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lunedì 3 giugno 2019

Charles-Alphonse Dufresnoy. De arte graphica (Paris, 1668). Parte Prima


English Version

Charles-Alphonse Dufresnoy
De arte graphica
(Paris, 1668)
Edizione, traduzione e commentario a cura di Christopher Allen, Yasmin Haskell e Frances Muecke

Ginevra, Librairie Droz, 2005

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima


La copertina dell'opera

Poche opere possono dire di aver ‘fatto la storia’ come il poema didascalico in esametri latini intitolato De arte graphica di Charles-Alphonse Dufresnoy (1611-1668); e, contemporaneamente, su poche opere esiste maggior confusione. La verità è che il De arte graphica inaugura una tradizione (di ambito fondamentalmente accademico) legata all’insegnamento di precetti teorico-pratici ai giovani artisti. Di volta in volta il testo viene accompagnato da note esplicative, e viene tradotto dal latino in francese, italiano, inglese, tedesco. Non solo: le traduzioni a volte sono in prosa e a volte sono in versi. Sin dall’anno di edizione della princeps (come vedremo) si interviene addirittura modificando la punteggiatura e quindi assegnando un significato diverso ad alcuni passaggi. Benvenuta, dunque, è l’edizione commentata dell’opera, con traduzione in inglese, che è stata proposta nel 2005 da un trio di studiosi australiani (Christopher Allen, Yasmin Haskell e Frances Muecke) per i tipi delle edizioni Droz. Oltre alla versione originale del poema e a una nuova, moderna traduzione inglese in prosa, si forniscono ricchissimi apparati di cui avrò modo di parlare nel corso di questa recensione, ma, prima di testo e commento, sono inseriti i seguenti capitoli introduttivi:

  • Christopher Allen, Charles-Alphonse Dufresnoy, painter and poet;
  • Yasmin Haskell, Dufresnoy’s De arte graphica and the traditions of didactic poetry: a little drop goes a long way;
  • Frances Muecke, “A little French booke of painting”: the European dissemination of De arte graphica.


I perché di un successo

In realtà, leggendo i 549 versi del poema la prima domanda che sorge spontanea è come mai il De arte graphica ebbe tutto questo successo. In fondo, e i curatori lo dichiarano sin dall’inizio, il poema, di per sé, non ha nulla di originale, raccogliendo e mettendo insieme una serie di precetti che provengono dalla teoria dell’arte italiana da Leon Battista Alberti in poi. Dufresnoy, insomma, fa propri concetti (a partire dall’ut pictura poesis, in base al quale pittura e poesia sono arti sorelle) che sono in circolazione da secoli. Non è un caso, a questo proposito, che, nel commentario al poema, si tenga a chiarire che non è possibile, in molti casi, capire quali siano le fonti puntuali dell’autore, dato che sono ripresi concetti già espressi da molti altri prima dell’autore francese. L’obiettivo, piuttosto, diventa quello di ricostruire la circolazione di un’idea (e ciò rende peraltro le quasi duecento pagine del commentario particolarmente preziose).

Il poema di Dufresnoy conosce enorme successo perché esce nel momento giusto e diventa rapidamente simbolo. La pubblicazione – si diceva – è del 1668. Vent’anni prima, a Parigi, è stata fondata l’Academie Royale de Peinture et Sculpture. Nonostante i difficili anni iniziali, corrispondenti alle turbolenze politiche della Fronda [1], l’Accademia parigina si impone presto come caposaldo del potere crescente del Re Sole e come caposaldo del classicismo nell’arte. Un caposaldo che è frutto del traghettamento dell’egemonia artistica dall’Italia alla Francia di cui è simbolo l’uscita, nel 1651,  del Trattato di pittura di Leonardo. Anche se (come vedremo) il De arte graphica non è percepito subito come un’opera a sostegno dell’Accademia (e, anzi, se ne accentuano gli spiriti polemici), ben presto, in un contesto europeo, l’opera assume il valore di emanazione della teoria artistica più aggiornata. Il fatto di essere scritta in versi latini pone, di per sé, la pittura sullo stesso piano della poesia nell’ambito delle arti liberali, una rivendicazione che è tipica degli artisti, e su cui si è consumato, ad esempio, a Parigi lo scontro fra Accademia e corporazione. Così come la poesia ha il suo testo poetico di riferimento nell’Ars poetica di Orazio, la pittura ha ora in Dufresnoy il nuovo Orazio, colui che ha saputo comporre un’opera di valore didascalico in cui sono raccolte le massime che l’artista deve conoscere per assurgere alla gloria.

