Storia delle antologie di letteratura artistica
Jessica Lack,
[Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]
[Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]
Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos
London, Penguin Modern Classics, 2017, 502 pagine.
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda
London, Penguin Modern Classics, 2017, 502 pagine.
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda
Torna alla Parte Prima
Nella prima
parte di questo post abbiamo visto come l’antologia di Jessica Lack prenda in
considerazione gli scritti di artisti che propugnano criteri estetici diversi e
spesso opposti rispetto a quelli dell’arte occidentale. Allo sviluppo di quella
che l’autrice chiama World Art
concorrono sia artisti che vivono in Asia, Africa ed America Latina sia le
minoranze etniche presenti in Europa e negli Stati Uniti. Dell’arte occidentale
vengono respinte sia la concezione individualista sia l’attenzione agli aspetti
formali. L’autrice di Why Are We ‘Artists?
mira ad offrire una lettura postcoloniale dell’arte, affermando la centralità
dell’arte non occidentale, in modo tale che il risultato possa essere una vera
arte globale. Ho letto l’antologia con grande interesse e rispetto. Mi sono al
tempo stesso posto un interrogativo: si può parlare di World Art – ovvero di arte globale – escludendo parte importante
dell’umanità e cercando di rendere l’Europa e l’America settentrionale alla
stregua di una nuova periferia della creazione estetica? L’interrogativo che
pongo è politico, in natura, esattamente come lo sono le tesi dell’antologia di
Jessica Lack: la produzione artistica è infatti – a mio parere – già oggi uno
degli aspetti della convivenza tra i popoli dove il dialogo fra culture più è
progredito in termini di pari dignità. L’arte dovrebbe essere vista come luogo
delle interconnessioni e della globalità, e non delle esclusioni (sia pure, in
questo caso, a danno delle aree economicamente dominanti del mondo).
Non si
tratta di lamentarsi di un delitto di lesa maestà (in realtà, i manifesti dei
movimenti estetici occidentali sono presenti in altre antologie), ma piuttosto
di chiedersi se l’immagine dell’arte resa nell’antologia non sia solo una delle
molte e possibili letture di ciò che è successo nel secolo scorso. Quella di
Jessica Lack è un’interpretazione interessante, perché ci aiuta senz’altro a
comprendere le motivazioni di molti artisti non occidentali ed è sicuramente in
linea con alcuni sviluppi geopolitici del nostro tempo (la volontà delle nuove
potenze extra-europee di disegnare una nuova carta geografica della politica
internazionale). Ma vi sono altre letture possibili dell’arte contemporanea
globale?
Insomma, a
mio avviso, numerosi fonti della Lack possono anche provare il contrario della
sua tesi principale, e il giudizio definitivo è più una questione di
convincimenti intimi che di trend assoluti. Mi sembra dunque che, utilizzando
certamente un modo di pensare storicista che può sembrare a molti superato, ma
che rimane il mio modo di ragionare, ci si possa porre la questione seguente:
qual è la tendenza che le strategie di comunicazione degli artisti del mio
tempo testimoniano? Lo spirito del tempo, lo Zeitgeist rivelato dalle antologie più attuali di letteratura
artistica, è quello che porta alla rivendicazione di una divisione
dall’occidente (Lack) o di un’unione (Stiles e Selz) dell’umanità?
Tornando
all’antologia Why Are We 'Artists'?,
le domande che ho posto fin qui sono rilevanti soprattutto per interpretare ciò
che è successo in America Latina. È infatti in quel mondo che si manifestano
più forti le due, divergenti, tendenze all’unione e alla separatezza. L’America
Latina, anche linguisticamente, ha un legame più forte con l’arte europea di
quanto non accada ad esempio in Asia. È inoltre spesso legata, anche per le
storie personali degli artisti, all’arte occidentale: l’America Latina è stata
terra di accoglienza per artisti europei che fuggivano dai totalitarismi
europei negli anni trenta e quaranta, ma anche luogo di provenienza di molti
artisti che in Europa ed America si sono poi rifugiati negli anni settanta ed
ottanta per sottrarsi alle dittature militari. Va però detto che una parte importante
degli artisti latinoamericani ha cercato di reagire alla repressione militare
(che ovviamente comprendeva anche la limitazione della libertà di espressione
degli artisti) elaborando una propria identità specifica, diversa da quella
delle avanguardie dell’arte occidentale (ad esempio l’espressionismo astratto,
la pop art, il concettualismo), spesso percepite come conformi al modo di
pensare e agli interessi di mercato del mondo americano, e quindi espressione
di regimi liberticidi. Il tema del dialogo e dello scontro estetico tra questi
mondi è stato al centro della recente mostra Una favola dei due mondi. Arte sperimentale dell’America Latina in
dialogo con la collezione del MMK [79] tenutasi recentemente al Museum für Moderne Kunst (MMK) di Francoforte in cooperazione con
il Museo de Arte Moderno de Buenos Aires
(MACBA). Si è trattato di
un’esposizione molto ampia (più di cinquecento pezzi) organizzata in modo
paritario dai curatori delle due istituzioni museali tedesca ed argentina,
proprio con l’obiettivo di fornire un’immagine equilibrata di differenze e
similitudini tra quanto si è verificato in America del Sud, negli Stati Uniti e
in Europa. E dunque, negli stessi giorni in cui leggevo l’antologia di Jessica
Lack (anzi, con quell’antologia in mano), ho visitato la mostra alla ricerca di
conferme e smentite.
