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Lorenzo Lotto
Il libro di spese diverse
Introduzione, commento e apparati di Francesco De Carolis
Parte Seconda
Trieste, EUT Edizioni Universitarie di Trieste, 2017 (ma 2018)
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
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Lorenzo Lotto, Ritratto di Giovanni della Volta e della sua famiglia, 1547, Londra, National Gallery Fonte: https://artsandculture.google.com/asset/kAF-dQpcDv3P_A |
La trascrizione più vecchia, nel Libro di spese diverse, è datata 1538;
quella più in là negli anni fa riferimento al 1556. In base a questi dati
(oggettivi) Pietro Zampetti ha desunto che il quaderno contabile di Lotto
facesse riferimento appunto agli ultimi 18 anni della sua vita [8]. Giustamente
il curatore (e altri prima di lui) fa notare che la registrazione datata 1538
fa in realtà riferimento al ritratto Pizoni, realizzato sì nel 1538, ma poi
rifiutato e successivamente trasformato in un San Bartolomeo, ceduto nel dicembre
1542 a Bartolomeo Carpan. Appare insomma logico supporre che Lotto ‘recuperi’ ad
anni di distanza una partita rimasta aperta in passato e che l’inizio del Libro di spese diverse si debba
collocare cronologicamente un po’ più avanti. A questo proposito, va detto che
sono state sostenute le tesi più disparate. Quella di De Carolis mi pare di
assoluto buon senso: secondo il curatore si dovrebbe pensare a una datazione
iniziale del manoscritto risalente ai primi mesi del 1540: “Una datazione iniziale del manoscritto al
1540 è poi suggerita dalla cronologia dei lavori e degli spostamenti di Lotto.
Sappiamo infatti che nel lasso di tempo tra il 1538 e il 1540 l’artista si
trovava nelle Marche […]. Risulterebbero
inspiegabili le ragioni di una completa assenza delle operazioni effettuate in
questo biennio. È
quindi con il ritorno a Venezia nei primi giorni del 1540 che l’artista
comincia l’uso del Libro di spese diverse, certamente non l’unico dei libri contabili in suo possesso nel corso
della sua lunga carriera” (p. 25) [9]. È poi vero che l’ultima
trascrizione fatta sul Libro è del
settembre 1556, ma – fra presente il curatore – si tratta di un foglietto
incollato su un’altra partita, quasi a saldo di una questione rimasta aperta
dopo l’oblazione del 1554, che, a tutti gli effetti, appare la data più
significativa, quella in cui l’artista chiude la sua bottega e, in sostanza,
smette di tenere la sua contabilità, non esercitando più un’attività
imprenditoriale.
Ma, al di là delle date di inizio
e fine delle trascrizioni, il vero problema mi sembra un altro: fino a che
punto il Libro di Lotto si può
considerare esaustivo e copre tutta la sua attività artistica di quegli anni?
O, se vogliamo porla in maniera diversa, deve l’attribuzionismo inchinarsi di
fronte ai silenzi del registro lottesco? Credo onestamente di no, e non tanto e
non solo perché non tutti i quadri citati nel Libro sono stati identificati, ma perché – a mio avviso – ve ne
potrebbero essere di tralasciati, volutamente o per errore. Non compaiono, ad
esempio, i regali (che pure ci saranno stati) e, se è valido il discorso (vedi Parte Prima) per cui Lotto non tenne un giornale, ma semplicemente delle pezze
di appoggio, che trascrisse a volte ad anni di distanza, potrebbe essersi
benissimo dimenticato di alcune opere, sue o (più probabilmente) di bottega,
vendute alla spicciolata. Difficile invece – direi impossibile – che il
discorso si possa estendere a opere di un certo livello economico.
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Lorenzo Lotto, Adorazione del bambino, 1545 circa, Loreto, Museo Antico della Santa Casa di Loreto Fonte: http://www.lorenzolottomarche.it/adorazione-del-bambino-154850/ |
Lorenzo Lotto, Assunzione, 1550, Ancona, Chiesa di San Francesco alle Scale Fonte: Wikimedia Commons |
L’economia del Cinquecento
La vera protagonista di fondo
delle registrazioni dell’artista è l’economia del Cinquecento, per molti versi
ancora ampiamente legata a una tradizione che noi consideriamo puramente
medievale. Sono, ad esempio, le transazioni, che avvengono in denaro, ma molto
spesso sono completate da pagamenti in natura, secondo i principi del baratto;
o l’esercizio dell’usura (Lotto la conosce bene, indebitandosi spesso), che è
praticata esclusivamente dagli ebrei (a Venezia il ghetto nuovo è del 1516,
quello vecchio del 1541). Stupisce semmai sentir parlare di usura nel caso di Joan Francesco de Monopoli (si tratta dell'unico caso in cui Lotto non scrive che la controparte è di religione ebraica; il nome Francesco mi porta a escluderlo con ragionevole sicurezza), che peraltro sembra essere debitore dell’artista; sicché, per
assurdo, sembrerebbe che l’usura sia praticata da Lotto stesso (cfr. p. 173).
