Pagine

lunedì 21 maggio 2018

Jessica Lack, [Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]. Parte Terza



Storia delle antologie di letteratura artistica

Jessica Lack,
[Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]
Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos
Londra, Penguin Modern Classics, 2017, 502 pagine.

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Terza




Fig. 3) L'antologia Modern art in the Arab World. Primary Documents, di prossima pubblicazione presso il MoMA di New York , a cura diAnneka Lenssen, Sarah Rogers e Nada Shabout


Quest’ultima parte della mia recensione è dedicata ai manifesti d’arte contemporanea arabi, che, in tutta sincerità, sono quelli che più mi hanno stupito. La verità è che gli eventi di questi ultimi anni (si pensi all’Isis che distrugge Palmira in Iraq, ai talebani che distruggono le statue rupestri di Buddha in Afghanistan,  all’attentato al Museo del Bardo a Tunisi, e più in generale ai fallimenti della cosiddetta primavera araba in molti stati del Medio Oriente) hanno purtroppo consolidato l’immagine del mondo arabo (idealmente qui allargato a quello persiano, anche se sono ben cosciente delle differenze tra i due ambiti) come prigioniero di una concezione illiberale della religione, perciò avverso al bello, e conseguentemente incapace di esprimere arte contemporanea. Avevo in realtà già visto al Centre Pompidou di Parigi la mostra “Art et liberté. Lacerazione, guerra e surrealismo in Egitto (1938-1948)” [147], dedicata al gruppo Arte e Libertà. La lettura dell’antologia di Jessica Lack  ha però aperto i miei occhi su una realtà che non conoscevo. Ho letto con emozione, ad esempio, i manifesti degli artisti iracheni degli anni cinquanta e settanta, o degli artisti iraniani nei mesi che hanno immediatamente preceduto la rivoluzione khomeinista del 1978-1979. I manifesti del mondo arabo e iraniano inclusi nell’antologia possono e devono essere letti secondo due prospettive: da un lato documentano le vivide speranze, ma anche le cocenti delusioni che i giovani artisti in quei paesi hanno rispettivamente nutrito e subito; dall’altro testimoniano che l’arte nasce ovunque e che non esistono culture che storicamente le siano avverse. In fondo, la recente notizia dell’apertura di una sede del Louvre ad Abu Dhabi conferma questa diagnosi. Il tema della letteratura artistica araba contemporanea è, del resto, attualissimo. Il MoMa di New York ha appena annunciato la prossima pubblicazione di un’antologia sul tema, a cura di Anneka Lenssen, Sarah Rogers e Nada Shabout.


In teoria, avrei potuto allargare l’analisi ai manifesti d’arte del mondo islamico (includendo anche quelli provenienti da Turchia, Malesia, Indonesia, Pakistan, Bangladesh, Africa subsahariana e persino dai seguaci di Malcom X negli Stati Uniti), ma mi è sembrato più utile limitarmi a un’area geografica (Medio Oriente, Nord Africa, Iran) che, di per sé, è già molto ampia e diversificata, e non portare avanti la mia analisi col filtro della questione religiosa. Del resto, la maggioranza dei surrealisti egiziani di metà secolo scorso era di religione cristiana copta, quasi tutti gli artisti firmatari degli altri manifesti inclusi nell’antologia erano marxisti panarabisti e certamente non si sarebbero considerati interpreti di un’arte religiosa, anche se furono influenzati dal sufismo; l’ultimo gruppo incluso nell’antologia – quello del collettivo dei cineasti anonimi ‘Abounaddara’ – documenta la violazione dei diritti civili in Siria e non fa certo differenze tra le fazioni della guerra civile. Solamente il manifesto sudanese della “Scuola dell’uno” è interpretabile come arte religiosa islamica, ma include una rivendicazione della libertà nell’arte. Sono gli estremisti religiosi, insomma, a volerci far credere che le società del mondo arabo siano unidimensionali, e noi non dovremmo cadere nel tranello.


Consideriamo dunque i dodici manifesti arabo-iraniani presentati in “Perché siamo ‘artisti’?”, trattandoli secondo l’ordine in cui compaiono.
  1. Georges Henein, Manifesto, 1945
  2. Shakir Hassan al-Said, Manifesto del Gruppo arte moderna a Baghdad, 1951
  3. Il Gruppo d’arte Gallo da combattimento, Il Manifesto del macellaio dell’usignolo, 1951
  4. Il Gruppo Aouchem, Manifesto Aouchem, 1967
  5. La Scuola di Casablanca, Manifesto, 1969
  6. Il Gruppo Nuova visione, Verso una nuova visione, 1969
  7. Shakir Hassan al-Said, Una dimensione, 1973
  8. Il gruppo Azad, Manifesto, 1976
  9. Il Gruppo cristallista, Manifesto cristallista, 1978
  10. Habib Tengour, Surrealismo magrebino, 1981
  11. La Scuola dell’Uno, Manifesto della fondazione, 1986
  12. Abounaddara, Che cosa si deve fare?, 2011

Georges Henein, Manifesto, 1945 [148] 

Georges Henein (1914–1973) è stato un intellettuale egiziano, poeta rivoluzionario (francofono) e artista surrealista che ha avuto un rapporto complesso con la madrepatria. Probabilmente è più noto per il suo manifesto “Viva l’arte degenerata” con cui, nel dicembre 1938, lancia il movimento “Arte e libertà” (il gruppo la cui mostra parigina ho citato poco fa). Dopo esperienze di vita condotte a Roma e a Parigi, Georges raduna negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale un gruppo di 28 artisti viventi al Cairo  – tutti aderenti alla Quarta internazionale trotzkista [149] – scagliandosi contro l’arte accademica egiziana, ma anche contro il nazismo in Germania e anche contro i più recenti episodi di intolleranza estetica del fascismo in Italia (un fatto importante, tenuto conto che sua madre era italiana). Il gruppo “Arte e libertà” boicotta, fra l’altro, la lettura dei testi di Filippo Marinetti al Cairo (marzo 1938), denunciandone l’ideologia fascista, e sostiene infine gli sforzi bellici dell’Egitto contro l’Asse durante la seconda guerra mondiale (parte dell’élite culturale egiziane sperava invece nella vittoria di Rommel a El Alamein in nome del nazionalismo arabo).

Jessica Lack non prende però in considerazione il manifesto del 1938, preferendo pubblicare invece quello del 1945, con cui viene creato al Cairo il “Gruppo surrealista”, che riunisce un numero più ristretto di artisti: Ikbal El Alailly (futura moglie di Georges), Hassan el Telmisany, Adel Amiu, Kamel Zehery, Fouad Kamel, Ramses Younane. In esso Henein e gli altri firmatari si rivolgono in modo critico alla Quarta internazionale, denunciando non solo gli orrori dello stalinismo (un punto sul quale i trozkisti non potevano che convenire), ma del marxismo stesso. La marcia di Henein contro le ideologie totalitarie continuerà con altri testi dissacranti, non citati da Jessica Lack nell’antologia, come ad esempio La parte della sabbia (1947), in cui il famoso motto “Lavoratori di tutto il mondo unitevi” viene trasformato in “Lavoratrici di tutto il mondo, siate belle”. La sua antipatia nei confronti del nazionalismo socialista arabo di Nasser lo costringerà nel 1962 all’esilio forzato a Parigi. Recentemente riscoperto anche in Egitto, il surrealismo degli anni cinquanta viene peraltro (a torto) considerato in patria in sostanziale linea di continuità con l’arte dell’epoca nasseriana e con quella degli ultimi decenni.

