Storia delle antologie di letteratura artistica
Jessica Lack,
[Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]
[Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]
Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos
Londra, Penguin Modern Classics, 2017, 502 pagine.
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Terza
Londra, Penguin Modern Classics, 2017, 502 pagine.
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Terza
Fig. 3) L'antologia Modern art in the Arab World. Primary Documents, di prossima pubblicazione presso il MoMA di New York , a cura diAnneka Lenssen, Sarah Rogers e Nada Shabout
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Quest’ultima
parte della mia recensione è dedicata ai manifesti d’arte contemporanea arabi,
che, in tutta sincerità, sono quelli che più mi hanno stupito. La verità è che
gli eventi di questi ultimi anni (si pensi all’Isis che distrugge Palmira in
Iraq, ai talebani che distruggono le statue rupestri di Buddha in
Afghanistan, all’attentato al Museo
del Bardo a Tunisi, e più in generale ai fallimenti della cosiddetta primavera
araba in molti stati del Medio Oriente) hanno purtroppo consolidato l’immagine
del mondo arabo (idealmente qui allargato a quello persiano, anche se sono ben
cosciente delle differenze tra i due ambiti) come prigioniero di una concezione
illiberale della religione, perciò avverso al bello, e conseguentemente
incapace di esprimere arte contemporanea. Avevo in realtà già visto al Centre
Pompidou di Parigi la mostra “Art et
liberté. Lacerazione, guerra e surrealismo in Egitto (1938-1948)” [147],
dedicata al gruppo Arte e Libertà. La
lettura dell’antologia di Jessica Lack
ha però aperto i miei occhi su una realtà che non conoscevo. Ho letto
con emozione, ad esempio, i manifesti degli artisti iracheni degli anni
cinquanta e settanta, o degli artisti iraniani nei mesi che hanno
immediatamente preceduto la rivoluzione khomeinista del 1978-1979. I manifesti
del mondo arabo e iraniano inclusi nell’antologia possono e devono essere letti
secondo due prospettive: da un lato documentano le vivide speranze, ma anche le
cocenti delusioni che i giovani artisti in quei paesi hanno rispettivamente
nutrito e subito; dall’altro testimoniano che l’arte nasce ovunque e che non
esistono culture che storicamente le siano avverse. In fondo, la recente
notizia dell’apertura di una sede del Louvre ad Abu Dhabi conferma questa
diagnosi. Il tema della letteratura artistica araba contemporanea è, del resto,
attualissimo. Il MoMa di New York ha appena annunciato la prossima
pubblicazione di un’antologia sul tema, a cura di Anneka Lenssen, Sarah Rogers
e Nada Shabout.
In teoria,
avrei potuto allargare l’analisi ai manifesti d’arte del mondo islamico
(includendo anche quelli provenienti da Turchia, Malesia, Indonesia, Pakistan,
Bangladesh, Africa subsahariana e persino dai seguaci di Malcom X negli Stati
Uniti), ma mi è sembrato più utile limitarmi a un’area geografica (Medio
Oriente, Nord Africa, Iran) che, di per sé, è già molto ampia e diversificata,
e non portare avanti la mia analisi col filtro della questione religiosa. Del
resto, la maggioranza dei surrealisti egiziani di metà secolo scorso era di
religione cristiana copta, quasi tutti gli artisti firmatari degli altri
manifesti inclusi nell’antologia erano marxisti panarabisti e certamente non si
sarebbero considerati interpreti di un’arte religiosa, anche se furono
influenzati dal sufismo; l’ultimo gruppo incluso nell’antologia – quello del
collettivo dei cineasti anonimi ‘Abounaddara’
– documenta la violazione dei diritti civili in Siria e non fa certo differenze
tra le fazioni della guerra civile. Solamente il manifesto sudanese della “Scuola dell’uno” è interpretabile come
arte religiosa islamica, ma include una rivendicazione della libertà nell’arte.
Sono gli estremisti religiosi, insomma, a volerci far credere che le società del mondo arabo siano unidimensionali, e noi non dovremmo cadere nel
tranello.
Consideriamo
dunque i dodici manifesti arabo-iraniani presentati in “Perché siamo ‘artisti’?”, trattandoli secondo l’ordine in cui compaiono.
- Georges Henein, Manifesto, 1945
- Shakir Hassan al-Said, Manifesto del Gruppo arte moderna a Baghdad, 1951
- Il Gruppo d’arte Gallo da combattimento, Il Manifesto del macellaio dell’usignolo, 1951
- Il Gruppo Aouchem, Manifesto Aouchem, 1967
- La Scuola di Casablanca, Manifesto, 1969
- Il Gruppo Nuova visione, Verso una nuova visione, 1969
- Shakir Hassan al-Said, Una dimensione, 1973
- Il gruppo Azad, Manifesto, 1976
- Il Gruppo cristallista, Manifesto cristallista, 1978
- Habib Tengour, Surrealismo magrebino, 1981
- La Scuola dell’Uno, Manifesto della fondazione, 1986
- Abounaddara, Che cosa si deve fare?, 2011
Georges Henein, Manifesto, 1945 [148]
Georges
Henein (1914–1973) è stato un intellettuale egiziano, poeta rivoluzionario
(francofono) e artista surrealista che ha avuto un rapporto complesso con la
madrepatria. Probabilmente è più noto per il suo manifesto “Viva l’arte degenerata” con cui, nel
dicembre 1938, lancia il movimento “Arte
e libertà” (il gruppo la cui mostra parigina ho citato poco fa). Dopo
esperienze di vita condotte a Roma e a Parigi, Georges raduna negli anni
precedenti la Seconda Guerra Mondiale un gruppo di 28 artisti viventi al
Cairo – tutti aderenti alla Quarta
internazionale trotzkista [149] – scagliandosi contro l’arte accademica
egiziana, ma anche contro il nazismo in Germania e anche contro i più recenti
episodi di intolleranza estetica del fascismo in Italia (un fatto importante,
tenuto conto che sua madre era italiana). Il gruppo “Arte e libertà” boicotta, fra l’altro, la lettura dei testi di
Filippo Marinetti al Cairo (marzo 1938), denunciandone l’ideologia fascista, e
sostiene infine gli sforzi bellici dell’Egitto contro l’Asse durante la seconda
guerra mondiale (parte dell’élite culturale egiziane sperava invece nella
vittoria di Rommel a El Alamein in nome del nazionalismo arabo).
Jessica
Lack non prende però in considerazione il manifesto del 1938, preferendo
pubblicare invece quello del 1945, con cui viene creato al Cairo il “Gruppo
surrealista”, che riunisce un numero più ristretto di artisti: Ikbal El Alailly
(futura moglie di Georges), Hassan el Telmisany, Adel Amiu, Kamel Zehery, Fouad
Kamel, Ramses Younane. In esso Henein e gli altri firmatari si rivolgono in
modo critico alla Quarta internazionale, denunciando non solo gli orrori dello
stalinismo (un punto sul quale i trozkisti non potevano che convenire), ma del
marxismo stesso. La marcia di Henein contro le ideologie totalitarie continuerà
con altri testi dissacranti, non citati da Jessica Lack nell’antologia, come ad
esempio La parte della sabbia (1947),
in cui il famoso motto “Lavoratori di
tutto il mondo unitevi” viene trasformato in “Lavoratrici di tutto il mondo, siate belle”. La sua antipatia nei
confronti del nazionalismo socialista arabo di Nasser lo costringerà nel 1962
all’esilio forzato a Parigi. Recentemente riscoperto anche in Egitto, il
surrealismo degli anni cinquanta viene peraltro (a torto) considerato in patria
in sostanziale linea di continuità con l’arte dell’epoca nasseriana e con
quella degli ultimi decenni.
