English Version
Keith Haring
Diari
Traduzione di Giovanni Amadasi e Giuliana Picco
Premessa di David Hockney
Introduzione di Robert Farris Thompson
Milano, Mondadori, 2001, p.345
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Terza
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Terza
[Versione originale: gennaio 2019 - Nuova versione: aprile 2019]
Fig. 11) Alcune pagine dei quaderni originali dei Diari di Keith Haring
|
Fra
l’interruzione dei Diari (26 luglio
1980) e la loro regolare ripresa (7 luglio 1986) passano sei anni. Per Keith
Haring molto è cambiato. Benché ancora molto giovane (ha 28 anni), è divenuto
famosissimo e gira tutto il mondo per far fronte alle richieste. Viaggi in
aereo e attese negli aeroporti e negli hotel sono i momenti in cui Keith riesce
a scrivere. Proprio per questo motivo, la seconda parte dei Diari finisce per avere il sapore di una
cronaca di viaggio. New York e le sue frequentazioni finiscono in secondo
piano; negli Stati Uniti sono riportate le esperienze fatte a Kansas City e
Chicago; mentre ampio spazio è lasciato ai soggiorni in Europa e Asia.
Al
di là della narrazione degli eventi personali, la seconda parte dei Diari approfondisce due aspetti
importanti: in primo luogo testimonia dell’esistenza di una rete di artisti e
protagonisti del mondo dell’arte che sostiene Haring quasi in ogni parte del
mondo e dall’altro chiarisce come il suo successo – oltre ad essere dovuto alle
sue qualità d’artista – derivi anche dalla sua enorme capacità di socializzare
e di trasformare occasioni casuali d’incontro in amicizie consolidate nel
tempo. In un’epoca come la nostra dove il valore degli artisti dipende
soprattutto dal valore iconico delle immagini che producono, la letteratura
artistica li ritrasforma in uomini che agiscono all’interno di ambiti sociali
ben definiti. Non è soltanto la diffusione delle immagini sui media – insomma -
a decidere il destino degli artisti.
Frammenti: Bruxelles-Amsterdam (1982)
e Milano (1984)
Posto
che l’intervallo nella stesura dei Diari –
come detto – dura sei anni e va dal 1980 al 1986, i curatori delle memorie
dell’artista hanno cercato, in qualche modo, di colmare questo vuoto andando
alla ricerca di note sparse tra le carte di Haring. Del marzo 1982 è una breve
pagina scritta all’aeroporto di Bruxelles: “È
passato molto tempo dall’ultima volta che ho scritto qualcosa. Sono successe
tante cose. Così tante che non sono stato in grado di scriverle. Probabilmente
dovrei tenere un diario giornaliero, eppure non mi pare di essere sempre in
grado di mettermi a scrivere” [62]. Keith si confronta con la cultura
europea. Comprende che essa gli offre le stesse possibilità espressive d’azione
urbana in quanto artista di strada: “Disegnare
in strada con i gessetti ad Amsterdam mi ha fatto capire che lo posso fare in
qualunque parte del mondo (e con risultati simili [63]. D’altro canto, in Europa emerge il suo
‘sentirsi americano’, ossia diverso rispetto alla cultura europea: “Ma mi manca New York (…). È buffo, ma venire
qui mi ha fatto sentire ancora più contento di essere americano” [64]. Le poche righe del 1982 contengono un giudizio severo nei
confronti di uno dei pittori che, in Olanda, è visto da decenni come ponte tra
la cultura pittorica europea e quella americana, quel Willem de Kooning (1904-1997)
che nasce a Rotterdam e si trasferisce giovanissimo negli Stati Uniti per poi
imporvisi (dagli anni Cinquanta in poi) come uno dei maggiori esponenti
dell’espressionismo astratto: “Vedere gli
orribili nuovi dipinti di Willem de Kooning alla mostra dello Stedelijk mi
spaventa. Preferirei morire che diventare così” [65]. Keith si compiace,
invece, del proprio stile: “Comunque al
punto in cui sto adesso mi sento piuttosto bene. Voglio dire, per certi aspetti
è la situazione che ho sempre voluto o che ho sempre sognato [66].