“Nel momento stesso in cui gli eventi sanciscono la spartizione del mondo in due fronti inflessibili – si chiedono i surrealisti egiziani subito dopo la fine della Guerra mondiale – quale dovrebbe essere la nostra posizione nei confronti della dottrina marxista, che uno di questi due antagonisti vorrebbe mettere in pratica?” [150].  I marxisti, scrivono gli intellettuali del Cairo, hanno mostrato di utilizzare una tecnica opportunista: libertari fin quando sono all’opposizione, cambiano tono non appena sono al potere, quando si rivelano capaci di esercitare uno “sfacciato terrore” [151]. In teoria, i marxisti vorrebbero creare una società che lascia ampio spazio al pensiero critico: “È amaro dirlo, ma la realtà dei fatti è molto lontana da confermare queste pretese: infatti, non si avvicina in nessun modo a tale affermazioni. È sufficiente menzionare che, a cento anni dalla sua creazione, il marxismo è la sola dottrina economica che considera immediatamente blasfema ogni opinione critica oppure ogni tentativo di criticare le sue tesi, nonostante i notevoli cambiamenti che hanno cambiato la faccia e la struttura di quel mondo moderno di cui il marxismo dovrebbe essere interprete” [152].


I firmatari si affrettano a chiarire che la loro critica non ha natura controrivoluzionaria, ma intende criticare la fossilizzazione del pensiero marxista, che, a loro parere, lo rende insufficiente a comprendere “le crisi della civiltà occidentale nel suo complesso” [153], al pari del pensiero di Nietzsche e Spengler [154]. Tra 1920 e 1940 il marxismo si è infatti sempre più allontanato “dalla sua missione originaria della liberazione spirituale e materiale del genere umano” [155]. “Di fronte a una situazione così aberrante situazione, in cui ogni giorno ci impantaniamo sempre più in bugie e ‘tatticismi’, a una deviazione talmente gigantesca dai principi iniziali da riportarci indietro alle preoccupazioni e alle intenzioni originali, noi proclamiamo di considerare l’individuo come la sola cosa che abbia valore, nonostante oggi sia sotto tiro costante da ogni parte. Dichiariamo che l’individuo è in possesso di facoltà interne largamente inesplorate, la più importante delle quali è l’immaginazione, armata con i poteri più meravigliosi, una forza inesplorata di vigore e spirito. L’individuo contro lo Stato Tiranno. L’immaginazione contro la routine del materialismo dialettico. La libertà contro il terrore in tutte le forme” [156]. Dal Cairo il manifesto viene inviato a Parigi, dove però André Breton lo boccia per ragioni politiche.


Shakir Hassan al-Said, Manifesto del Gruppo d'Arte Moderna1951 [157]

Con l’artista e scrittore Shakir Hassan Al Said (1925–2004) ci trasferiamo in Iraq. Insieme al pittore e scultore Jewad Selim (1919–1961), Al Said crea nel 1951 il Gruppo d’arte moderna di Bagdad. Loro intenzione – spiega Jessica Lack - è quella di perseguire uno stile d’arte nazionale “che si ispiri sia all’arte moderna occidentale sia a influenze culturali e intellettuali tradizionali arabe” [158]. Tra le sperimentazioni del gruppo, vorrei ricordare, ad esempio, il tentativo di Al Said di coniugare la pittura di Paul Klee (che aveva scritto di aver scoperto il colore nel momento in cui si era recato nel 1914 in Tunisia, e dunque nel mondo arabo) con la scuola sufista. L’autrice dell’antologia fa presente che il gruppo acquisisce un ruolo importante dopo il colpo di stato del 1958, che rovescia la monarchia hascemita e trasforma l’Iraq in repubblica ispirata all’ideologia nazionalista Baath (che nel 1968 diverrà poi di fatto uno stato totalitario). “Dopo la rivoluzione del luglio 1958 … il Gruppo d’arte moderna di Baghdad diviene rappresentativo del desiderio all’interno della società dell’Iraq di formulare un’identità panaraba basata sulla fusione del patrimonio tradizionale del paese e di ideali progressisti moderni. Si tratta, tuttavia, di un momento di breve durata: mentre gli scontri tra fazioni tribali dividono la nuova repubblica, Selim viene denunciato come ‘nemico del popolo’ e muore prematuramente nel 1961, mentre Al-Said vede compromessa seriamente la sua salute mentale a causa della continua turbolenza della situazione politica” [159]. Ritroveremo Shakir Hassan al-Said più avanti, come autore di un secondo manifesto negli anni settanta, una volta risolti i problemi di salute. 

Al Said legge il suo testo in occasione della Prima Mostra di Arte Moderna, che si tiene a Bagdad nel 1951, e dove sono esposti artisti impressionisti, espressionisti, surrealisti, cubisti e astratti. Il manifesto inizia con una constatazione sulle differenze tra le opinioni pubbliche: “In un’epoca in cui la civiltà occidentale si sta esprimendo nel campo dell’arte con una modalità  che evidenzia la sua bramosia di libertà grazie alle tendenze più moderne, il nostro pubblico rimane ignaro dell’importanza dell’arte pittorica come indicatrice del grado di vigilanza del paese e della lotta per una libertà genuina” [160]. Per colmare questa differenza, il manifesto propone di percorrere la stessa via di Picasso, che ha cercato il dialogo prima con i primitivi catalani, poi con l’arte dell’Africa nera e, infine, con i movimenti postimpressionisti. Lungo questo percorso metodologico, Al Said cerca il dialogo con l’arte islamica dell’epoca degli Abbasidi.

Oggi noi annunciamo la nascita di una nuova scuola di pittura che deriva le proprie fonti dalla civiltà della nostra epoca contemporanea – con tutti gli stili e scuole dell’arte plastica che da essa sono emersi – e dal carattere unico della civiltà orientale. In tal modo, noi onoreremo il vigore della pittura irachena che deriva dalla scuola di Yahya al-Wasiti, la scuola mesopotamica del XIII secolo dopo Cristo. E, in questo modo, noi riconosceremo la continuità che è stata spezzata dalla caduta di Baghdad a opera dei Mongoli. La rinascita dell’arte nei nostri paesi dipende dagli sforzi che facciamo, e noi ci appelliamo ai nostri fratelli pittori perché assumano questo compito per il bene della nostra civiltà e di quella universale, che dipende dalla cooperazione di popoli diversi” [161].

