Lorenzo Lotto
Il libro di spese diverse
Introduzione, commento e apparati di Francesco De Carolis
Trieste, EUT Edizioni Universitarie di Trieste, 2017 (ma 2018)
Quella proposta da Francesco De
Carolis è la quarta edizione del Libro di
spese diverse di Lorenzo Lotto (1480-1556/7), scoperto nel 1885 negli
archivi della Santa Casa di Loreto, dove l’artista morì. La prima fu curata da
Adolfo Venturi nel 1894 e pubblicata all’interno del primo numero delle Gallerie Nazionali Italiane [1]; la
seconda (di gran lunga la più influente, anche se oggi introvabile) è stata
edita nel 1969 da Pietro Zampetti [2]; la terza risale al 2003 ed è a cura di
Floriano Grimaldi e Katy Sordi [3]. C’era bisogno di un’edizione nuova?
Assolutamente sì, e non solo per aggiornare la storia critica e
attribuzionistica delle tante opere lottesche citate nel manoscritto. In realtà
l’edizione di De Carolis ha il merito di mettere finalmente a fuoco la vera
natura del Libro di Lotto, che è
prettamente contabile. Intendiamoci: anche prima si sapeva che il quaderno dell’artista era un documento che aveva a che fare con aspetti di natura
contabile, ma, semplicemente, si era considerata la circostanza come di poca
rilevanza e si era invece preferito puntare a una lettura ‘intimistica’ delle
poste vergate dal Lotto sul suo registro. Zampetti, nella sua Premessa, scrive
che “il Venturi credette opportuno di non
riportare il manoscritto secondo la stesura originale, mettendo cioè di fronte
le partite del dare e dell’avere, ma di seguire un ordine cronologico” (p.
IX). Di conseguenza (e pur con qualche errore di trascrizione delle carte),
presenta i documenti su doppia pagina, ma dimentica subito di aver a che fare
con un registro dei conti. Marco Carminati, nella recensione pubblicata per l’edizione del 2003, scrive in merito al Libro:
“È un libro rilegato in cartone, formato
da 200 carte e assomiglia a una moderna rubrica telefonica con le lettere
alfabetiche incolonnate sul lato destro della pagina. Lotto utilizzava queste
lettere per registrare dalla A alla Z i nomi dei debitori e dei creditori: la
pagina a sinistra è dedicata al «dar», quella contrapposta è dedicata all’«aver»,
secondo i principi della partita doppia”. La partita doppia, appunto: cosa
vuol dire tenere un mastro in partita doppia a metà del Cinquecento, per un
artista? In ultima analisi è questa la risposta che De Carolis cerca di dare,
tramite la sua nuova ‘messa a fuoco’; una messa a fuoco che – non lo si
dimentichi – per uno storico dell’arte è particolarmente difficile, perché vuol
dire confrontarsi con un mondo (quello della mercatura e dell’economia) diverso
rispetto al rapporto ‘visivo’ con l’opera d’arte e all’attribuzionismo, che
fatalmente tende ad avere il sopravvento. Per capire meglio, mi sembra
opportuno far riferimento innanzi tutto a quanto scrisse nel 1969 Zampetti in merito al Libro.
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Frontespizio del Libro di spese diverse Fonte: http://www.lorenzolottomarche.it/libro-di-spese-diverse-di-lorenzo-lotto/ |
Pietro Zampetti: una lettura ‘intimista’ del Libro di spese diverse.
Nella sua edizione del Libro di spese diverse Zampetti fa
seguire alla trascrizione del testo tutti gli scritti autografi di Lotto
conosciuti al momento della pubblicazione (lo si ricorda: siamo nel 1969).
Spiccano le lettere che l’artista indirizza alla Confraternita della
Misericordia di Bergamo fra 1524 e 1532 relativamente alla realizzazione delle
tarsie del Coro di Santa Maria Maggiore e il testamento veneziano del 25 marzo
1846. Tutti i documenti in questione (compreso il Libro di spese diverse) sono letti come se fossero stati scritti
con la medesima intenzione, quella di rivelarci l’intima natura dell’artista.