In realtà, come noto a tutti, forme di riscossione degli interessi erano
comunque all’ordine del giorno e si nascondevano dietro al valore dei beni dati
in pegno (il pegno è comunissimo) e al loro riscatto. Ma è bello vedere, oltre
a forme contrattuali tradizionali, altre che saremmo portati a ritenere più
‘evolute, come la ‘tentata vendita’ (Lotto che di sua spontanea volontà invia
sue opere a potenziali clienti chiedendo un pagamento, se ritenute all’altezza)
o il ‘conto deposito’ (l’artista che lascia i suoi quadri in deposito a
fiduciari in altre città incaricandoli di venderli), fino alla celeberrima,
amarissima (e poco chiara) lotteria organizzata ad Ancona fra 1550 e 1551. Il
fenomeno delle lotterie delle opere d’arte non era sicuramente nuovo; purtroppo
nulla sappiamo del regolamento, se non il fatto che Lotto utilizzò la vendita
di alcuni biglietti a titolo di estinzione dei suoi debiti. Qui, appunto sta il
punto: quella di Lotto era una lotteria come quelle odierne, in cui
l’estrazione attribuiva la titolarità di un’opera (e in tal caso si desume che
vendette pochi biglietti) o era invece (come sembra più probabile) la vendita
di un’opzione all’acquisto fra una serie di quadri, opzione che, come tale,
poteva anche rimanere non esercitata se non vi era poi accordo sul
prezzo? Sarei propenso a ragionare in questi termini, a giudicare dalla
consistenza dell’invenduto.
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Lorenzo Lotto, Il sacrificio di Melchisedech, 1545 ca, Loreto, Museo Antico Tesoro della Santa Casa Fonte: http://www.lorenzolottomarche.it/il-sacrificio-di-melchisedech-1545-50/ |
Per l’arte
Sono perfettamente consapevole
che la storia non si fa con i se. Ma se Mary Philadelphia Merrifield (1804-1889),
straordinaria figura di ricercatrice vittoriana nell’ambito delle tecniche
artistiche, avesse conosciuto il Libro di
spese diverse del Lotto, avrebbe consultato con estremo interesse proprio
le pagine contenute in fondo al quaderno, scritte rovesciandolo e chiaramente
ricopiando una serie di voci relative alle spese sostenute per l’esercizio
dell’arte. Nel caso del Libro dei Conti del Guercino, infatti, Merrifield scrive: “Il
libro consiste in una serie di registrazioni di pagamenti ricevuti per l’esecuzione
di quadri (non sono segnalati affreschi) e in molti casi sono menzionati anche
l’oltremarino, le tele, le imprimiture, a carico dell’acquirente. Ho copiato
tutte le notizie relative a questi ultimi aspetti; il resto del diario non mi
sembra di particolare valore per i miei studi attuali” [10].
L’attenzione di Merrifield ai
materiali – come ben noto – rientra nell’interesse inglese della prima metà
dell’Ottocento per le tecniche degli antichi maestri e si indirizza in due
direzioni diverse: da un lato una sistemazione ordinata della nomenclatura
attribuita ai pigmenti e dall’altro la ricerca del veicolante utilizzato dai
pittori veneti per assicurare brillantezza e stabilità ai loro colori. Pur
senza soffermarsi sui ‘procedimenti’ il Libro
avrebbe detto molto alla ricercatrice, soprattutto perché espressione dell’arte
di un pittore all’epoca considerato minore: Merrifield considerava il ‘segreto’
veneziano patrimonio comune di tutti gli artefici veneti del Cinquecento e
sostenne che se tale ‘segreto’ fu perso fu molto probabilmente proprio per
colpa di Tiziano, che introdusse ‘virtuosismi’ tecnici insuperabili, causa
dello smarrimento delle procedure tradizionali.
Oggi, naturalmente, l’approccio è
completamente diverso, ma De Carolis non manca di sottolineare nel paragrafo ‘I materiali di Lotto. Tra sottigliezze
tecniche e valori estetici’ alcuni aspetti specifici. Mi pare di
particolare interesse la realtà variegata che emerge nell’acquisto degli olii.