Il Gruppo Gallo da combattimento, Il Manifesto del macellaio dell’usignolo, 1951 [162]

Appena tornato dai suoi studi a Parigi presso André Lhote (1885-1962), Jalil Ziapour (1920-1999) crea nel 1950 il Gruppo orus jangi (Gallo da combattimento). Il combattimento a cui si fa riferimento è, ovviamente, quello dell’artista moderno iraniano che deve sfidare contemporaneamente forme di tradizionalismo estetico di tipo accademico-naturalista (di cui è massimo esponente il pittore Kamal-al-Molk (1852-1940)), posizioni dottrinarie come quelle legate al partito comunista iraniano, che limitano l’arte all’illustrazione di un programma politico, nonché le molte e diverse influenze dell’arte contemporanea europea e americana. Le prese di posizione molto nette del gruppo provocano, dopo la pubblicazione di appena cinque numeri dell’omonima rivista nel 1950, la reazione contraria delle autorità iraniane, che accusano i componenti di sovversione comunista. L’esperienza riprende, tuttavia, nel 1951 con toni ancor più radicali: culturalmente, l’arte del gruppo è infatti espressione dell’epoca del governo Mossadeq (1951-1953), il politico iraniano che tenta una fase innovativa di governo democratico caratterizzato dall’indipendenza dagli Stati Uniti e la Gran Bretagna (Mossadeq sarà destituito da un colpo di stato organizzato proprio dalle potenze straniere, dopo aver nazionalizzato i beni delle compagnie petrolifere americane e inglesi in Iran). Con l’insediamento al potere dello Scià Reza Pahlevi (1941-1979) il gruppo si scioglie, ma gli artisti continuano a essere attivi, allineandosi allo stile dell’arte contemporanea occidentale, per poi ritirarsi o andare in esilio con la rivoluzione khomeinista nel 1979.

Nelle sue tele Ziapour, pur adottando tecniche pittoriche a volte vagamente ispirate a rappresentazioni geometriche di tipo cubista, non abbandona la rappresentazione figurativa e si riferisce sempre a temi del vissuto popolare iraniano. Il suo linguaggio pittorico è perciò del tutto allineato alle proprie posizioni come intellettuale, con numerose pubblicazioni nel campo dell’antropologia, della linguistica e dello studio dei costumi tradizionali.

Il gruppo, oltre che da Ziapour, è costituito dai pittori Hossein Kazemi (1924-1996), Bahman Mohasses (1931-2010),  Sorab Sepehri (1928-1980), dal poeta e artista Hooshang Irani (1925-1973), dal musicista e poeta Gholamhossein Gharib (1923-2004) e dal drammaturgo e critico Hassan Shirvani. I membri tentano una difficile operazione di identificazione dei contenuti di un surrealismo che sia prettamente iraniano (al tema Ziapour dedica un articolo già nel primo numero della rivista). Il termine Ḵorus jangi viene ispirato da una poesia di Gholamhossein Gharib e il logo della rivista (con il gallo da combattimento che compare in ogni numero sulla copertina) è disegnato dallo stesso Ziapour; la simbologia del gallo è adottata perché già presente nella calligrafia islamica (si pensi alle opera di Mishkin Qalam nell’Ottocento), ma anche nell’arte contemporanea (si faccia riferimento al gallo di Picasso del 1938) [163].

Il manifesto “Il macellaio dell’usignolo” (il cui testo è reperibile anche su internet [164]) è firmato da Irani, Gharib e Shirvani e ispirato a una radicalizzazione delle idee di Ziapour, pochi giorni dopo l’annuncio della nazionalizzazione dell’industria petrolifera straniera, e dunque in una fase di grande entusiasmo nazionale. Jessica Lack spiega che “il termine ‘usignolo’ nel titolo del manifesto, in persiano, ha un doppio significato. Si può riferire sia a un popolare motivo decorativo con fiori e uccelli nell’arte tradizionale del paese sia ai genitali di un ragazzo. ‘Il macellaio dell’usignolo’ è dunque un’allusione alla castrazione” [165], come forma di rigetto violento di ogni arte precedente. Ayda Foroutan, in un recente saggio sul tema, arriva a conclusioni diverse: “L’usignolo sta per la tradizione romantica della poesia classica persiana, il simbolo di un amante tragicamente folle d’amore, che “vive solo per adorare la rosa”. L’usignolo è perciò un simbolo iconografico di qualcosa sublime del passato, e che tuttavia è divenuto banale nel presente” [166].

Ecco il testo del manifesto, basato su tredici affermazioni molto nette.

Il Manifesto del macellaio dell’usignolo: 

1. L’arte del
Gallo da combattimento è l’arte di tutti coloro che sono ancora in vita. Questo grido imporrà il silenzio a tutti quelli che piangono invece sulla tomba dell’arte del passato;
2. Nel nome di una nuova era nell’arte, noi osiamo portare il nostro attacco senza alcuna remora contro tutte le tradizioni e disposizioni dell’arte del passato;
3. I nuovi artisti sono figli del loro tempo e il diritto di vivere è esclusivo dell’avanguardia;
4. Il primo passo in ogni movimento è spezzare I vecchi idoli;
5. Noi condanniamo all’annientamento tutti gli ammiratori del passato, con le loro manifestazioni artistiche come teatro, pittura, romanzo, musica e scultura. Noi rompiamo gli antichi idoli e i seguaci che sono i loro spazzini;
6. La nuova arte considera la sincerità verso se stessi come la porta maestra per la creazione artistica. Essa raccoglie tutte le forze vitali ed è inseparabile da esse;
7. La nuova arte calpesta le tombe degli idoli e dei loro sinistri imitatori, conducendoci verso la distruzione delle catene della tradizione e l’affermazione della libertà dell’espressione artistica;
8. La nuova arte concella tutte le convenzioni del passato e annuncia novità come base per la bellezza;
9. L’esistenza dell’arte vive del movimento e del progresso. Sono vivi solamente quegli artisti il cui pensiero si basa su una nuova conoscenza;
10. La nuova arte si oppone assolutamente alle pretese dei sostenitori dell’arte per motivi sociali o dell’arte per l’arte;
11. Per consentire all’arte di continuare a progredire, tutte le precedenti associazioni d’arte dovrebbero essere distrutte.
12. Voi tutti creatori d’opere d’arte! Siate ben consapevoli che gli artisti del gruppo del Gallo da combattimento dovranno lottare indefessi contro la distribuzione delle opere d’arte antiche e volgari.
13. Abbasso gli imbecilli.