“Nel momento stesso in cui gli eventi
sanciscono la spartizione del mondo in due fronti inflessibili – si chiedono i surrealisti egiziani
subito dopo la fine della Guerra mondiale – quale
dovrebbe essere la nostra posizione nei confronti della dottrina marxista, che uno
di questi due antagonisti vorrebbe mettere in pratica?” [150]. I marxisti, scrivono gli intellettuali del
Cairo, hanno mostrato di utilizzare una tecnica opportunista: libertari fin
quando sono all’opposizione, cambiano tono non appena sono al potere, quando si
rivelano capaci di esercitare uno “sfacciato
terrore” [151]. In teoria, i marxisti vorrebbero creare una società che
lascia ampio spazio al pensiero critico: “È
amaro dirlo, ma la realtà dei fatti è molto lontana da confermare queste
pretese: infatti, non si avvicina in nessun modo a tale affermazioni. È
sufficiente menzionare che, a cento anni dalla sua creazione, il marxismo è la
sola dottrina economica che considera immediatamente blasfema ogni opinione
critica oppure ogni tentativo di criticare le sue tesi, nonostante i notevoli
cambiamenti che hanno cambiato la faccia e la struttura di quel mondo moderno
di cui il marxismo dovrebbe essere interprete” [152].
I firmatari
si affrettano a chiarire che la loro critica non ha natura
controrivoluzionaria, ma intende criticare la fossilizzazione del pensiero
marxista, che, a loro parere, lo rende insufficiente a comprendere “le crisi della civiltà occidentale nel suo
complesso” [153], al pari del pensiero di Nietzsche e Spengler [154]. Tra
1920 e 1940 il marxismo si è infatti sempre più allontanato “dalla sua missione originaria della
liberazione spirituale e materiale del genere umano” [155]. “Di fronte a una situazione così aberrante
situazione, in cui ogni giorno ci impantaniamo sempre più in bugie e
‘tatticismi’, a una deviazione talmente gigantesca dai principi iniziali da
riportarci indietro alle preoccupazioni e alle intenzioni originali, noi
proclamiamo di considerare l’individuo come la sola cosa che abbia valore,
nonostante oggi sia sotto tiro costante da ogni parte. Dichiariamo che
l’individuo è in possesso di facoltà interne largamente inesplorate, la più
importante delle quali è l’immaginazione, armata con i poteri più meravigliosi,
una forza inesplorata di vigore e spirito. L’individuo contro lo Stato Tiranno.
L’immaginazione contro la routine del materialismo dialettico. La libertà
contro il terrore in tutte le forme” [156]. Dal Cairo il manifesto viene
inviato a Parigi, dove però André Breton lo boccia per ragioni politiche.
Shakir Hassan al-Said, Manifesto del Gruppo d'Arte Moderna, 1951 [157]
Con
l’artista e scrittore Shakir Hassan Al Said (1925–2004) ci trasferiamo in Iraq.
Insieme al pittore e scultore Jewad Selim (1919–1961), Al Said crea nel 1951 il
Gruppo d’arte moderna di Bagdad. Loro
intenzione – spiega Jessica Lack - è quella di perseguire uno stile d’arte
nazionale “che si ispiri sia all’arte
moderna occidentale sia a influenze culturali e intellettuali tradizionali
arabe” [158]. Tra le sperimentazioni del gruppo, vorrei ricordare, ad
esempio, il tentativo di Al Said di coniugare la pittura di Paul Klee (che aveva
scritto di aver scoperto il colore nel momento in cui si era recato nel 1914 in
Tunisia, e dunque nel mondo arabo) con la scuola sufista. L’autrice dell’antologia fa presente che il gruppo
acquisisce un ruolo importante dopo il colpo di stato del 1958, che rovescia la
monarchia hascemita e trasforma l’Iraq in repubblica ispirata all’ideologia
nazionalista Baath (che nel 1968 diverrà poi di fatto uno stato totalitario). “Dopo la rivoluzione del luglio 1958 … il Gruppo
d’arte moderna di Baghdad diviene
rappresentativo del desiderio all’interno della società dell’Iraq di formulare
un’identità panaraba basata sulla fusione del patrimonio tradizionale del paese
e di ideali progressisti moderni. Si tratta, tuttavia, di un momento di breve durata:
mentre gli scontri tra fazioni tribali dividono la nuova repubblica, Selim
viene denunciato come ‘nemico del popolo’ e muore prematuramente nel 1961,
mentre Al-Said vede compromessa seriamente la sua salute mentale a causa della
continua turbolenza della situazione politica” [159]. Ritroveremo Shakir
Hassan al-Said più avanti, come autore di un secondo manifesto negli anni
settanta, una volta risolti i problemi di salute.
Al Said
legge il suo testo in occasione della Prima Mostra di Arte Moderna, che si
tiene a Bagdad nel 1951, e dove sono esposti artisti impressionisti,
espressionisti, surrealisti, cubisti e astratti. Il manifesto inizia con una
constatazione sulle differenze tra le opinioni pubbliche: “In un’epoca in cui la civiltà occidentale si sta esprimendo nel campo
dell’arte con una modalità che evidenzia
la sua bramosia di libertà grazie alle tendenze più moderne, il nostro pubblico
rimane ignaro dell’importanza dell’arte pittorica come indicatrice del grado di
vigilanza del paese e della lotta per una libertà genuina” [160]. Per
colmare questa differenza, il manifesto propone di percorrere la stessa via di
Picasso, che ha cercato il dialogo prima con i primitivi catalani, poi con
l’arte dell’Africa nera e, infine, con i movimenti postimpressionisti. Lungo
questo percorso metodologico, Al Said cerca il dialogo con l’arte islamica
dell’epoca degli Abbasidi.
“Oggi noi annunciamo la nascita di una nuova
scuola di pittura che deriva le proprie fonti dalla civiltà della nostra epoca
contemporanea – con tutti gli stili e scuole dell’arte plastica che da essa
sono emersi – e dal carattere unico della civiltà orientale. In tal modo, noi
onoreremo il vigore della pittura irachena che deriva dalla scuola di Yahya
al-Wasiti, la scuola mesopotamica del XIII secolo dopo Cristo. E, in questo
modo, noi riconosceremo la continuità che è stata spezzata dalla caduta di
Baghdad a opera dei Mongoli. La rinascita dell’arte nei nostri paesi dipende
dagli sforzi che facciamo, e noi ci appelliamo ai nostri fratelli pittori
perché assumano questo compito per il bene della nostra civiltà e di quella
universale, che dipende dalla cooperazione di popoli diversi” [161].