L’equivoco (perché il Libro è un
documento contabile, certo non un diario) appare immediatamente evidente sin
dall’Introduzione: “Il «Libro di spese diverse» è l’autobiografia del
Lotto. È un documento umano d’altissimo interesse, perché dalle brevi
annotazioni, dai commenti, dalle osservazioni ch’egli aggiunge alla vera e
propria contabilità (…) scaturisce la figura di uomo con i suoi malumori, il
suo pessimismo, le improvvise impennate, le delicate attenzioni per il prossimo
e, infine, l’amore per la quiete e il riposo dopo tanto soffrire e tanto girare
per le contrade d’Italia, in cerca di lavoro e di un benessere che in realtà
non ebbe mai” [4]. E ancora: “Il Lotto,
uomo inquieto, è anche un ottimista per natura. Egli spera sempre nel futuro,
anela il momento in cui finalmente avrà la tranquillità, la serenità,
l’agiatezza. Il suo ottimismo, quindi ha un fondamento in sostanza doloroso. Il
bene è visto nel futuro, come liberazione del male presente. È questo il tema
dominante di tutto il suo libro, e perdura, mai risolto, fino alla consumazione
dei suoi ultimi giorni” [5]. “[Lotto] Fu
davvero uomo «poco provveduto», nel senso che non curava i propri interessi,
nonostante la meticolosità un po’ gretta con cui teneva la sua contabilità
spicciola. In realtà egli non seppe mai fare i propri affari, né seppe mai –
eterno girovago – crearsi un mondo proprio, un ambiente favorevole, protezioni
potenti. Perché non si fosse accasato e non si costituisse mai un centro
propulsore di vita e di sicurezza, non è ben chiaro. Probabilmente
l’inquietudine interiore, l’eterna insoddisfazione, il cercare una meta senza
riuscire mai ad afferrarla, stanno alla base dell’infelice sua vita, e sono
elementi tutti che caratterizzano, del resto, la natura stessa della sua arte,
portata sempre oltre i limiti di un sereno raggiungimento di quiete creativa.
Si nota sempre in lui, sin dalla giovinezza, quel fare patetico, quel senso del
dramma nascosto che domineranno i suoi personaggi sempre, anche quelli delle
opere ultime” [6].
La domanda sporge spontanea: se
per Zampetti Lotto fosse stato un emerito sconosciuto, se, ad esempio, non ne
avesse conosciuto il testamento del 1546, in cui si definisce “nell’età [n.d.r aveva 66 anni], e solo, senza fidel governo et molto
inquieto dela mente”, se non ne avesse conosciuto la storia, si sarebbe
espresso in questi termini, commentando le poste di un bilancio? Ne avrebbe
tratto analogie con la sua arte? Ovviamente no.
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Lorenzo Lotto, Elemosina di Sant'Antonino, 1542, Venezia, Basilica di San Giovanni e Paolo Fonte: http://www.arte.it/opera/elemosina-di-sant-antonino-1101 |
Il Libro di spese diverse: un
esempio di partita doppia
Questo, in sostanza (ma con molto
più garbo del sottoscritto e conducendo un lavoro che lo ha impegnato per
diversi anni) è il punto da cui parte De Carolis per il suo commento. E non a
caso la prima scelta è quella di non proporre assieme al Libro di spese diverse gli altri scritti di Lotto, che, ovviamente,
hanno natura completamente diversa. Per prima cosa si tratta di prendere
coscienza che l’uso della partita doppia non è una curiosità, ma un preciso
segnale (ce ne sono altri: li vedremo) dell’inserimento di Lotto nell’ambiente
corporativo-mercantile della Venezia dei suoi tempi. Leggendo il quaderno di
Lotto, insomma, si può senz’altro avere l’idea di un artefice di scarsa fortuna
[7], ma non di un pittore ‘maledetto’ (certo non di un van Gogh ante litteram, per capirci).
Il sistema della partita doppia è
un’invenzione mercantile del tardo Medioevo e di inizio Rinascimento. Venezia,
città del commercio, non solo lo conosceva bene, ma proprio a Venezia Luca
Pacioli, nel 1494, aveva pubblicato il Particularis
de Computis et Scripturis (all’interno della Summa de Arithmetica) che ne delineava il funzionamento. Secondo
Pacioli, il sistema computistico era costituito da tre parti: “il memoriale, dove venivano segnate
giornalmente le attività; il giornale [n.d.r. dove ogni operazione era
analizzata e riportata in ordine cronologico]; e il quaderno, ossia un libro mastro più grande finalizzato a contenere
tutti i dati precedentemente registrati negli altri due strumenti, così da
poter disporre di un completo spettro di informazioni per l’analisi delle
operazioni di una stessa persona o impresa” (pp. 18-19). In ultima analisi,
la partita doppia serve per la valutazione di un risultato d’esercizio
(normalmente su base annuale) e di uno stato patrimoniale. Il Libro di spese diverse è chiaramente un
mastro, organizzato a mo’ di rubrica, con l’indicazione delle lettere a lato,
in cui l’autore annota i movimenti contabili della sua impresa (che non è altro
che la sua bottega).