Gruppo d’arte del gallo da combattimento.
Gharib, Shirvani e Irani
[167]


Il Gruppo Aouchem, Manifesto, 1967 [168] 

Un gruppo di artisti algerini, guidati dai pittori Denis Martinez (1941-) e Choukri Mesli (1931-) fondano nel 1962 il gruppo algerino Aouchem  (in arabo significa ‘tatuaggio’), cinque anni dopo la fine della lunghissima guerra di liberazione dalla Francia. È ovvio che essi cerchino di sbarazzarsi dell’estetica pittorica dell’avanguardia francese (e cioè dell’occupante), orientandosi invece verso un’iconografia ispirata a tradizioni locali antichissime, risalenti persino all’arte preistorica. Jessica Lack spiega: “Usando materiali tipici dell’arte berbera – come piume, rame e sabbia – gli artisti Aouchem creano pitture che abbracciano antiche tradizioni berbere e cercano di creare una connessione con gli artisti preistorici che hanno creato le pitture rupestri nel deserto centrale del Sahara” [169].

Il breve manifesto, pur scritto in francese, è espressione di un disegno d’indipendenza culturale da Parigi. “L’arte Aouchem è stata creata – inizia il testo – migliaia di anni fa sulle pareti di una grotta nelle montagne Tassili. La sua esistenza continua fino al nostro tempo, a volte in segreto, a volte apertamente, secondo le fluttuazioni della storia. Ci ha difeso ed è sopravvissuta in molte forme nonostante le molte conquiste dal periodo romano. (…) È questa tradizione autentica che Aouchem 1967 insiste nel voler riscoprire, non solamente nelle forme delle opere d’arte, ma anche nell’intensità del colore” [170]. Il legame con il passato significa anche acquisire distanza da “una certa libertà gratuita e, a volte, senza alcun significato dell’astrazione occidentale contemporanea” [171]. È davvero paradossale che, mentre il gruppo cerca di identificare una figurazione prettamente ‘nazionale’, nel 1967 la loro arte (come spiega l’autrice dell’antologia) sia stata sostanzialmente rifiutata dalla società algerina proprio perché considerata troppo astratta e che nel 1993 i due pittori si siano trasferiti in esilio volontario in Francia, per sfuggire all’ondata di attentati che uccidono intellettuali algerini durante la decennale guerra civile. 

La Scuola di CasablancaManifesto, 1969 [172]

Il medesimo desiderio di acquisire piena indipendenza anima il Manifesto della Scuola di Casablanca pubblicato nel 1969 da sei pittori: Mohamed Ataallah (1939-2014), Farid Belkahia (1934-2014), Mohamed Chebaa (1935-2014), Mustapha Hafid (1942-), Mohamed Hamidi (1941-) e Mohamed Melehi (1936-). Il leader è Farid Belkahia (1934-2014), che – dopo un soggiorno quinquennale a Parigi – ritorna in patria all’inizio degli anni sessanta ispirato dal progetto panarabista e fin dal 1962 si pone l’obiettivo di formulare un nuovo stile, che così Jessica Lack descrive: “Colori accesi, calligrafia araba e berbera ed esperimenti con elementi naturali tradizionali, come henna e cuoio” [173]. Se i pittori cambieranno stile nei decenni successivi, non abbandoneranno però mai l’uso dei pigmenti e materiali tradizionali.

Il Marocco è ormai libero dal controllo francese. Eppure, anche nel processo di decolonizzazione la Scuola di Casablanca si chiede presto come garantire la piena emancipazione dei giovani artisti dall’influenza straniera, in una situazione dove mancano spazi pubblici di esposizione (le mostre si tengono spesso all’aperto) e fondi pubblici a sostegno dell’arte. Il manifesto del 1969 appare in una rivista franco-marocchina (Lamalif) a sostegno dell’iniziativa del Ministro della Cultura che, per la prima volta, cerca di riunire gli artisti contemporanei in un’associazione per la promozione dell’arte marocchina. “Per mancanza di gallerie e sale d’esposizione – si legge nel manifesto – gli artisti sono stati obbligati a esporre negli edifici delle missioni culturali straniere, dove l’approccio paternalistico all’arte che aveva definito l’epoca del protettorato era solamente rinforzata. Peggio ancora, per poter raggiungere il pubblico sia a casa sia all’estero, gli artisti hanno dovuto spesso accettare il patronato delle missioni culturali” [174].

L’intero sistema educativo (dall’istruzione primaria a quella impartita nell’unica scuola di belle arti del paese, nella città di Tétouan) è completamente inadeguato: i programmi delle scuole primarie fanno dell’arte una mera attività ricreativa, e non educano comunque ad apprezzare né l’arte né la tradizione culturale del paese, mentre la scuola di Tétouan è ancora dominata da programmi ed orientamenti dell’epoca del protettorato. “Già a partire dal protettorato le istituzioni che chiamiamo ‘musei’ sono state trasformate in depositi per la conservazione. Nessun tentativo è stato fatto per assegnare loro una nuova funzione: informare ed educare. Noi crediamo che i musei debbano essere luoghi dove programmi affascinanti permettono una migliore diffusione dell’arte. Le arti popolari sono attualmente svilite, fraintese, conosciute solo superficialmente e spesso confuse con artigianato di cattiva qualità. I musei potrebbero giocare un ruolo nell’innalzare il profilo dell’arte popolare, e la presenza di artisti potrebbe aiutare” [175].


Il Gruppo Nuova VisioneVerso una nuova visione, 1969 [176]

Con il Gruppo Nuova Visione ci trasferiamo in Iraq, in una nuova fase storica rispetto a quella precedente del Manifesto del Gruppo d’arte moderna a Baghdad. A partire dal 1969 il partito Baath – dopo un periodo di turbolenze – prende il controllo del potere e crea strutture culturali molto importanti per promuovere e sostenere i principi estetici del panarabismo, favorendo la nascita di gruppi d’artisti. Scrive Jessica Lack: “Uno dei più influenti è il Gruppo Nuova Visione (Al-Ru’yaa al-Jadidah), creato nel 1969 dall’artista Dia al-Azzawi (1939-). Il manifesto del gruppo è firmato anche da Rafa al-Nasiri (1940-2013), Muhammad Mahr al-Din (1938-), Ismail Fattah (1934-2004), Hashem Samarji (1937-) e Saleh al-Jumaie (1939-)” [177]. Il loro manifesto – che mi pare il più profondo nel novero di quelli arabo-persiani proposti all’interno di “Perché siamo ‘artisti’?”, va ben al di là del supporto alle idee patriottiche del regime (nonostante alcune tirate sparse nelle pagine del testo). Ben coscienti degli spargimenti di sangue che hanno funestato il paese negli ultimi anni, i membri del gruppo reclamano infatti una visione mistica centrata sul sufismo e si guardano bene dal sottoscrivere in pieno le azioni politiche del partito.

Vi è un’unità interna nel mondo – così si apre il manifesto – che assegna agli uomini una posizione invisibile. Non vi è dubbio che la coscienza contemporanea non sia null’altro che un processo che da un lato va alla scoperta dell’identità essenziale dell’uomo e dall’altro di quella della civiltà” [178]. Lungo questo percorso di ricerca, una vera e propria esplorazione cui è chiamato ogni uomo di coscienza, ci si deve allontanare dall’idea che vi sia “una finalità ultima nell’esistenza” [179], e comprendere che anche gli oggetti sono “in continua evoluzione e costante cambiamento” [180], tanto che l’artista non può presentare il mondo come qualcosa di “stagnante e incapace di cambiamento” [181].