Il
Gruppo Gallo da combattimento,
Il Manifesto del macellaio dell’usignolo, 1951 [162]
Appena tornato dai suoi studi a
Parigi presso André Lhote (1885-1962), Jalil Ziapour (1920-1999) crea nel 1950
il Gruppo Ḵorus jangi (Gallo da combattimento). Il
combattimento a cui si fa riferimento è, ovviamente, quello dell’artista
moderno iraniano che deve sfidare contemporaneamente forme di tradizionalismo
estetico di tipo accademico-naturalista (di cui è massimo esponente il pittore
Kamal-al-Molk (1852-1940)), posizioni dottrinarie come quelle legate al partito
comunista iraniano, che limitano l’arte all’illustrazione di un programma
politico, nonché le molte e diverse influenze dell’arte contemporanea europea e
americana. Le prese di posizione molto nette del gruppo provocano, dopo la
pubblicazione di appena cinque numeri dell’omonima rivista nel 1950, la
reazione contraria delle autorità iraniane, che accusano i componenti di
sovversione comunista. L’esperienza riprende, tuttavia, nel 1951 con toni ancor
più radicali: culturalmente, l’arte del gruppo è infatti espressione dell’epoca
del governo Mossadeq (1951-1953), il politico iraniano che tenta una fase
innovativa di governo democratico caratterizzato dall’indipendenza dagli Stati
Uniti e la Gran Bretagna (Mossadeq sarà destituito da un colpo di stato
organizzato proprio dalle potenze straniere, dopo aver nazionalizzato i beni
delle compagnie petrolifere americane e inglesi in Iran). Con l’insediamento
al potere dello Scià Reza Pahlevi (1941-1979) il gruppo si scioglie, ma gli
artisti continuano a essere attivi, allineandosi allo stile dell’arte
contemporanea occidentale, per poi ritirarsi o andare in esilio con la
rivoluzione khomeinista nel 1979.
Nelle sue tele Ziapour, pur
adottando tecniche pittoriche a volte vagamente ispirate a rappresentazioni
geometriche di tipo cubista, non abbandona la rappresentazione figurativa e si
riferisce sempre a temi del vissuto popolare iraniano. Il suo linguaggio
pittorico è perciò del tutto allineato alle proprie posizioni come
intellettuale, con numerose pubblicazioni nel campo dell’antropologia, della
linguistica e dello studio dei costumi tradizionali.
Il gruppo, oltre che da Ziapour, è
costituito dai pittori Hossein Kazemi (1924-1996), Bahman Mohasses
(1931-2010), Sorab Sepehri (1928-1980),
dal poeta e artista Hooshang Irani (1925-1973), dal musicista e poeta
Gholamhossein Gharib (1923-2004) e dal drammaturgo e critico Hassan Shirvani. I
membri tentano una difficile operazione di identificazione dei contenuti di un
surrealismo che sia prettamente iraniano (al tema Ziapour dedica un articolo
già nel primo numero della rivista). Il termine Ḵorus jangi viene ispirato da una poesia di Gholamhossein
Gharib e il logo della rivista (con il
gallo da combattimento che compare in ogni numero sulla copertina) è disegnato
dallo stesso Ziapour; la
simbologia del gallo è adottata perché già presente nella calligrafia islamica
(si pensi alle opera di Mishkin Qalam nell’Ottocento), ma anche nell’arte
contemporanea (si faccia riferimento al gallo di Picasso del 1938) [163].
Il manifesto “Il macellaio
dell’usignolo” (il cui testo è reperibile anche su internet [164]) è firmato da
Irani, Gharib e Shirvani e ispirato a una radicalizzazione delle idee di
Ziapour, pochi giorni dopo l’annuncio della nazionalizzazione dell’industria
petrolifera straniera, e dunque in una fase di grande entusiasmo nazionale.
Jessica Lack spiega che “il termine
‘usignolo’ nel titolo del manifesto, in persiano, ha un doppio significato. Si
può riferire sia a un popolare motivo decorativo con fiori e uccelli nell’arte
tradizionale del paese sia ai genitali di un ragazzo. ‘Il macellaio
dell’usignolo’ è dunque un’allusione alla castrazione” [165], come forma di
rigetto violento di ogni arte precedente. Ayda Foroutan, in un recente saggio
sul tema, arriva a conclusioni diverse: “L’usignolo
sta per la tradizione romantica della poesia classica persiana, il simbolo di
un amante tragicamente folle d’amore, che “vive solo per adorare la rosa”. L’usignolo è perciò un simbolo iconografico
di qualcosa sublime del passato, e che tuttavia è divenuto banale nel presente”
[166].
Ecco il
testo del manifesto, basato su tredici affermazioni molto nette.
Il Manifesto del macellaio dell’usignolo:
1. L’arte del Gallo da combattimento è l’arte di tutti coloro che sono ancora in vita. Questo grido imporrà il silenzio a tutti quelli che piangono invece sulla tomba dell’arte del passato;
2. Nel nome di una nuova era nell’arte, noi osiamo portare il nostro attacco senza alcuna remora contro tutte le tradizioni e disposizioni dell’arte del passato;
3. I nuovi artisti sono figli del loro tempo e il diritto di vivere è esclusivo dell’avanguardia;
4. Il primo passo in ogni movimento è spezzare I vecchi idoli;
5. Noi condanniamo all’annientamento tutti gli ammiratori del passato, con le loro manifestazioni artistiche come teatro, pittura, romanzo, musica e scultura. Noi rompiamo gli antichi idoli e i seguaci che sono i loro spazzini;
6. La nuova arte considera la sincerità verso se stessi come la porta maestra per la creazione artistica. Essa raccoglie tutte le forze vitali ed è inseparabile da esse;
7. La nuova arte calpesta le tombe degli idoli e dei loro sinistri imitatori, conducendoci verso la distruzione delle catene della tradizione e l’affermazione della libertà dell’espressione artistica;
8. La nuova arte concella tutte le convenzioni del passato e annuncia novità come base per la bellezza;
9. L’esistenza dell’arte vive del movimento e del progresso. Sono vivi solamente quegli artisti il cui pensiero si basa su una nuova conoscenza;
10. La nuova arte si oppone assolutamente alle pretese dei sostenitori dell’arte per motivi sociali o dell’arte per l’arte;
11. Per consentire all’arte di continuare a progredire, tutte le precedenti associazioni d’arte dovrebbero essere distrutte.
12. Voi tutti creatori d’opere d’arte! Siate ben consapevoli che gli artisti del gruppo del Gallo da combattimento dovranno lottare indefessi contro la distribuzione delle opere d’arte antiche e volgari.
13. Abbasso gli imbecilli.
Gruppo d’arte del gallo da combattimento.
Gharib, Shirvani e Irani [167]
Il Gruppo Aouchem, Manifesto, 1967
[168]
Un gruppo
di artisti algerini, guidati dai pittori Denis Martinez (1941-) e Choukri Mesli
(1931-) fondano nel 1962 il gruppo algerino Aouchem (in arabo significa
‘tatuaggio’), cinque anni dopo la fine della lunghissima guerra di liberazione
dalla Francia. È ovvio che essi cerchino di sbarazzarsi dell’estetica pittorica
dell’avanguardia francese (e cioè dell’occupante), orientandosi invece verso
un’iconografia ispirata a tradizioni locali antichissime, risalenti persino
all’arte preistorica. Jessica Lack spiega: “Usando
materiali tipici dell’arte berbera – come piume, rame e sabbia – gli artisti
Aouchem creano pitture che abbracciano antiche tradizioni berbere e cercano di
creare una connessione con gli artisti preistorici che hanno creato le pitture
rupestri nel deserto centrale del Sahara” [169].