Jessica Lack. Una breve storia dell’arte in
America Latina nel XX secolo attraverso tredici manifesti
Poco più
del dieci per cento dei manifesti di Why
Are We ‘Artists’? proviene dalla regione del mondo che parla spagnolo e
portoghese nel continente americano. Ecco la lista dei tredici testi:
1 - Arte
Madí - Manifesto Madí (1947)
2 - Grupo ruptura - Manifesto rottura (1952)
3 - El Techo de la Ballena – Per la ricostruzione del magma (1961)
4 - Alberto Greco – Manifesto Vivo-Dito (1963)
5 - Arte de los medios de Comunicación Masivos – Arte dei mezzi di comunicazione di massa (1966)
6 – Il Gruppo degli artisti d’avanguardia – Il Manifesto Il Tucumán brucia (1968)
7 - Eduardo Costa – Il Manifesto dell’Arte utile (1969)
8 - Grupo Vértebra – Il Manifesto Vertebra (1970)
9 - Artur Barrio – FANGO/CARNE FOGNA (1970)
10 - Grupo Antillano – Manifesto (1978)
11 - Colectivo de Acciones de Arte – Dichiarazione del gruppo CADA (1982)
12 - Frente 3 de Fevereiro – Manifesto del Fronte 3 di Febbraio (2004)
13 - Tania Bruguera e il Movimento internazionale dei migranti – Manifesto dei migranti (2012).
2 - Grupo ruptura - Manifesto rottura (1952)
3 - El Techo de la Ballena – Per la ricostruzione del magma (1961)
4 - Alberto Greco – Manifesto Vivo-Dito (1963)
5 - Arte de los medios de Comunicación Masivos – Arte dei mezzi di comunicazione di massa (1966)
6 – Il Gruppo degli artisti d’avanguardia – Il Manifesto Il Tucumán brucia (1968)
7 - Eduardo Costa – Il Manifesto dell’Arte utile (1969)
8 - Grupo Vértebra – Il Manifesto Vertebra (1970)
9 - Artur Barrio – FANGO/CARNE FOGNA (1970)
10 - Grupo Antillano – Manifesto (1978)
11 - Colectivo de Acciones de Arte – Dichiarazione del gruppo CADA (1982)
12 - Frente 3 de Fevereiro – Manifesto del Fronte 3 di Febbraio (2004)
13 - Tania Bruguera e il Movimento internazionale dei migranti – Manifesto dei migranti (2012).
Gli scritti testimoniano come gli artisti latino-americani vivano in tensione permanente
tra tre stati d’animo. Possono essere all’origine di nuove tendenze destinate
ad avere un impatto nel mondo intero (si pensi alla diffusione del cosiddetto madismo in Europa durante i primi anni
cinquanta); possono sentirsi parte di un’arte internazionale di tipo
contestativo (parleremo delle provocazioni artistiche di Alberto Greco);
possono, infine avere la consapevolezza di essere parte di un mondo che, a
causa delle dittature, è rimasto ai margini dell’arte mondiale (si pensi alla Dichiarazione del gruppo Cada). Nella
recente mostra di Francoforte tutte queste tendenze sono testimoniate, ma a
prevalere è l’idea che l’arte dell’America Latina sia comunque in grado di
generare un dialogo creativo con le altre regioni del mondo. Così, ad esempio,
le pitture nere di Alberto Greco sono mostrate in un’unica stanza con gli achromes di Piero Manzoni e le opere blu di Yves Klein, tutte simbolo di una
medesima ricerca tra concettualismo e informale svoltasi alla fine degli anni
cinquanta. Vorrei insomma leggere i passi dell’antologia di Jessica Lack
sull’America Latina non come testimonianza di una rottura tra quel mondo e il nostro,
ma, anzi, come prova che un punto d’incontro tra le varie sensibilità del
nostro pianeta è possibile e che forse quel luogo è già stato, nonostante tutte
le sue vicissitudini, proprio l’America Latina.
Il manifesto dell'arte Madí (1947) [80]
Il primo manifesto
latino-americano incluso nell’antologia di Jessica Lack è opera del gruppo “Movimiento, Abstracción, Dimensión,
Invención” ovvero – usando l’abbreviazione più conosciuta - il Gruppo Madí
(abbreviazione di materialismo dialettico).
Il testo è probabilmente scritto dall’ungherese Gyula Kosice (1924-2016), un
tipico figlio dell’impero asburgico. Nato in Moravia (ora in Slovacchia), membro della minoranza ungherese, si chiamava Gyula Fallik (ma cambiò cognome adottando quello di Košice, sua città natale); da bambino emigrò in Argentina, e lì,
appunto, naturalizzato argentino). Insieme a Rhod Rothfuss (1920-1969), Carmelo
Arden Quin (1913-2010), Martín Blaszko (1920-2011) e altri, Kosice crea un
movimento artistico ispirato all’arte concreta, all’astrattismo, al
costruttivismo (tutti movimenti presenti in Europa dagli anni trenta), ma anche
a soluzioni del tutto originali (quadri dipinti su cornici irregolari, statue
in movimento e immerse nell’acqua, forme realizzate in materiali industriali).
Alla scultura e alla pittura si affiancano un’architettura, una musica, una
poesia, un teatro, una letteratura e una danza Madí. Con la decisione di Carmelo Arden Quin di trasferirsi a Parigi
(anche in polemica con gli altri membri) lo stile Madí si diffonde in Europa, con una presenza importante anche in
Italia, a partire dalla costituzione di un gruppo di artisti Madí a Genova nel 1948, al seguito
dell’italo-argentino Salvador Presta (1925-) e della prima mostra dell’arte Madí italiana a Firenze nel 1955. Al
tempo stesso – come spesso succede – il gruppo originario inizia a frazionarsi
(anche in Argentina) in una miriade d’iniziative d’arte concreta fra loro
opposte.
Il
movimento – scrive Jessica Lack “promuove
una sua visione energetica di un’arte che non solamente deve essere priva di
differenze tra le classi sociali, ma non avere confini in tempo e spazio.