Praticare l’arte era per i primitivi una questione di magia, per i Greci antichi conseguenza dello studio della bellezza e per gli uomini del medioevo un tema di fede. Per i contemporanei è invece una pratica caratterizzata da un contatto continuo con il mondo. “L’arte è la pratica di prendere posizione nei confronti del mondo, una pratica continua di superamento dei limiti e di scoperta dell’interiorità umana a partire dal cambiamento interiore. (…) L’artista è un combattente che rifiuta di abbassare le armi perché parla a nome del mondo e in nome dell’umano. Egli vive in uno stato di costante sacrificio nei confronti del mondo, esprimendo un desiderio ardente di denunciare le maschere della falsità, e dunque egli possiede sempre quel che vuol dire. L’unità della produzione artistica attraverso la storia pone l’artista al centro del mondo e al punto focale della rivoluzione. Cambiamento e trasgressione sono le due facce di una sfida cosciente a tutti i valori sociali ed intellettuali regressivi che popolano il suo mondo” [182]. La spiritualità dell’artista, la sua capacità di autoannientarsi e di sacrificarsi nel momento in cui cerca di ristrutturare il mondo in una nuova visione artistica, e infine la sua determinazione nel liberarsi dalla pressione delle relazioni materiali e sociali fanno dell’arte l’unico strumento di vero cambiamento nella storia. Il compito dell’artista “è quello di portare una fine durevole a forme precedenti di pensiero (…) cosicché egli possa crescere nuovamente” [183].

È l’arte a fornire la giustificazione all’esistenza dell’uomo nella natura, fornendogli la capacità di creare storie e inventarne sempre di nuove. “E infatti, quando l’artista crea il suo proprio, esclusivo universo su una superficie unidimensionale, presenta al mondo una realtà che in un primo momento non sembra esistere. Attraverso le proprie capacità creative egli dà a quella verità una presenza nel mondo della luce in modo da scoprire alcuni aspetti nascosti della sua esperienza vissuta che non può altrimenti essere rivelata nelle percezioni mentali” [184] L’opera d’arte non è (e non deve essere) semplicemente un oggetto, un bene materiale, ma “la manifestazione dell’emergenza del mondo dell’artista nell’esistenza pubblica” [185].

L’artista vive l’unità di tutti i periodi della storia, anche quando vive nel suo tempo e come parte dalla sua società. Per quanto egli senta il bisogno di cambiare il passato tramite una visione contemporanea, egli è anche consapevole che il passato orienta il presente, che tra passato e presente vi è unità e coerenza” [186]. Quello dell’artista è un rinnovamento del proprio io personale che passa attraverso un eterno ritorno alla propria identità culturale. Individuo e cultura si incontrano: “l’arte non è un mezzo di isolamento nell’esistenza individuale o di immersione nel proprio mondo privato” [187]. Il compito collettivo dell’artista è quello di perseguire un obiettivo di rinnovamento della propria civiltà, riconoscendo la grandezza passata delle civiltà del mondo arabo, ma superandole in modo dialettico: “Ricordiamo la nostra arte nelle terre di Mesopotamia, Siria e il Nilo, e rifiutiamo il mondo della rigidità e dell’imitazione. Costruiamo un rapporto permanente e onesto con la nostra generazione. Noi dobbiamo demolire il nostro patrimonio per poterlo ricreare. Dobbiamo sfidarlo per poterlo sorpassare. Dobbiamo riconoscerlo, nei confini della sua esistenza museale, e riconoscere l’aggressività e fierezza dell’incontro. Che i nostri spiriti si uniscano nello stesso desiderio di superamento” [188]. 

Il manifesto ci mostra che quello di Nuova Visione è un gruppo profondamente convinto della necessità che l’artista sia libero di esprimere una pittura moderna che assegni una nuova identità alla comunità irachena: “L’arte moderna – si legge nella parte conclusiva – è il linguaggio della società contemporanea. L’artista è l’essere umano nella società che è capace di trasgredire i limiti dell’io contemporaneo, di aderire a una purezza che è libera dai pregiudizi della civiltà moderna, in un tentativo di affermare l’esistenza innovativa di questa comunità nazionale attraverso l’arte. Coloro che rigettano tale linguaggio sono anime morte. La libertà d’espressione è la libertà del rivoluzionario contro ogni cosa che trasformi il pensiero in un pantano di fango. È libertà di visione, di ribellione contro le false costruzioni della società. L’arte è ogni innovazione novella. È incompatibile con la stagnazione; è creazione continua. Come tale non è solamente uno specchio della realtà vissuta dell’artista, ma anche lo spirito del futuro” [189].

Troppa libertà crea sempre problemi nei regimi politici illiberali. Il partito Baath accentua le pressioni su Nuova Visione, al punto che nel 1972 il gruppo si scioglie e nel 1976 Dia al-Azzawi fugge in esilio a Londra, dove tuttora vive. Molti degli altri artisti si trasferiscono all'estero, uno dopo l’altro, nei decenni seguenti (soprattutto nelle ricche monarchie del Golfo Persico), anche per sfuggire alle numerose guerre (quella contro l’Iran tra 1980 e 1988, le due guerre del Golfo nel 1990 e nel 2003, la guerra civile dal 2014 ad oggi che ha visto anche affermarsi lo stato islamico su parte del territorio). Si verifica, insomma, una vera e propria diaspora pittorica irachena che favorisce la nascita di nuovi centri d’arte (Dubai, Qatar) e che è ben nota oggi anche al di fuori del mondo arabo. Dia al-Azzawi è infatti un artista affermato a livello internazionale. È singolare come i membri di Nuova visione siano ben coscienti di questa condizione già nel 1969:  “La nostra esistenza è sempre a rischio” [190].


Shakir Hassan al-Said, Una dimensione, 1973 [191]

Abbiamo già incontrato il pittore e scrittore Shakir Hassan al-Said (1925-2004) come autore del Manifesto del Gruppo arte moderna a Baghdad del 1951. Lo ritroviamo, venti anni dopo, nel 1973 come autore del manifesto Una dimensione, ispirato dalla filosofia del pensatore tedesco Martin Heiddegger (1889-1976), dal sufismo e dalla tradizione della calligrafia araba. Scrive Jessica Lack: “L’ideologia del nuovo gruppo è complessa. Essenzialmente, rigetta l’arte in due e tre dimensioni in favore di un’illusoria realtà unidimensionale, o interna, simile ai concetti di temporalità esistenziale promossi dal filosofo tedesco Martin Heidegger [1889-1976]. In pratica questa ‘Una dimensione’ è difficile da manifestare artisticamente, dal momento che disegno e pittura su una superficie sono bidimensionali; invece le pitture di al-Said non si riferiscono a forme e figure convenzionali, ma alla traccia di qualcosa, come una fessura in un muro. Al tempo stesso, ispirato sia dall’ontologia heideggeriana sia dalla forma mistica dell’Islam conosciuta come sufismo, al-Said inizia a usare nelle sue tele la lingua araba, nella forma scritta, come mezzo per rivelare l’essenza nascosta delle cose” [192].

