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Charles-Alphonse Dufresnoy
De arte graphica
(Paris, 1668)
Edizione, traduzione e commentario a cura di Christopher Allen, Yasmin Haskell e Frances Muecke
Ginevra, Librairie Droz, 2005
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima
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La copertina dell'opera |
Poche opere possono dire di aver
‘fatto la storia’ come il poema didascalico in esametri latini intitolato De arte graphica di Charles-Alphonse
Dufresnoy (1611-1668); e, contemporaneamente, su poche opere esiste maggior
confusione. La verità è che il De arte
graphica inaugura una tradizione (di ambito fondamentalmente accademico)
legata all’insegnamento di precetti teorico-pratici ai giovani artisti. Di
volta in volta il testo viene accompagnato da note esplicative, e viene
tradotto dal latino in francese, italiano, inglese, tedesco. Non solo: le
traduzioni a volte sono in prosa e a volte sono in versi. Sin dall’anno di
edizione della princeps (come
vedremo) si interviene addirittura modificando la punteggiatura e quindi
assegnando un significato diverso ad alcuni passaggi. Benvenuta, dunque, è
l’edizione commentata dell’opera, con traduzione in inglese, che è stata
proposta nel 2005 da un trio di studiosi australiani (Christopher Allen, Yasmin
Haskell e Frances Muecke) per i tipi delle edizioni Droz. Oltre alla versione
originale del poema e a una nuova, moderna traduzione inglese in prosa, si
forniscono ricchissimi apparati di cui avrò modo di parlare nel corso di questa
recensione, ma, prima di testo e commento, sono inseriti i seguenti capitoli
introduttivi:
- Christopher Allen, Charles-Alphonse Dufresnoy, painter and poet;
- Yasmin Haskell, Dufresnoy’s De arte graphica and the traditions of didactic poetry: a little drop goes a long way;
- Frances Muecke, “A little French booke of painting”: the European dissemination of De arte graphica.
I perché di un successo
In realtà, leggendo i 549 versi
del poema la prima domanda che sorge spontanea è come mai il De arte graphica ebbe tutto questo
successo. In fondo, e i curatori lo dichiarano sin dall’inizio, il poema, di per
sé, non ha nulla di originale, raccogliendo e mettendo insieme una serie di
precetti che provengono dalla teoria dell’arte italiana da Leon Battista Alberti in poi. Dufresnoy, insomma, fa propri concetti (a partire dall’ut pictura poesis, in base al quale
pittura e poesia sono arti sorelle) che sono in circolazione da secoli. Non è
un caso, a questo proposito, che, nel commentario al poema, si tenga a chiarire
che non è possibile, in molti casi, capire quali siano le fonti puntuali
dell’autore, dato che sono ripresi concetti già espressi da molti altri prima dell’autore
francese. L’obiettivo, piuttosto, diventa quello di ricostruire la
circolazione di un’idea (e ciò rende peraltro le quasi duecento pagine del
commentario particolarmente preziose).
Il poema di Dufresnoy conosce
enorme successo perché esce nel momento giusto e diventa rapidamente simbolo.
La pubblicazione – si diceva – è del 1668. Vent’anni prima, a Parigi, è stata
fondata l’Academie Royale de Peinture et
Sculpture. Nonostante i difficili anni iniziali, corrispondenti alle turbolenze politiche della Fronda [1], l’Accademia parigina si impone
presto come caposaldo del potere crescente del Re Sole e come caposaldo del
classicismo nell’arte. Un caposaldo che è frutto del traghettamento
dell’egemonia artistica dall’Italia alla Francia di cui è simbolo l’uscita, nel 1651, del Trattato di pittura di Leonardo. Anche se (come vedremo) il De arte graphica non è percepito subito come un’opera a sostegno
dell’Accademia (e, anzi, se ne accentuano gli spiriti polemici), ben presto, in
un contesto europeo, l’opera assume il valore di emanazione della teoria
artistica più aggiornata. Il fatto di essere scritta in versi latini pone, di
per sé, la pittura sullo stesso piano della poesia nell’ambito delle arti
liberali, una rivendicazione che è tipica degli artisti, e su cui si è
consumato, ad esempio, a Parigi lo scontro fra Accademia e corporazione. Così
come la poesia ha il suo testo poetico di riferimento nell’Ars poetica di Orazio, la pittura ha ora in Dufresnoy il nuovo
Orazio, colui che ha saputo comporre un’opera di valore didascalico in cui sono
raccolte le massime che l’artista deve conoscere per assurgere alla gloria.