Secondo Kosice, «Madí distugge il TABÙ DELLA PITTURA
rompendo con la cornice tradizionale». Il movimento considera l’arte astratta
come l’arte del popolo, l’espressione estetica di una nuova società utopica
secondo le linee del comunismo. I membri sono antifascisti e denunciano il
governo nazionalista del Presidente Juan Domingo Perón” [81]. La premessa del manifesto –
pubblicato da Kosice sulla rivista Arte
Madí nel 1947 – è il crollo delle logiche estetiche tradizionali, tutte
borghesi, nei paesi industrializzati: realismo e naturalismo stanno
scomparendo, sostituiti dall’astrazione, “essenzialmente
espressiva e romantica” [82]. Sono in crisi anche le forme d’avanguardia
della prima parte del secolo, dal cubismo al surrealismo, che sono in realtà
anch’esse ispirate al naturalismo. Il primo segno della rinascita si ha con l’Arte Concreta di Theo van Doesburg (1883-1931),
con cui “è iniziato il grande periodo
dell’arte non-figurativa, in cui l’artista – usando l’elemento e il suo
rispettivo continuo – crea l’opera in tutta la sua purezza” [83]. E
tuttavia al concretismo – che pur aveva “una
teoria organica e una disciplina pratica” [84] mancava la dimensione
globale per poter piegare il movimento surrealista (ovvero sconfiggere “il trionfo degli impulsi dell’istinto sulla
razionalità” [85]). Solamente con l’arte
Madí diviene dunque possibile correggere gli errori dell’arte del passato.
Il manifesto
differenzia dunque tra arte del passato (caratterizzata da “storicismo scolastico ed idealista, concetto
irrazionale, tecnica accademica, composizione falsa, statica e irrazionale,
opere essenzialmente inutili, coscienza paralizzata da contraddizioni
insolubili, impervia al rinnovamento permanente di tecnica e stile” [86]) e
arte Madí. “Madí è contro tutto
ciò. Conferma il desiderio costante e avvincente dell’uomo di inventare e
costruire oggetti nel quadro di valori umani assoluti ed eterni, nell’ambito
della sua battaglia per costruire una nuova società senza classi, che liberi
energia, e domini tempo e spazio in tutti i sensi e la materia fino alle sue
ultime conseguenze” [87].
Il manifesto del Gruppo Ruptura (1952)
Con il Gruppo Ruptura ci spostiamo a San Paolo,
in Brasile. A scriverne il manifesto è l’artista e teorico dello
sperimentalismo Waldemar Cordeiro (1925-1973), nato cittadino italiano ed
emigrato in Brasile nel 1949 dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di
Roma. Con lui firmano anche Geraldo de Barros (1923-1998), Lothar Charoux
(1912-1987), Kazmer Féjer (1923-1989), Leopoldo Haar (1910-1954), Luis
Sacilotto (1924-2003) e Anatol Władysław (1913-2004). Il testo teorizza una
forma di “astrattismo assoluto basato su
principi matematici e razionali, chiamato concretismo” [88]. Scrive Jessica
Lack: “Cordeiro voleva creare una specie
di Bauhaus brasiliana a San Paolo, dove arte sperimentale, tecnologia,
architettura e design potessero lavorare insieme per sostenere la rapida
industrializzazione del Brasile” [89]. Questa visione funzionalista e la
rinuncia a ogni forma di soggettività furono motivo di tensione tra il Gruppo Ruptura e i cosiddetti neo-concretisti, aperti a una “concezione più sensuale dell’arte astratta”
[90].
Il testo
del manifesto è brevissimo (assume la forma di un volantino) e si scaglia
contro i principi scientifici del naturalismo rinascimentale, le logiche
leonardesche, il processo attraverso il quale il pittore riproduce il mondo
tridimensionale nelle due dimensioni. Come nel caso precedente di Madí, anche le avanguardie dei primi
decenni del novecento (espressionisti, surrealisti, primitivisti) sono
condannate perché ancora associate al mondo antico. La nuova arte si deve
invece basare su spazio-tempo, movimento e materia [91]. L’arte è “uno strumento di comprensione deducibile da
concetti, al di là di ogni opinione, e richiede una conoscenza precedente.
L’arte moderna non è ignoranza; noi siamo contro l’ignoranza” [92].
Il manifesto del collettivo Tetto della Balena (1961) [93]
Ci spostiamo in Venezuela, dove il collettivo artistico-letterario El Techo de la Ballena, d’ispirazione anarchica, contesta da
posizioni di estrema sinistra il governo centrista-moderato che regge il paese
in quegli anni. Il tetto della Balena
organizza esibizioni estremamente radicali, come Homenaje a la Necrofilia (ovvero “Omaggio alla necrofilia”) nel
1962, dove cadaveri di animali vengo squartati davanti al pubblico, e al tempo
stesso vengono esposte tele come Studio
per boia e cane di Carlos Contramaestre, 1933-1996 (non la mostriamo per
non urtare la sensibilità dei lettori). Il testo programmatico Per la ricostruzione del magma è una
poesia, frutto collettivo del gruppo, che esalta i meriti dell’arte informale.
È necessario ricostruire il magma
la materia bollente
la lussuria della lava
mettere un pezzo di fabbrica al piede di un vulcano
per ricostruire il mondo
la lussuria della lava
per mostrare che la materia è più lucida del colore
in questo modo l’amorfo
dopo aver strappato dalla realtà ogni cosa che impedisca la trascendenza
supera l’immediatezza della materia come mezzo d’espressione rendendola
non uno strumento d’esecuzione
ma un mezzo attivo che esplode
impatto
la materia che trascende
la materia che trascende
i testi tremano
i ritmi danno le vertigini
quel che presiede all’atto del creare
è la violenza – lasciar traccia di quel che è
perché il magma possa essere ricostruito nella sua caduta …
l’informalismo lo restituisce all’essenza dell’attività creativa
ristabilisce categorie e relazioni che la scienza ha già previsto
perché l’informalismo ha il proprio fungo
il tocco di una materia arbitraria che può essere visto dagli occhi più increduli
la possibilità di creazione è così evidente e reale come la terra e la roccia che forma le montagne
perché è necessario ricostruire il magma
la materia bollente
la protesi di Adamo [94].