In realtà, tutto ciò capita attorno alla fine del secolo. I decenni che vanno dal 1668 fino, appunto alla conclusione del Seicento, sono assai più accidentati. La prima complicazione, ad esempio, è che nel 1668 escono due ‘prime’ edizioni dell’opera, e non una sola. Ma a questo punto dobbiamo fare un passo indietro e occuparci della biografia di Dufresnoy.


Straniero in Italia, straniero in patria

Charles-Alphonse Dufresnoy, Autoritratto, Copenaghen, Staten Museum for Kunst
Fonte: http://collection.smk.dk/#/en/detail/KMSsp698 tramite Wikimedia Commons


Charles-Alphonse Dufresnoy nasce da famiglia benestante nel 1611. Compie studi di natura umanistica probabilmente presso i Gesuiti, ma ben presto si indirizza alla pratica artistica contro la volontà dei genitori, che lo diseredano. Fra 1633 e 1634 (la data esatta non è nota) si trasferisce a Roma e qui resta per vent’anni. È straordinario, in realtà quanto poco noi si sappia di questi vent’anni, in particolare con riferimento alle frequentazioni di Charles-Alphonse. È certo che, nel 1635, Dufresnoy viene raggiunto da Pierre Mignard (1612-1695), conosciuto probabilmente nell’atelier parigino di Simon Vouet, e i due formano un sodalizio che li rende ‘inseparabili’ (tali vengono appunto descritti nella letteratura artistica) e che dura vent’anni. Mignard ha sicuramente maggiore talento artistico di Dufresnoy (sulle cui realizzazioni artistiche sappiamo in realtà ben poco), mentre Charles-Alphonse manifesta un interesse straordinario per la speculazione teorica che lo porta a consultare gran parte della letteratura artistica dell’epoca. Non sappiamo esattamente quali siano gli anni di compilazione del poema: in senso stretto, si potrebbe prendere per buona un’indicazione dello stesso Dufresnoy, che parla del periodo che va dal 1640 al 1645 (p. 24), ma lo stesso autore (nella dedica a Colbert) finisce per parlare di un impegno durato trentadue anni, il che farebbe pensare che l’erudito francese avesse iniziato praticamente appena arrivato a Roma. E, contemporaneamente, appare difficile pensare a un uomo che per trent’anni si applica esclusivamente alla redazione di un poema di 549 esametri. Alla fine del 1655 o all’inizio del 1656, Dufresnoy torna in Francia, probabilmente per sistemare vicende legate all’eredità dei genitori. Sul tragitto è sicuramente documentata una lunga sosta a Venezia (la passione per Tiziano, in realtà è già presente a Roma e non sappiamo se e quali fossero stati gli spostamenti avvenuti nel corso dei vent’anni italiani; è possibilissimo che fosse stato a Venezia anche prima) così come si presume un passaggio a Mantova di cui si colgono echi nel poema.

Pierre Mignard, Autoritratto, Parigi, Museo del Louvre
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mignard-autoportrait.jpg

Il ritorno in Francia è un trauma. A capo dell’Accademia si è andata affermando la figura di Charles Le Brun (1619-1690) e Mignard, che ambisce a quel posto, ne boicotta sistematicamente l’operato, schierandosi coi sostenitori della Corporazione [2] e portando con sé Dufresnoy e lo scultore Michel Anguier (1612-1686). Charles-Alphonse non è dunque ben visto in Accademia. A questo punto dobbiamo affidarci a quanto scrive Roger de Piles (1635-1709) nella sua biografia del nostro. Dufresnoy e de Piles si conoscono attorno al 1663. De Piles lo convince a pubblicare il poema, e ad accompagnarlo con una traduzione francese (in prosa) che permettesse la comprensione del testo anche a coloro che non conoscevano il latino. Alla fine del 1664 Dufresnoy è colpito da un infarto. Probabilmente le condizioni in cui rimane sono disastrose, tanto che Mignard ne annuncia la morte nel 1665.