In realtà, tutto ciò capita
attorno alla fine del secolo. I decenni che vanno dal 1668 fino, appunto alla
conclusione del Seicento, sono assai più accidentati. La prima complicazione, ad
esempio, è che nel 1668 escono due ‘prime’ edizioni dell’opera, e non una sola.
Ma a questo punto dobbiamo fare un passo indietro e occuparci della biografia
di Dufresnoy.
Straniero in Italia, straniero in patria
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Charles-Alphonse Dufresnoy, Autoritratto, Copenaghen, Staten Museum for Kunst Fonte: http://collection.smk.dk/#/en/detail/KMSsp698 tramite Wikimedia Commons |
Charles-Alphonse Dufresnoy nasce
da famiglia benestante nel 1611. Compie studi di natura umanistica
probabilmente presso i Gesuiti, ma ben presto si indirizza alla pratica
artistica contro la volontà dei genitori, che lo diseredano. Fra 1633 e 1634
(la data esatta non è nota) si trasferisce a Roma e qui resta per vent’anni. È
straordinario, in realtà quanto poco noi si sappia di questi vent’anni, in particolare
con riferimento alle frequentazioni di Charles-Alphonse. È
certo che, nel 1635, Dufresnoy viene raggiunto da Pierre Mignard (1612-1695),
conosciuto probabilmente nell’atelier parigino di Simon Vouet, e i due formano
un sodalizio che li rende ‘inseparabili’ (tali vengono appunto descritti nella
letteratura artistica) e che dura vent’anni. Mignard ha sicuramente maggiore
talento artistico di Dufresnoy (sulle cui realizzazioni artistiche sappiamo in
realtà ben poco), mentre Charles-Alphonse manifesta un interesse straordinario
per la speculazione teorica che lo porta a consultare gran parte della
letteratura artistica dell’epoca. Non sappiamo esattamente quali siano gli anni
di compilazione del poema: in senso stretto, si potrebbe prendere per buona un’indicazione
dello stesso Dufresnoy, che parla del periodo che va dal 1640 al 1645 (p. 24),
ma lo stesso autore (nella dedica a Colbert) finisce per parlare di un impegno
durato trentadue anni, il che farebbe pensare che l’erudito francese avesse
iniziato praticamente appena arrivato a Roma. E, contemporaneamente, appare
difficile pensare a un uomo che per trent’anni si applica esclusivamente alla
redazione di un poema di 549 esametri. Alla fine del 1655 o all’inizio del
1656, Dufresnoy torna in Francia, probabilmente per sistemare vicende legate
all’eredità dei genitori. Sul tragitto è sicuramente documentata una lunga sosta a Venezia
(la passione per Tiziano, in realtà è già presente a Roma e non sappiamo se e
quali fossero stati gli spostamenti avvenuti nel corso dei vent’anni italiani;
è possibilissimo che fosse stato a Venezia anche prima) così come si presume un
passaggio a Mantova di cui si colgono echi nel poema.
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Pierre Mignard, Autoritratto, Parigi, Museo del Louvre Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mignard-autoportrait.jpg |
Il ritorno in Francia è un
trauma. A capo dell’Accademia si è andata affermando la figura di Charles Le
Brun (1619-1690) e Mignard, che ambisce a quel posto, ne boicotta
sistematicamente l’operato, schierandosi coi sostenitori della Corporazione [2]
e portando con sé Dufresnoy e lo scultore Michel Anguier (1612-1686).
Charles-Alphonse non è dunque ben visto in Accademia. A questo punto dobbiamo
affidarci a quanto scrive Roger de Piles (1635-1709) nella sua biografia del
nostro. Dufresnoy e de Piles si conoscono attorno al 1663. De Piles lo convince
a pubblicare il poema, e ad accompagnarlo con una traduzione francese (in
prosa) che permettesse la comprensione del testo anche a coloro che non
conoscevano il latino. Alla fine del 1664 Dufresnoy è colpito da un infarto.