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Libro di spese diverse. Particolare con le lettere della rubrica Per gentile concessione di Francesco De Carolis |
Appare del tutto logico pensare
che Lotto non fosse il solo a tenere una contabilità. Non a caso, in diverse
delle sue poste, facendo riferimento a operazioni economiche varie, Lotto
scrive che la stessa operazione viene annotata anche nel libro della
controparte. Conosciamo del resto, in ambito artistico, il Libro secondo di Francesco e Jacopo Dal
Ponte, che si svolge su un arco di anni molto superiore, in cui sono
comunque compresi quelli trattati da Lotto. Anche il Libro dei Bassano è un rubricario a partita doppia. Ciò non toglie
che potessero essere adottati altri sistemi (ad esempio una semplice
registrazione in ordine cronologico) e che, ovviamente, la pratica non fosse
lasciata ai soli pittori.
Il Libro di Lotto presenta alcune pagine che non si conformano al
sistema della partita doppia. Lungi dall’inficiare la coerenza del sistema contabile
dell’artista, ne mettono invece in evidenza la compattezza, proprio per il
contrasto che le caratterizza rispetto al nucleo centrale delle registrazioni.
Si tratta di pagine iniziali (una contenente, ad esempio, una famosissima
ricetta di Jacopo Sansovino per l’esecuzione di modelli in cera) o finali
(addirittura un foglio sciolto con indicazioni relative al rapporto
dell’artista con Ottavio da Macerata) che si trovano lì semplicemente perché la
carta costa e bisogna usare anche gli spazi bianchi. Il procedimento è del
tutto analogo a quanto è successo in tantissimi manoscritti che testimoniano
antiche ricette di tecniche artistiche: gli spazi bianchi sono stati occupati
da testi non sempre coerenti e la perdita dell’originale ha fatto sì che le relative
trascrizioni portassero a una confusione di fondo, che qui non ci può essere,
perché, fortunatamente, abbiamo ancora il testo originale. Con la stessa motivazione,
Lotto utilizza le pagine finali del Libro, rimaste bianche, ribaltandole e
trascrivendo la lista delle sue spese minute sostenute per l’esercizio
dell’arte e per le spese personali (soprattutto il suo vestiario). Si tratta di
liste riferite a un periodo di tempo più contenuto (dal 1540 al 1545), ma di
particolare interesse (ne parlerò nella seconda parte di questa recensione).
Una contabilità ‘semplificata’?
Tutto ciò premesso, va chiarito
che non sempre la contabilità di Lotto si rivela impeccabile (ed è logico che
sia così); ma la vera domanda mi sembra un’altra: fermo restando che l’artista
adotta la partita doppia, tutto ciò gli serve per la misurazione di un
risultato d’esercizio (ovviamente della bottega)? In tutta onestà, non mi è del
tutto chiaro cosa ne pensi il curatore in merito. Lotto spiega genericamente alcuni suoi spostamenti dicendo che le cose non gli andavano bene. Io, personalmente, ho molti
dubbi in merito, e qui espongo brevemente i motivi che mi inducono a pensarla
in questo modo. Si è detto che quello di Lotto è un mastro; esisteva un
giornale, ovvero esisteva un registro delle operazioni giornaliere in entrata e
in uscita? Perché è il giornale che, in ultima analisi, si rivela
indispensabile per la formulazione del bilancio d’esercizio (qualsiasi fosse il
lasso di tempo preso in considerazione per l’esercizio). Naturalmente, è
possibilissimo che il giornale sia andato perso. In linea di massimo va tenuto presente che stiamo parlando di registrazioni contabili, che finivano per
essere conservate ben di rado; un giornale, poi, avrebbe avuto senso per il
tempo relativo all’esaurimento del periodo dell’esercizio e alla trascrizione
delle poste sul mastro. Fra le scritture contabili (già di per loro conservate
raramente), dunque, il giornale era quello che veniva buttato via per primo.
Tuttavia va notato che in nessuna delle poste del mastro di Lotto compare un
riferimento alla trascrizione di documenti da un giornale; anzi: l’artista
parla indifferentemente del suo ‘Libro’ o ‘giornale’ riferendosi proprio almastro che ci è arrivato. Le stesse liste relative alle spese per l’arte e a
quelle per i bisogni personali dimostrano una sola cosa: che Lotto annotava su
pezze d’appoggio diverse e separate varie tipologie di uscite (o entrate)
finanziarie, senza avere un quaderno contabile apposito. Va, infine, ricordato
che in diverse occasioni Lotto dichiara di trascrivere le operazioni contabili
direttamente da fogli sciolti (contratti, ricevute, scritture private);
certamente lo fa spesso con anni di ritardo, a volte indicando date generiche,
come se il materiale che ha a disposizione non fosse completo e lui non si
ricordasse bene gli estremi cronologici.