Il breve
manifesto, pur scritto in francese, è espressione di un disegno d’indipendenza
culturale da Parigi. “L’arte Aouchem è stata creata – inizia il testo – migliaia di anni fa sulle pareti di una
grotta nelle montagne Tassili. La sua esistenza continua fino al nostro tempo,
a volte in segreto, a volte apertamente, secondo le fluttuazioni della storia.
Ci ha difeso ed è sopravvissuta in molte forme nonostante le molte conquiste
dal periodo romano. (…) È questa tradizione autentica che Aouchem 1967 insiste nel voler riscoprire, non solamente
nelle forme delle opere d’arte, ma anche nell’intensità del colore” [170].
Il legame con il passato significa anche acquisire distanza da “una certa libertà gratuita e, a volte, senza
alcun significato dell’astrazione occidentale contemporanea” [171]. È
davvero paradossale che, mentre il gruppo cerca di identificare una figurazione
prettamente ‘nazionale’, nel 1967 la loro arte (come spiega l’autrice
dell’antologia) sia stata sostanzialmente rifiutata dalla società algerina
proprio perché considerata troppo astratta e che nel 1993 i due pittori si
siano trasferiti in esilio volontario in Francia, per sfuggire all’ondata di
attentati che uccidono intellettuali algerini durante la decennale guerra
civile.
La Scuola di Casablanca, Manifesto, 1969 [172]
Il medesimo
desiderio di acquisire piena indipendenza anima il Manifesto della Scuola di Casablanca pubblicato nel 1969
da sei pittori: Mohamed Ataallah (1939-2014), Farid Belkahia (1934-2014),
Mohamed Chebaa (1935-2014), Mustapha Hafid (1942-), Mohamed Hamidi (1941-) e
Mohamed Melehi (1936-). Il leader è Farid Belkahia (1934-2014), che – dopo un
soggiorno quinquennale a Parigi – ritorna in patria all’inizio degli anni
sessanta ispirato dal progetto panarabista e fin dal 1962 si pone l’obiettivo
di formulare un nuovo stile, che così Jessica Lack descrive: “Colori accesi, calligrafia araba e berbera
ed esperimenti con elementi naturali tradizionali, come henna e cuoio”
[173]. Se i pittori cambieranno stile nei decenni successivi, non
abbandoneranno però mai l’uso dei pigmenti e materiali tradizionali.
Il Marocco
è ormai libero dal controllo francese. Eppure, anche nel processo di
decolonizzazione la Scuola di Casablanca
si chiede presto come garantire la piena emancipazione dei giovani artisti
dall’influenza straniera, in una situazione dove mancano spazi pubblici di
esposizione (le mostre si tengono spesso all’aperto) e fondi pubblici a
sostegno dell’arte. Il manifesto del 1969 appare in una rivista franco-marocchina
(Lamalif) a sostegno dell’iniziativa
del Ministro della Cultura che, per la prima volta, cerca di riunire gli
artisti contemporanei in un’associazione per la promozione dell’arte
marocchina. “Per mancanza di gallerie e
sale d’esposizione – si legge nel manifesto – gli artisti sono stati obbligati a esporre negli edifici delle missioni
culturali straniere, dove l’approccio paternalistico all’arte che aveva
definito l’epoca del protettorato era solamente rinforzata. Peggio ancora, per
poter raggiungere il pubblico sia a casa sia all’estero, gli artisti hanno
dovuto spesso accettare il patronato delle missioni culturali” [174].
L’intero
sistema educativo (dall’istruzione primaria a quella impartita nell’unica
scuola di belle arti del paese, nella città di Tétouan) è completamente
inadeguato: i programmi delle scuole primarie fanno dell’arte una mera attività
ricreativa, e non educano comunque ad apprezzare né l’arte né la tradizione
culturale del paese, mentre la scuola di Tétouan è ancora dominata da programmi
ed orientamenti dell’epoca del protettorato. “Già a partire dal protettorato le istituzioni che chiamiamo ‘musei’
sono state trasformate in depositi per la conservazione. Nessun tentativo è
stato fatto per assegnare loro una nuova funzione: informare ed educare. Noi
crediamo che i musei debbano essere luoghi dove programmi affascinanti
permettono una migliore diffusione dell’arte. Le arti popolari sono attualmente
svilite, fraintese, conosciute solo superficialmente e spesso confuse con
artigianato di cattiva qualità. I musei potrebbero giocare un ruolo
nell’innalzare il profilo dell’arte popolare, e la presenza di artisti potrebbe
aiutare” [175].
Il Gruppo Nuova Visione, Verso una nuova visione, 1969 [176]
Con il Gruppo Nuova Visione ci trasferiamo in
Iraq, in una nuova fase storica rispetto a quella precedente del Manifesto del Gruppo d’arte moderna a Baghdad. A partire dal 1969 il partito Baath – dopo un periodo di
turbolenze – prende il controllo del potere e crea strutture culturali molto
importanti per promuovere e sostenere i principi estetici del panarabismo,
favorendo la nascita di gruppi d’artisti. Scrive Jessica Lack: “Uno dei più influenti è il Gruppo Nuova
Visione (Al-Ru’yaa al-Jadidah), creato nel 1969 dall’artista Dia al-Azzawi
(1939-). Il manifesto del gruppo è firmato anche da Rafa al-Nasiri (1940-2013),
Muhammad Mahr al-Din (1938-), Ismail
Fattah (1934-2004), Hashem Samarji (1937-) e Saleh al-Jumaie (1939-)” [177].
Il loro manifesto – che mi pare il più profondo nel novero di quelli
arabo-persiani proposti all’interno di “Perché
siamo ‘artisti’?”, va ben al di là del supporto alle idee patriottiche del
regime (nonostante alcune tirate sparse nelle pagine del testo). Ben coscienti
degli spargimenti di sangue che hanno funestato il paese negli ultimi anni, i
membri del gruppo reclamano infatti una visione mistica centrata sul sufismo e
si guardano bene dal sottoscrivere in pieno le azioni politiche del partito.
“Vi è un’unità interna nel mondo – così
si apre il manifesto – che assegna agli
uomini una posizione invisibile. Non vi è dubbio che la coscienza contemporanea
non sia null’altro che un processo che da un lato va alla scoperta
dell’identità essenziale dell’uomo e dall’altro di quella della civiltà” [178]. Lungo questo percorso di ricerca, una
vera e propria esplorazione cui è chiamato ogni uomo di coscienza, ci si deve
allontanare dall’idea che vi sia “una
finalità ultima nell’esistenza” [179], e comprendere che anche gli oggetti
sono “in continua evoluzione e costante
cambiamento” [180], tanto che l’artista non può presentare il mondo come
qualcosa di “stagnante e incapace di
cambiamento” [181].
