Pagine

lunedì 14 maggio 2018

Lorenzo Lotto. Il libro di spese diverse. Introduzione, commento e apparati di Francesco De Carolis. Parte Seconda


English Version

Lorenzo Lotto
Il libro di spese diverse
Introduzione, commento e apparati di Francesco De Carolis
Parte Seconda


Trieste, EUT Edizioni Universitarie di Trieste, 2017 (ma 2018)

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda

Lorenzo Lotto, Ritratto di Giovanni della Volta e della sua famiglia, 1547, Londra, National Gallery
Fonte: https://artsandculture.google.com/asset/kAF-dQpcDv3P_A






Questioni cronologiche e completezza del Libro.

La trascrizione più vecchia, nel Libro di spese diverse, è datata 1538; quella più in là negli anni fa riferimento al 1556. In base a questi dati (oggettivi) Pietro Zampetti ha desunto che il quaderno contabile di Lotto facesse riferimento appunto agli ultimi 18 anni della sua vita [8]. Giustamente il curatore (e altri prima di lui) fa notare che la registrazione datata 1538 fa in realtà riferimento al ritratto Pizoni, realizzato sì nel 1538, ma poi rifiutato e successivamente trasformato in un San Bartolomeo, ceduto nel dicembre 1542 a Bartolomeo Carpan. Appare insomma logico supporre che Lotto ‘recuperi’ ad anni di distanza una partita rimasta aperta in passato e che l’inizio del Libro di spese diverse si debba collocare cronologicamente un po’ più avanti. A questo proposito, va detto che sono state sostenute le tesi più disparate. Quella di De Carolis mi pare di assoluto buon senso: secondo il curatore si dovrebbe pensare a una datazione iniziale del manoscritto risalente ai primi mesi del 1540: “Una datazione iniziale del manoscritto al 1540 è poi suggerita dalla cronologia dei lavori e degli spostamenti di Lotto. Sappiamo infatti che nel lasso di tempo tra il 1538 e il 1540 l’artista si trovava nelle Marche […]. Risulterebbero inspiegabili le ragioni di una completa assenza delle operazioni effettuate in questo biennio. È quindi con il ritorno a Venezia nei primi giorni del 1540 che l’artista comincia l’uso del Libro di spese diverse, certamente non l’unico dei libri contabili in suo possesso nel corso della sua lunga carriera” (p. 25) [9]. È poi vero che l’ultima trascrizione fatta sul Libro è del settembre 1556, ma – fra presente il curatore – si tratta di un foglietto incollato su un’altra partita, quasi a saldo di una questione rimasta aperta dopo l’oblazione del 1554, che, a tutti gli effetti, appare la data più significativa, quella in cui l’artista chiude la sua bottega e, in sostanza, smette di tenere la sua contabilità, non esercitando più un’attività imprenditoriale.

Ma, al di là delle date di inizio e fine delle trascrizioni, il vero problema mi sembra un altro: fino a che punto il Libro di Lotto si può considerare esaustivo e copre tutta la sua attività artistica di quegli anni? O, se vogliamo porla in maniera diversa, deve l’attribuzionismo inchinarsi di fronte ai silenzi del registro lottesco? Credo onestamente di no, e non tanto e non solo perché non tutti i quadri citati nel Libro sono stati identificati, ma perché – a mio avviso – ve ne potrebbero essere di tralasciati, volutamente o per errore. Non compaiono, ad esempio, i regali (che pure ci saranno stati) e, se è valido il discorso (vedi Parte Prima) per cui Lotto non tenne un giornale, ma semplicemente delle pezze di appoggio, che trascrisse a volte ad anni di distanza, potrebbe essersi benissimo dimenticato di alcune opere, sue o (più probabilmente) di bottega, vendute alla spicciolata. Difficile invece – direi impossibile – che il discorso si possa estendere a opere di un certo livello economico.

Lorenzo Lotto, Adorazione del bambino, 1545 circa, Loreto, Museo Antico della Santa Casa di Loreto
Fonte: http://www.lorenzolottomarche.it/adorazione-del-bambino-154850/
Lorenzo Lotto, Assunzione, 1550, Ancona, Chiesa di San Francesco alle Scale
Fonte: Wikimedia Commons

