Pagine

venerdì 11 maggio 2018

Jessica Lack, [Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]. Parte Seconda



Storia delle antologie di letteratura artistica

Jessica Lack,
[Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]
Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos
London, Penguin Modern Classics, 2017, 502 pagine.

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda


Fig. 2) Il catalogo della mostra di Francoforte sul Meno nel 2017-2018

Torna alla Parte Prima

Nella prima parte di questo post abbiamo visto come l’antologia di Jessica Lack prenda in considerazione gli scritti di artisti che propugnano criteri estetici diversi e spesso opposti rispetto a quelli dell’arte occidentale. Allo sviluppo di quella che l’autrice chiama World Art concorrono sia artisti che vivono in Asia, Africa ed America Latina sia le minoranze etniche presenti in Europa e negli Stati Uniti. Dell’arte occidentale vengono respinte sia la concezione individualista sia l’attenzione agli aspetti formali. L’autrice di Why Are We ‘Artists? mira ad offrire una lettura postcoloniale dell’arte, affermando la centralità dell’arte non occidentale, in modo tale che il risultato possa essere una vera arte globale. Ho letto l’antologia con grande interesse e rispetto. Mi sono al tempo stesso posto un interrogativo: si può parlare di World Art – ovvero di arte globale – escludendo parte importante dell’umanità e cercando di rendere l’Europa e l’America settentrionale alla stregua di una nuova periferia della creazione estetica? L’interrogativo che pongo è politico, in natura, esattamente come lo sono le tesi dell’antologia di Jessica Lack: la produzione artistica è infatti – a mio parere – già oggi uno degli aspetti della convivenza tra i popoli dove il dialogo fra culture più è progredito in termini di pari dignità. L’arte dovrebbe essere vista come luogo delle interconnessioni e della globalità, e non delle esclusioni (sia pure, in questo caso, a danno delle aree economicamente dominanti del mondo).

Non si tratta di lamentarsi di un delitto di lesa maestà (in realtà, i manifesti dei movimenti estetici occidentali sono presenti in altre antologie), ma piuttosto di chiedersi se l’immagine dell’arte resa nell’antologia non sia solo una delle molte e possibili letture di ciò che è successo nel secolo scorso. Quella di Jessica Lack è un’interpretazione interessante, perché ci aiuta senz’altro a comprendere le motivazioni di molti artisti non occidentali ed è sicuramente in linea con alcuni sviluppi geopolitici del nostro tempo (la volontà delle nuove potenze extra-europee di disegnare una nuova carta geografica della politica internazionale). Ma vi sono altre letture possibili dell’arte contemporanea globale? 

A questo proposito vorrei accennare a un’altra antologia uscita negli ultimi anni: la raccolta di Kristine Stiles e Peter Selz intitolata Theories and Documents of Contemporary Art: a Sourcebook of Artists' Writings (pubblicata per la prima volta nel 1996 e poi rinnovata ed estesa in una nuova versione nel 2012) è, infatti, un testo fondamentale per chiunque voglia studiare la nascita e lo sviluppo di un’arte contemporanea globalizzata, basata sull’interazione paritaria tra tutte le parti del mondo. Stiles e Selz osservano come gli scritti sull’arte abbiano conosciuto un moto continuo di superamenti dialettici, ma abbiano anche testimoniato l’interazione di tutti con tutti. La loro – nell’elemento fattuale della scelta dei testi – non è una una raccolta completamente opposta a quella della Lack. Paragonando l’indice delle due antologie, ho infatti verificato che 26 dei 100 manifesti della Lack sono menzionati nell’antologia di Stiles e Selz. Fra questi, vi sono anche i testi di Barbara Jones-Hogu sul movimento AFRI-COBRA e di Rasheed Araeen sul MANIFESTO NERO, da me già recensiti nella prima parte.