Appartengono
sempre ai frammenti alcune pagine scritte in occasione di un viaggio in Italia
nel giugno 1984. In quell’occasione Haring ricorda che quella non era la prima
volta che visitava il nostro Paese: l’anno prima aveva dipinto a Milano il
negozio Fiorucci (“La nostra prima visita
a Milano nel 1983 fu per dipingere completamente con lo spray il negozio di
Fiorucci. Lo dipingemmo in tredici ore” [67]). Nel 1984 Keith è ancora a
Milano per cercare materiali per un’installazione che deve presentare alla
Biennale di Venezia e perché ha intenzione di realizzare con materiali locali
alcune opere destinate ad esse esposte in una personale a lui dedicata nella
galleria milanese di Salvatore Ala (1941–2014). Ad esempio, vuol dipingere vasi
in terracotta e si reca a tal proposito in un laboratorio nel capoluogo lombardo:
“Sono abituato a lavorare in questo modo;
visitare un paese e produrre arte sul posto. (…) Ho iniziato visitando un
laboratorio alla periferia della città dove producono oggetti in terracotta. Ho
scelto vasi di varie dimensioni e forme e il giorno successivo ho iniziato
sistematicamente a sabbiarli, lavarli e quindi a decorarli con inchiostro
indelebile. (…) Il confronto tra la storia della pittura su vaso e l’approccio
contemporaneo con il pennarello, la giustapposizione di simboli nuovi e antichi
producono un’ironica mescolanza di opposti” [68].
Alla
creazione delle opere per la mostra organizzata da Salvatore Ala lavora assieme
a Angel Ortiz (1967-), pittore graffitista americano che si firma semplicemente
‘L.A.2’. Insieme i due dipingono alcune sculture in gesso (acquistate a
Torino), un totem e altre strutture in legno realizzate appositamente da una
famosa ditta di arredamento a Milano. A proposito di una delle sculture in
gesso acquistate a Torino (si tratta di un modello del David di Michelangelo),
Keith scrive: “Mi piacerebbe soltanto che
Michelangelo potesse vederle, ma anche questa volta dico che forse le vedrà”
[69].
Fig. 12) Il poster della mostra: “Keith Haring – About Art” tenutasi a Palazzo Reale a Milano tra il 21 febbraio e il 18 giugno 2017
|
Le
pitture e le sculture italiane sono tra le prime opere che Haring dipinge in
acrilico fluorescente (si è detto nella prima parte di questo post come,
inizialmente, l’approccio al colore dell’artista fosse quanto mai circospetto):
“I dipinti, che costituivano il corpo
centrale della mostra, erano realizzazioni esclusivamente mie. Sono alcuni dei
miei primi lavori con i colori acrilici su mussola tesa. Decisi di iniziare a dipingere
con gli acrilici a causa della grande gamma di colori che avevo ignorato nei
miei precedenti lavori su vinile” [70].
Il
tono usato per descrivere l’esperienza milanese è pieno di entusiasmo: “A Milano trovai molte nuove idee e immagini
che andarono a finire direttamente nel lavoro. Stavo in galleria a dipingere
fino a tardi ogni sera, finché le mani mi facevano male (…) Un’altra cosa
grandiosa della mostra fu l’inaugurazione. (…) Vennero molte persone, molti
giovani, gente della moda e appassionati d’arte e persino il sindaco di Milano”
[71]. Il sindaco, per la cronoca, era Carlo
Tognoli (1938-). La recente mostra: “Keith Haring: About Art” tenutasi al Palazzo Reale di Milano è stata anche
l’occasione per tornare a esporre di nuovo (oltre a molte altre opere) la
produzione di quelle settimane italiane.