la materia bollente
la lussuria della lava
mettere un pezzo di fabbrica al piede di un vulcano
per ricostruire il mondo
la lussuria della lava
per mostrare che la materia è più lucida del colore
in questo modo l’amorfo
dopo aver strappato dalla realtà ogni cosa che impedisca la trascendenza
supera l’immediatezza della materia come mezzo d’espressione rendendola
non uno strumento d’esecuzione
ma un mezzo attivo che esplode
impatto
la materia che trascende
la materia che trascende
i testi tremano
i ritmi danno le vertigini
quel che presiede all’atto del creare
è la violenza – lasciar traccia di quel che è
perché il magma possa essere ricostruito nella sua caduta …
l’informalismo lo restituisce all’essenza dell’attività creativa
ristabilisce categorie e relazioni che la scienza ha già previsto
perché l’informalismo ha il proprio fungo
il tocco di una materia arbitraria che può essere visto dagli occhi più increduli
la possibilità di creazione è così evidente e reale come la terra e la roccia che forma le montagne
perché è necessario ricostruire il magma
la materia bollente
la protesi di Adamo [94].
Con Alberto
Greco (1931-1965) ci imbattiamo in uno degli antesignani dell’incrocio tra arte
informale e concettuale in Argentina (con le sue pitture nere del 1960, già
menzionate per le loro affinità con Klein e Manzoni). Greco si è fatto conoscere
– anche in Europa – soprattutto per performance che sono anche state anche veri
e propri atti di provocazione. È dopo una serie di queste che, nel
1963, viene espulso dall’Italia. Il 16 giugno 1962 getta alcuni ratti dipinti
di azzurro e argento al passaggio del Presidente della Repubblica Antonio Segni
che inaugura la Biennale di Venezia, affermando di voler protestare contro
l’arte ospitata alla mostra. In quell’occasione rilascia false generalità (dice
di essere il pittore venezuelano Francisco Valero La Cruz [96]). Si maschera
poi da monaca facendosi notare a Roma in occasione dell’apertura del Concilio
Vaticano II. Riempie poi il centro della città di scritte “La pittura è finita. Viva l’arte del Dito Vivo”. Infine, durante
l’happening Cristo 63 [97], una
performance anticlericale scritta da Carmelo Bene (1937–2002) e presentata nel
suo Teatro Laboratorio, urina dal
palco su ambasciatore argentino e consorte (che sono venuti apposta per
vederlo), provocando l’arrivo della polizia, la chiusura del locale e la
condanna di Bene a otto mesi di carcere con la condizionale.
Il
manifesto (il cui titolo per esteso, in un italiano approssimativo, è Manifesto Dito dell'Arte Vivo) - come
spiega Jessica Lack - viene prima pubblicato a Genova nel 1962 e poi rivisto e
ripubblicato a Piedralaves in Spagna, nel 1963. Scrive Greco: “L’arte Vivo-Dito è l’avventura del reale, il
documento urgente, il contatto diretto e totale con cose, luoghi, persone, per
creare situazioni inaspettate. Significa mostrare e incontrare l’oggetto nel
suo luogo. Come documento vivente, in totale accordo con il cinema, il
reportage e la letteratura. Realtà senza ritocchi o trasformazioni artistiche.
Oggi sono più interessato a chiunque racconti la sua vita sulla strada o su un
tram che in un racconto raffinato e tecnicamente perfetto di uno scrittore. È
per questo motivo che credo nella pittura senza pittori e nella letteratura
senza scrittori. Questo spiega perché negli anni scorsi l’arte abbia coscientemente
fatto ricorso all’alea. Era un modo di scoprire l’altro lato della ragione”
[98].
L’espressione
Vivo-Dito indica l’atto creativo; il
pittore rinuncia alla pittura e decide di far uso del dito per indicare aspetti
della realtà che osserva, definendone la natura di arte. Fin dagli anni
cinquanta Greco distribuisce volantini o appende manifesti a Buenos Aires per
inneggiare alle proprie performance, poi si fa fotografare mentre mostra
cartelli che inneggiano alla sua arte, infine blocca persone per la strada e
disegna cerchi con il gesso intorno a loro.
Tutto ciò
può sembrare semplicemente l’opera di uno sregolato, ma avrà un impatto
importante sia sulla diffusione di tutta l’arte dell’happening al di là degli
Stati Uniti, dove era nata alla fine degli anni cinquanta sia
sull’identificazione della natura effimera dell’arte. Conclude Greco: “Un’opera ha un significato fin quando è fatta
di totale avventura, senza sapere quel che succederà. Una volta finita, non
importa più, è divenuta un cadavere. Così riposi in pace. L’artista
contemporaneo ha perso il suo senso di eternità.” [99].
Il
manifesto dell’Arte dei mezzi di comunicazione di massa (1966) [100]
I tre
artisti concettuali argentini Eduardo Costa (1940-), Roberto Jacoby (1944-) e Raúl
Escari (1944-) creano nel 1966 il gruppo Arte
del los Medios de Comunicación Masivos. Il manifesto del luglio di
quell’anno – ispirato dalle teorie dell’intellettuale marxista argentino Oscar
Masotta (1930-1979) e del sociologo canadese Marshall McLuhan (1911–1980) così
come dall’artista mediale coreano Nam June Paik (1932-2006) – intende proporre
di fare arte per mezzo dei media. Come spiega Jessica Lack, “il gruppo invia alla stampa un comunicato
che descrive un happening collettivo cui avrebbero partecipato alcune
personalità famose. L’evento viene descritto in modo preciso alla stampa, per
poi rivelare che non si è in realtà mai verificato, dando in tal modo origine a
varie discussioni nella stampa se sia sia trattato di un esperimento
sociologico, di un’opera d’arte concettuale o di uno scherzo letterario”
[101]. Si tratta dell’ “Happening per un
cinghiale morto”: viene creata – con l’aiuto di alcune personalità
conosciute dal pubblico – una documentazione scritta e fotografica su una
performance che in realtà non si è mai tenuta,
ma che è documentata su numerosi quotidiani e settimanali argentini di
primo piano.
