. 63) A sinistra: l’articolo di Robert Smithson sull’Entropia, pubblicato su Artforum nel 1966. Al centro, la raccolta di scritti curata da Nancy Holt nel 1979. A destra: la raccolta curata da Jack Flam nel 1998.

Robert Smithson è uno dei più giovani artisti inseriti nell’antologia da Dore Ashton. La raccolta dei suoi scritti (The Writings of Robert Smithson) è stata pubblicata nel 1979 a cura di Nancy Holt, qualche anno dopo la sua morte in un incidente aereo; una seconda raccolta (Robert Smithson: The Collected Writings) è stata curata da Jack Flam nel 1998. Il testo citato dalla Ashton, dedicato all’applicazione del concetto di entropia all’arte, è tratto da Artforum del 1966. Ci offre una lettura teorica del minimalismo: “Invece di farci ricordare (come i vecchi monumenti) il passato, i nuovi monumenti sembrano farci dimenticare il futuro. Invece di essere realizzati con materiali naturali, come marmo, granito o altri tipi di roccia, i nuovi monumenti sono realizzati con materiali artificiali, plastica, cromo e luce elettrica. Non sono costruiti per i secoli, ma piuttosto contro i secoli. Sono coinvolti in una sistematica riduzione del tempo fino a frazioni di secondi, piuttosto che nel rappresentare i lunghi spazi dei secoli” [111].


Pop Art

Si è già detto nella prima parte di questo post che l’antologia non contiene alcun riferimento ad Andy Warhol (1928-1987). Non può certo trattarsi di una svista e deve essere segno di una marcata antipatia per l’artista più iconico di quegli anni. La Pop art è invece presente in Twentieth-Century Artists on Art con Roy Lichtenstein (1923-1997), Robert Rauschenberg (1925-2008), George Segal (1924-2000), Claes Oldenburg (1929-), Jasper Johns (1930-), James Rosenquist (1933-2017) e Jim Dine (1935-). Dei loro testi va detto che molti sembrano mettere in questione (probabilmente anche in toni sarcastici) le stesse basi della Pop art, e non sembrano comunque particolarmente convincenti. Che la Ashton non sia all’unisono con questa scuola è confermato del resto da una sua intervista del 2013, concessa al critico d’arte americano James Panero: “Non sono mai stato interessata alla Pop art. L'unico artista associato a quell’indirizzo che ho ammirato è stato Claes Oldenburg, ma non direi nemmeno che sia esattamente un artista pop. Quindi l'ho seguito e ho scritto su di lui, ma non tanto sugli altri. Con uno o due di loro sono stata in rapporti amichevoli, ma non ho mai scritto su di loro” [112].

La Fondazione Lichtenstein offre un catalogo completo [113] di tutti gli scritti di e sull’artista, universalmente conosciuto per le sue stampe di chiara ispirazione fumettistica, prodotte a partire dal 1957. Nelle poche parole introduttive, la Ashton lo ricorda invece anche (e forse soprattutto) per le sue opere espressioniste dei primi anni Cinquanta. Il brano nell’antologia è tratto da un’intervista con Gene R. Swenson (1934-2016) del 1963 [114]. Swenson era, all’epoca, un giovane critico d’arte che intervistava i maggiori artisti pop di quegli anni (“What is Pop Art? Answers from Eight Painters”) sulla rivista ARTNews. Swenson (che, dopo essere stato una giovane promessa della critica d’arte, fu vittima di gravi problemi di salute e sostanzialmente abbandonò il mestiere) chiede: “Che cos’è la Pop Art?”. Lichtenstein risponde: “Non lo so - l'uso dell'arte commerciale come tema della pittura, suppongo. È stato difficile realizzare un dipinto che fosse abbastanza spregevole da ottenere che nessuno lo volesse mai appeso: tutti appendevano tutto. Ormai si accettava quasi di appendere uno straccio di vernice gocciolante, tutti vi si erano abituati. L'unica cosa che tutti odiavano era l'arte commerciale; a quanto pare non sono riusciti ad odiarla abbastanza” [115]. La critica successiva interpretò le parole di Lichtenstein come un tentativo sarcastico di evitare il confronto con il tema [116]. 

