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mercoledì 30 maggio 2018

Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. A cura di Mai-Mai Sze.


English Version

Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape.
Chieh Tzǔ Yüan Hua Chuan

A cura di Mai-Mai Sze
Traduzione italiana di Riccardo Mainardi


Milano, Luni editrice, 2017

Recensione di Giovanni Mazzaferro

La copertina dell'edizione Luni (2017)

Premessa

Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape sono uno dei più famosi e diffusi manuali cinesi di pittura. La prima edizione fu pubblicata nel 1679 e da allora ne sono uscite almeno una ventina di edizioni. Mi pare indispensabile, tuttavia, fare chiarezza innanzi tutto in merito alla presente, pubblicata da Luni a fine 2017. Si tratta di una versione a cura di Mai-Mai Sze (1909-1992), figura di artista e scrittrice cinese vissuta in realtà quasi sempre in Occidente. Mai-Mai era figlia dell’ambasciatore cinese in Inghilterra e lì visse dal 1915 al 1921, trasferendosi col padre negli Stati Uniti quando quest’ultimo divenne ambasciatore in America. La sua traduzione inglese del Chieh Tzǔ Yüan Hua Chuan (questo il titolo originale dell’opera) risale addirittura al 1956 e numerose furono le ristampe successive [1]. Nel 1989 Riccardo Mainardi tradusse in italiano la versione inglese (non operò quindi direttamente dal cinese) di Mai-Mai, pubblicando con la milanese Leonardo editrice  Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. Enciclopedia della pittura cinese. Questa traduzione, risalente appunto al 1989, viene ora ristampata da Luni, senza, tuttavia che nulla di tutto ciò sia spiegato. Intendiamoci, i nomi della curatrice e del traduttore compaiono in frontespizio e a p. 6 l’editore chiarisce che “ha cercato con tutte le sue possibilità di rintracciare il Traduttore della presente opera. L’Editore si dichiara pronto a far fronte al pagamento dei diritti d’autore secondo le convenzioni del diritto d’autore agli aventi diritto”. Un minimo di contestualizzazione storica, tuttavia, non avrebbe fatto male, se non altro perché il lettore, scorrendo l’introduzione di Mai-Mai Sze si trova di fronte a frasi del tipo “come sanno tutti coloro che abbiano tradotto dal cinese in inglese, capita spesso che la traduzione letterale della frase cinese dia luogo in inglese a una sequela di parole senza senso” (p. 11) e, ovviamente, si sente disorientato.

La copertina dell'edizione Leonardo (1989)

Un manuale di pittura

Il Giardino grande come un granello di senape – diciamolo subito – molto probabilmente indica un luogo, ovvero il giardino della villa di Nanchino che era l’abitazione di Li Yü, editore della prima versione dell’opera, pubblicata nel 1679. Tale edizione era composta in origine di una sola parte, contenente cinque libri. Solo il primo era unicamente di testo, e conteneva i ‘principi generali’ dell’arte, mentre i successivi si occupavano rispettivamente delle modalità per dipingere gli alberi (II), le rocce (III), le persone e le cose (IV), e l’ultimo presentava esempi supplementari di pittura di paesaggio. Nel 1701 lo stesso editore pubblicò una seconda versione degli Insegnamenti, fortemente ampliata e, questa volta, scandita in tre parti. Oltre alla prima, la seconda conteneva il Libro dell’orchidea, il Libro del bambù, il Libro del pruno e il Libro del crisantemo. La terza consisteva invece di due Libri destinati rispettivamente a erbe, insetti e piante fiorifere (il primo) e a piume, pellicce e (altre) piante fiorifere (il secondo). Vi erano poi, a completamento della terza parte, due libri ulteriori di esempi illustrati. Questa è, in sostanza, la struttura ‘classica’ del manuale a cui, nel 1818, fu aggiunta una quarta parte, che ovviamente non aveva nulla a che fare con editore e autori originari. Proprio di autori, a questo punto, dobbiamo parlare: si tratta dei tre fratelli Wang. Wang Kai fu “il coordinatore generale dell’opera e l’unico autore della prima parte, di cui apprestò anche l’apparato illustrativo, un compito che richiese tre anni di lavoro” (p. 8). L’edizione del 1679, in sostanza, è quindi scritta da Wang Kai (che nell’opera si presenta con lo pseudonimo di Lu Ch’ai), con una prefazione dell’editore, ovvero di Li Yü. Wang Shih e Wang Nieh, invece, ovvero i due fratelli di Wang Kai sembrano essersi occupati delle parti seconda e terza che furono aggiunte nel 1701, anche perché specializzati nella pittura di fiori e di uccelli.