“In una civiltà dominata dai mass media –
così si apre il manifesto – il pubblico
non ha contatto diretto con gli eventi culturali, ma solamente con
l’informazione che su di essi proviene dai media. Il pubblico dei mass media
non visita le mostre d’arte, non è testimone di un happening o non va a vedere
una partita di calcio; invece riceve notizia di questi spettacoli nei
notiziari. Così gli artisti reali perdono la loro importanza perché raggiungono
solamente poche persone a causa di una mancanza di divulgazione” [102]. “Fino ad oggi l’opera d’arte è stata il
prodotto di un processo che inizia con la creazione (tradizionale) dell’opera e
continua fino a divenire materiale trasmesso ai mass media. Da ora in poi noi
proponiamo un’ ‘opera d’arte’ in cui il
momento della creazione sparisce. Dunque, l’opera d’arte diviene il commento su
un fatto che è in realtà un puro pretesto per lanciare il processo
d’informazione” [103].
Negli anni
sessanta la politica argentina è caratterizzata da un susseguirsi di elezioni improduttive
e colpi di stato dell’esercito. Dal 1966 al 1973 il potere è gestito da una
coalizione di militari e politici sotto il nome di “Revolución Argentina”, con l’appoggio esterno degli Stati Uniti e
con un chiaro programma anticomunista. Il gruppo Artistas de vanguardia, costituito da circa trenta giovani artisti,
viene creato nel 1968; i membri hanno l’obiettivo di rigettare gli esperimenti
d’avanguardia artistica degli anni precedenti (che giudicano vacui) e dirigere
invece l’arte in senso d’opposizione politica. Al gruppo partecipa fra l’altro
Roberto Janocby, uno dei tre firmatari del già citato Manifesto dell’Arte dei mezzi di comunicazione di massa. Come scrive
Jessica Lack, “il gruppo inizia lanciando
un progetto per analizzare e protestare contro le disastrose condizioni di vita
e lavoro nella provincia del Tucumán, nel nord-ovest del paese, dove la politica
economica del governo ha poco prima condotto alla chiusura forzata degli
impianti zuccheriferi statali, costringendo alla fame molti abitanti. Iniziano la loro campagna gettando volantini
nelle grandi città di Rosario e Santa Fe con la misteriosa scritta ‘Il
Tucumán brucia’. Poi annunciano alla
stampa la prima Biennale d’arte d’avanguardia a Rosario, dove mostrano
documentazione audio, fotografica e documentaria sulla miseria degli abitanti
del Tucumán” [105].
Nel
manifesto si legge: “L’atmosfera squisita
ed esteticizzante delle false esperienze d’avanguardia prodotte nelle
istituzioni della cultura ufficiale ha creato lo scenario per questi eventi.
Con essi si inizia a dare una nuova impostazione che postuli l’attività
artistica come un’azione positiva e reale, la cui aspirazione sia di modificare
l’ambiente che la mette in essere. (…) Il riconoscimento di questa nuova
concezione ha condotto un gruppo di artisti a formulare la creazione estetica
come un’azione violenta e collettiva. In
tal modo distruggendo il mito borghese dell’individualità dell’artista come
pure la presunta natura passiva dell’opera d’arte. Dunque, l’aggressione
deliberata è divenuta la forma della nuova arte” [106]. Quanto
all’iniziativa “Il Tucumán brucia”,
si tratta di creare ciò che viene definito, con un neologismo, un “circuito superinformativo” [107], a
smentire l’informazione dei mezzi di comunicazione ufficiali.
Un altro
dei firmatari del Manifesto dell’Arte dei
mezzi di comunicazione di massa del 1966, ovvero Eduardo Costa, lancia nel
1969 un appello da New York, dove vive tra 1966 e 1971 per sottrarsi al governo
militare, affinché l’arte persegua fini di immediata utilità. Costa opera
all’interno delle performance Street
Works, organizzate dall’Architectural
League of New York. Il manifesto spiega che Costa, a proprie spese, ha
acquistato e sostituito una serie di cartelli stradali che erano malandati, e
ha imbiancato una stazione della metropolitana. “Queste opere d’arte intendono sfatare il mito della mancanza d’utilità
dell’arte, e sono esse stesse un contributo sia pur modesto al miglioramento
delle condizioni di vita della città” [109].
Il Manifesto del Gruppo Vertebra (1970) [110]
Con il Gruppo Vértebra ci spostiamo in
Guatemala, dove i tre pittori Roberto Cabrera (1939-2014), Marco Augusto Quiroa
(1937-2004) ed Elmar René Rojas (1942-2018) pubblicano sulla rivista mensile Alero un testo sull’arte intitolato “Manifesto vertebra”, in piena atmosfera
di guerra civile. Si tratta senza dubbio di un manifesto militante contro la
dittatura militare. Gli autori lo definiscono come un testo “profondamente influenzato dal secolo degli
inferni militari e della pandemia atomica” [111], ma io lo considero anche
intriso di intensa poetica. Come scrive Jessica Lack, “il titolo del gruppo allude al loro desiderio di creare una spina
dorsale estetica attraverso i paesi del Centro America, unendo gli artisti di
Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Honduras e Costa Rica. Promuove il collage e
una tecnica chiamata ‘materismo’ in cui la tinta è mischiata con sabbia,
conchiglie e fango per creare un tessuto” [112]. Se dunque – dal punto di
vista iconografico – l’arte di Vertebra
rimane come vedremo nel campo figurativo, dal punto di vista della tecnica si
tratta, mi sembra ovvio, di una citazione centroamericana delle tendenze
materiche dell’arte informale, presenti nel mondo ispanico (come nel resto
dell’Europa) dalla fine degli anni quaranta.