Insomma, a mio avviso, numerosi fonti della Lack possono anche provare il contrario della sua tesi principale, e il giudizio definitivo è più una questione di convincimenti intimi che di trend assoluti. Mi sembra dunque che, utilizzando certamente un modo di pensare storicista che può sembrare a molti superato, ma che rimane il mio modo di ragionare, ci si possa porre la questione seguente: qual è la tendenza che le strategie di comunicazione degli artisti del mio tempo testimoniano? Lo spirito del tempo, lo Zeitgeist rivelato dalle antologie più attuali di letteratura artistica, è quello che porta alla rivendicazione di una divisione dall’occidente (Lack) o di un’unione (Stiles e Selz) dell’umanità? 

Tornando all’antologia Why Are We 'Artists'?, le domande che ho posto fin qui sono rilevanti soprattutto per interpretare ciò che è successo in America Latina. È infatti in quel mondo che si manifestano più forti le due, divergenti, tendenze all’unione e alla separatezza. L’America Latina, anche linguisticamente, ha un legame più forte con l’arte europea di quanto non accada ad esempio in Asia. È inoltre spesso legata, anche per le storie personali degli artisti, all’arte occidentale: l’America Latina è stata terra di accoglienza per artisti europei che fuggivano dai totalitarismi europei negli anni trenta e quaranta, ma anche luogo di provenienza di molti artisti che in Europa ed America si sono poi rifugiati negli anni settanta ed ottanta per sottrarsi alle dittature militari. Va però detto che una parte importante degli artisti latinoamericani ha cercato di reagire alla repressione militare (che ovviamente comprendeva anche la limitazione della libertà di espressione degli artisti) elaborando una propria identità specifica, diversa da quella delle avanguardie dell’arte occidentale (ad esempio l’espressionismo astratto, la pop art, il concettualismo), spesso percepite come conformi al modo di pensare e agli interessi di mercato del mondo americano, e quindi espressione di regimi liberticidi. Il tema del dialogo e dello scontro estetico tra questi mondi è stato al centro della recente mostra Una favola dei due mondi. Arte sperimentale dell’America Latina in dialogo con la collezione del MMK [79] tenutasi recentemente al Museum für Moderne Kunst (MMK) di Francoforte in cooperazione con il Museo de Arte Moderno de Buenos Aires (MACBA). Si è trattato di un’esposizione molto ampia (più di cinquecento pezzi) organizzata in modo paritario dai curatori delle due istituzioni museali tedesca ed argentina, proprio con l’obiettivo di fornire un’immagine equilibrata di differenze e similitudini tra quanto si è verificato in America del Sud, negli Stati Uniti e in Europa. E dunque, negli stessi giorni in cui leggevo l’antologia di Jessica Lack (anzi, con quell’antologia in mano), ho visitato la mostra alla ricerca di conferme e smentite.

Jessica Lack. Una breve storia dell’arte in America Latina nel XX secolo attraverso tredici manifesti

Poco più del dieci per cento dei manifesti di Why Are We ‘Artists’? proviene dalla regione del mondo che parla spagnolo e portoghese nel continente americano. Ecco la lista dei tredici testi:

1 - Arte Madí - Manifesto Madí (1947)
2 - Grupo ruptura - Manifesto rottura (1952)
3 - El Techo de la Ballena – Per la ricostruzione del magma (1961)
4 - Alberto Greco – Manifesto Vivo-Dito (1963)
5 - Arte de los medios de Comunicación Masivos – Arte dei mezzi di comunicazione di massa (1966)
6 – Il Gruppo degli artisti d’avanguardia – Il Manifesto Il Tucumán brucia (1968)
7 - Eduardo Costa – Il Manifesto dell’Arte utile (1969)
8 - Grupo Vértebra – Il Manifesto Vertebra (1970)
9 - Artur Barrio – FANGO/CARNE FOGNA (1970)
10 - Grupo Antillano – Manifesto (1978)
11 - Colectivo de Acciones de Arte – Dichiarazione del gruppo CADA (1982)
12 - Frente 3 de Fevereiro – Manifesto del Fronte 3 di Febbraio (2004)
13 - Tania Bruguera e il Movimento internazionale dei migranti – Manifesto dei migranti (2012).