Il
vero e proprio ritorno ai Diari si ha
nel luglio 1986. Haring si trova a Montreux, in Svizzera, dove disegna, insieme
ad Andy Warhol, il poster per il famosissimo jazz festival che vi si tiene ogni
estate; Keith è un habitué del festival, di cui ha disegnato il poster anche
nel 1983: “È passato così tanto tempo da
quando ho provato a scrivere qualcosa su ciò che stava succedendo (sta
succedendo) nella mia vita. Si è mosso tutto talmente in fretta che l’unico punto
di riferimento sono i biglietti aerei e i vari articoli delle riviste in
occasione di viaggi ed esposizioni. Un giorno suppongo che questo costituirà la
mia biografia” [72]. È qui che compare per la prima volta l’idea che i Diari possano essere letti da qualcuno
in futuro. Non manca anche un riferimento all’importanza della letteratura
artistica: “Solo adesso mi rendo conto
dell’importanza di una biografia. Voglio dire, ho sempre saputo che mi piaceva
leggere (e ne ho tratto molto insegnamento) le biografie di artisti che
ammiravo. Probabilmente è la mia principale fonte d’istruzione” [73]. L’artista spiega di aver smesso di tenere
le sue memorie anche per le critiche impietose ricevute da uno dei suoi
insegnanti americani; ora, però, riscopre la qualità dei suoi scritti
giovanili, attribuendo ad essi la capacità di spiegare lo sviluppo del suo
stile. “All’inizio della ‘carriera’ (che
parola orribile) fui distolto da un insegnante che giudicava le cose che io scrivevo
pretenziose e fine a loro stesse. Anni dopo, leggendo ciò che scrissi nel 1978,
non mi sembravano così pretenziose, almeno per quanto si riferisce a ciò che
‘volevo fare’, cose che effettivamente feci nei quattro o cinque anni a seguire”
[74].
Quando
ricomincia a scrivere, Keith prova a spiegarsi – anche in termini di stile
pittorico – i motivi per cui il successo gli ha arriso. Attribuisce la
circostanza all’uso della linea come elemento ‘primitivo’ (anche se il termine
‘primitivo’ non lo convince appieno) che è capace di creare un legame tra
l’individuo e la sua essenza: in un’epoca di crescente complessità, la
semplicità paga. L’arte gioca un ruolo fondamentale nella definizione
dell’identità delle persone e il pittore comprende che il suo valore ha una
valenza sociale: “La ‘responsabilità
sociale’ che vedo nel mio lavoro si trova nella LINEA stessa. L’accettazione
della mia LINEA è responsabile dell’accettazione di me come figura pubblica. Il
collegamento con la cultura ‘primitiva’ (odio questa parola) è la chiave per
capire come e perché la mia arte sia diventata del tutto accettabile e
abbastanza naturale in un’epoca che si trova, tecnologicamente e
ideologicamente, lontana dalle cosiddette culture ‘primitive’ ” [75].
![]() |
Fig. 13) Il volume “Keith Haring a Milano” di Alessandra Galasso, pubblicato da Johan e Levi Editore nel 2017 |
Nella
medesima pagina del diario Keith si sofferma sul suo rapporto con Andy Warhol.
Si tratta di un artista ben diverso da lui, ma che considera comunque un
maestro (e che raffigura spesso, in quegli anni, nelle vesti di uno strambo
Micky Mouse): “Il mio movimento consiste
di un’unica persona. Ci sono svariate persone il cui lavoro ha delle
somiglianze, per certi aspetti e caratteristiche, con quello che sto facendo,
ma nessuno le ha tutte. Persino Andy Warhol, a cui vengo spesso paragonato, è,
di fatto, un tipo di artista molto, molto differente. Andy ha esercitato una
grossa influenza come modello sia di cosa essere sia di cosa non essere” [76]. Ribadirà quelle parole di
grande rispetto nel 1987, alla notizia della morte di Warhol: “La vita e il lavoro di Andy hanno reso possibile il mio
lavoro. Andy aveva stabilito il precedente che rende possibile l’esistenza
della mia arte. È stato il primo vero artista pubblico in senso globale, e la sua arte e la sua vita hanno
cambiato il concetto di ‘arte e vita’ nel XX secolo. È stato il primo vero
‘artista moderno’. Andy probabilmente era l’unico, vero, artista pop” [77].
Vita e morte nei Diari
Fra
le motivazioni che lo spingono a ricominciare i Diari compare anche la paura della morte [78]. Haring ne parla per
la prima volta scrivendo a Montreaux, nel luglio 1986. Siamo negli anni che
segnano il boom dell’AIDS. Keith ha visto morire molti suoi amici per quella
malattia, probabilmente teme di poterla contrarre (cosa che avverrà realmente)
e riflette quindi sulla caducità dell’esistenza umana. “La vita è così fragile. C’è una linea molto sottile tra vita e morte,
Mi rendo conto di camminare su questa linea. Vivendo a New York e anche volando
così spesso in aereo, mi trovo di fronte ogni giorno alla possibilità di morire”
[79].