Se così fosse, se cioè Lotto non
avesse tenuto un ‘giornale’, la domanda immediatamente successiva è: a cosa gli
serviva, allora, tenere una rubrica disposta in partita doppia? A me sembra che
la risposta possa essere una sola: la funzione dell’inscrizione delle poste è
memorativa (si tratta di ricordarsi le operazioni economiche poste in essere) e
al contempo contabile: accanto alle voci in dare e in avere sono posti valori
monetari. Se i due importi coincidono l’operazione può considerarsi conclusa;
se sono diversi, vuol dire che c’è il permanere di un credito o di un debito
(nel caso di Lotto – è questa la realtà delle cose – di molti debiti). Il tutto
in maniera molto immediata; mi si consenta la suggestione (che, sia chiaro, è
solo mia, e non coinvolge il curatore): con una modalità di fruizione
squisitamente ‘visiva’, congeniale alla mentalità di un pittore.
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Lorenzo Lotto, Ritratto di Febo da Brescia, 1543-44, Milano, Pinacoteca di Brera Fonte: https://www.finestresullarte.info/685n_i-ritratti-di-lorenzo-lotto-alla-pinacoteca-di-brera.php |
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Lorenzo Lotto, Ritratto di Laura da Pola, 1543-44, Milano, Pinacoteca di Brera Fonte: https://www.finestresullarte.info/685n_i-ritratti-di-lorenzo-lotto-alla-pinacoteca-di-brera.php |
Alla ricerca di un ‘giusto prezzo’
Sia che Lotto ‘misurasse’ i
risultati economici della sua bottega, sia che non lo facesse, tutte le
osservazioni proposte da De Carolis nel suo commento iniziale sono
perfettamente valide. In particolare, vorrei ricordare come da tempo si sia
individuato nella formazione di un mercato dei beni di lusso (opere d’arte
comprese) uno degli aspetti fondanti del nuovo spirito rinascimentale,
nell’ambito economico del processo storico della rifeudalizzazione. Scrive in
merito De Carolis: “Da queste premesse è
stato però notato che la più immediata conseguenza della definizione della
ricchezza di una società basata sull’investimento in manufatti artistici nelle
ricerche storico-artistiche è stata circoscritta allo sviluppo delle forme di
mercato, cioè limitatamente alle attività di acquisto di opere d’arte. È invece evidente come il discorso non
può essere ridotto a questo campo, ma sia necessario allargarlo ad analisi che
colgano nel Rinascimento la fase in cui la civiltà ha espresso una
consapevolezza specifica delle caratteristiche materiali degli oggetti
artistici come beni di lusso anche nella fase di produzione” (pp. 26-27). È
evidente come il Libro di Lotto possa
dire molto in questo senso, essendo redatto proprio da un artefice del tempo.
In questo senso mi pare cruciale la ricerca dell’individuazione di un ‘giusto
prezzo’ per i manufatti, che, di fatto, percorre tutto il manoscritto. Come e
chi determina il prezzo di un’opera? Scorrendo le poste di Lotto, una costante
apparirà immediata: l’artista vende sempre le sue opere (quando ci riesce) a un
prezzo più basso di quello che, a suo giudizio, dovrebbe effettivamente
realizzare. Senza dubbio si tratta di un indice del suo personale insuccesso
artistico, ma forse c’è qualcosa di più: intanto è particolarmente interessante
il suo continuo distinguere fra il valore di un’opera a ‘onesto mercato’ o a
‘buon mercato’ (che in questo caso non vuol dire a sconto, ma a condizioni di
mercato eque) e il prezzo di vendita, che, invece, è individuato come l’accordo
intercorso fra ‘carissimi amici’ od ‘ottimi amici’. Dove è evidente che siamo
di fronte a una formula di cortesia (spesso, alla dichiarazione del prezzo di
vendita ‘fra ottimi amici’ seguono le lamentele di Lotto), che potrebbe però
individuare una situazione in cui la proposta iniziale è formulata dall’artista
e il prezzo conclusivo è inferiore in seguito a una trattativa. Non mancano, peraltro
(e sono di gran lunga più frequenti), situazioni diametralmente opposte, in cui
l’opera d’arte è realizzata ‘fuori mercato’, senza determinazione del prezzo e
in cui la quantificazione del dovuto è demandata al committente in base al
livello di gradimento dell’opera. Meno frequenti (ma ugualmente significative)
le situazioni in cui l’indicazione del prezzo è lasciata a periti nominati
preventivamente. In linea di massima le situazioni più formali sono quelle
delle committenze religiose, precedute evidentemente da una fase di
contrattazione che portano a stilare (o addirittura a rogitare) veri e propri
contratti preliminari.