I tre autori
affermano di riconoscersi in un nuovo umanesimo, e di trovare ispirazione sia “nel trascendentalismo tempestoso e terribile
del mondo gotico” [113] sia “nel
labirinto del tormento dei nostri giorni” [114]. Ne derivano “un’alchimia d’evoluzione catartica e un’evoluzione
mistica delle nostre vite interiori, che rivelano l’intensità di un’epoca e di
un ambiente: quel che siamo, dove siamo, dove andiamo” [115].
Il
manifesto si oppone all’arte astratta. Va ricordato che sia in America centrale
sia in molte altre regioni del mondo la battaglia tra astrattisti e figurativi
coincide in quegli anni con l’opposizione ideologica tra i fautori del mondo
statunitense e coloro invece che predicano modelli alternativi. “La nostra arte aspira a salire al di sopra
del gioco conformista e dei canti delle sirene del purismo artistico globale.
Al di sopra della falsa espansione dell’astrattismo e del semplice
tradizionalismo. Noi ci poniamo lungo il sentiero della nostra configurazione
genetica, fedeli ad un’espressione che la ponga in contatto con l’ambiente. Il
nostro linguaggio, radicato nell’umanesimo, sorge dalla realtà che ci circonda.
Non ci interessa – a buon ragione – il rantolo mortale dell’arte meccanica ed
egotistica ripetuta a New York o Londra. Noi riconosciamo ed apprezziamo la
qualità intrinseca delle sue radici, ma siamo interessati all’altra faccia
della medaglia: la faccia che rivela l’integrità dell’uomo” [116].
Il Manifesto FANGO/CARNE FOGNA (1970) [117]
Con il
testo di Artur Barrio (1945-), portoghese cresciuto artisticamente in Brasile
negli anni della dittatura militare e poi tornato in Europa dopo la rivoluzione
dei garofani del 1974 che riporta il Portogallo alla democrazia, ci imbattiamo
in un'altra espressione del radicalismo artistico dell’America Latina, che
cerca di scuotere l’opinione pubblica dal torpore con azioni eclatanti. Scrive
Jessica Lack: “Barrio sostiene
l’anti-arte come una strategia di sopravvivenza, con azioni di performance e
situazioni simulate nella strada. Invece di tenere mostre nelle gallerie, l’artista
riesce in tal modo a evitare i meccanismi di controllo del governo” [118].
La sua estetica si basa sulla distribuzione nei marciapiedi delle strade delle
città brasiliane di materiali in decomposizione, ovviamente considerati
repellenti, fotografando poi la reazione scioccata dei passanti.
“Quel che cerco è un contatto diretto con la
realtà nella sua totalità: ogni cosa che è rifiutata, ogni cosa che è messa da
parte per il suo carattere contenzioso. Una contestazione che include una
realtà radicale, perché questa realtà esiste, nonostante sia dissimulata
attraverso simboli” [119]. Barrio descrive le sue opere (gli scarti di
materiali deperibili) come non appartenenti al mondo dell’arte, ma a quello
della realtà. Egli rinuncia a considerarsi artista, ma attribuisce
invece quel ruolo ai passanti che con la loro reazione disgustata diventano i
veri creatori.
Il Manifesto del Gruppo delle Antille (1978) [120]
Il Gruppo
delle Antille viene creato a Cuba dallo scultore Rafael Queneditt Morales
(1942-2016), che riunisce attorno a sé una quindicina di artisti, scrittori e
musicisti cubani di colore che intendono recuperare le loro origini africane ed
esprimere al tempo stesso la loro solidarietà con gli altri artisti delle
Antille. Essi recuperano perciò i contenuti dei manifesti d’arte nera nei
Caraibi, presenti già negli anni trenta, e si legano al tempo stesso ai
concetti d’arte panafricana presenti negli anni settanta. Jessica Lack scrive:
“Le opere create dai membri del gruppo
non rivelano un unico stile distinto che lo contraddistingue. Invece, mostrano
una larga varietà di influenze estetiche africane, dall’arte folk al simbolismo
religioso, e sono caratterizzate da un forte desiderio sottostante di
rappresentare l’intera cultura delle Antille, e non solamente l’eredità
ispanica” [121].
Nel
manifesto si legge: “Arte e letteratura
sono le rappresentazioni più raffinate e profonde della condizione sociale e
dello sviluppo di un popolo. Grazie a queste manifestazioni culturali i gruppi
proiettano appieno la loro personalità e riaffermano la loro nazionalità.
L’imperialismo comprende questo fenomeno; si spiega così il tentativo incessante
di penetrare culturalmente altri popoli, con il fine ultimo di depersonalizzare
e denazionalizzare” [122]. La rivoluzione cubana - continua il manifesto
- ha invece creato le condizioni per
liberare gli artisti e renderli consapevoli delle loro origini etniche. Si
tratta di affermazioni che contrastano con la posizione ufficiale del regime,
che condanna in realtà ogni riferimento etnico-africano come primitivo e
controrivoluzionario, non essendo interessato a riconoscere identità separate
all’interno del popolo cubano, che viene invece esaltato come tutto
unito a sostegno del castrismo.
Per gli
artisti del gruppo, l’origine africana è al centro dell’identità e della
produzione artistica. “Oggi … vediamo un
numero crescente di pittori e scultori cubani che sono semplicemente motivati
dalla loro profonda condizione di cubani e della consapevolezza delle loro
origini etniche. Coscientemente o incoscientemente, essi intraprendono l’unica
strada possibile nella direzione di un’identità comune” [123]. Nella sua
introduzione al documento, Jessica Lack scrive che l’eco del gruppo a Cuba è
stato limitato, portandone allo scioglimento nel 1983. La stessa arte cubana
non di regime (la cosiddetta “nuova arte cubana”) si è manifestata a partire
dagli anni ottanta come tentativo di apertura nei confronti dell’arte
dell’occidente, lasciando dunque isolato il Gruppo delle Antille, come unica
manifestazione di un sentimento etnico che solo recentemente è stato riscoperto
in una serie di mostre itineranti tra Cuba e gli Stati Uniti tra 2013 e 2016 (http://www.queloides-exhibit.com/grupo-antillano/).