I Diari rappresentano, purtroppo, anche il
lugubre elenco dei decessi di molti giovani amici, verificatisi nel giro di
pochi anni. Keith dedica una pagina affettuosa a Francesca Alinovi (1948–1983)
[80], critica d’arte specializzata nel graffitismo americano, vittima a Bologna
di un delitto passionale che all’epoca fece molto scalpore. Sarebbe stata
Francesca – a suo avviso – ad avergli fatto la miglior intervista della sua
vita. Keith vede la morte negli occhi del giovanissimo amico designer Martin
Burgoyne (1963-1986) [81], ammalatosi di AIDS e deceduto subito dopo; è
raggiunto in Giappone dalla notizia della scomparsa del pittore inglese Brion
Gysin (1916-1986) [82], padre storico del graffitismo sin dagli anni Sessanta,
morto di cancro; viene a sapere in Brasile della morte inaspettata di Andy
Warhol (1928-1987) [83], spentosi dopo un’operazione chirurgica di routine.
Vengono poi a mancare, a causa dell’HIV, anche il suo agente e ‘angelo custode’
Bobby Breslau (1943-1987) [84], manager del negozio aperto a New York (il Pop Shop) e l’ex compagno Juan Dubose
(1988) [85]. Infine, vi è l’assurda scomparsa dell’amico fotografo, scrittore e
collezionista Yves Arman (1954-1989) [86], che muore in un incidente stradale
proprio mentre sta viaggiando dalla Costa Azzurra a Madrid per incontrare
Keith. L’artista ne è sconvolto, tanto
da dedicare molte pagine delle sue memorie al ricordo di Yves e della sua
famiglia. Molto si è scritto sull’atmosfera di morte che circonda Haring in
quegli anni, anche tenendo conto che sapeva di essere sieropositivo e che il
passaggio da una fase ‘silente’ a quella finale della malattia era all’epoca
ineluttabile. Il 28 marzo 1987 Haring scrive: “I miei amici stanno cadendo come mosche e so nel mio cuore che è solo
l’intervento divino che mi ha tenuto vivo
così a lungo. Non so se mi restano cinque mesi o cinque anni, ma so di avere i
giorni contati. Questa è la ragione per cui i miei progetti e le mie attività
sono così importanti per me” [87].
Se
però mi è concesso un elemento di stupore, in questo lugubre elenco, vorrei far
notare che i Diari non contengono
alcun riferimento alla morte di Jean-Michel Basquiat (1960-1988). L’amico di
Keith è vittima di un’overdose di eroina il 12 agosto 1988. Non vi sono
notazioni di alcun tipo tra il 31 luglio (l’artista sta tornando da Tokio a New
York) e il 22 agosto 1988 (sta viaggiando da New York a Parigi). Eppure Haring
definisce Jean-Michel come il suo pittore preferito, insieme a George Condo (è
un’affermazione del marzo 1987) [88], e ribadisce il medesimo giudizio
nell’aprile dello stesso anno [89]. Come mai ne ignora la morte un anno dopo?
Va detto che tutte le pagine dal 22 agosto al 6 settembre (che si riferiscono
a eventi tenutisi a Parigi, Düsseldorf, Anversa, Losanna, Ginevra, Montecarlo,
ancora Düsseldorf, infine Parigi e a New York) sono una semplice sequenza di
punti non sviluppati in prosa. Nulla compare nei Diari tra ottobre 1988 e febbraio 1989. Forse che Keith è talmente
sconvolto da non voler scrivere sul tema; o non riesce più a stendere i propri
pensieri in modo logico? Certamente, nei mesi seguenti, l’artista dipinge una
tela in memoria di Basquiat (dal titolo ‘Un
mucchio di corone’) e nel mese di novembre è uno degli oratori in una
cerimonia commemorativa organizzata dagli amici, dopo che le esequie in agosto
si sono tenute in forma strettamente privata per volere della famiglia [90].
Le
reazioni alla scomparsa degli amici, a ogni modo, non sono mai scontate o
banali: attraverso quelle esperienze sembra che l’artista vada percorrendo una
maturazione interiore sul tema della morte che si avvia ben prima della
coscienza, nel marzo 1987, di avere sintomi che gli fanno pensare di aver
contratto il virus dell’HIV [91]. Ecco un breve estratto dalle pagine che verga
alla notizia della morte di Brion Gysin (vedi sopra), con il quale ha
sviluppato un profondo senso di comunanza estetica: “Al mio arrivo a Tokio ho appreso che Brion Gysin era morto. (…) Sono
sicuro che sta bene. Penso che molta gente abbia imparato tanto da Brion.