Le due ‘prime edizioni’ (1668)

Lo stesso de Piles conferma la data nella sua biografia dell’artista. Non è vero. Dufresnoy muore, in realtà, nel gennaio del 1668. Che senso abbiano le menzogne di Mignard e De Piles (nel migliore dei casi pietose bugie per non rivelare il fatto che l’amico era un vegetale) non è ben chiaro. Cert’è che de Piles s’impossessa (dapprima col consenso di Mignard) del De arte graphica e comincia a farne un’opera molto più ‘sua’: l’arricchisce con un commento e con un glossario dei termini tecnici; interviene anche (seppur marginalmente) sul testo latino. Checché ne scriva nella sua introduzione del 1668, appare estremamente improbabile che la traduzione e il commento francesi riflettano le volontà precise di Dufresnoy; sicuramente non mancano aspetti che mirano a marcare una distanza rispetto alla gestione dell’Accademia da parte di Le Brun. La circostanza poteva essere inizialmente gradita a Mignard, soprattutto alla luce del fatto che era data come imminente l’uscita di un altro poema (La peinture), questa volta opera di Charles Perrault (1628-1703) in cui Le Brun era consacrato come braccio destro di Colbert in materia di politica artistica. Tuttavia, Mignard, a un certo punto, deve percepire l’operazione di de Piles come eccessivamente spregiudicata e non rispettosa del ruolo determinante dell’amico morente, sicché decide di far pubblicare autonomamente il De arte graphica. Nella seconda metà del 1668 esce dunque la ‘vera’ princeps del poema, con testo in latino e dedica a Colbert scritta da Dufresnoy. Il titolo completo è Caroli Alfonsi Du Fresnoy de Arte graphica liber, sive diathesis graphidos et chromatices, trium picturae partium, antiquorum ideae artificum nova restitutio. Lutetiae Parisiorum apud Claudium Barbin (Parigi, per i tipi di Claude Barbin). L’edizione curata da Roger de Piles esce quasi in contemporanea, questa volta con testo latino e traduzione in prosa francese e un apparato interpretativo che si avvale di una serie di note e di un glossario di termini tecnici per i ‘profani’; è inoltre aggiunto un breve scritto intitolato Sentiments de Charles-Alphonse Dufresnoy, anch’esso ritoccato. Il titolo dell’opera è L’Art de Peinture de Charles Alphonse Du Fresnoy, Traduit en François avec des Remarques nécessaires et tres-amples. A Paris, Chez Nicolas L’Anglois ruë Saint Jacques à la Victoire, Avec Privilege du Roy.

Come era logico aspettarsi, la versione de Piles soppianta immediatamente quella Mignard, proprio per il fatto di essere scritta anche in francese, e sarà quella seguita da tutti i commentatori dei secoli successivi. Tuttavia quest’ultima ha il merito di portare alla luce la versione originale del poema licenziata da Dufresnoy e di far intendere che la fedeltà di de Piles alla volontà del defunto amico non è stata in realtà assoluta, come invece sostenuto con forza dallo stesso de Piles.

Nicolas Poussin, L'ispirazione del poeta, 1629-1630, Parigi, Museo del Louvre
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Poussin_Inspiration_of_the_poet_Louvre.jpg

Contenuti e genesi

La presente edizione moderna compie una scelta che oserei dire inevitabile. Recupera il testo dell’edizione Mignard, perché originale e si basa su quello in termini di traduzione. Ciò non toglie che tutto il resto sia comunque presente in appendice o segnalato nel commentario. Il poema, nella sua versione primigenia, non prevede scansioni interne all’opera. Inizia con i versi probabilmente di maggior livello letterario, dedicati all’ut pictura poesis, prosegue affrontando il tema dell’importanza di coniugare in maniera corretta teoria e pratica e passa poi ai singoli ‘precetti’. De Piles, invece, opera una distinzione (intervenuta dunque in un secondo momento) fra le sezioni dedicate rispettivamente all’invenzione, al disegno e al colorito (sull’uso del termine ‘colorito’ e non ‘colore’ si veda in questo blog la recensione a Roger de Piles, Discorso sul colorito) che, se pure facilita l’orientamento del lettore, sacrifica gli ultimi precetti che, in verità, hanno contenuto miscellaneo. Nessuno di questi, a ogni modo, e come già detto, esprime idee ‘nuove’: si va dall’imitazione selettiva della natura, alle statue antiche come modello, alla supremazia della pittura di storia, al valore del decoro, alle regole che assicurano una composizione equilibrata del quadro, per arrivare a consueti precetti di ordine etico relativi alla conduzione di una vita morigerata, al ripudio della superbia, alla costanza dell’applicazione nel lavoro.