L’economia del Cinquecento

La vera protagonista di fondo delle registrazioni dell’artista è l’economia del Cinquecento, per molti versi ancora ampiamente legata a una tradizione che noi consideriamo puramente medievale. Sono, ad esempio, le transazioni, che avvengono in denaro, ma molto spesso sono completate da pagamenti in natura, secondo i principi del baratto; o l’esercizio dell’usura (Lotto la conosce bene, indebitandosi spesso), che è praticata esclusivamente dagli ebrei (a Venezia il ghetto nuovo è del 1516, quello vecchio del 1541). Stupisce semmai sentir parlare di usura nel caso di Joan Francesco de Monopoli (si tratta dell'unico caso in cui Lotto non scrive che la controparte è di religione ebraica; il nome Francesco mi porta a escluderlo con ragionevole sicurezza), che peraltro sembra essere debitore dell’artista; sicché, per assurdo, sembrerebbe che l’usura sia praticata da Lotto stesso (cfr. p. 173). In realtà, come noto a tutti, forme di riscossione degli interessi erano comunque all’ordine del giorno e si nascondevano dietro al valore dei beni dati in pegno (il pegno è comunissimo) e al loro riscatto. Ma è bello vedere, oltre a forme contrattuali tradizionali, altre che saremmo portati a ritenere più ‘evolute, come la ‘tentata vendita’ (Lotto che di sua spontanea volontà invia sue opere a potenziali clienti chiedendo un pagamento, se ritenute all’altezza) o il ‘conto deposito’ (l’artista che lascia i suoi quadri in deposito a fiduciari in altre città incaricandoli di venderli), fino alla celeberrima, amarissima (e poco chiara) lotteria organizzata ad Ancona fra 1550 e 1551. Il fenomeno delle lotterie delle opere d’arte non era sicuramente nuovo; purtroppo nulla sappiamo del regolamento, se non il fatto che Lotto utilizzò la vendita di alcuni biglietti a titolo di estinzione dei suoi debiti. Qui, appunto sta il punto: quella di Lotto era una lotteria come quelle odierne, in cui l’estrazione attribuiva la titolarità di un’opera (e in tal caso si desume che vendette pochi biglietti) o era invece (come sembra più probabile) la vendita di un’opzione all’acquisto fra una serie di quadri, opzione che, come tale, poteva anche rimanere non esercitata se non vi era poi accordo sul prezzo? Sarei propenso a ragionare in questi termini, a giudicare dalla consistenza dell’invenduto.

Lorenzo Lotto, Il sacrificio di Melchisedech, 1545 ca, Loreto, Museo Antico Tesoro della Santa Casa
Fonte: http://www.lorenzolottomarche.it/il-sacrificio-di-melchisedech-1545-50/

Per l’arte

Sono perfettamente consapevole che la storia non si fa con i se. Ma se Mary Philadelphia Merrifield (1804-1889), straordinaria figura di ricercatrice vittoriana nell’ambito delle tecniche artistiche, avesse conosciuto il Libro di spese diverse del Lotto, avrebbe consultato con estremo interesse proprio le pagine contenute in fondo al quaderno, scritte rovesciandolo e chiaramente ricopiando una serie di voci relative alle spese sostenute per l’esercizio dell’arte. Nel caso del Libro dei Conti del Guercino, infatti, Merrifield scrive: “Il libro consiste in una serie di registrazioni di pagamenti ricevuti per l’esecuzione di quadri (non sono segnalati affreschi) e in molti casi sono menzionati anche l’oltremarino, le tele, le imprimiture, a carico dell’acquirente. Ho copiato tutte le notizie relative a questi ultimi aspetti; il resto del diario non mi sembra di particolare valore per i miei studi attuali” [10].

L’attenzione di Merrifield ai materiali – come ben noto – rientra nell’interesse inglese della prima metà dell’Ottocento per le tecniche degli antichi maestri e si indirizza in due direzioni diverse: da un lato una sistemazione ordinata della nomenclatura attribuita ai pigmenti e dall’altro la ricerca del veicolante utilizzato dai pittori veneti per assicurare brillantezza e stabilità ai loro colori. Pur senza soffermarsi sui ‘procedimenti’ il Libro avrebbe detto molto alla ricercatrice, soprattutto perché espressione dell’arte di un pittore all’epoca considerato minore: Merrifield considerava il ‘segreto’ veneziano patrimonio comune di tutti gli artefici veneti del Cinquecento e sostenne che se tale ‘segreto’ fu perso fu molto probabilmente proprio per colpa di Tiziano, che introdusse ‘virtuosismi’ tecnici insuperabili, causa dello smarrimento delle procedure tradizionali.