Sfortunatamente gran parte del suo valore è passato inosservato o perlomeno è rimasto
sconosciuto. So di essere fortunato ad averlo incontrato e ad aver goduto di
due anni della sua vita. È una leggenda” [92].
Una vita da Globetrotter
Le
pagine successive dei Diari vedono
Haring viaggiare dalla Svizzera in India (passando da Milano, dove è
festeggiato a una cerimonia al Castello con mille scolari [94], e Roma, dove
incontra per caso Grace Jones, con cui ha già lavorato) [95]. Poi è a Tokio, e
di nuovo a New York dopo una tappa di due giorni a Milano, il cui aeroporto è
in pratica un luogo che gli permette di incontrare amici in città [96]. Nelle
pagine di quei mesi compare per la prima volta il riferimento all’uso di
cocaina [97] (nel corso di alcune notti italiane con amici). Da Nuova Delhi
Keith scrive poi una lunga lettera allo psicologo Timothy Leary (1920-1996)
[98], che fino a quel momento conosceva solo di vista, per averlo incontrato in
un locale notturno newyorchese. A indurre l’artista a farlo è la lettura in
volo dell’autobiografia dello psicologo, intitolata Flashbacks. Leary sostiene da decenni, fra l’altro, il valore
terapeutico dell’uso – sotto controllo medico – delle droghe, e teorizza
addirittura che le persone possano espandere la loro personalità cercando in
altri la materializzazione di pensieri che essi stessi avevano generato,
attraverso meccanismi di re-imprinting e
re-programming. Dopo la lettera
inviata dall’India diverrà amico di Timothy e della moglie Barbara, dedicando
loro diverse pagine nei Diari.
Knokke
Nonostante
quanto scritto sul suo ‘sentirsi americano’ in Europa, Keith dimostra di essere
sempre più attratto dal Vecchio Continente, tanto da dire di trovarvi conforto
(“Mi sento più ottimista dopo essere
stato in Europa e mi pare che sarebbe una buona idea viverci più a lungo”
[100]). Le vicende europee finiscono per prevalere su quelle americane. Fino ad
ora si è molto parlato di Milano e dell’Italia, ma i viaggi riguardano anche
Belgio, Olanda, Germania e Francia. Sono lì alcuni dei luoghi prediletti del
pittore americano. In realtà, Keith si muove tra queste destinazioni in modo vorticoso, come se non potesse rimanere a lungo in uno stesso luogo. Nel
febbraio 1987, ad esempio, inizia una serie di viaggi di alcuni mesi che da New
York lo portano prima a Knokke (Belgio), Düsseldorf e Monaco (Germania) e poi
di nuovo a New York per assistere ad una cerimonia in ricordo di Andy Warhol.
Da lì riparte subito per Parigi, va a Tokio e torna in Belgio (Bruxelles,
Anversa, Knokke).
“Mi sveglio. La gente sta già arrivando. (…)
Per il pranzo sono venuti molti amici conosciuti negli ultimi due mesi in
Europa (…) Era come un matrimonio (…)
quando è arrivato il momento di andare al Casino ero già esausto. Al Casino siamo
dovuti stare in fila davanti al grande murale mentre si facevano discorsi in
fiammingo, francese e poi in inglese (il sindaco). Roger ha tenuto un breve
discorso in inglese e lo ha concluso dicendo «Che la musica abbia inizio». (…) È stato abbastanza sorprendente: non l’avevo mai
fatto prima. Una grande ‘inaugurazione’. La gente si è precipitata all’interno
della mostra, ma soprattutto verso di me” [102]. “Ritorno
a casa e mi imbatto in Niki de Saint-Phalle, che è arrivata per la mostra. Non
le piacciono i gala di inaugurazione, ma voleva vedere i lavori e anche la
gente che vive nel suo Drago. Non è mai stato veramente abitato da quando
esiste: e sono quindici anni. La mostra le è piaciuta ed è interessata a
scambiare qualcosa, un giorno o l’altro” [103].