Gli scritti testimoniano come gli artisti latino-americani vivano in tensione permanente tra tre stati d’animo. Possono essere all’origine di nuove tendenze destinate ad avere un impatto nel mondo intero (si pensi alla diffusione del cosiddetto madismo in Europa durante i primi anni cinquanta); possono sentirsi parte di un’arte internazionale di tipo contestativo (parleremo delle provocazioni artistiche di Alberto Greco); possono, infine avere la consapevolezza di essere parte di un mondo che, a causa delle dittature, è rimasto ai margini dell’arte mondiale (si pensi alla Dichiarazione del gruppo Cada). Nella recente mostra di Francoforte tutte queste tendenze sono testimoniate, ma a prevalere è l’idea che l’arte dell’America Latina sia comunque in grado di generare un dialogo creativo con le altre regioni del mondo. Così, ad esempio, le pitture nere di Alberto Greco sono mostrate in un’unica stanza con gli achromes di Piero Manzoni e le opere blu di Yves Klein, tutte simbolo di una medesima ricerca tra concettualismo e informale svoltasi alla fine degli anni cinquanta. Vorrei insomma leggere i passi dell’antologia di Jessica Lack sull’America Latina non come testimonianza di una rottura tra quel mondo e il nostro, ma, anzi, come prova che un punto d’incontro tra le varie sensibilità del nostro pianeta è possibile e che forse quel luogo è già stato, nonostante tutte le sue vicissitudini, proprio l’America Latina.

Il manifesto dell'arte Madí (1947) [80]

Il primo manifesto latino-americano incluso nell’antologia di Jessica Lack è opera del gruppo “Movimiento, Abstracción, Dimensión, Invención” ovvero – usando l’abbreviazione più conosciuta - il Gruppo Madí (abbreviazione di materialismo dialettico). Il testo è probabilmente scritto dall’ungherese Gyula Kosice (1924-2016), un tipico figlio dell’impero asburgico. Nato in Moravia (ora in Slovacchia), membro della minoranza ungherese, si chiamava Gyula Fallik (ma cambiò cognome adottando quello di Košice, sua città natale); da bambino emigrò in Argentina, e lì, appunto, naturalizzato argentino). Insieme a Rhod Rothfuss (1920-1969), Carmelo Arden Quin (1913-2010), Martín Blaszko (1920-2011) e altri, Kosice crea un movimento artistico ispirato all’arte concreta, all’astrattismo, al costruttivismo (tutti movimenti presenti in Europa dagli anni trenta), ma anche a soluzioni del tutto originali (quadri dipinti su cornici irregolari, statue in movimento e immerse nell’acqua, forme realizzate in materiali industriali). Alla scultura e alla pittura si affiancano un’architettura, una musica, una poesia, un teatro, una letteratura e una danza Madí. Con la decisione di Carmelo Arden Quin di trasferirsi a Parigi (anche in polemica con gli altri membri) lo stile Madí si diffonde in Europa, con una presenza importante anche in Italia, a partire dalla costituzione di un gruppo di artisti Madí a Genova nel 1948, al seguito dell’italo-argentino Salvador Presta (1925-) e della prima mostra dell’arte Madí italiana a Firenze nel 1955. Al tempo stesso – come spesso succede – il gruppo originario inizia a frazionarsi (anche in Argentina) in una miriade d’iniziative d’arte concreta fra loro opposte. 