Praticare
l’arte era per i primitivi una questione di magia, per i Greci antichi
conseguenza dello studio della bellezza e per gli uomini del medioevo un tema
di fede. Per i contemporanei è invece una pratica caratterizzata da un contatto
continuo con il mondo. “L’arte è la
pratica di prendere posizione nei confronti del mondo, una pratica continua di
superamento dei limiti e di scoperta dell’interiorità umana a partire dal
cambiamento interiore. (…) L’artista è un combattente che rifiuta di abbassare
le armi perché parla a nome del mondo e in nome dell’umano. Egli vive in uno
stato di costante sacrificio nei confronti del mondo, esprimendo un desiderio
ardente di denunciare le maschere della falsità, e dunque egli possiede sempre
quel che vuol dire. L’unità della produzione artistica attraverso la storia
pone l’artista al centro del mondo e al punto focale della rivoluzione.
Cambiamento e trasgressione sono le due facce di una sfida cosciente a tutti i
valori sociali ed intellettuali regressivi che popolano il suo mondo”
[182]. La spiritualità dell’artista, la sua capacità di autoannientarsi e di
sacrificarsi nel momento in cui cerca di ristrutturare il mondo in una nuova
visione artistica, e infine la sua determinazione nel liberarsi dalla pressione
delle relazioni materiali e sociali fanno dell’arte l’unico strumento di vero
cambiamento nella storia. Il compito dell’artista “è quello di portare una fine durevole a forme precedenti di pensiero
(…) cosicché egli possa crescere nuovamente” [183].
È l’arte a
fornire la giustificazione all’esistenza dell’uomo nella natura, fornendogli la
capacità di creare storie e inventarne sempre di nuove. “E infatti, quando l’artista crea il suo proprio, esclusivo universo su
una superficie unidimensionale, presenta al mondo una realtà che in un primo
momento non sembra esistere. Attraverso le proprie capacità creative egli dà a
quella verità una presenza nel mondo della luce in modo da scoprire alcuni
aspetti nascosti della sua esperienza vissuta che non può altrimenti essere
rivelata nelle percezioni mentali” [184] L’opera d’arte non è (e non deve
essere) semplicemente un oggetto, un bene materiale, ma “la manifestazione dell’emergenza del mondo dell’artista nell’esistenza
pubblica” [185].
“L’artista vive l’unità di tutti i periodi
della storia, anche quando vive nel suo tempo e come parte dalla sua società.
Per quanto egli senta il bisogno di cambiare il passato tramite una visione
contemporanea, egli è anche consapevole che il passato orienta il presente, che
tra passato e presente vi è unità e coerenza” [186]. Quello dell’artista è
un rinnovamento del proprio io personale che passa attraverso un eterno ritorno
alla propria identità culturale. Individuo e cultura si incontrano: “l’arte non è un mezzo di isolamento
nell’esistenza individuale o di immersione nel proprio mondo privato”
[187]. Il compito collettivo dell’artista è quello di perseguire un obiettivo
di rinnovamento della propria civiltà, riconoscendo la grandezza passata delle
civiltà del mondo arabo, ma superandole in modo dialettico: “Ricordiamo la nostra arte nelle terre di
Mesopotamia, Siria e il Nilo, e rifiutiamo il mondo della rigidità e
dell’imitazione. Costruiamo un rapporto permanente e onesto con la nostra
generazione. Noi dobbiamo demolire il nostro patrimonio per poterlo ricreare.
Dobbiamo sfidarlo per poterlo sorpassare. Dobbiamo riconoscerlo, nei confini
della sua esistenza museale, e riconoscere l’aggressività e fierezza
dell’incontro. Che i nostri spiriti si uniscano nello stesso desiderio di
superamento” [188].
Il
manifesto ci mostra che quello di Nuova
Visione è un gruppo profondamente convinto della necessità che l’artista
sia libero di esprimere una pittura moderna che assegni una nuova identità alla
comunità irachena: “L’arte moderna –
si legge nella parte conclusiva – è il
linguaggio della società contemporanea. L’artista è l’essere umano nella
società che è capace di trasgredire i limiti dell’io contemporaneo, di aderire
a una purezza che è libera dai pregiudizi della civiltà moderna, in un
tentativo di affermare l’esistenza innovativa di questa comunità nazionale
attraverso l’arte. Coloro che rigettano tale linguaggio sono anime morte. La
libertà d’espressione è la libertà del rivoluzionario contro ogni cosa che
trasformi il pensiero in un pantano di fango. È libertà di visione, di
ribellione contro le false costruzioni della società. L’arte è ogni innovazione
novella. È incompatibile con la stagnazione; è creazione continua. Come tale
non è solamente uno specchio della realtà vissuta dell’artista, ma anche lo
spirito del futuro” [189].
Troppa
libertà crea sempre problemi nei regimi politici illiberali. Il partito Baath
accentua le pressioni su Nuova Visione,
al punto che nel 1972 il gruppo si scioglie e nel 1976 Dia al-Azzawi fugge in
esilio a Londra, dove tuttora vive. Molti degli altri artisti si trasferiscono all'estero,
uno dopo l’altro, nei decenni seguenti (soprattutto nelle ricche
monarchie del Golfo Persico), anche per sfuggire alle numerose guerre (quella
contro l’Iran tra 1980 e 1988, le due guerre del Golfo nel 1990 e nel 2003, la
guerra civile dal 2014 ad oggi che ha visto anche affermarsi lo stato islamico
su parte del territorio). Si verifica, insomma, una vera e propria diaspora
pittorica irachena che favorisce la nascita di nuovi centri d’arte (Dubai,
Qatar) e che è ben nota oggi anche al di fuori del mondo arabo. Dia al-Azzawi è
infatti un artista affermato a livello internazionale. È singolare come i
membri di Nuova visione siano ben
coscienti di questa condizione già nel 1969:
“La nostra esistenza è sempre a
rischio” [190].
Shakir Hassan al-Said, Una dimensione, 1973 [191]
Abbiamo già
incontrato il pittore e scrittore Shakir Hassan al-Said (1925-2004) come autore
del Manifesto del Gruppo arte moderna a
Baghdad del 1951. Lo ritroviamo, venti anni dopo, nel 1973 come autore del
manifesto Una dimensione, ispirato
dalla filosofia del pensatore tedesco Martin Heiddegger (1889-1976), dal
sufismo e dalla tradizione della calligrafia araba. Scrive Jessica Lack: “L’ideologia del nuovo gruppo è complessa.
Essenzialmente, rigetta l’arte in due e tre dimensioni in favore di
un’illusoria realtà unidimensionale, o interna, simile ai concetti di
temporalità esistenziale promossi dal filosofo tedesco Martin Heidegger [1889-1976]. In pratica questa ‘Una dimensione’ è
difficile da manifestare artisticamente, dal momento che disegno e pittura su
una superficie sono bidimensionali; invece le pitture di al-Said non si
riferiscono a forme e figure convenzionali, ma alla traccia di qualcosa, come
una fessura in un muro. Al tempo stesso, ispirato sia dall’ontologia
heideggeriana sia dalla forma mistica dell’Islam conosciuta come sufismo,
al-Said inizia a usare nelle sue tele la lingua araba, nella forma scritta,
come mezzo per rivelare l’essenza nascosta delle cose” [192].