Fig. 64) La collezione di scritti e interviste di Robert Rauschenberg edita in più lingue dalla casa editrice Polígrafa a cura di Sam Hunter nel 2007. Qui la copertina dell’edizione americana.

Una raccolta di scritti e interviste di Robert Rauschenberg è stata pubblicata dalla casa editrice Polígrafa simultaneamente in francese, spagnolo e inglese nel 2007. La citazione menzionata da Dore Ashton è straordinariamente breve e risale al 1959 (tratta dal catalogo della mostra Sixteen Americans al MoMa di New York). Lo stile è quello stringato di un aforisma: “La pittura è legata sia all'arte che alla vita. Nessuna delle due cose può essere realizzata. Cerco di agire in quel divario tra i due elementi” [117]. La Robert Rauschenberg Foundation offre un’amplissima offerta di materiali digitalizzati (compresa corrispondenza, interviste e articoli) [118].

George Segal è famoso per le sue sculture basate su calchi in gesso. Il suo è un vero e proprio ritorno al realismo, come egli scrive nel 1978 nel catalogo di una mostra tenutasi a Minneapolis. “Ho introdotto molto realismo nel mio lavoro, come correzione ad alcuni eccessi che ho notato nella pittura astratta degli anni '50. Lo consideravo un sano rimedio a riferimenti che erano diventati sempre più pallidi e tenui – ed erano ormai distaccati dalle esperienze di vita” [119]. Il brano continua con accenti quasi leonardeschi sulla necessità di osservare sempre gli uomini e i loro movimenti, ad esempio cogliendo le loro espressioni mentre si è alla guida della macchina durante la notte profonda, mentre si stagliano contro le luci di New York. Dello scultore non è stata pubblicata una raccolta di scritti. L’archivio dei manoscritti è oggi custodito dall’Università di Princeton [120].

Fig. 65) La raccolta di scritti di Claes Oldenburg pubblicata dal MoMa di New York nel 2013

Claes Oldenburg, lo si è detto, è forse l’unico artista pop che piaccia alla Ashton. Una raccolta dei suoi scritti tra 1956 e 1969 è stata pubblicata sotto il titolo Claes Oldenburg: Writing on the Side nel 2013: è stato edita dal MoMa di New York, con la curatela affidata a Achim Hochdörfer, Maartje Oldenburg e Barbara Schröder. Comprendono, oltre ad articoli e saggi, anche ampie citazioni dei suoi diari. La Fondazione dedicata a Claes Oldenburg e alla moglie Coosje van Bruggen presenta una lista di suoi scritti [121]. Le citazioni nell’antologia sono tratte da un articolo pubblicato sul mensile statunitense  Artforum nel 1966. In esso l'artista spiega i suoi meccanismi creativi, basati sull’imitazione di oggetti della vita quotidiana: “Uso un’ingenua imitazione. Questo non perché non ho immaginazione o perché desidero dire qualcosa sul mondo di tutti i giorni. Io imito 1. oggetti e 2. oggetti creati, ad esempio segni. Oggetti realizzati senza l'intenzione di creare "arte" e che ingenuamente contengono al tempo stesso una magia funzionale. Cerco di ampliarla ancora facendo uso della mia ingenuità, che non è artificiale” [122].


Fig. 66) La raccolta di scritti di Jasper Johns pubblicata dal MoMa di New York nel 1997

A Jasper Johns il MoMa di New York ha dedicato una collezione di Scritti, note di diario ed interviste nel 1997, a cura di Kirk Varnedoe e Christel Hollevoet. Il breve testo citato da Dore Ashton, tratto da un catalogo del MoMa del 1959, si riferisce a Cézanne, Duchamp e Leonardo. Da essi egli trae ispirazioni diverse, che lo aiutano a confrontarsi con una moltitudine di impulsi provenienti dalla natura. “In generale, sono contrario alla pittura che riguarda le concezioni della semplicità. Tutto mi sembra molto complesso” [123]. Johns è stato uno dei fondatori della Foundation for Contemporary Arts di New York nel 1963.