Il grande pregio del manuale (e anche il motivo per cui ebbe successo così prolungato) è il suo ricchissimo apparato iconografico, in cui si illustravano i diversi modi di dipingere alberi, rocce etc propri dei pittori vissuti nei secoli precedenti. È indubbio che, da un punto di vista teorico, gli Insegnamenti non apportino novità. Scrive in merito Mai-Mai Sze: “Il contenuto del manuale e il suo atteggiamento nei confronti della pittura si basano su concetti e dottrine da tempo patrimonio di questa tradizione di pensiero, di usanza e di condotta rituale. Non a caso molti passaggi in esso menzionati sono espunti direttamente da opere fondamentali di epoche precedenti […] Occorre spiegare come fosse pratica corrente incorporare negli scritti e nelle compilazioni cinesi frasi, massime e lunghi passaggi senza necessariamente precisarne la fonte. Si ritiene infatti che tali citazioni si situino al servizio della tradizione, servano, cioè, a tramandarla e – tramandandola – a mantenerla e a rafforzarla” (p. 9). Non deve sorprendere, dunque, che, nonostante la loro fortuna editoriale, gli Insegnamenti non compaiano nella celebre antologia di Lin Yutang sulla Teoria cinese dell’arte. Yutang scrive infatti che i trattati di pittura cinese, in linea di massima, dicono tutti le stesse cose, attenendosi alla tradizione, e che per la sua antologia ha scelto testi storicamente importanti, cercando comunque di evitare ripetizioni ed evidenziando gli aspetti innovativi. Così, ad esempio, i Sei Canoni della pittura, che negli Insegnamenti compaiono nel Libro primo (p. 32) risalgono in realtà almeno al V secolo dopo Cristo.

Insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. Libro II: una tavola per imparare la pittura delle foglie
Fonte: Wikimedia Commons


Insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. Libro III: insegnamento della pittura dei personaggi
Fonte: Wikimedia Commons

L’importanza degli Insegnamenti

Il fatto che gli Insegnamenti non presentino elementi di particolare novità non vuol dire, tuttavia, che non abbiano una loro importanza, al di là della straordinaria ricchezza del loro apparato iconografico. Storicamente, il manuale viene pubblicato appena qualche decennio dopo la caduta della dinastia cinese Ming (1644) e l’arrivo di quella Manchu Ch’ing (di origini straniere). Il manuale può essere interpretato dunque come uno scritto ‘identitario’, in cui viene presentato il sapere sviluppato nei secoli precedenti: “esso [il manuale] rappresenta la ricapitolazione dei criteri stabiliti nell’epoca d’oro dell’arte pittorica cinese; e, specificandone i principi e gli aspetti tecnici di base, tramanda i tratti più salienti del tao [la ‘strada per eccellenza’] della pittura. […] Esso ci offre una visione delle altezze raggiunte dalla pittura cinese, muovendo da un periodo immediatamente successivo a quelli della più alta creatività e compendiandone gli aspetti permanenti e durevoli” (p. 10).