Oggi, naturalmente, l’approccio è completamente diverso, ma De Carolis non manca di sottolineare nel paragrafo ‘I materiali di Lotto. Tra sottigliezze tecniche e valori estetici’ alcuni aspetti specifici. Mi pare di particolare interesse la realtà variegata che emerge nell’acquisto degli olii. Così, se non mancano indicazioni di rifornimenti di olio di lino e olio di noce ‘purgati’, è anche vero che Lotto acquista a volte anche noci per l’estrazione personale del relativo olio. “L’ottenimento in prima persona, all’interno della bottega, del legante è indice di alta cura del proprio lavoro che va oltre i termini materiali, e si arricchisce di risvolti estetici. La consapevolezza che la produzione dell’olio potesse condurre ad una gradazione cromatica sbagliata o, nel caso più stringente per quel che riguarda le caratteristiche dell’olio di noce, ad un’essiccazione che avrebbe potuto far emergere una crosta superficiale è ben presente nell’attività del nostro. […] L’attività di estrazione dell’olio segnala la conoscenza delle qualità intrinseche delle varie tipologie di legante e conseguenzialmente le sue doti discrezionali di utilizzo e produzione” (p. 93). La discrezionalità – aggiungo io – potrebbe essere legata anche all’importanza della committenza e delle opere in via di esecuzione.

Lorenzo Lotto, Presentazione al tempio, 1555-1556, Loreto, Museo Antico Tesoro della Santa Casa
Fonte: http://www.lorenzolottomarche.it/presentazione-al-tempio-155-c/

Lotto e la luce

Ma il curatore invita a non guardare solo ai materiali, e a soffermarsi invece su alcuni ‘segnali’ che ci portano fisicamente ‘dentro’ alla bottega di Lotto. Non vanno sottovalutati, quindi, i lavori di risistemazione di porte e finestre nelle botteghe affittate a Venezia e Treviso, chiaro indice della necessità di avere una luce adatta per lavorare. Sotto questo punto di vista – continua De Carolis – è evidente un’attenzione alla qualità della luce che può essere messa in relazione con le indicazioni di Paolo Pino nel suo Dialogo di pittura: la luce diventa elemento sostanziale del colore. Il curatore scrive una pagina di particolare brillantezza e suggestione, che mi sembra giusto riportare qui di seguito: “Per quanto riguarda il nostro artista, si possono vedere gli effetti dell’interesse alle migliori condizioni di luce nelle opere più significative del periodo: in particolare, quando Lotto era intento alla sistemazione della bottega di Rialto, la principale commissione alla quale stava attendendo era la pala con l’Elemosina di Sant’Antonino […], portata a compimento tra il 1540 e il 1542. L’attenzione al dato naturale e alla resa luministica, che nella pala per la basilica dei Santi Giovanni e Paolo rende tanto solido il domenicano fiorentino quanto agitata la folla bisognosa, trova conferma nelle esigenze pratiche di avere un’illuminazione ottimale in bottega, così come troviamo segnato nel Libro di spese diverse. Sul piano estetico, l’esigenza di avere la migliore luce possibile pone Lotto ad un livello diverso rispetto ai maggiori artisti veneziani dell’epoca, in particolare a Tiziano e a Tintoretto. In particolare, nel nuovo sistema messo in atto da quest’ultimo nel Miracolo di San Marco oggi conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, di pochi anni successivo all’Elemosina di Sant’Antonino, il valore quantitativo dato alla luce sarà determinante a discapito del valore qualitativo preferito da Lotto: i due punti di luce creati da Tintoretto nella tela veneziana, quello meridiano e quello esterno proveniente da destra, danno corpo alla scena e rappresentano uno dei fattori discriminanti rispetto alle considerazioni di Pino e ai risultati veneziani del nostro. È questa differenza che definisce Lotto un pittore lontano dalla corrente vincente nel secondo Cinquecento veneziano, e che nel contempo può spiegare l’espressione «maestro nel dare il lume» di Giovanni Paolo Lomazzo” (p. 89). 

Lorenzo Lotto, Elemosina di Sant'Antonino (particolare), 1542, Venezia, Basilica di San Giovanni e Paolo
Fonte: Wmpearl tramite Wikimedia Commons

Tintoretto, Miracolo di San Marco, 1548, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Fonte: Didier Descouens tramite Wikimedia Commons