La ricca collezione di scritti di James Rosenquist è documentata dal sito internet dedicato all’artista [124]. La citazione nell’antologia è tratta da una monografia dell’artista Michael Compton (1947-) sull’arte pop. Rosenquist riflette nel 1964 sulla natura commerciale della sua creazione. “Penso che abbiamo una società libera; questa società libera consente delle invasioni di campo, come capita alle società commerciali. Così mi sono orientato, come un pubblicitario o una grande azienda, a questa inflazione visiva – tipica della pubblicità commerciale che è uno dei fondamenti della nostra società” [125].

Fig. 67) Raccolte di poesie di Jim Dine

In alcuni brani tratti da diverse interviste Jim Dine, padre del movimento americano Neo-dada, esprime per la verità dubbi e incertezze sulla Pop art stessa, considerata troppo esteriore. “In questo senso, non mi sento molto puro. Non mi occupo esclusivamente dell'immagine popolare. Mi preoccupo di essa più come parte del mio paesaggio. Sono sicuro che tutti sono sempre stati consapevoli di quel paesaggio, del paesaggio artistico, del vocabolario dell'artista, del dizionario dell'artista” [126]. È per molti versi sorprendente che non vi sia nessun riferimento alla sua produzione in versi, dal momento che Dine, oltre a dipingere,  è stato anche poeta. Sono sue le raccolte Diary of a Non-Deflector: Selected Poems (1987) e This Goofy Life of Constant Mourning (2004). Nel 2015 è uscito un volume che presenta tutte le sue poesie con il titolo Poems to work on.


Arte immateriale, installazioni e performance

La Ashton non rinuncia a indagare le ragioni dei movimenti che hanno a che fare con l’idea della smaterializzazione dell’arte (che assume ovviamente forme molto diverse negli anni Settanta e Ottanta). In ordine cronologico di nascita vorrei qui ricordare Allen Kaprow (1927-2006), Robert Irwin (1928-), Öyvind Fahlström (1928-1976), Donal Judd (1928-1994), Robert Morris (1931-2018) e Christo (1935-). 

Fig. 68) Saggi di Allen Caprow sugli Happening e l’interrelazione tra Happening e vita. A sinistra: Some Recent Happenings, originariamente pubblicati nel 1966 e qui in un’edizione del 2007. Al centro e a destra: Essays on the Blurring of Art and Life, in un’edizione del 1993 e del 2003.

Allen Kaprow – uno degli inventori dell’happening negli anni Cinquanta – scrive d’arte a partire dalla fine di quel decennio, sia con testi di critica - ad esempio sull’eredità di Jackson Pollock (1958) – sia su temi filosofici – come il saggio The Meaning of Life (1990). Dore Ashton cita un passo del suo pamphlet Some recent happenings del 1966, ristampato nel 2007: “Un Happening è un insieme di eventi eseguiti o percepiti in più di un tempo e di un luogo. I suoi ambienti materiali possono essere costruiti, presi o diretti direttamente da ciò che è disponibile o leggermente modificati; così come le sue attività possono essere inventate o banali. Un Happening,a differenza di uno spettacolo teatrale, può accadere in un supermercato, guidando lungo un'autostrada, sotto una pila di stracci e nella cucina di un amico, sia in una sola volta che in sequenza. Se in sequenza, il tempo può estendersi fino a più di un anno. L'Happening viene eseguito secondo un piano, ma senza prove, pubblico o ripetizione. È arte, ma sembra più vicino alla vita” [127]. Da ricordare che nel 1993 è stata pubblicata una raccolta di scritti dell’artista, dal titolo Saggi sull’unione di arte e vita (University of California Press), a cura di Jeff Kelley, poi ripubblicata in una versione ampliata nel 2003 dallo stesso editore. L’archivio di Allen Kaprow è custodito alla Fondazione Getty [128].