Il movimento – scrive Jessica Lack “promuove una sua visione energetica di un’arte che non solamente deve essere priva di differenze tra le classi sociali, ma non avere confini in tempo e spazio. Secondo Kosice, «Madí distugge il TABÙ DELLA PITTURA rompendo con la cornice tradizionale». Il movimento considera l’arte astratta come l’arte del popolo, l’espressione estetica di una nuova società utopica secondo le linee del comunismo. I membri sono antifascisti e denunciano il governo nazionalista del Presidente Juan Domingo Perón” [81]. La premessa del manifesto – pubblicato da Kosice sulla rivista Arte Madí nel 1947 – è il crollo delle logiche estetiche tradizionali, tutte borghesi, nei paesi industrializzati: realismo e naturalismo stanno scomparendo, sostituiti dall’astrazione, “essenzialmente espressiva e romantica” [82]. Sono in crisi anche le forme d’avanguardia della prima parte del secolo, dal cubismo al surrealismo, che sono in realtà anch’esse ispirate al naturalismo. Il primo segno della rinascita si ha con l’Arte Concreta di Theo van Doesburg (1883-1931), con cui “è iniziato il grande periodo dell’arte non-figurativa, in cui l’artista – usando l’elemento e il suo rispettivo continuo – crea l’opera in tutta la sua purezza” [83]. E tuttavia al concretismo – che pur aveva “una teoria organica e una disciplina pratica” [84] mancava la dimensione globale per poter piegare il movimento surrealista (ovvero sconfiggere “il trionfo degli impulsi dell’istinto sulla razionalità” [85]). Solamente con l’arte Madí diviene dunque possibile correggere gli errori dell’arte del passato. 

Il manifesto differenzia dunque tra arte del passato (caratterizzata da “storicismo scolastico ed idealista, concetto irrazionale, tecnica accademica, composizione falsa, statica e irrazionale, opere essenzialmente inutili, coscienza paralizzata da contraddizioni insolubili, impervia al rinnovamento permanente di tecnica e stile” [86]) e arte Madí. “Madí è contro tutto ciò. Conferma il desiderio costante e avvincente dell’uomo di inventare e costruire oggetti nel quadro di valori umani assoluti ed eterni, nell’ambito della sua battaglia per costruire una nuova società senza classi, che liberi energia, e domini tempo e spazio in tutti i sensi e la materia fino alle sue ultime conseguenze” [87].


Il manifesto del Gruppo Ruptura (1952)

Con il Gruppo Ruptura ci spostiamo a San Paolo, in Brasile. A scriverne il manifesto è l’artista e teorico dello sperimentalismo Waldemar Cordeiro (1925-1973), nato cittadino italiano ed emigrato in Brasile nel 1949 dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Roma. Con lui firmano anche Geraldo de Barros (1923-1998), Lothar Charoux (1912-1987), Kazmer Féjer (1923-1989), Leopoldo Haar (1910-1954), Luis Sacilotto (1924-2003) e Anatol Władysław (1913-2004). Il testo teorizza una forma di “astrattismo assoluto basato su principi matematici e razionali, chiamato concretismo” [88]. Scrive Jessica Lack: “Cordeiro voleva creare una specie di Bauhaus brasiliana a San Paolo, dove arte sperimentale, tecnologia, architettura e design potessero lavorare insieme per sostenere la rapida industrializzazione del Brasile” [89]. Questa visione funzionalista e la rinuncia a ogni forma di soggettività furono motivo di tensione tra il Gruppo Ruptura e i cosiddetti neo-concretisti, aperti a una “concezione più sensuale dell’arte astratta” [90].

Il testo del manifesto è brevissimo (assume la forma di un volantino) e si scaglia contro i principi scientifici del naturalismo rinascimentale, le logiche leonardesche, il processo attraverso il quale il pittore riproduce il mondo tridimensionale nelle due dimensioni. Come nel caso precedente di Madí, anche le avanguardie dei primi decenni del novecento (espressionisti, surrealisti, primitivisti) sono condannate perché ancora associate al mondo antico. La nuova arte si deve invece basare su spazio-tempo, movimento e materia [91]. L’arte è “uno strumento di comprensione deducibile da concetti, al di là di ogni opinione, e richiede una conoscenza precedente. L’arte moderna non è ignoranza; noi siamo contro l’ignoranza” [92].