Trovo queste righe bellissime; e tuttavia mi devo chiedere: stando alla lettera del manoscritto è possibile stabilire un nesso fra l’allargamento di una finestra e lo spostamento di una porta e la ‘pittura di luce’ lottesca? Sinceramente ho dei dubbi, e mi pare che De Carolis ricada qui (e solo qui) negli errori già imputati a Zampetti, ovvero nel voler forzare la lettura di un documento di natura contabile. Il problema della luce ottimale, in particolare, non mi sembra uno specifico lottesco (esplicitato da Paolo Pino nel suo Dialogo), ma una questione comune a tutti i pittori nell’esercizio dell’ ‘arte’, ovvero del loro mestiere. Sotto questo punto di vista mi basta ricordare che già Cennino Cennino dedica uno dei primi capitoli del suo Libro dell’arte (il settimo, per la precisione) all’esigenza di avere una luce temperata. La luce, insomma, serve a tutti; come poi la si renda sulla superficie pittorica e la si integri col colore è aspetto che compete allo stile, ma non emerge dal Libro di spese diverse.


Una considerazione finale

È inutile girarci attorno: la lettura del Libro di spese diverse è, di per sé, spiazzante. Lo è per il motivo indicato da De Carolis: si tratta di un documento contabile a uso privato e non di un testo con ambizioni più o meno letterarie destinato a un pubblico di allievi o di lettori eruditi. In un secolo in cui il punto di partenza di qualsiasi trattato è la questione della nobiltà della pittura (con escursioni varie sul paragone fra le arti), il Libro ci parla del mestiere. Il che non vuol dire – sia chiaro – che molto probabilmente Lotto non ritenesse ‘nobile’ l’arte che stava esercitando con perizia e diligenza. E il Libro non testimonia affatto l’ignoranza dell’artista; la sua cultura è del resto resa dalla raffinatezza iconografica, carica di simboli ben precisi, delle sue opere. Semplicemente non è il motivo per cui scrive. Lotto, con tutta evidenza, non avverte la necessità di tornare a Plinio e ai suoi aneddoti sui pittori antichi e così via; la sua resta, per molti versi, una cultura orale, come tale più difficile da mettere a fuoco. Aretino, nella famosa lettera del 1548, lo schernisce, contrapponendogli le fortune di Tiziano. Certo, è possibilissimo che Lotto fosse un pittore ‘fallito’, rifiutato dalle corti e dai grandi committenti; a me, tuttavia, piace pensare che a quelle corti l’artista non fosse interessato, e che per questo non scrivesse o non cercasse l’appoggio di letterati come appunto l’Aretino; che, insomma, Lorenzo si sentisse, a tutto tondo, un uomo della corporazione, come, del resto, la maggior parte dei suoi colleghi. Tutto ciò – ne sono convinto – dal Libro dei conti non emerge.

E consentitemi una provocazione finale: se non fosse che il grande valore del manoscritto è quello di fare luce sulla cronologia delle opere dell’artista, potremmo dire che il Libro di spese diverse non è un libro su Lotto, ma sul mondo che lo circonda e con cui entra in contatto. Un mondo difficile da interpretare, nei suoi meccanismi e nei suoi personaggi (perché molto spesso troviamo solo rapidi accenni), ma espressione vera (nella sua realtà concreta) del funzionamento di una società su cui ancora molto dobbiamo imparare.


NOTE

[8] La data di morte di Lotto è incerta e si colloca fra 1556 e 1557.

[9] A tale proposito mi corre l’obbligo di segnalare un dubbio. A p. 200r del manoscritto (siamo nella sezione Per l’arte, ovvero fra i conti ‘spiccioli che sono registrati ribaltando il quaderno) compare l’indicazione dell’acquisto, a marzo 1542 di “un libro da scriver li miei cunti”. Né Zampetti né De Carolis evidenziano la circostanza. La registrazione non è per nulla conclusiva. Sappiamo ad esempio che Lotto possedeva un “libro d’afitason”, in cui registrava le spese relative agli affitti. Ho avuto modo di avere un breve scambio di idee con Francesco De Carolis sulla questione, e la risposta è stata che la logica interna della registrazione delle partite tende a portare a escludere che il “libro da scriver li miei cunti” sia il Libro di spese diverse (in tal caso sapremmo addirittura quanto costò). Io non posso che allinearmi a chi ha dedicato una vita di studi alla questione, salvo ricordare (sono parole dello stesso De Carolis) che “Mario Lucco sostiene che il quaderno sia stato iniziato dall’artista nel 1542, senza dare sostanziali riscontri, ma mettendo in luce che il numero di note a partire da quell’anno si fa più consistente” (p. 24). 

[10] G. Mazzaferro (a cura di), La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield. Lettere dall’Italia, 1845-1846, Milano, Officina Libraria, di prossima pubblicazione, pp. 155-156. 


Nessun commento:

Posta un commento