L’estate
del 1987 a Knokke termina con un’ultima opera, un murale sulla spiaggia al Surf
Club. A Knokke tornerà, sempre ospite di Roger Nellens alla Dragon House, nell’ottobre del 1987
[104], nel settembre 1988 [105] e ancora nel giugno 1989 [106]. L’ultima estate
prima di morire.
La
presenza di Keith in Francia è continua. A Parigi espone alla mostra per i
dieci anni del Centre Georges Pompidou al Beaubourg [107]. Si incontra con i
dirigenti della Fondazione Cartier [108] e discute con loro questioni
estetiche. Molte pagine sono poi dedicate a giornate spese nel lusso, in Costa
Azzurra, fra Nizza e Montecarlo, in compagnia dell’amico gallerista Yves Arman,
di Claude Picasso (1947-), figlio di Pablo, e del pittore americano e grande
amico George Condo (1957-). La realizzazione parigina più importante è un murale all’Hôpital Necker. Il Necker è un istituto
ospedaliero per l’infanzia; i responsabili amministrativi dell’ente, quando lo
incontrano per la prima volta, si raccomandano di non dipingere soggetti
sconvenienti: “Poi l’Hôpital Necker voleva fare una riunione, così ci siamo
affrettati per arrivarci e abbiamo trovato lì gli altri. C’erano parecchi
esperti di pittura (?) e abbiamo incontrato i direttori dell’ospedale.
L’Hôpital sembrava un po’ansioso per quello che avrei dipinto. (…) Disegnai uno
schizzo veloce e spiegai perché non lavoravo seguendo ‘esatti’ piani o schizzi.
Sembrarono un po’ più ‘rassicurati’ ” [109].
Per molti versi quella del murale parigino è una vera e propria impresa,
specie da un punto di vista logistico. Il lavoro procede (ovviamente all’aperto)
anche con la pioggia battente e richiede l’impiego di una gru. Il caso vuole che il
giorno previsto per l’inaugurazione coincida con uno sciopero generale del
personale medico. Keith si rende conto che la ‘sua’ politica è ben diversa da
quella ‘della gente comune’. Gli capita addirittura l’incredibile: qualcuno
disegna scritte sul suo murale, prima ancora che sia inaugurato (un vero e
proprio paradosso per chi, come lui, ha realizzato migliaia di graffiti non
autorizzati a New York): “La politica è ‘fuori’ dalla
mia politica riguardo al dipinto. L’ho disegnato per il piacere dei piccoli
pazienti di questo ospedale, di oggi e di domani. È inevitabile che il murale
sopravviva alle complicazioni del momento. Non penso che l’arte sia estranea
alla politica, ma in questo caso il mio murale certamente non vuole sostenere
la posizione politica di una parte o dell’altra. Il suo unico intento è dare un
input creativo al processo di guarigione cercando di cambiare quello che prima
era un edificio uggioso e noioso dandogli vita” [110].
Germania e Svizzera
In
Germania il punto di riferimento principale è il gallerista Hans Mayer (1940-),
proprietario dell’omonima galleria a Düsseldorf, uno dei maggiori sostenitori
dell’arte pop in Europa. Mayer introduce Haring in ambienti di altissimo
livello, presentandogli, ad esempio, i Krupp.
L’artista americano espone le sue sculture a Münster in occasione della
mostra decennale Skulptur Projekte
[111]. Qualche mese dopo presenta le sculture alla Cologne Art Fair [112].
Scopre a Düsseldorf che la Kunstsammlung
Nordrhein-Westfalen ha una serie di opere di Warhol e degli altri artisti
pop americani come non esiste negli Stati Uniti: “Andato con Hans a Kunstsammlung, a Düsseldorf, per vedere
un’incredibile collezione. Warhol senza fine! Twombly, Rauschenberg, Beuys…
Andy gode di molto maggior rispetto in Europa. Nessuno ha una collezione di
Warhol in un museo come questo in America. Piccolo museo, grande luce”
[113]. Anche in Germania Keith prende molto a cuore un progetto per bambini
(chiamato Luna Luna), dipingendo
giostre per parchi giochi (se ne occupa ad Augusta [114] e poi ad Amburgo [115]).
È ancora oggi uno dei progetti più conosciuti del pittore.