“Dal punto di vista filosofico – si legge
nel manifesto – possiamo considerare il
pensiero di chi ama adottare la lettera nell’arte come un pensiero
trascendente. (…) Egli cerca d’inoltrarsi nella sperimentazione del paragone
tra due mondi: quello linguistico (il mondo della lettera) e quello della
rappresentazione del mondo a due dimensioni. Da questo punto di vista, Una
Dimensione è una visione umana/non-umana
perché va al di là del proprio mondo verso il suo orizzonte universale”
[193].
“In questo senso, la teoria dell’Una
Dimensione presume che si possa comprendere il vero significato dell’universo
ritornando dalla forma alla sua eternità lineare, e dalla quantità alla sua
eternità morfologica. È una pratica di trascendenza (e perciò di assenza) che
passa attraverso la relazione tra il sé e il mondo eterno, in modo tale che
tale relazione non divenga una restrizione all’interno della quale è confinata
l’esistenza soggettiva dell’uomo, ma piuttosto si sviluppi un rapporto in cui
il sé sente il proprio essere come parte di una presenza universale” [194]. Siamo sicuramente di fronte a un pittore
filosofo, che ha grande dimestichezza con l’ermeneutica del suo tempo. Da essa
trae l’idea di una “visione contemplativa”
[195] del mondo, di cui proclama la superiorità rispetto alla “visione surrealista” [196] (si è già visto quanto il surrealismo
abbia permeato l’arte contemporanea nel mondo arabo). Se il modo di vedere dei
surrealisti è infatti ancora limitato alla realtà fisica ed emotiva
(l’ammirazione per le cose che si vedono), quella contemplativa è superiore,
perché riconosce che la prima “non è
sufficiente per esprimere la verità dell’esistenza nello spazio-tempo”
[197].
“Dal punto di vista della tecnica, Una
Dimensione si occupa di trasformare i
simboli linguistici in una dimensione di rappresentazione” [198].
Nell’antichità gli artisti esprimevano la realtà attraverso modelli allegorici;
poi nell’era moderna si era affermato il principio dell’imitazione della
natura; era ora venuto il momento di usare tecniche di conciliazione tra il
mondo delle lettere e quello delle immagini. “Dunque, nella tecnica, la lettera gioca anche il ruolo di un testimone
dal mondo del linguaggio, quando è presente, al cuore della superficie
pittorica” [199]. “Quando una pittura
è marcata in tal modo dalla lettera, la sua espressione rappresenta ciò che un
sismografo comunica con i suoi segni” [200].
Il Gruppo Azad, Manifesto, 1976 [201]
Durante gli
ultimi anni di governo dello Scià di Persia, un gruppo di artisti già affermati
– conosciuto come Gruppo Azad (il
gruppo libero) – si riunisce a Teheran attorno a Morteza Momayez (1935–2005),
artista oggi conosciuto non solamente come pittore, ma anche come designer e
grafico. Il gruppo, che ha un forte orientamento filo-occidentale, è attivo
fino all’arrivo al potere dell’ayatollah Khomeini nel 1979, e dunque per soli
tre-quattro anni. Va detto, tuttavia, che sia Morteza Momayez sia gli altri membri
del gruppo – ovvero Massoud Arabshahi (1935-), Abdorreza Daryabeygi
(1924-), Hossein Kazemi (1924–1996), Sirak Melkonian (1931-), Gholam Hossein Nami (1936-), Faramarz
Pilaram (1937–82), Parviz Tanavoli (1937-) – sono stati attivi in Iran negli
anni seguenti, a testimoniare che spazi di libertà devono pure essere esistiti,
almeno in alcune fasi storiche, anche all’interno di quel mondo. Come spiega
Jessica Lack, già quando si costituisce, alla metà degli anni
settanta, il gruppo si deve difendere dall’accusa di avere un orientamento
eccessivamente lontano dalla cultura iraniana.
“Veniamo accusati di quanto segue. (i) I
lavori degli artisti del Gruppo Azad sono un’imitazione degli attuali movimenti
d’arte negli Stati Uniti e in Europa; (ii) Le opere d’arte del Gruppo Azad sono
irrilevanti rispetto al nostro ambiente; (iii) Chiunque potrebbe creare opere
simili” [202]. Il manifesto non nega il ruolo dell’ispirazione dell’arte
occidentale, ma ribalta l’interpretazione. I membri ricordano che il maggiore
pittore iraniano tra Otto e Novecento (quel Kamal al Molk che ho già avuto modo
di citare) si è ispirato all’arte cinese e a quella europea, che i
contemporanei americani non possono essere compresi senza l’arte dada, che
Picasso deve molto all’arte africana e che Modigliani e Matisse risentono delle
miniature iraniane.
Non esiste
un universo libero dall’interazione delle idee. “Essere influenzato non è un’azione volontaria che possa essere evitata.
Coloro che sono sensibili sono influenzati dalla vita reale del loro ambiente,
e tale realtà è al tempo stesso espressione della comunicazione e dei sistemi
economici. Chi di noi ha un comportamento talmente estraneo dal proprio
ambiente ed è perciò capace di condannare le influenze esterne?” [203]
L’apertura al mondo è la ragione stessa della creazione di Azad. “Una necessità ha
riunito i membri del Gruppo Azad, nonostante tutte le differenze dei loro
metodi artistici. L’influenza ambientale ha creato in noi questa necessità. Il
bisogno di un gioco intellettuale, di una ricerca ed esperienza di un percorso
differente dal sentiero principale, di aprire una finestra in un cielo diverso,
di odorare, assaporare, digerire e rinascere di nuovo lungo lo stesso percorso.
La necessità di autodistruggersi per verificare di nuovo i nostri criteri. La necessità di evitare la ripetizione. La
necessità della semplicità e dell’avvicinamento a tutto quel che è nelle nostre
vite – cose che non vediamo a causa della nostra solitudine intellettuale e il
cui valore noi dunque ignoriamo. La necessità di salutare altri orizzonti”
[204].
Il Gruppo Cristallista, Manifesto Cristallista, 1978 [205]
L’arte
contemporanea sudanese deve moltissimo – scrive Jessica Lack – al fondatore
della scuola di Khartoum, Ibrahim El-Salahi (1930-), che fa dell’incontro della
tradizione araba e di quella africana la missione della propria vita d’artista.
“Presi tra la tradizione artistica di una
popolazione prevalentemente rurale e le proprie aspirazioni moderniste, gli
artisti sudanesi accettano la loro situazione paradossale lanciando uno stile
pittorico che incorpora l’astrazione occidentale, motivi tradizionali africani
e – come molti altri artisti d’avanguardia nel mondo islamico – la calligrafia
araba” [206]. A metà degli anni
settanta El-Salahi occupa (sia pur brevemente, prima di cadere in disgrazia e
finire persino in prigione nel 1975-1976) la posizione di ministro della
cultura e promuove attivamente una tradizione d’arte moderna nel paese.