Colectivo
de Acciones de Arte – Dichiarazione del gruppo CADA (1982) [124]
CADA
significa Colectivo de Acciones de Arte,
ed è un gruppo di cinque artisti dissidenti vissuti nel Cile di Pinochet,
sfidando la repressione militare con performance e azione diretta: Fernando
Balcells (1950-), Juan Castillo (1952-), Diamela Eltit (1947-), Lotty Rosenfeld
(1943-) e Raúl Zurita (1950-). CADA viene creato nel 1979, due anni dopo il
colpo di stato del 1977; il loro manifesto viene pubblicato nel 1982 dalla
rivista Ruptura; la loro azione No+ viene ripetuta continuamente tra
1983 e 1984. Scrive Jessica Lack: “Il
gruppo copre clandestinamente i muri di Santiago con il segno NO+, invitando
tacitamente il pubblico a dar voce alla protesta completando la frase:
‘NO+omicidi’, ‘NO+tortura’, ‘NO+armi’ e così via. L’impatto dell’opera
trasforma ‘Non più’ in un potente slogan contro Pinochet, slogan che continua ad essere
usato fino alla caduta del regime del dittatore nel 1990” [125]. Dei cinque
membri la più famosa è oggi Lotty Rosenfeld, rappresentata alla mostra di
Francoforte con la documentazione sulle azioni che svolge a Santiago,
intervenendo sulla segnaletica stradale come forma di provocazione che intende
costringere i passanti a riflettere criticamente sulla realtà.
Mentre
Rosenfeld e Castillo sono due artisti, gli altri membri sono sociologi
(Balcells), poeti (Zurita) e scrittori (Eltit). Il testo è dunque scritto in
linguaggio astratto, ma si pone una serie di problemi estetici proclamando che
l’insufficienza dell’arte latino-americana è divenuta ragione “di vita o di morte” [126]. In primo
luogo il gruppo CADA si chiede come il “concetto
di creatività” [127] si possa e si debba affermare “in un contesto come il nostro” [128] (gli artisti non esitano a
parlare di “dipendenza, imperialismo,
regimi autoritari” [129]), richiedendo “specificità
con riferimento alla produzione artistica” [130]. Poi i firmatari si
pongono il problema del ritardo culturale dell’America Latina: “Marginalizzata storicamente dai movimenti di
arte internazionale e dalle loro reti di finanziamento e distribuzione, ogni
forma di espressione nata in questa regione, anche quando fa riferimento alla
stessa terminologia e trova rifugio sotto le stesse idee di arte definite dai centri internazionali di cultura solleva domande sulla propria
natura, sui suoi metodi e sui suoi obiettivi. Le risposte a questi
interrogativi vanno al di là del campo dell’assiomatica semiologica, sollevando
invece il tema del suo rapporto complessivo con le battaglie e gli sviluppi
della nostra realtà sociale” [131].
Uno dei
punti fondamentali del manifesto è che, mentre “il concetto d’arte… nei paesi capitalisti occidentali ci consente di
distinguere tra attività come politica, scienza, arte o religione… e di
definire per esse obiettivi specifici e strategie individuali” [132], ciò
non è possibile in Cile (in fondo, ogni gruppo d’arte rivoluzionaria vive sempre
nel mito romantico dell’arte totale, resa necessaria dalla straordinarietà
delle condizioni del proprio tempo). Inoltre, la marginalità rispetto all’arte
internazionale può divenire una condizione di libertà: “lavorare in quello spazio marginale implica innanzi tutto un grado di
appartenenza che non è necessariamente fissato e che si definisce invece come
un campo di battaglia, come un’arena di confronto in cui i concetti d’arte e
vita al tempo stesso si completano e si dividono” [133]. Chi è esposto –
anche fisicamente – a un rischio per la propria sopravvivenza non può infatti
intendere l’arte totale come faceva Duchamp che l’identificava come ogni
oggetto di uso quotidiano.
Alla
situazione cilena, invece, si applicano le esperienze della “body art, landscape art, performance”
[134]. Anzi, queste manifestazioni sono rilevanti in America latina prima
ancora che esse vengano definite come espressioni artistiche in occidente, “per il grado di familiarità quotidiana con
queste forme viventi: corpi affamati, vaste pianure infertili, campi incolti”
[135]. Quel che in occidente si è sviluppato come arte estemporanea, in Cile è
dunque invece parte dell’esperienza vissuta, ovvero “contatto con la precarietà e il dolore, nonché con la sterilità delle
vite concrete” [136]. CADA si pone dunque l’obiettivo non solamente di “spostare i limiti della nostra realtà”
[137], ma anche “di criticare e rivedere
da una prospettiva globale cosa significhi l’avanguardia” [138].
Ne deriva
una critica alla natura autoreferenziale dell’arte. Ogni azione deve “stabilire una pratica che operi all’interno
dei parametri della nostra storia” [139] e divenire un atto politico [140].
Al tempo stesso, la performance ha un significato più profondo di un semplice
evento. Da un lato, infatti, l’azione è un momento esistenziale: come attore
delle azioni artistiche, l’artista “opera
sia come somma sia come sublimazione, è il bianco ed il nero dei circuiti
collettivi. Il creatore d’arte è sia parte del paesaggio sia parte della scena;
la fame di riprodurre la realtà è identica a quella per il cibo o, almeno, ha
la stessa natura. Il corpo del creatore è, in ultima istanza, un buco nero in
cui convergono tutte le perplessità sul significato e dove pratica e teoria
convergono. È quella bipolarità di creazione e creatore che precede la
formalizzazione delle correnti artistiche” [141]. Dall’altro, l’azione è un
momento di rivendicazione di un futuro migliore: “L’attesa di cambiamento, sia esso in bene o in male, riflette la
propria base materiale e diviene tratto caratteristico del modo in cui opera la
storia. Travolta costantemente dall’andare e venire della storia (dalle
dittature di estrema destra alle esperienze socialiste) quell’attesa rafforza
la natura della storia, sostenendo pratiche creative; la scena non è solamente
il presente, ma anche una certa dimensione del futuro, che si manifesta sia in
fede (nel senso cristiano della parola) sia in posizioni politiche (un futuro
permanentemente negato, alterato, rifatto, i cui effetti sono evidenti nelle
sfide del passato – le agende socialiste – e nella richiesta di tracce di quel
passato nei modelli del futuro – tipico dei governi autoritari). In ogni caso l’attesa afferma una comprensione derivata dal presente. È precisamente il
riportare indietro le possibilità del futuro al presente che definisce le
pratiche artistiche più conseguenti. È lì che risiede il modello d’azione. Il
modello è l’action art” [142].