Un membro della corporazione
Zampetti – lo abbiamo visto
all’inizio – definisce Lotto un uomo che non curava i propri interessi. Alla
luce di quanto detto sin qui, appare una frase poco felice. Lotto tiene
comportamenti del tutto razionali: ha un suo libro contabile, in cui riporta le
operazioni economiche della sua attività, ma non solo. È membro della corporazione e
ne segue scrupolosamente i regolamenti: dalle carte finali (quelle trascritte
rovesciando il quaderno) risulta chiaramente che paga con regolarità la
luminaria di San Luca (una specie di ‘quota d’iscrizione’ alla Corporazione o
Fraglia dei Pittori) e porta i suoi quadri alla fiera della Sensa, che si
teneva in Piazza San Marco in occasione dell’Ascensione e in cui i pittori
esponevano al pubblico le loro opere. Quando, in uno dei suoi tanti spostamenti,
Lotto lascia Venezia per andare a Treviso, si preoccupa di continuare a pagare
l’affitto della bottega in laguna perché i regolamenti della corporazione
prevedevano che gli studi dei maestri non superassero un determinato numero e
prevedevano, quindi, che le botteghe non potessero essere aperte a distanze
inferiori a sessanta passi l’una dall’altra. Si preoccupa, quindi, di mantenere
una presenza a Venezia. Tutti questi sono comportamenti perfettamente logici di
un uomo che si sente parte della corporazione, e che si considera artefice
(cioè uomo dell’arte) e non artista. Giustamente De Carolis fa notare che le
stesse parole con cui Lotto si lamenta di aver cambiato tantissimi allievi
nella sua bottega senza trovarne uno che avesse le virtù morali necessarie per
diventare suo erede lo avvicinano straordinariamente a Cennino Cennini e al suo
Libro dell’Arte, artista della
corporazione per antonomasia.
Fine Parte Prima
NOTE
[1] Per ragioni di brevità tralascio la storia complicata (e per certi versi poco decorosa) legata alla querelle che si scatena ben presto sul merito della scoperta del manoscritto (si vedano le pp. 39-42); mi pare però importante segnalare (circostanza che De Carolis stabilisce in maniera convincente) che al momento di pubblicare la sua famosa monografia sul Lotto (1895) Bernard Berenson conosceva il Libro lottesco tramite le notizie pubblicate dal Gianuizzi tra marzo e maggio del 1894 sulla Nuova Rivista Misena e le informazioni ricevute da Guido Levi, che si stava occupando della trascrizione nel 1893 quando morì ad agosto di quell’anno.
[2] Lorenzo Lotto, Libro di spese diverse (1538-1556). A cura di Pietro Zampetti, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1969.
[3] Lorenzo Lotto, Il libro di spese diverse (1480-1556). Edizione e trascrizione a cura di Floriano Grimaldi e Katy Sordi, Loreto, Delegazione Pontificia per il Santuario della Santa Casa, 2003. Non ho avuto modo di consultarla. Da quanto riferito da De Carolis si tratta però di un’edizione ‘diplomatica’, volta a ripristinare il corretto aspetto del manoscritto, in cui i curatori fanno riferimento, per quanto riguarda gli apparati, all’edizione Zampetti, aggiornando solo alcune note relative a personalità vissute nella Santa Casa di Loreto.
[4] Lorenzo Lotto, Libro di spese diverse (1538-1556). A cura di Pietro Zampetti, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1969, pp. XXIX-XXX
[5] Lorenzo Lotto, Libro di spese diverse (1538-1556). A cura di Pietro Zampetti, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1969, pp. XXXI-XXXII.
[6] Lorenzo Lotto, Libro di spese diverse (1538-1556). A cura di Pietro Zampetti, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1969, pp. XL.
[7] Ho usato intenzionalmente il termine ‘fortuna’. Si vedano le interessanti note di De Carolis sul concetto di ‘fortuna’ nel mondo mercantile del Cinquecento (pp. 32-33).
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