Anonimo, Nespolo e uccello di montagna, Dinastia Song (1127-1279)
Fonte: http://depts.washington.edu/chinaciv/painting/4courbf.htm


Alcuni aspetti della pittura cinese

Naturalmente, studiare la pittura cinese vuol dire abbandonare molti dei canoni con cui siamo abituati a parlare di arte noi occidentali. Non sarei certo in grado di darne un’idea completa e corretta. Mi piace, tuttavia, l’idea di segnalare alcuni aspetti che da un lato sembrano suggerire un parallelo con la pittura occidentale e che però, dall’altro, si rivelano ben presto discordanti. Il primo, banalissimo, è che quando parliamo di pittura, in Occidente, almeno dal 1500 in poi, parliamo in linea di massima di quadri; mentre nel caso cinese s’intendono opere d’arte eseguite su rotoli o su album. Esiste proprio una diversa fisicità che riguarda non solo la presentazione dell’opera, ma anche i supporti stessi (quasi sempre si dipinge su sete o su carta, non su tela).

L’altra grande differenza è che la pittura cinese è, molto prima di quella occidentale e di fatto per più di un millennio, pittura di paesaggio. Esiste, insomma, uno scarto enorme. In Europa il genere artistico per eccellenza è la pittura di storia e quella di paesaggio è relegata a genere minore; in Cina le cose stanno esattamente all’opposto, tanto che la presenza antropica è oggetto di un Libro ad hoc del manuale, e nemmeno il primo, ma il terzo, dopo quello degli alberi e delle rocce, ben più importanti. Riporto in merito uno stralcio di quanto si può leggere nella bandella del libro: “Nella tradizione dell’antica Cina, l’armonia di un prodotto artistico rispecchia l’armonia universale del Tao, il supremo e imperscrutabile Principio che ha generato il mondo e governa il ritmo segreto della natura. Non è un caso che il tema dominante della grande pittura cinese sia il paesaggio, che è sempre sottilmente realistico e al tempo stesso metaforico. Le figure umane e le opere dell’uomo non distolgono mai lo sguardo dagli elementi centrali del dipinto: una montagna, una cascata, un albero, un bambù, un’orchidea. La loro collocazione stabilisce un clima di corrispondenza simboliche e per analogia rimanda agli equilibri stabiliti dal Tao tra Cielo e Terra, uomo e natura, gravità e leggerezza, pieno e vuoto, yin e yang. In ogni cosa vivente o inanimata circola il Ch’i, l’energia universale, una forza impalpabile”. Realismo e metafora: la pittura cinese è ‘naturale’, ma declina tale qualità in maniera diversa da quella intesa in Occidente. Si pensi ad esempio a quanto si legge nel manuale all’inizio del Libro sulle rocce (col termine roccia si intende il singolo masso, ma per estensione le montagne): “Quando giudichiamo il valore di una persona, la qualità del suo spirito (ch’i) ha un valore altrettanto fondamentale del suo aspetto fisico. Lo stesso si dica delle rocce, che sono la struttura portante dei cieli e della terra, e parimenti hanno ch’i […]. Le rocce prive di ch’i sono rocce morte, esattamente come le ossa, prive dello stesso spirito vivificante, sono ossa nude, aride, inerti. […] Occorre evitare tassativamente di dipingere rocce senza ch’i. Per dipingere rocce che hanno ch’i bisogna spingere la propria ricerca al di là di ciò che è materiale e nell’ambito dell’intangibile. […] Se la forma della roccia non sarà chiaramente impressa nel cuore-mente dell’individuo, e pertanto sulla punta delle dita […] il dipinto non potrà mai giungere a pieno compimento” (p. 135).

Shen Zhou, Leggendo nel paesaggio autunnale, XV secolo, Pechino, Palace Museum
Fonte: Wikimedia Commons