Manifesto del Fronte 3 febbraio [143]
Il gruppo 3 di Febbraio (2004) opera in Brasile
per protestare contro il razzismo della polizia. Il gruppo multidisciplinare di
artisti si costituisce per protestare in seguito a molti tragici episodi che
vedono giovani brasiliani di colore cadere uccisi per mano delle
forze dell’ordine in situazioni manifestamente ingiustificate. Gli omicidi
hanno il loro apice nell’uccisione di uno studente universitario il 3 febbraio
2004 durante quello che doveva essere un semplice controllo dei documenti
d’identità. Il modello degli aderenti al gruppo è quello delle performance del
già citato Artur Barrio, l’artista che esegue azioni improvvise e imprevedibili distribuendo materiali disgustosi per le strade delle città
brasiliane. Cambia tuttavia l’oggetto della creazione artistica. Nel 2007 il
gruppo produce tra l’altro un video, un disco e un libro, tutti intitolati Zumbi Somos Nos: Cartografía del Racismo
para la Juventud Urbana. Il titolo è ispirato alle vicende di Zumbi dos
Palmares (1655-1695), un guerrigliero che guidò la resistenza degli schiavi
neri in una comunità politica indipendente – territorialmente molto ampia – in
Brasile che per molti decenni riuscì a sottrarsi al controllo portoghese.
Il
manifesto pone in discussione i criteri con cui la polizia di San Paolo porta
avanti le sue indagini, ferma e controlla individui sospetti e fa ricorso alla
violenza, considerando l’azione delle forze dell’ordine come dettata da
razzismo. I membri del Fronte 3 febbraio vedono tutti questi aspetti come
manifestazioni di una cultura razzista che rischia di contaminare il paese già
nelle scuole. Il manifesto pone dunque in discussione uno dei fondamenti più
diffusi dell’immagine che i brasiliani hanno di loro: quello che in Brasile il
razzismo non esista: “Il Brasile ha
creato uno dei meccanismi di discriminazione razziale più crudeli ed efficaci,
perché il sistema esclude ogni possibilità di mettere in discussione
l’esistenza del razzismo nella società brasiliana” [144].
Il Manifesto dei migranti (2011) [145]
Abbiamo già
parlato dell’artista cubana Tania Bruguera (1968-) nella prima parte di questo post, a proposito del suo
Manifesto per i diritti degli artisti
del 2012, letto alle Nazioni Unite per protestare contro la repressione e la
censura. Qui vogliamo invece far riferimento al manifesto del Movimento internazionale dei migranti,
da lei promosso nel 2011 insieme al Queens Museum di New York, dove è stata
artista residente (vivendo anche lei – sia pur in modo privilegiato – la realtà
della migrazione da un paese latino americano negli Stati Uniti). Con la
Bruguera, che è stata spesso sottoposta a Cuba a misure di restrizione della
libertà per le proprie azioni irriverenti nei confronti del potere, la causa
del dissenso interno contro il regime castrista si sposa dunque con le ragioni
universali dei diritti dell’uomo, in un mondo dove la circolazione delle
persone è vista come fattore che rende possibile la “connessione internazionale” [146] dell’umanità. L’immigrazione, scrive il
manifesto, assicura inoltre alle popolazioni che ricevono migranti servizi di
prossimità (ad esempio, con le badanti) che migliorano la loro qualità della
vita. Dal punto di vista artistico, la lettura pubblica del manifesto (nella
prima parte abbiamo visto la foto di un’azione a New York, qui sotto alla Settimana internazionale di performance art
di Venezia nel 2014) diviene il fatto artistico.
NOTE
[80] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos, London, Penguin Modern Classics, 2017, 501 pagine. Citazione alle pp. 38-41.
[81] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 38.
[82] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 39.
[83] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 39-40.
[84] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 40.
[85] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 40.
[86] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 40.
[87] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 40.
[88] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 54.
[89] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 54.
[90] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 54.
[91] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 55.
[92] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 55.
[93] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 64-65.
[94] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 64-65.
[95] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 78-80.
[96] Corriere d’Informazione, Topi vivi sui piedi di Segni mentre visita la Biennale, Sabato-Domenica, 16-17 giugno 1962.
[97] Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Cristo_%2763#cite_note-ReferenceA-6.
[98] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 78-79.
[99] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 79.
[100] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 99-101.
[101] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 99.
[102] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 100.
[103] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 101.
[104] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 113-118.
[105] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 113.
[106] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 114.
[107] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 116.
[108] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 119-120.
[109] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 120.
[110] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 150-153.
[111] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 151.
[112] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 150.
[113] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 151.
[114] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 151.
[115] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 151.
[116] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 152.
[117] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 154-155.
[118] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 154.
[119] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 154.
[120] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 320-323.
[121] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 320.
[122] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 321.
[123] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 322.
[124] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 343-351.
[125] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 343.
[126] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.
[127] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.
[128] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.
[129] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.
[130] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.
[131] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.
[132] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.
[133] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.
[134] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.
[135] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.
[136] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.
[137] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.
[138] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.
[139] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 346.
[140] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 346.
[141] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 346.
[142] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 346-347.
[143] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 435-435.
[144] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 435.
[145] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 458-460.
[146] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 459.
Nessun commento:
Posta un commento