Fig. 69) Notes Toward a Conditional Art: Writings of Robert Irwin, Getty Publications, 2011

Di Robert Irwin è stata pubblicata nel 2011 una selezione di scritti a cura di Matthew Sims. L’artista ha sempre scritto molto (il suo ricco fondo archivistico è conservato presso la Getty Foundation [129]). Gli esperimenti minimalisti con la luce sono descritti nel 1976 in un passaggio che Dore Ashton trae da un catalogo del MoMa: “Ogni elemento ha le sue immagini; ha anche la sua fisicità. Può essere affrontato su entrambi i livelli. Ho allontanato la storia dell'arte moderna dalle immagini e ho cercato di affrontarla solo in termini di fisicità. Se si considera che abbiamo occhi molto focalizzati sull'immagine, questo è molto difficile (l'intelletto è un sistema di messa a fuoco). Quindi mi sono impegnato a realizzare ciò che alcuni chiamavano "far meno è più", cosa che non è affatto vera; stavo solo cercando di eliminare le immagini a favore della fisicità. Volevo massimizzare la fisicità minimizzando le immagini” [130].


Fig. 70) Raccolte di scritti di Öyvind Fahlström in inglese (2008) e francese (1982)

Il poeta e scrittore Öyvind Fahlström è oggi considerato un antesignano dell’arte multimediale, per aver integrato disegno, poesia, pittura e testi teatrali in installazioni neo-dadaiste di forte impegno sociale. Nato e cresciuto in Svezia, si trasferì prima a Parigi e poi a New York. La sua produzione comprende pieces teatrali, film, testi per installazioni e scritti d’estetica in svedese, ad esempio il Manifesto per una poesia concreta del 1953), studiati da Antonio Sergio Bessa in un saggio del 2008 intitolato Oyvind Fahlstrom: The Art of Writing. In precedenza, una sua raccolta di scritti era uscita in francese nel 2002 (Essais choisis) a cura di Vincent Pécoil. Quanto al brano citato dalla Ashton, ci vengono presentati alcuni pensieri del 1966 raccolti nel catalogo di una mostra tenutasi al MoMa del 1982, in cui si parla dell’interazione tra l’arte e la riforma sociale. L’arte è una fusione di divertimento e comprensione della realtà (a fusion of ‘pleasure’ and ‘insight’) [131]. Compito dell’artista è di creare arte secondo procedure che consentano anche a chi non ha mezzi finanziari di divertirsi e comprendere la realtà; dunque la trasformazione dell’arte da bene di consumo (un quadro) a forma aleatoria (un happening) ha in realtà anche un significato di democratizzazione dell’arte. “La pittura, la scultura, ecc. rappresentano oggi il mezzo artistico più arcaico, e dipendono ancora da mecenati feudali che pagano in modo esorbitante l'unicità e la magia del feticcio. (...) È tempo di incorporare i progressi della tecnologia per creare opere d'arte prodotte in serie, ottenibili sia da ricchi sia da non ricchi. Opere in cui l'artista mette tanta qualità nella concezione e il produttore tanta qualità nella produzione, così come si trova nelle migliori opere d'arte fatte a mano. Il valore della forma variabile: non avrai mai esattamente lo stesso pezzo del tuo vicino” [132].

Fig. 71) Da destra a sinistra: la raccolta di scritti completi di Donald Judd dal 1959 al 1975, pubblicati nel 1975 da New York University Press; la raccolta di scritti tra 1963 e 1990, pubblicata in francese dalla Galerie Lelong nel 2003; la raccolta di scritti completi dal 1958 al 1993, curata da Caitlin Murray e pubblicata nel 2016 dalla Judd Foundation e da David Zwirner Books; infine, la raccolta di interviste di Donald Judd, a cura del figlio Flavin Judd e di Caitlin Murray, anch’essa pubblicata dalla Judd Foundation e da David Zwirner Books nel 2019..
  