Dal punto di vista filosofico – si legge nel manifesto – possiamo considerare il pensiero di chi ama adottare la lettera nell’arte come un pensiero trascendente. (…) Egli cerca d’inoltrarsi nella sperimentazione del paragone tra due mondi: quello linguistico (il mondo della lettera) e quello della rappresentazione del mondo a due dimensioni. Da questo punto di vista, Una Dimensione è una visione umana/non-umana perché va al di là del proprio mondo verso il suo orizzonte universale” [193].

In questo senso, la teoria dell’Una Dimensione presume che si possa comprendere il vero significato dell’universo ritornando dalla forma alla sua eternità lineare, e dalla quantità alla sua eternità morfologica. È una pratica di trascendenza (e perciò di assenza) che passa attraverso la relazione tra il sé e il mondo eterno, in modo tale che tale relazione non divenga una restrizione all’interno della quale è confinata l’esistenza soggettiva dell’uomo, ma piuttosto si sviluppi un rapporto in cui il sé sente il proprio essere come parte di una presenza universale” [194].  Siamo sicuramente di fronte a un pittore filosofo, che ha grande dimestichezza con l’ermeneutica del suo tempo. Da essa trae l’idea di una “visione contemplativa” [195] del mondo, di cui proclama la superiorità rispetto alla “visione surrealista” [196] (si è già visto quanto il surrealismo abbia permeato l’arte contemporanea nel mondo arabo). Se il modo di vedere dei surrealisti è infatti ancora limitato alla realtà fisica ed emotiva (l’ammirazione per le cose che si vedono), quella contemplativa è superiore, perché riconosce che la prima “non è sufficiente per esprimere la verità dell’esistenza nello spazio-tempo” [197].

Dal punto di vista della tecnica, Una Dimensione si occupa di trasformare i simboli linguistici in una dimensione di rappresentazione” [198]. Nell’antichità gli artisti esprimevano la realtà attraverso modelli allegorici; poi nell’era moderna si era affermato il principio dell’imitazione della natura; era ora venuto il momento di usare tecniche di conciliazione tra il mondo delle lettere e quello delle immagini. “Dunque, nella tecnica, la lettera gioca anche il ruolo di un testimone dal mondo del linguaggio, quando è presente, al cuore della superficie pittorica” [199]. “Quando una pittura è marcata in tal modo dalla lettera, la sua espressione rappresenta ciò che un sismografo comunica con i suoi segni” [200]. 


Il Gruppo AzadManifesto, 1976 [201]

Durante gli ultimi anni di governo dello Scià di Persia, un gruppo di artisti già affermati – conosciuto come Gruppo Azad (il gruppo libero) – si riunisce a Teheran attorno a Morteza Momayez (1935–2005), artista oggi conosciuto non solamente come pittore, ma anche come designer e grafico. Il gruppo, che ha un forte orientamento filo-occidentale, è attivo fino all’arrivo al potere dell’ayatollah Khomeini nel 1979, e dunque per soli tre-quattro anni. Va detto, tuttavia, che sia Morteza Momayez sia gli altri membri del gruppo – ovvero Massoud Arabshahi (1935-), Abdorreza Daryabeygi (1924-), Hossein Kazemi (1924–1996), Sirak Melkonian (1931-),  Gholam Hossein Nami (1936-), Faramarz Pilaram (1937–82), Parviz Tanavoli (1937-) – sono stati attivi in Iran negli anni seguenti, a testimoniare che spazi di libertà devono pure essere esistiti, almeno in alcune fasi storiche, anche all’interno di quel mondo. Come spiega Jessica Lack, già quando si costituisce, alla metà degli anni settanta, il gruppo si deve difendere dall’accusa di avere un orientamento eccessivamente lontano dalla cultura iraniana. 

Veniamo accusati di quanto segue. (i) I lavori degli artisti del Gruppo Azad sono un’imitazione degli attuali movimenti d’arte negli Stati Uniti e in Europa; (ii) Le opere d’arte del Gruppo Azad sono irrilevanti rispetto al nostro ambiente; (iii) Chiunque potrebbe creare opere simili” [202]. Il manifesto non nega il ruolo dell’ispirazione dell’arte occidentale, ma ribalta l’interpretazione. I membri ricordano che il maggiore pittore iraniano tra Otto e Novecento (quel Kamal al Molk che ho già avuto modo di citare) si è ispirato all’arte cinese e a quella europea, che i contemporanei americani non possono essere compresi senza l’arte dada, che Picasso deve molto all’arte africana e che Modigliani e Matisse risentono delle miniature iraniane.     

Non esiste un universo libero dall’interazione delle idee. “Essere influenzato non è un’azione volontaria che possa essere evitata. Coloro che sono sensibili sono influenzati dalla vita reale del loro ambiente, e tale realtà è al tempo stesso espressione della comunicazione e dei sistemi economici. Chi di noi ha un comportamento talmente estraneo dal proprio ambiente ed è perciò capace di condannare le influenze esterne?” [203] L’apertura al mondo è la ragione stessa della creazione di Azad. “Una necessità ha riunito i membri del Gruppo Azad, nonostante tutte le differenze dei loro metodi artistici. L’influenza ambientale ha creato in noi questa necessità. Il bisogno di un gioco intellettuale, di una ricerca ed esperienza di un percorso differente dal sentiero principale, di aprire una finestra in un cielo diverso, di odorare, assaporare, digerire e rinascere di nuovo lungo lo stesso percorso. La necessità di autodistruggersi per verificare di nuovo i nostri criteri.  La necessità di evitare la ripetizione. La necessità della semplicità e dell’avvicinamento a tutto quel che è nelle nostre vite – cose che non vediamo a causa della nostra solitudine intellettuale e il cui valore noi dunque ignoriamo. La necessità di salutare altri orizzonti” [204].


Il Gruppo Cristallista, Manifesto Cristallista, 1978 [205]

L’arte contemporanea sudanese deve moltissimo – scrive Jessica Lack – al fondatore della scuola di Khartoum, Ibrahim El-Salahi (1930-), che fa dell’incontro della tradizione araba e di quella africana la missione della propria vita d’artista. “Presi tra la tradizione artistica di una popolazione prevalentemente rurale e le proprie aspirazioni moderniste, gli artisti sudanesi accettano la loro situazione paradossale lanciando uno stile pittorico che incorpora l’astrazione occidentale, motivi tradizionali africani e – come molti altri artisti d’avanguardia nel mondo islamico – la calligrafia araba” [206].  A metà degli anni settanta El-Salahi occupa (sia pur brevemente, prima di cadere in disgrazia e finire persino in prigione nel 1975-1976) la posizione di ministro della cultura e promuove attivamente una tradizione d’arte moderna nel paese.