Il manifesto del collettivo Tetto della Balena (1961) [93]

Ci spostiamo in Venezuela, dove il collettivo artistico-letterario El Techo de la Ballena, d’ispirazione anarchica, contesta da posizioni di estrema sinistra il governo centrista-moderato che regge il paese in quegli anni. Il tetto della Balena organizza esibizioni estremamente radicali, come Homenaje a la Necrofilia (ovvero “Omaggio alla necrofilia”) nel 1962, dove cadaveri di animali vengo squartati davanti al pubblico, e al tempo stesso vengono esposte tele come Studio per boia e cane di Carlos Contramaestre, 1933-1996 (non la mostriamo per non urtare la sensibilità dei lettori). Il testo programmatico Per la ricostruzione del magma è una poesia, frutto collettivo del gruppo, che esalta i meriti dell’arte informale. 

È necessario ricostruire il magma
la materia bollente
la lussuria della lava
mettere un pezzo di fabbrica al piede di un vulcano
per ricostruire il mondo
la lussuria della lava
per mostrare che la materia è più lucida del colore
in questo modo l’amorfo
dopo aver strappato dalla realtà ogni cosa che impedisca la trascendenza
supera l’immediatezza della materia come mezzo d’espressione rendendola
non uno strumento d’esecuzione
ma un mezzo attivo che esplode
impatto
la materia che trascende
la materia che trascende
i testi tremano
i ritmi danno le vertigini
quel che presiede all’atto del creare
è la violenza – lasciar traccia di quel che è
perché il magma possa essere ricostruito nella sua caduta …
l’informalismo lo restituisce all’essenza dell’attività creativa
ristabilisce categorie e relazioni che la scienza ha già previsto
perché l’informalismo ha il proprio fungo
il tocco di una materia arbitraria che può essere visto dagli occhi più increduli
la possibilità di creazione è così evidente e reale come la terra e la roccia che forma le montagne
perché è necessario ricostruire il magma
la materia bollente
la protesi di Adamo
[94].


Il manifesto Vivo-dito di Alberto Greco (1963) [95]

Con Alberto Greco (1931-1965) ci imbattiamo in uno degli antesignani dell’incrocio tra arte informale e concettuale in Argentina (con le sue pitture nere del 1960, già menzionate per le loro affinità con Klein e Manzoni). Greco si è fatto conoscere – anche in Europa – soprattutto per performance che sono anche state anche veri e propri atti di provocazione. È dopo una serie di queste che, nel 1963, viene espulso dall’Italia. Il 16 giugno 1962 getta alcuni ratti dipinti di azzurro e argento al passaggio del Presidente della Repubblica Antonio Segni che inaugura la Biennale di Venezia, affermando di voler protestare contro l’arte ospitata alla mostra. In quell’occasione rilascia false generalità (dice di essere il pittore venezuelano Francisco Valero La Cruz [96]). Si maschera poi da monaca facendosi notare a Roma in occasione dell’apertura del Concilio Vaticano II. Riempie poi il centro della città di scritte “La pittura è finita. Viva l’arte del Dito Vivo”. Infine, durante l’happening Cristo 63 [97], una performance anticlericale scritta da Carmelo Bene (1937–2002) e presentata nel suo Teatro Laboratorio, urina dal palco su ambasciatore argentino e consorte (che sono venuti apposta per vederlo), provocando l’arrivo della polizia, la chiusura del locale e la condanna di Bene a otto mesi di carcere con la condizionale.