Donald Judd ha scritto molto, a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Una selezione davvero ristretta di testi è offerta sul sito internet della Fondazione Judd [133]. La prima raccolta di scritti di Judd è comparsa nel 1975, ad opera della New York University Press. Una nuova (e corposa) antologia (più di mille pagine) è stata pubblicata nel 2016 a cura della Judd Foundation e di David Zwirner Books; ad essa è seguita la recentissima raccolta di interviste, ad opera degli stessi editori (2019). La dichiarazione scelta da Dore Ashton, tratta da un articolo dell’artista del 1965, tratta del tema della complessità nell’arte, che è rimasta immutata, ma si esprime in forme diverse. L’arte delle epoche precedenti si traduceva nella rappresentazione prospettica di spazi e contenuti; l’arte astratta nella dimensione e nei lineamenti; quella posta in essere invece da Judd nell’unità formale. “Nel lavoro tridimensionale il tutto è realizzato secondo scopi complessi, e questi non sono dispersi ma affermati da una forma. Non è necessario che in un'opera vi siano molte cose da guardare, confrontare, analizzare una ad una, contemplare. La cosa nel suo insieme, la sua qualità nel suo insieme, è ciò che è interessante[134].

Fig. 72) La raccolta degli scritti di Robert Morris, pubblicata nel 1994 da MIT press

Gli scritti dello scultore Robert Morris sono stati raccolti da MIT Press in occasione di una mostra al Guggenheim Museum di New York nel 1994. La Ashton lo presenta come uno degli artisti più preparati in termini teorici, anche grazie alla sua formulazione di una teoria della percezione basata sul concetto di gestalt (Gestalt è originariamente un termine che significa forma. È un concetto tecnico legato alla percezione, ampiamente usato nella psicologia, compresa la psicologia dell’arte). Le caratteristiche di una gestalt sono che, che una volta che tutte le informazioni su di essa sono stabilite, come gestalt, essa si esaurisce: non si cerca, ad esempio, la gestalt di una gestalt. Inoltre, una volta stabilita, essa non si disintegra. Si è quindi liberi dalla forma e legati ad essa. Liberi o liberati a causa dell'esaurimento delle informazioni su di essa, come forma, ed invece legati ad essa perché rimane costante e indivisibile” [135].

Di Christo non abbiamo una raccolta di scritti (né il sito https://christojeanneclaude.net ne indica una lista). Nel passo scelto da Dore Ashton per l’antologia l’artista spiega di voler tornare all’epoca del decimo secolo dopo Cristo, quando l’arte era monumentale e dunque non era un bene materiale da possedere, ma “una comunicazione molto più fluida (...) molto più democratica di oggi. A quel tempo nessuno si occupava di possedere l'arte perché la gente possedeva i re e gli dei, e c'era un legame completo; per loro i re e gli dei erano la stessa cosa, ed erano il legame diretto con un'arte  che era reale, esistente” [136]. Il testo è tratto da un’intervista del 1979.


NOTE

[78] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art, New York, Pantheon Books, 1985, 302 pagine. Il libro è consultabile all’indirizzo https://archive.org/details/twentiethcentury0000asht. Citazione a pagina 231.


[80] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.193.


[82] L’articolo, intitolato Rectangular Structure in My Montage Paintings, è interamente consultabile su https://www.jstor.org/stable/1571921?seq=1#page_scan_tab_contents.

[83] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.192.

[84] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.215.


[86] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.206.

[87] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.206.



[90] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.188-189.

[91] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.240.



[94] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.253.


[96] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.244.


[98] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.222.



[101] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.228.

[102] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.204.



[105] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.189.

[106] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.216-217.


[108] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.213.


[110] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.256.

[111] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.255.



[114] L’intervista completa è accessibile alla pagina 

[115] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.229.


[117] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.243.


[119] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.248.



[122] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.241.

[123] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.220.


[125] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.246.

[126] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.201.

[127] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.221.



[130] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.218.

[131] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.203.

[132] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.204.


[134] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.221.

[135] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.233.

[136] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.196


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