Così, se non mancano indicazioni di rifornimenti di olio di lino e olio di noce
‘purgati’, è anche vero che Lotto acquista a volte anche noci per l’estrazione
personale del relativo olio. “L’ottenimento
in prima persona, all’interno della bottega, del legante è indice di alta cura
del proprio lavoro che va oltre i termini materiali, e si arricchisce di
risvolti estetici. La consapevolezza che la produzione dell’olio potesse
condurre ad una gradazione cromatica sbagliata o, nel caso più stringente per
quel che riguarda le caratteristiche dell’olio di noce, ad un’essiccazione che
avrebbe potuto far emergere una crosta superficiale è ben presente
nell’attività del nostro. […] L’attività
di estrazione dell’olio segnala la conoscenza delle qualità intrinseche delle
varie tipologie di legante e conseguenzialmente le sue doti discrezionali di
utilizzo e produzione” (p. 93). La discrezionalità – aggiungo io – potrebbe
essere legata anche all’importanza della committenza e delle opere in via di
esecuzione.
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Lorenzo Lotto, Presentazione al tempio, 1555-1556, Loreto, Museo Antico Tesoro della Santa Casa Fonte: http://www.lorenzolottomarche.it/presentazione-al-tempio-155-c/ |
Lotto e la luce
Ma il curatore invita a non
guardare solo ai materiali, e a soffermarsi invece su alcuni ‘segnali’ che ci
portano fisicamente ‘dentro’ alla bottega di Lotto. Non vanno sottovalutati,
quindi, i lavori di risistemazione di porte e finestre nelle botteghe affittate
a Venezia e Treviso, chiaro indice della necessità di avere una luce adatta per
lavorare. Sotto questo punto di vista – continua De Carolis – è evidente
un’attenzione alla qualità della luce che può essere messa in relazione con le
indicazioni di Paolo Pino nel suo Dialogo di pittura: la luce diventa elemento sostanziale del colore. Il curatore
scrive una pagina di particolare brillantezza e suggestione, che mi sembra
giusto riportare qui di seguito: “Per
quanto riguarda il nostro artista, si possono vedere gli effetti dell’interesse
alle migliori condizioni di luce nelle opere più significative del periodo: in
particolare, quando Lotto era intento alla sistemazione della bottega di
Rialto, la principale commissione alla quale stava attendendo era la pala con
l’Elemosina di Sant’Antonino […],
portata a compimento tra il 1540 e il 1542. L’attenzione al dato naturale e
alla resa luministica, che nella pala per la basilica dei Santi Giovanni e
Paolo rende tanto solido il domenicano fiorentino quanto agitata la folla
bisognosa, trova conferma nelle esigenze pratiche di avere un’illuminazione
ottimale in bottega, così come troviamo segnato nel Libro di spese diverse.
Sul piano estetico, l’esigenza di avere
la migliore luce possibile pone Lotto ad un livello diverso rispetto ai maggiori
artisti veneziani dell’epoca, in particolare a Tiziano e a Tintoretto. In
particolare, nel nuovo sistema messo in atto da quest’ultimo nel Miracolo
di San Marco oggi conservato alle
Gallerie dell’Accademia di Venezia, di pochi anni successivo all’Elemosina
di Sant’Antonino, il valore quantitativo
dato alla luce sarà determinante a discapito del valore qualitativo preferito
da Lotto: i due punti di luce creati da Tintoretto nella tela veneziana, quello
meridiano e quello esterno proveniente da destra, danno corpo alla scena e
rappresentano uno dei fattori discriminanti rispetto alle considerazioni di
Pino e ai risultati veneziani del nostro. È
questa differenza che definisce Lotto un pittore lontano dalla corrente
vincente nel secondo Cinquecento veneziano, e che nel contempo può spiegare
l’espressione «maestro nel dare il lume» di Giovanni Paolo Lomazzo” (p. 89).