È in questa
tradizione che si colloca il Manifesto
Cristallista, lanciato dalla pittrice Kamala Ibrahim Ishaq (1939) insieme
ad alcuni dei suoi migliori studenti alla Scuola di Khartoum: Muhammad Hamid
Shaddad, Naiyla Al Tayib, Hisham Abdallah e Hashim Ibrahim. Si tratta di un gruppo fortemente intriso di
cultura occidentale: Kamala Ishad completa i suoi studi al Royal College of Art
di Londra e inizia nel 1978 una serie pittorica decennale (Donne in cubi di cristallo) fortemente ispirata alla pittura di
Francis Bacon. Shaddad (il più importante tra i suoi seguaci) si veste invece
alla John Lennon, ha modi eccentrici e promuove fra l’altro installazioni
concettualiste, come l’osservazione collettiva del processo di scioglimento di
cubi di ghiaccio.
In quegli
anni il Sudan persegue gli obiettivi del panarabismo socialista, che include la
promozione sociale del mondo femminile. Jessica Lack spiega: “Le pitture di Kamala Ishaq esplorano il
ruolo delle donne in Sudan e si concentrano sulle cerimonie e i rituali tradizionali,
come lo zar, in cui le donne sono possedute da spiriti. Il Gruppo cristallista
abbina questi temi all’interesse per il misticismo europeo – in particolare
William Blake – al fine di promuovere una filosofia esistenzialista. Il cosmo,
a loro parere, è come un cubo di cristallo: tranlucido, interconnesso e
costantemente diverso secondo la prospettiva di chi lo osserva” [207]. Va qui rilevato che mentre l’antologia di
Jessica Lack data il manifesto nel 1978, un recentissimo saggio pubblicato nel
sito del MoMa di New York [208] lo anticipa al 21 gennaio 1976.
“Con il loro stato d’animo – inizia il
manifesto – i Cristallisti testimoniano
che il cosmo è un progetto di cristallo trasparente, con nessun occultamento,
ma profondità eterna. La verità è che i Cristallisti hanno una percezione di
tempo e spazio diversa rispetto a quella di ogni altro. (…) Noi viviamo una
nuova vita che necessita un nuovo linguaggio e una nuova poesia. Una nuova vita
significa che noi abbiamo acquisito nuovi contenuti, che richiedono nuove forme
e contorni che siano capaci di esprimere questi concetti moderni. Insomma, noi
non risuoniamo secondo firme antiche, perché non ci piacciono i versi in rima e
la poesia in metrica antica” [209].
“I Cristallisti testimoniano che non vi è
conoscenza empirica (pratica/sperimentale) Ogni cosa che è stata detta sulla
conoscenza empirica è un mito. La mente umana non si è evoluta e non farà alcun
progresso grazie a sperimentazione o pratica. L’essenza del pensiero
cristallista è che la capacità di conoscere è anche conoscenza. La capacità di
conoscere è più antica della conoscenza sperimentale. La verità è che la mente
è più intelligente, piú olistica e completa dell’esperienza pratica. (…) Sì, il
piacere è intrinseco alla conoscenza. Le nostre osservazioni sulla vita non
sono altro che osservazioni sul piacere. Noi dovremmo sapere che la linea di
divisione tra conoscenza (scienza) e piacere viene a scomparire in specchi
assurdi di acqua e di luce. Il cosmo è piccolo e largo, compreso e
non-compreso, e quel che divide i due è una dialettica di specchi assurdi di
luce ed acqua. Il mondo attorno a noi è calcolato sulla base di una realtà
permanente che è la velocità della luce. E tuttavia noi concentriamo la nostra
visione sull’idea dell’inverso della velocità della luce, in modo di poter
arrivare alla punta e alle frontiere degli specchi assurdi” [210].
Vorrei far
notare (una considerazione non presente nell’antologia) che il riferimento al
mondo dei cristalli, come universo artistico parallelo, pervade l’estetica e la
letteratura artistica tedesca della seconda parte dell’ottocento e del primo
novecento (nel contesto tedesco, si parla di Arte cristallina), con riferimenti importanti negli scritti di
Gottfried Semper (1803-1879), Adolf von Hildebrand (1847-1921), Bruno Taut (1880-1938)
e Paul Klee (1879-1940). Non è da escludere che gli artisti
della scuola di Khartoum abbiano assorbito indirettamente la loro tradizione –
che si ripercosse anche nel mondo britannico –nel corso dei loro studi a
Londra.
Habib Tengour, Surrealismo magrebino, 1981 [211]
Habib
Tengour (1947-) è poeta surrealista, critico letterario e intellettuale
algerino (non ha prodotto alcuna opera d’arte). È autore di una breve poesia
dal titolo “surrealismo magrebino”. La sua tesi è che il surrealismo in Algeria
e negli altri paesi dell’Africa settentrionale non abbia origine nella cultura
francese, ma nella cultura del sufismo. La poesia cita la pittrice Baya
Mahieddine (1931-1998) come esempio di un’arte che in Francia è stata
erroneamente interpretata da André Breton come parte dell’universo surrealista
francofono, ma in realtà ha una chiara base nell’arte tradizionale
berbera.
La Scuola dell'Uno, Manifesto fondativo, 1986 [212]
Con Ahmed
Abdel Aal (1946-) e la Scuola dell’Uno incontriamo un altro degli esponenti della Scuola di Khartoum, sia pur in una
fase storica differente da quella dei già citati Cristallisti. Jessica Lack spiega: “Emergendo in una fase di sempre più forte fondamentalismo islamico, la
Scuola dell’Uno cerca di arricchire l’estetica della Scuola di Khartoum con una
ritrovata dimensione religiosa, nella convinzione che una forma spirituale
d’arte possa esprimere verità universali profonde” [213]. Il manifesto
della Scuola dell’Uno viene firmato,
oltre che da Aal, anche da Ibrahim Al-Awam, Muhammad Hussayn Al-Fakki, Ahmed
Abdallah Utaibi, Ahmed Hamid Al-Arabi.
“I firmatari di questo manifesto, artisti
sudanesi, sono dell’opinione – si legge all’avvio del manifesto – che la creazione artistica contemporanea non
abbia valore senza una base di cultura. Questa è la ragione per la quale siamo
legati all’eredità dell’Islam arabo, ovvero all’eredità dell’ultima civiltà
umana basata su una rivelazione divina universale. Noi traiamo forza da questa
eredità, non come un deposito di conquiste passate, ma come una viva entità
dinamica simile alle altre nella sua forza e nella sua debolezza” [214]. Ne
deriva che gli artisti non vogliono imitare le creazioni del passato “ma fare uno sforzo per comprendere il loro
significato e sviluppare il loro potenziale per una crescita ed evoluzione
costante” [215]. L’arte è un “sistema
di pensiero e un modo di pensare, anche se canalizzato e espresso attraverso
colore, pietra o altre materie prime” [216]. I firmatari riconoscono
l’ispirazione artistica come “una
necessità creativa, che fa dell’opera d’arte un promemoria della necessità di
una coscienza costante e vigilante. Ciò significa la necessità di una coscienza
saggia e più pratica, che possa liberare gli esseri umani dai confini della
mancanza d’attenzione per la saggezza della bellezza dell’esistenza. La nostra
relazione con la natura che ci è stata regalata è d’ispirazione e intimità, ma
non di emulazione, conflitto e distorsione” [217].