È opinione dei curatori che il ‘nocciolo duro’ del poema risenta dello scontro consumatosi a Roma, presso l’Accademia di San Luca nel 1636 fra fronte degli artisti classicisti da un lato (il cui esponente di maggior spicco era Andrea Sacchi) e la nuova ondata di artisti barocchi, capeggiati da Pietro da Cortona. Naturalmente Dufresnoy si schiera dalla parte classicista (p. 43). Non sono certo dell’utilità (se non simbolica) di richiamare un singolo evento specifico come causa di un conflitto di idee, ma è evidente (e le volte di Palazzo Barberini dipinte proprio da Sacchi e da Pietro da Cortona ne sono la prova oggettiva) che a confrontarsi erano due mondi molto diversi.

Pietro da Cortona, Trionfo della Divina Provvidenza, 1632-1639, Roma, Palazzo Barberini
Fonte: www.ibaroque.it

Andrea Sacchi, Allegoria della Divina Sapienza, 1629-1633, Roma, Palazzo Barberini
Fonte: sailko tramite Wikimedia Commons

La genesi dell’opera avrebbe avuto un andamento per stratificazioni. Dapprima ci sarebbe stata la raccolta dei singoli precetti, desunti dalla letteratura artistica e dal confronto vis-à-vis coi principali esponenti del classicismo romano, e solo in un secondo momento l’effettiva redazione dell’opera, non priva di ripensamenti e aggiunte che permetterebbero di individuare inserimenti successivi rispetto alla prima stesura (si veda, ad esempio, quanto scritto a p. 237 a commento dei versi delle righe 37-53). In particolare, la sezione sul colore risentirebbe del lungo soggiorno veneziano compiuto sulla strada verso casa.

Non è così certo che, da un punto di vista letterario, l’unico modello di Dufresnoy sia stato Orazio con la sua Ars poetica. Se ne occupa Yasmine Haskell nel secondo capitolo dell’introduzione all’opera. In particolare l’autrice invita a guardare con attenzione agli scritti di emblematica, assai più diffusi all’epoca di quanto non fossero i poemi didascalici, la cui numerosità esplode soltanto nel XVIII secolo. Un discorso a parte merita la scelta di utilizzare il latino come lingua di redazione.

Naturalmente potrebbe essere stata dettata dalla volontà di imitare Orazio, o da quella di affermare la ‘nobiltà’ della pittura tramite l’adozione di una lingua ‘nobile’ per eccellenza o di assicurare una maggiore circolazione dell’opera a livello europeo (ma, come si è visto, l’edizione Mignard, che riportava il solo testo latino, fu dimenticata immediatamente). La spiegazione, tuttavia, potrebbe essere molto più semplice. Dufresnoy aveva una profonda cultura umanistica grazie all’educazione ricevuta dai Gesuiti, e molto probabilmente non parlava e scriveva correttamente in italiano, così come, dopo vent’anni di soggiorno nel nostro Paese, non si sentiva perfettamente padrone della lingua francese. Il latino sarebbe stato, insomma, l’idioma relativamente al quale si sarebbe sentito più confidente.

Fine della Parte Prima


NOTE

[1] Si veda in questo blog la recensione a Claire Farago, Janis Bell e Carlo Vecce, The Fabrication of Leonardo da Vinci’s Trattato della pittura, e in particolare il paragrafo L’Accademia reale di pittura e scultura e l’Accademia (parigina) di San Luca: conflitto fra artisti e corporazione nella Parigi della Fronda.

[2] Vedi nota 1.



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