Probabilmente le condizioni in cui rimane sono disastrose, tanto che Mignard ne
annuncia la morte nel 1665.
Le due ‘prime edizioni’ (1668)
Lo stesso de Piles conferma la
data nella sua biografia dell’artista. Non è vero. Dufresnoy muore, in realtà,
nel gennaio del 1668. Che senso abbiano le menzogne di Mignard e De Piles (nel
migliore dei casi pietose bugie per non rivelare il fatto che l’amico era un
vegetale) non è ben chiaro. Cert’è che de Piles s’impossessa (dapprima col
consenso di Mignard) del De arte graphica
e comincia a farne un’opera molto più ‘sua’: l’arricchisce con un commento e
con un glossario dei termini tecnici; interviene anche (seppur marginalmente)
sul testo latino. Checché ne scriva nella sua introduzione del 1668, appare
estremamente improbabile che la traduzione e il commento francesi riflettano le
volontà precise di Dufresnoy; sicuramente non mancano aspetti che mirano a
marcare una distanza rispetto alla gestione dell’Accademia da parte di Le Brun.
La circostanza poteva essere inizialmente gradita a Mignard, soprattutto alla
luce del fatto che era data come imminente l’uscita di un altro poema (La peinture), questa volta opera di
Charles Perrault (1628-1703) in cui Le Brun era consacrato come braccio
destro di Colbert in materia di politica artistica. Tuttavia, Mignard, a un
certo punto, deve percepire l’operazione di de Piles come eccessivamente
spregiudicata e non rispettosa del ruolo determinante dell’amico morente,
sicché decide di far pubblicare autonomamente il De arte graphica. Nella seconda metà del 1668 esce dunque la ‘vera’ princeps del poema, con testo
in latino e dedica a Colbert scritta da Dufresnoy. Il titolo completo è Caroli Alfonsi Du Fresnoy de Arte graphica
liber, sive diathesis graphidos et chromatices, trium picturae partium,
antiquorum ideae artificum nova restitutio. Lutetiae Parisiorum apud
Claudium Barbin (Parigi, per i tipi di Claude Barbin). L’edizione curata da
Roger de Piles esce quasi in contemporanea, questa volta con testo latino e
traduzione in prosa francese e un apparato interpretativo che si avvale di una
serie di note e di un glossario di termini tecnici per i ‘profani’; è inoltre
aggiunto un breve scritto intitolato Sentiments
de Charles-Alphonse Dufresnoy, anch’esso ritoccato. Il titolo dell’opera è L’Art de Peinture de Charles Alphonse Du
Fresnoy, Traduit en François
avec des Remarques nécessaires et tres-amples. A Paris, Chez Nicolas
L’Anglois ruë
Saint Jacques à la Victoire, Avec Privilege du Roy.
Come era logico aspettarsi, la
versione de Piles soppianta immediatamente quella Mignard, proprio per il fatto
di essere scritta anche in francese, e sarà quella seguita da tutti i
commentatori dei secoli successivi. Tuttavia quest’ultima ha il merito di portare
alla luce la versione originale del poema licenziata da Dufresnoy e di far
intendere che la fedeltà di de Piles alla volontà del defunto amico non è stata
in realtà assoluta, come invece sostenuto con forza dallo stesso de Piles.
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Nicolas Poussin, L'ispirazione del poeta, 1629-1630, Parigi, Museo del Louvre Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Poussin_Inspiration_of_the_poet_Louvre.jpg |
Contenuti e genesi
La presente edizione moderna
compie una scelta che oserei dire inevitabile. Recupera il testo dell’edizione
Mignard, perché originale e si basa su quello in termini di traduzione. Ciò non
toglie che tutto il resto sia comunque presente in appendice o segnalato nel
commentario. Il poema, nella sua versione primigenia, non prevede scansioni
interne all’opera. Inizia con i versi probabilmente di maggior livello
letterario, dedicati all’ut pictura
poesis, prosegue affrontando il tema dell’importanza di coniugare in
maniera corretta teoria e pratica e passa poi ai singoli ‘precetti’. De Piles,
invece, opera una distinzione (intervenuta dunque in un secondo momento) fra le
sezioni dedicate rispettivamente all’invenzione, al disegno e al colorito
(sull’uso del termine ‘colorito’ e non ‘colore’ si veda in questo blog la
recensione a Roger
de Piles, Discorso sul colorito)
che, se pure facilita l’orientamento del lettore, sacrifica gli ultimi precetti
che, in verità, hanno contenuto miscellaneo. Nessuno di questi, a ogni modo, e
come già detto, esprime idee ‘nuove’: si va dall’imitazione selettiva della
natura, alle statue antiche come modello, alla supremazia della pittura di
storia, al valore del decoro, alle regole che assicurano una composizione
equilibrata del quadro, per arrivare a consueti precetti di ordine etico
relativi alla conduzione di una vita morigerata, al ripudio della superbia,
alla costanza dell’applicazione nel lavoro.