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Lorenzo Lotto, Elemosina di Sant'Antonino (particolare), 1542, Venezia, Basilica di San Giovanni e Paolo Fonte: Wmpearl tramite Wikimedia Commons |
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Tintoretto, Miracolo di San Marco, 1548, Venezia, Gallerie dell'Accademia Fonte: Didier Descouens tramite Wikimedia Commons |
Trovo queste righe bellissime; e tuttavia mi devo
chiedere: stando alla lettera del manoscritto è possibile stabilire un nesso
fra l’allargamento di una finestra e lo spostamento di una porta e la ‘pittura
di luce’ lottesca? Sinceramente ho dei dubbi, e mi pare che De Carolis ricada
qui (e solo qui) negli errori già imputati a Zampetti, ovvero nel voler forzare
la lettura di un documento di natura contabile. Il problema della luce
ottimale, in particolare, non mi sembra uno specifico lottesco (esplicitato da
Paolo Pino nel suo Dialogo), ma una
questione comune a tutti i pittori nell’esercizio dell’ ‘arte’, ovvero del loro
mestiere. Sotto questo punto di vista mi basta ricordare che già Cennino
Cennino dedica uno dei primi capitoli del suo Libro dell’arte (il settimo, per la precisione) all’esigenza di
avere una luce temperata. La luce, insomma, serve a tutti; come poi la si renda
sulla superficie pittorica e la si integri col colore è aspetto che compete
allo stile, ma non emerge dal Libro di
spese diverse.
Una considerazione finale
È inutile girarci attorno: la
lettura del Libro di spese diverse è,
di per sé, spiazzante. Lo è per il motivo indicato da De Carolis: si tratta di
un documento contabile a uso privato e non di un testo con ambizioni più o meno
letterarie destinato a un pubblico di allievi o di lettori eruditi. In un
secolo in cui il punto di partenza di qualsiasi trattato è la questione della nobiltà della pittura (con escursioni varie sul paragone fra le arti), il Libro ci parla del mestiere. Il che non
vuol dire – sia chiaro – che molto probabilmente Lotto non ritenesse ‘nobile’
l’arte che stava esercitando con perizia e diligenza. E il Libro non testimonia
affatto l’ignoranza dell’artista; la sua cultura è del resto resa dalla
raffinatezza iconografica, carica di simboli ben precisi, delle sue opere. Semplicemente
non è il motivo per cui scrive. Lotto, con tutta evidenza, non avverte la
necessità di tornare a Plinio e ai suoi aneddoti sui pittori antichi e così
via; la sua resta, per molti versi, una cultura orale, come tale più difficile
da mettere a fuoco. Aretino, nella famosa lettera del 1548, lo schernisce,
contrapponendogli le fortune di Tiziano. Certo, è possibilissimo che Lotto
fosse un pittore ‘fallito’, rifiutato dalle corti e dai grandi committenti; a
me, tuttavia, piace pensare che a quelle corti l’artista non fosse interessato,
e che per questo non scrivesse o non cercasse l’appoggio di letterati come
appunto l’Aretino; che, insomma, Lorenzo si sentisse, a tutto tondo, un uomo
della corporazione, come, del resto, la maggior parte dei suoi colleghi. Tutto
ciò – ne sono convinto – dal Libro dei
conti non emerge.
E consentitemi una provocazione
finale: se non fosse che il grande valore del manoscritto è quello di fare luce
sulla cronologia delle opere dell’artista, potremmo dire che il Libro di spese diverse non è un libro su
Lotto, ma sul mondo che lo circonda e con cui entra in contatto. Un mondo
difficile da interpretare, nei suoi meccanismi e nei suoi personaggi (perché
molto spesso troviamo solo rapidi accenni), ma espressione vera (nella sua
realtà concreta) del funzionamento di una società su cui ancora molto dobbiamo
imparare.
NOTE
[9] A tale proposito mi corre l’obbligo di segnalare un dubbio. A p. 200r del manoscritto (siamo nella sezione Per l’arte, ovvero fra i conti ‘spiccioli che sono registrati ribaltando il quaderno) compare l’indicazione dell’acquisto, a marzo 1542 di “un libro da scriver li miei cunti”. Né Zampetti né De Carolis evidenziano la circostanza. La registrazione non è per nulla conclusiva. Sappiamo ad esempio che Lotto possedeva un “libro d’afitason”, in cui registrava le spese relative agli affitti. Ho avuto modo di avere un breve scambio di idee con Francesco De Carolis sulla questione, e la risposta è stata che la logica interna della registrazione delle partite tende a portare a escludere che il “libro da scriver li miei cunti” sia il Libro di spese diverse (in tal caso sapremmo addirittura quanto costò). Io non posso che allinearmi a chi ha dedicato una vita di studi alla questione, salvo ricordare (sono parole dello stesso De Carolis) che “Mario Lucco sostiene che il quaderno sia stato iniziato dall’artista nel 1542, senza dare sostanziali riscontri, ma mettendo in luce che il numero di note a partire da quell’anno si fa più consistente” (p. 24).
[10] G. Mazzaferro (a cura di), La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield. Lettere dall’Italia, 1845-1846, Milano, Officina Libraria, di prossima pubblicazione, pp. 155-156.
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