È in questa tradizione che si colloca il Manifesto Cristallista, lanciato dalla pittrice Kamala Ibrahim Ishaq (1939) insieme ad alcuni dei suoi migliori studenti alla Scuola di Khartoum: Muhammad Hamid Shaddad, Naiyla Al Tayib, Hisham Abdallah e Hashim Ibrahim.  Si tratta di un gruppo fortemente intriso di cultura occidentale: Kamala Ishad completa i suoi studi al Royal College of Art di Londra e inizia nel 1978 una serie pittorica decennale (Donne in cubi di cristallo) fortemente ispirata alla pittura di Francis Bacon. Shaddad (il più importante tra i suoi seguaci) si veste invece alla John Lennon, ha modi eccentrici e promuove fra l’altro installazioni concettualiste, come l’osservazione collettiva del processo di scioglimento di cubi di ghiaccio.

In quegli anni il Sudan persegue gli obiettivi del panarabismo socialista, che include la promozione sociale del mondo femminile. Jessica Lack spiega: “Le pitture di Kamala Ishaq esplorano il ruolo delle donne in Sudan e si concentrano sulle cerimonie e i rituali tradizionali, come lo zar, in cui le donne sono possedute da spiriti. Il Gruppo cristallista abbina questi temi all’interesse per il misticismo europeo – in particolare William Blake – al fine di promuovere una filosofia esistenzialista. Il cosmo, a loro parere, è come un cubo di cristallo: tranlucido, interconnesso e costantemente diverso secondo la prospettiva di chi lo osserva” [207].  Va qui rilevato che mentre l’antologia di Jessica Lack data il manifesto nel 1978, un recentissimo saggio pubblicato nel sito del MoMa di New York [208] lo anticipa al 21 gennaio 1976.

Con il loro stato d’animo – inizia il manifesto – i Cristallisti testimoniano che il cosmo è un progetto di cristallo trasparente, con nessun occultamento, ma profondità eterna. La verità è che i Cristallisti hanno una percezione di tempo e spazio diversa rispetto a quella di ogni altro. (…) Noi viviamo una nuova vita che necessita un nuovo linguaggio e una nuova poesia. Una nuova vita significa che noi abbiamo acquisito nuovi contenuti, che richiedono nuove forme e contorni che siano capaci di esprimere questi concetti moderni. Insomma, noi non risuoniamo secondo firme antiche, perché non ci piacciono i versi in rima e la poesia in metrica antica” [209].

“I Cristallisti testimoniano che non vi è conoscenza empirica (pratica/sperimentale) Ogni cosa che è stata detta sulla conoscenza empirica è un mito. La mente umana non si è evoluta e non farà alcun progresso grazie a sperimentazione o pratica. L’essenza del pensiero cristallista è che la capacità di conoscere è anche conoscenza. La capacità di conoscere è più antica della conoscenza sperimentale. La verità è che la mente è più intelligente, piú olistica e completa dell’esperienza pratica. (…) Sì, il piacere è intrinseco alla conoscenza. Le nostre osservazioni sulla vita non sono altro che osservazioni sul piacere. Noi dovremmo sapere che la linea di divisione tra conoscenza (scienza) e piacere viene a scomparire in specchi assurdi di acqua e di luce. Il cosmo è piccolo e largo, compreso e non-compreso, e quel che divide i due è una dialettica di specchi assurdi di luce ed acqua. Il mondo attorno a noi è calcolato sulla base di una realtà permanente che è la velocità della luce. E tuttavia noi concentriamo la nostra visione sull’idea dell’inverso della velocità della luce, in modo di poter arrivare alla punta e alle frontiere degli specchi assurdi” [210]. 

Vorrei far notare (una considerazione non presente nell’antologia) che il riferimento al mondo dei cristalli, come universo artistico parallelo, pervade l’estetica e la letteratura artistica tedesca della seconda parte dell’ottocento e del primo novecento (nel contesto tedesco, si parla di Arte cristallina), con riferimenti importanti negli scritti di Gottfried Semper (1803-1879), Adolf von Hildebrand (1847-1921), Bruno Taut (1880-1938) e Paul Klee (1879-1940). Non è da escludere che gli artisti della scuola di Khartoum abbiano assorbito indirettamente la loro tradizione – che si ripercosse anche nel mondo britannico –nel corso dei loro studi a Londra.


Habib Tengour, Surrealismo magrebino, 1981 [211]

Habib Tengour (1947-) è poeta surrealista, critico letterario e intellettuale algerino (non ha prodotto alcuna opera d’arte). È autore di una breve poesia dal titolo “surrealismo magrebino”. La sua tesi è che il surrealismo in Algeria e negli altri paesi dell’Africa settentrionale non abbia origine nella cultura francese, ma nella cultura del sufismo. La poesia cita la pittrice Baya Mahieddine (1931-1998) come esempio di un’arte che in Francia è stata erroneamente interpretata da André Breton come parte dell’universo surrealista francofono, ma in realtà ha una chiara base nell’arte tradizionale berbera.  


La Scuola dell'UnoManifesto fondativo, 1986 [212]

Con Ahmed Abdel Aal (1946-) e la Scuola dell’Uno incontriamo un altro degli esponenti della Scuola di Khartoum, sia pur in una fase storica differente da quella dei già citati Cristallisti. Jessica Lack spiega: “Emergendo in una fase di sempre più forte fondamentalismo islamico, la Scuola dell’Uno cerca di arricchire l’estetica della Scuola di Khartoum con una ritrovata dimensione religiosa, nella convinzione che una forma spirituale d’arte possa esprimere verità universali profonde” [213]. Il manifesto della Scuola dell’Uno viene firmato, oltre che da Aal, anche da Ibrahim Al-Awam, Muhammad Hussayn Al-Fakki, Ahmed Abdallah Utaibi, Ahmed Hamid Al-Arabi.

I firmatari di questo manifesto, artisti sudanesi, sono dell’opinione – si legge all’avvio del manifesto – che la creazione artistica contemporanea non abbia valore senza una base di cultura. Questa è la ragione per la quale siamo legati all’eredità dell’Islam arabo, ovvero all’eredità dell’ultima civiltà umana basata su una rivelazione divina universale. Noi traiamo forza da questa eredità, non come un deposito di conquiste passate, ma come una viva entità dinamica simile alle altre nella sua forza e nella sua debolezza” [214]. Ne deriva che gli artisti non vogliono imitare le creazioni del passato “ma fare uno sforzo per comprendere il loro significato e sviluppare il loro potenziale per una crescita ed evoluzione costante” [215]. L’arte è un “sistema di pensiero e un modo di pensare, anche se canalizzato e espresso attraverso colore, pietra o altre materie prime” [216]. I firmatari riconoscono l’ispirazione artistica come “una necessità creativa, che fa dell’opera d’arte un promemoria della necessità di una coscienza costante e vigilante. Ciò significa la necessità di una coscienza saggia e più pratica, che possa liberare gli esseri umani dai confini della mancanza d’attenzione per la saggezza della bellezza dell’esistenza. La nostra relazione con la natura che ci è stata regalata è d’ispirazione e intimità, ma non di emulazione, conflitto e distorsione” [217].  