A fianco
dell’ispirazione religiosa, il Manifesto
dell’Uno identifica la tradizione locale (“che la civiltà islamica non ha mai distrutto” [218]) come fonte
d’ispirazione fondamentale. “La Scuola
dell’uno comprende che la ‘nazione’ non è un’espressione romantica, ma
un’entità indisputabile radicata nel tempo e nello spazio. La sua sostanza è
l’eredità del suo popolo e della sua terra, i suoi attributi presenti e futuri,
il loro dolore e trionfo, e la loro aspirazione ad adempiere i loro valori
ideali in una vita sicura e felice” [219]. Parte della tradizione locale è
l’esperienza della Scuola di Khartoum,
che i firmatari del manifesto non vogliono rinnegare, ma completare: “Per oltre cinquant’anni il movimento d’arte
contemporanea sudanese ha riflettuto su questi temi, sia pur con differenze nel
livello di chiarezza e profondità delle contribuzioni individuali. (…) I
firmatari di questo manifesto apprezzano e tengono in considerazione il
contributo della Scuola di Khartoum” [220].
Il
Manifesto si conclude comunque con un riconoscimento dell’universalità del
genere umano e del bisogno di libertà dell’artista. “Infine, gli artisti della Scuola dell’Uno trovano conforto nel loro
credo nell’unità dell’esistenza umana. È questa convinzione che fa della loro
specifica creatività un contributo da lungo atteso per il patrimonio
dell’umanità, un contributo in armonia con un orientamento profetico
ininterrotto della civiltà islamica. L’artista che crede all’unità di Dio (il
monoteismo) è un’unità culturale che combatte. Per questo i membri della Scuola
dell’Uno credono che la libertà sia l’essenza della responsabilità religiosa e morale.
La libertà è una domanda fondamentale per tutti gli artisti, come pure una
domanda da parte di tutti gli uomini. La libertà è un mezzo per riscoprire e
creare una nazione. Al tempo stesso, è l’unico strumento di vittoria nella
battaglia contro la debolezza, il dogmatismo, la paura e la povertà” [221].
Questo testo ha trent’anni: rivela come vi fossero allora in Sudan artisti
orientati a un islam ortodosso che speravano di trovare nella tradizione
religiosa una fonte di libertà artistica. Pochi forse, oggi, lo crederebbero
possibile.
Abounaddara, Che cosa si deve fare?, 2011 [222]
Abounnadara
significa in arabo “L’uomo con la cinepresa” ed è la denominazione di un gruppo
di videoartisti anonimi. Il nome del collettivo si riferisce al titolo del
film-documentario “L’Uomo con la cinepresa” (Человек с кино-аппаратом) del
cineasta russo Dziga Vertov (1896-1954), girato nel 1929 come forma
sperimentale di documentario. Abounnadara
pubblica regolarmente sulle reti sociali, ogni giorno, video girati durante
la guerra civile siriana per mostrarne la realtà all’opinione pubblica
mondiale. Scrive Jessica Lack: “Molti dei
film sono meditazioni poetiche sulla vita di ogni giorno: un negoziante scherza
con i suoi clienti, si organizza una scuola sotterranea di cosmetica. Altri
evocano le realtà della guerra civile con orrido candore – i bambini dei
rifugiati parlano senza remore di teste e mani tagliate – senza mai mostrare
questi orrori” [223].
Il manifesto ricorda quel che
successe in Siria nel 1860, durante una precedente guerra civile. Gli abitanti
di una città erano assediati e in preda alla disperazione: in quell’occasione i
cittadini produssero un mosaico che rappresentava la nazione unita, mettendo
insieme le tradizioni dell’arte bizantina e di quella araba. I membri del
collettivo si impegnano a produrre immagini degne del loro popolo per
riflettere la comune umanità dei siriani, che siano schierati dall’una o
dall’altra parte.
NOTE
[147] Si veda: https://www.centrepompidou.fr/cpv/resource/ce5nBKj/rBokbLM.
[148] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? 100 World Art Manifestos, London, Penguin Modern Classics, 2017, 501
pagine. Citazione alle pagine 35-37.
[149] Il testo del manifesto è disponibile all’indirizzo
https://web.archive.org/web/20120905230521/http://www.egyptiansurrealism.com/index.php?%2Fcontents%2Fmanifesto%2F. Gli artisti sono: Ibrahim Wassily, Ahmed Fahmy,
Edouard Pollack, Edouard Levy, Armand Antis, Albert Israel, Albert Koseiry,
Telmessany, Alexandra Mitchkowivska, Emile Simon, Angelo Paulo, Angelo De Riz,
Anwar Kamel, Annette Fadida, A. Paulitz, L. Galenti, Germain Israel, George
Henein, Hassan Sobhi, A. Rafo, Zakaria Al Azouny, Samy Riad, Samy Hanouka,
Escalette, Abd El Din, Mohamed Nour, Nadaf Selair, Hassia, Henry Domani.
[150] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 36.
[151] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 36.
[152] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 36.
[153] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 37.
[154] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 47.
[155] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 37.
[156] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 37.
[157] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 45-48.
[158] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 45.
[159] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 45-46.
[160] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 46.
[161] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 47-48.
[162] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 49-51.
[163] Foroutan, Ayda - Why the Fighting Cock? The Significance of the Imagery of
the Khorus Jangi and its Manifesto “The Slaughterer of the Nightingale”, Volume
1, Number 1, Spring 2016. Si veda:
[165] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 49.
[166] Foroutan, Ayda - Why the Fighting Cock? (citato).
[167] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 50-51.
[168] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 110-112.
[169] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 110.
[170] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 111.
[171] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 111.
[172] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 121-125.
[173] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 121.
[174] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 122-123.
[175] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 124.
[176] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 143-149.
[177] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 143.
[178] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 144.
[179] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 144.
[180] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 144.
[181] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 144.
[182] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 144-145.
[183] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 145.
[184] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 146.
[185] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 146.
[186] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 146.
[187] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 147.
[188] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 147.
[189] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 148.
[190] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 147.
[191] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 183-187.
[192] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 183.
[193] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 184.
[194] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 184.
[195] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 184.
[196] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 185.
[197] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 185.
[198] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 186.
[199] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 186.
[200] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 187.
[201] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 286-288.
[202] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 287.
[203] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 288.
[204] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'?
(citato) …, p. 288.
[205] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp. 324-326.
[206] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 324.
[207] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p. 324.
[208] Lenssen, Anneka - We Painted the Crystal, We Thought About the
Crystal"—The Crystalist Manifesto (Khartoum, 1976) in Context, 4 aprile
2018. Si veda:
[209] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.325.
[210] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp.325-326.
[211] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp.338-339.
[212] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp.398-402.
[213] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.398.
[214] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.399.
[215] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.399.
[216] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.401.
[217] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.400.
[218] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.401.
[219] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, pp.401-402.
[220] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.399.
[221] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.402.
[222] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp.455-457.
[223] Lack, Jessica - Why Are We
'Artists'? (citato) …, p.455.
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