In Svizzera è spesso a Losanna e Zurigo. A
Losanna il suo punto di riferimento è Pierre Keller (1945-), fotografo e artista,
evidentemente atipico ed estraneo ad un ambiente cittadino molto conservatore (e
Keith ricorda come la sua diffusione di immagini in città, riprodotte su
magliette e bottoni, sull’uso dei preservativi, incontri molta ostilità) [116].
Va pur detto che Haring ricambia il perbenismo locale immergendosi nella vita
notturna di una discoteca punk, dove finisce per dipingere i corpi nudi di
uomini e donne e farsi ritrarre da fotografi con immagini che scateneranno
scalpore [117]. A Zurigo espone alla galleria di Bruno Bischofberger (1940-)
[118] e realizza cartoni animati per bambini [119].
Pisa
L’ultima opera pubblicata eseguita da
Haring prima della morte, tuttavia, è italiana e si trova a Pisa. Qui – stando
ai Diari – Haring si reca per la
prima volta per un sopralluogo il 12 giugno 1989; il 19 inizia a
realizzare Tuttomondo, sulla parte
esterna della canonica della chiesa di Sant’Antonio Abate: “Pisa è incredibile. Non so da dove
cominciare. Mi rendo conto ora che si tratta di uno dei progetti più importanti
che io abbia mai fatto. Il muro fa veramente parte della chiesa. È attaccato
all’edificio in cui vivono i frati. L’altra sera ho cenato con i frati e ho
visitato la cappella. Tutte le esperienze riguardanti questo dipinto (gli
assistenti, i frati, i giornalisti e i fotografi, il gruppo di ragazzini di
Pisa) sono state davvero positive. (…) Ho impiegato quattro giorni per
dipingere. In certi momenti c’era un’enorme folla. Sto in albergo direttamente
di fronte al muro, così lo vedo prima di addormentarmi e quando mi sveglio. C’è
sempre qualcuno che lo guarda (l’altra notte anche alle 4 del mattino). È
davvero interessante vedere la reazione della gente. (…) È davvero una
realizzazione. Sarà qui per molto, molto tempo e la città sembra amarlo. Sto
seduto sul balcone a guardare la cima della Torre Pendente. È davvero molto
bello qui. Se c’è un paradiso, spero che assomigli a questo” [120]. Approfitta del murale a Pisa per recarsi a Roma (dove
ammira la Cappella Sistina), Napoli,
Amalfi e (di nuovo) Milano: “Oddio, amo l’Italia. È davvero uno dei miei
posti favoriti al mondo. ‘Sembra’ giusto qui” [121]. L’ultima pagina dei Diari è dedicata alla Torre Pendente: “La
torre è notevole. L’abbiamo vista alla luce del giorno e poi alla luce della
luna. È veramente grandiosa e al tempo stesso esilarante. Ogni volta che la
guardi, ti fa sorridere” [122].
![]() |
Fig. 14) Keith Haring, Tuttomondo (1989), Convento di Sant'Antonio, Pisa. Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons |
Fine della Parte Terza
Vai alla Parte Quarta
NOTE
[63] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 95.
[64] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 95.
[65] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 96.
[66] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 96.
[67] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 107.
[68] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 106.
[69] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 107.
[70] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 108.
[71] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 108.
[72] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 117.
[73] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 117.
[74] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 117.
[75] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 117.
[76] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 119.
[77] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 139.
[78] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 119.
[79] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 119.
[80] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 109-110.
[81] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 119.
[82] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 128.
[83] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 135.
[84] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 136.
[85] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 293.
[86] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 292.
[87] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 146.
[88] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 146.
[89] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 156.
[90] Si veda Hoban, Phoebe – Basquiat. A Quick Killing in Art all’indirizzo
https://archive.nytimes.com/www.nytimes.com/books/first/h/hoban-basquiat.html .
[91] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 146.
[92] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 128-129.
[93] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 173.
[94] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 124.
[95] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 125.
[96] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 128.
[97] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 125.
[98] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 126-128.
[99] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 127.
[100] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 203.
[101] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 186.
[102] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 196-197.
[103] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 198.
[104] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 220.
[105] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 280.
[106] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 324.
[107] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 169.
[108] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 170.
[109] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 150.
[110] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 162.
[111] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 178.
[112] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 244.
[113] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 153.
[114] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 157.
[115] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 178.
[116] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 212.
[117] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 215.
[118] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 217.
[119] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 217.
[120] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 325.
[121] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 335.
[122] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 339.