A fianco dell’ispirazione religiosa, il Manifesto dell’Uno identifica la tradizione locale (“che la civiltà islamica non ha mai distrutto” [218]) come fonte d’ispirazione fondamentale. “La Scuola dell’uno comprende che la ‘nazione’ non è un’espressione romantica, ma un’entità indisputabile radicata nel tempo e nello spazio. La sua sostanza è l’eredità del suo popolo e della sua terra, i suoi attributi presenti e futuri, il loro dolore e trionfo, e la loro aspirazione ad adempiere i loro valori ideali in una vita sicura e felice” [219]. Parte della tradizione locale è l’esperienza della Scuola di Khartoum, che i firmatari del manifesto non vogliono rinnegare, ma completare: “Per oltre cinquant’anni il movimento d’arte contemporanea sudanese ha riflettuto su questi temi, sia pur con differenze nel livello di chiarezza e profondità delle contribuzioni individuali. (…) I firmatari di questo manifesto apprezzano e tengono in considerazione il contributo della Scuola di Khartoum” [220].

Il Manifesto si conclude comunque con un riconoscimento dell’universalità del genere umano e del bisogno di libertà dell’artista. “Infine, gli artisti della Scuola dell’Uno trovano conforto nel loro credo nell’unità dell’esistenza umana. È questa convinzione che fa della loro specifica creatività un contributo da lungo atteso per il patrimonio dell’umanità, un contributo in armonia con un orientamento profetico ininterrotto della civiltà islamica. L’artista che crede all’unità di Dio (il monoteismo) è un’unità culturale che combatte. Per questo i membri della Scuola dell’Uno credono che la libertà sia l’essenza della responsabilità religiosa e morale. La libertà è una domanda fondamentale per tutti gli artisti, come pure una domanda da parte di tutti gli uomini. La libertà è un mezzo per riscoprire e creare una nazione. Al tempo stesso, è l’unico strumento di vittoria nella battaglia contro la debolezza, il dogmatismo, la paura e la povertà” [221]. Questo testo ha trent’anni: rivela come vi fossero allora in Sudan artisti orientati a un islam ortodosso che speravano di trovare nella tradizione religiosa una fonte di libertà artistica. Pochi forse, oggi, lo crederebbero possibile.


AbounaddaraChe cosa si deve fare?, 2011 [222]

Abounnadara significa in arabo “L’uomo con la cinepresa” ed è la denominazione di un gruppo di videoartisti anonimi. Il nome del collettivo si riferisce al titolo del film-documentario “L’Uomo con la cinepresa” (Человек с кино-аппаратом) del cineasta russo Dziga Vertov (1896-1954), girato nel 1929 come forma sperimentale di documentario. Abounnadara pubblica regolarmente sulle reti sociali, ogni giorno, video girati durante la guerra civile siriana per mostrarne la realtà all’opinione pubblica mondiale. Scrive Jessica Lack: “Molti dei film sono meditazioni poetiche sulla vita di ogni giorno: un negoziante scherza con i suoi clienti, si organizza una scuola sotterranea di cosmetica. Altri evocano le realtà della guerra civile con orrido candore – i bambini dei rifugiati parlano senza remore di teste e mani tagliate – senza mai mostrare questi orrori” [223].

Il manifesto ricorda quel che successe in Siria nel 1860, durante una precedente guerra civile. Gli abitanti di una città erano assediati e in preda alla disperazione: in quell’occasione i cittadini produssero un mosaico che rappresentava la nazione unita, mettendo insieme le tradizioni dell’arte bizantina e di quella araba. I membri del collettivo si impegnano a produrre immagini degne del loro popolo per riflettere la comune umanità dei siriani, che siano schierati dall’una o dall’altra parte.


NOTE


[148] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos, London, Penguin Modern Classics, 2017, 501 pagine. Citazione alle pagine 35-37.

[149] Il testo del manifesto è disponibile all’indirizzo 
https://web.archive.org/web/20120905230521/http://www.egyptiansurrealism.com/index.php?%2Fcontents%2Fmanifesto%2F. Gli artisti sono: Ibrahim Wassily, Ahmed Fahmy, Edouard Pollack, Edouard Levy, Armand Antis, Albert Israel, Albert Koseiry, Telmessany, Alexandra Mitchkowivska, Emile Simon, Angelo Paulo, Angelo De Riz, Anwar Kamel, Annette Fadida, A. Paulitz, L. Galenti, Germain Israel, George Henein, Hassan Sobhi, A. Rafo, Zakaria Al Azouny, Samy Riad, Samy Hanouka, Escalette, Abd El Din, Mohamed Nour, Nadaf Selair, Hassia, Henry Domani.

[150] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 36.

[151] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 36.

[152] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 36.

[153] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 37.

[154] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 47.

[155] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 37.

[156] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 37.

[157] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 45-48.

[158] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 45.

[159] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 45-46.

[160] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 46.

[161] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 47-48.

[162] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 49-51.

[163] Foroutan, Ayda - Why the Fighting Cock? The Significance of the Imagery of the Khorus Jangi and its Manifesto “The Slaughterer of the Nightingale”, Volume 1, Number 1, Spring 2016. Si veda: 



[165] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 49.

[166] Foroutan, Ayda - Why the Fighting Cock? (citato).

[167] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 50-51.

[168] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 110-112.

[169] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 110.

[170] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 111.

[171] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 111.

[172] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 121-125.

[173] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 121.

[174] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 122-123.

[175] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 124.

[176] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 143-149.

[177] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 143.

[178] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 144.

[179] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 144.

[180] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 144.

[181] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 144.

[182] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 144-145.

[183] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 145.

[184] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 146.

[185] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 146.

[186] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 146.

[187] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 147.

[188] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 147.

[189] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 148.

[190] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 147.

[191] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 183-187.

[192] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 183.

[193] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 184.

[194] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 184.

[195] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 184.

[196] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 185.

[197] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 185.

[198] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 186.

[199] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 186.

[200] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 187.

[201] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 286-288.

[202] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 287.

[203] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 288.

[204] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 288.

[205] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 324-326.

[206] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 324.

[207] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 324.

[208] Lenssen, Anneka -  We Painted the Crystal, We Thought About the Crystal"The Crystalist Manifesto (Khartoum, 1976) in Context, 4 aprile 2018. Si veda: 

[209] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.325.

[210] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp.325-326.

[211] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp.338-339.

[212] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp.398-402.

[213] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.398.

[214] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.399.

[215] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.399.

[216] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.401.

[217] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.400.

[218] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.401.

[219] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp.401-402.

[220] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.399.

[221] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.402.

[222] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp.455-457.

[223] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p.455.


Nessun commento:

Posta un commento