Cuore, mano, pennello e inchiostro

Cuore-mente e punta delle dita, si è detto poca fa. L’armonia fra cuore e mano dell’artista è un prerequisito per dipingere bene. Ma non si finisce con la mano. In tutta la pittura cinese ha un ruolo fondamentale l’uso del pennello. Basta consultare il Libro primo (quello con le disposizioni generali) per capire quanto sia importante il ruolo del pennello nell’arte cinese. Non ci troviamo di fronte a un semplice oggetto, ma a un’estensione della mano, e quindi del cuore-mente. La maggior parte delle prescrizioni riguarda appunto le modalità di pennellata dei grandi maestri. E l’estensore dell’opera si preoccupa di consigliare al dilettante l’imitazione della pennellata di questi maestri. Solo dopo aver raggiunto la perfetta armonia fra cuore e mano, l’artista potrà “plasmare così ogni sorta di pennellata, di tutte le scuole che crede, e in ogni proporzione. […] In questo stadio più avanzato è bene dimenticare le classificazioni ed elaborare le pennellate secondo le proprie combinazioni. Tuttavia, nella fase iniziale non bisogna mescolare le varie pennellate”. Credo di poter dire che questa particolare enfasi sulla manualità del gesto (e sul significato simbolico che corrisponde alle varie tecniche) marchi una netta differenza rispetto alla teoria artistica occidentale, in cui invece, almeno dal Cinquecento in poi le discussioni sulla ‘nobiltà’ della pittura rischiano di far passare in secondo piano gli aspetti pratici del mestiere.

In simbiosi col pennello troviamo l’utilizzo dell’inchiostro. La pittura cinese è una pittura innanzi tutto a inchiostro. Sono le tonalità dell’inchiostro a organizzare la composizione, le sue sfumature “a distinguere ciò che è vicino da ciò che è distante, le nubi dai riflessi, la luce dall’ombra” (p. 37), tanto che calligrafia e pittura vengono, di fatto, a coincidere: “non vi è differenza alcuna fra la tecnica del pennello applicata alla calligrafia o alla pittura: l’una e l’altra esigono lo stesso tipo di approccio” (p. 38). Il colore, in questo ambito, ha un ruolo importante, ma secondario, e viene sempre dopo l’inchiostro, con chiari scopi funzionali: “Per dipingere i giochi di luce e d’ombra delle foreste, gli spigoli e le fenditure nelle rocce sui monti e le varie tonalità d’ombra nelle gole e nelle forre occorre mescolare l’inchiostro ai colori. In tal modo le gradazioni di colore risulteranno nitide, e la profondità e le dimensioni risulteranno nettamente evidenziate” (p. 47).

Mi Fei, Montagne e pini in primavera, XII secolo, Taipei, National Palace Museum
Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons

Li Cheng, Tempio Buddhista fra le montagne, X sec. d.C.
Fonte: http://www.seattlecentral.org/faculty/cmalody/T3ma/chland8-10.htm 

Una gerarchia di pittori

L’armonia fra cuore e pennello, la padronanza delle tecniche, il tipo di pennellata usata, la vitalità impressa nella rappresentazione del paesaggio sono, in ultima analisi, le qualità che definiscono il grande artista. Quando tale vitalità opera attraverso il pittore, “l’effetto nella sua pittura è al di là di ogni possibile definizione, ed è possibile dire che il pittore appartiene alla classe shên (divina)” (p. 33). Sarei in realtà curioso di capire meglio come e in che misura questa ‘divinità’ si distingua da quella del divin Raffaello di casa nostra o, ancora, da quella nutrita di profonda religiosità che tradizionalmente è stata abbinata ad alcune figure di pittori particolarmente devoti, e come tali capaci di produrre immagini miracolose (si pensi alla tradizione delle Madonne di Lippo di Dalmasio). Qui sembra che l’attributo della divinità serva a costruire una classifica di merito, se è vero che subito dopo si specifica che, un gradino più in basso, “quando la tecnica del pennello è elevata, i colori sono appropriati e l’espressione è chiara e armoniosa, il pittore può essere incluso nella classe miao (meravigliosa e profonda). Quando la forma è stata realizzata e le regole sono state applicate, il pittore rientra nella classe nêng (abile e compiuta)” (ibidem): una distinzione che, diremmo oggi, mira a specificare quali siano le differenze fra il grandissimo artista e il mero artefice.


NOTE 

[1] The Tao of Painting: A Study of the Ritual Disposition of Chinese Painting. With a Translation of the Chieh Tzǔ Yüan Hua Chuan; Or, Mustard Seed Garden Manual of Painting, 1679-1701, New York, Pantheon Books, 1956


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