Il manifesto (il cui titolo per esteso, in un italiano approssimativo, è Manifesto Dito dell'Arte Vivo) - come spiega Jessica Lack - viene prima pubblicato a Genova nel 1962 e poi rivisto e ripubblicato a Piedralaves in Spagna, nel 1963. Scrive Greco: “L’arte Vivo-Dito è l’avventura del reale, il documento urgente, il contatto diretto e totale con cose, luoghi, persone, per creare situazioni inaspettate. Significa mostrare e incontrare l’oggetto nel suo luogo. Come documento vivente, in totale accordo con il cinema, il reportage e la letteratura. Realtà senza ritocchi o trasformazioni artistiche. Oggi sono più interessato a chiunque racconti la sua vita sulla strada o su un tram che in un racconto raffinato e tecnicamente perfetto di uno scrittore. È per questo motivo che credo nella pittura senza pittori e nella letteratura senza scrittori. Questo spiega perché negli anni scorsi l’arte abbia coscientemente fatto ricorso all’alea. Era un modo di scoprire l’altro lato della ragione” [98].

L’espressione Vivo-Dito indica l’atto creativo; il pittore rinuncia alla pittura e decide di far uso del dito per indicare aspetti della realtà che osserva, definendone la natura di arte. Fin dagli anni cinquanta Greco distribuisce volantini o appende manifesti a Buenos Aires per inneggiare alle proprie performance, poi si fa fotografare mentre mostra cartelli che inneggiano alla sua arte, infine blocca persone per la strada e disegna cerchi con il gesso intorno a loro.

Tutto ciò può sembrare semplicemente l’opera di uno sregolato, ma avrà un impatto importante sia sulla diffusione di tutta l’arte dell’happening al di là degli Stati Uniti, dove era nata alla fine degli anni cinquanta sia sull’identificazione della natura effimera dell’arte. Conclude Greco: “Un’opera ha un significato fin quando è fatta di totale avventura, senza sapere quel che succederà. Una volta finita, non importa più, è divenuta un cadavere. Così riposi in pace. L’artista contemporaneo ha perso il suo senso di eternità.” [99].

Il manifesto dell’Arte dei mezzi di comunicazione di massa (1966) [100]

I tre artisti concettuali argentini Eduardo Costa (1940-), Roberto Jacoby (1944-) e Raúl Escari (1944-) creano nel 1966 il gruppo Arte del los Medios de Comunicación Masivos. Il manifesto del luglio di quell’anno – ispirato dalle teorie dell’intellettuale marxista argentino Oscar Masotta ​(1930-1979) e del sociologo canadese Marshall McLuhan (1911–1980) così come dall’artista mediale coreano Nam June Paik (1932-2006) – intende proporre di fare arte per mezzo dei media. Come spiega Jessica Lack, “il gruppo invia alla stampa un comunicato che descrive un happening collettivo cui avrebbero partecipato alcune personalità famose. L’evento viene descritto in modo preciso alla stampa, per poi rivelare che non si è in realtà mai verificato, dando in tal modo origine a varie discussioni nella stampa se sia sia trattato di un esperimento sociologico, di un’opera d’arte concettuale o di uno scherzo letterario” [101]. Si tratta dell’ “Happening per un cinghiale morto”: viene creata – con l’aiuto di alcune personalità conosciute dal pubblico – una documentazione scritta e fotografica su una performance che in realtà non si è mai tenuta,  ma che è documentata su numerosi quotidiani e settimanali argentini di primo piano.

In una civiltà dominata dai mass media – così si apre il manifesto – il pubblico non ha contatto diretto con gli eventi culturali, ma solamente con l’informazione che su di essi proviene dai media. Il pubblico dei mass media non visita le mostre d’arte, non è testimone di un happening o non va a vedere una partita di calcio; invece riceve notizia di questi spettacoli nei notiziari. Così gli artisti reali perdono la loro importanza perché raggiungono solamente poche persone a causa di una mancanza di divulgazione” [102]. “Fino ad oggi l’opera d’arte è stata il prodotto di un processo che inizia con la creazione (tradizionale) dell’opera e continua fino a divenire materiale trasmesso ai mass media. Da ora in poi noi proponiamo un’ ‘opera d’arte’ in cui il momento della creazione sparisce. Dunque, l’opera d’arte diviene il commento su un fatto che è in realtà un puro pretesto per lanciare il processo d’informazione” [103].