È opinione dei curatori che il
‘nocciolo duro’ del poema risenta dello scontro consumatosi a Roma, presso
l’Accademia di San Luca nel 1636 fra fronte degli artisti classicisti da un
lato (il cui esponente di maggior spicco era Andrea Sacchi) e la nuova ondata
di artisti barocchi, capeggiati da Pietro da Cortona. Naturalmente Dufresnoy si
schiera dalla parte classicista (p. 43). Non sono certo dell’utilità (se non
simbolica) di richiamare un singolo evento specifico come causa di un conflitto
di idee, ma è evidente (e le volte di Palazzo Barberini dipinte proprio da
Sacchi e da Pietro da Cortona ne sono la prova oggettiva) che a confrontarsi
erano due mondi molto diversi.
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Pietro da Cortona, Trionfo della Divina Provvidenza, 1632-1639, Roma, Palazzo Barberini Fonte: www.ibaroque.it |
Andrea Sacchi, Allegoria della Divina Sapienza, 1629-1633, Roma, Palazzo Barberini Fonte: sailko tramite Wikimedia Commons |
La genesi dell’opera avrebbe
avuto un andamento per stratificazioni. Dapprima ci sarebbe stata la raccolta
dei singoli precetti, desunti dalla letteratura artistica e dal confronto vis-à-vis coi principali esponenti del
classicismo romano, e solo in un secondo momento l’effettiva redazione
dell’opera, non priva di ripensamenti e aggiunte che permetterebbero di
individuare inserimenti successivi rispetto alla prima stesura (si veda, ad
esempio, quanto scritto a p. 237 a commento dei versi delle righe 37-53). In
particolare, la sezione sul colore risentirebbe del lungo soggiorno veneziano compiuto
sulla strada verso casa.
Non è così certo che, da un punto
di vista letterario, l’unico modello di Dufresnoy sia stato Orazio con la sua Ars poetica. Se ne occupa Yasmine
Haskell nel secondo capitolo dell’introduzione all’opera. In particolare l’autrice
invita a guardare con attenzione agli scritti di emblematica, assai più diffusi
all’epoca di quanto non fossero i poemi didascalici, la cui numerosità esplode
soltanto nel XVIII secolo. Un discorso a parte merita la scelta di utilizzare
il latino come lingua di redazione.
Naturalmente potrebbe essere stata dettata dalla volontà di imitare
Orazio, o da quella di affermare la ‘nobiltà’ della pittura tramite l’adozione
di una lingua ‘nobile’ per eccellenza o di assicurare una maggiore circolazione
dell’opera a livello europeo (ma, come si è visto, l’edizione Mignard, che
riportava il solo testo latino, fu dimenticata immediatamente). La spiegazione,
tuttavia, potrebbe essere molto più semplice. Dufresnoy aveva una profonda
cultura umanistica grazie all’educazione ricevuta dai Gesuiti, e molto
probabilmente non parlava e scriveva correttamente in italiano, così come, dopo
vent’anni di soggiorno nel nostro Paese, non si sentiva perfettamente padrone
della lingua francese. Il latino sarebbe stato, insomma, l’idioma relativamente
al quale si sarebbe sentito più confidente.
Fine della Parte Prima
NOTE
[1] Si veda in questo blog la
recensione a Claire Farago, Janis Bell e Carlo Vecce, The Fabrication of Leonardo da Vinci’s Trattato della pittura, e in
particolare il paragrafo L’Accademia
reale di pittura e scultura e l’Accademia (parigina) di San Luca: conflitto fra
artisti e corporazione nella Parigi della Fronda.
[2] Vedi nota 1.
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