Il manifesto Il Tucumán brucia (1968) [104]

Negli anni sessanta la politica argentina è caratterizzata da un susseguirsi di elezioni improduttive e colpi di stato dell’esercito. Dal 1966 al 1973 il potere è gestito da una coalizione di militari e politici sotto il nome di “Revolución Argentina”, con l’appoggio esterno degli Stati Uniti e con un chiaro programma anticomunista. Il gruppo Artistas de vanguardia, costituito da circa trenta giovani artisti, viene creato nel 1968; i membri hanno l’obiettivo di rigettare gli esperimenti d’avanguardia artistica degli anni precedenti (che giudicano vacui) e dirigere invece l’arte in senso d’opposizione politica. Al gruppo partecipa fra l’altro Roberto Janocby, uno dei tre firmatari del già citato Manifesto dell’Arte dei mezzi di comunicazione di massa. Come scrive Jessica Lack, “il gruppo inizia lanciando un progetto per analizzare e protestare contro le disastrose condizioni di vita e lavoro nella provincia del Tucumán, nel nord-ovest del paese, dove la politica economica del governo ha poco prima condotto alla chiusura forzata degli impianti zuccheriferi statali, costringendo alla fame molti abitanti. Iniziano la loro campagna gettando volantini nelle grandi città di Rosario e Santa Fe con la misteriosa scritta ‘Il Tucumán brucia’. Poi annunciano alla stampa la prima Biennale d’arte d’avanguardia a Rosario, dove mostrano documentazione audio, fotografica e documentaria sulla miseria degli abitanti del Tucumán” [105].

Nel manifesto si legge: “L’atmosfera squisita ed esteticizzante delle false esperienze d’avanguardia prodotte nelle istituzioni della cultura ufficiale ha creato lo scenario per questi eventi. Con essi si inizia a dare una nuova impostazione che postuli l’attività artistica come un’azione positiva e reale, la cui aspirazione sia di modificare l’ambiente che la mette in essere. (…) Il riconoscimento di questa nuova concezione ha condotto un gruppo di artisti a formulare la creazione estetica come un’azione violenta e collettiva. In tal modo distruggendo il mito borghese dell’individualità dell’artista come pure la presunta natura passiva dell’opera d’arte. Dunque, l’aggressione deliberata è divenuta la forma della nuova arte” [106]. Quanto all’iniziativa “Il Tucumán brucia”, si tratta di creare ciò che viene definito, con un neologismo, un “circuito superinformativo” [107], a smentire l’informazione dei mezzi di comunicazione ufficiali.


Il Manifesto dell’Arte utile di Eduardo Costa (1969) [108]

Un altro dei firmatari del Manifesto dell’Arte dei mezzi di comunicazione di massa del 1966, ovvero Eduardo Costa, lancia nel 1969 un appello da New York, dove vive tra 1966 e 1971 per sottrarsi al governo militare, affinché l’arte persegua fini di immediata utilità. Costa opera all’interno delle performance Street Works, organizzate dall’Architectural League of New York. Il manifesto spiega che Costa, a proprie spese, ha acquistato e sostituito una serie di cartelli stradali che erano malandati, e ha imbiancato una stazione della metropolitana. “Queste opere d’arte intendono sfatare il mito della mancanza d’utilità dell’arte, e sono esse stesse un contributo sia pur modesto al miglioramento delle condizioni di vita della città” [109].


Il Manifesto del Gruppo Vertebra (1970) [110]

Con il Gruppo Vértebra ci spostiamo in Guatemala, dove i tre pittori Roberto Cabrera (1939-2014), Marco Augusto Quiroa (1937-2004) ed Elmar René Rojas (1942-2018) pubblicano sulla rivista mensile Alero un testo sull’arte intitolato “Manifesto vertebra”, in piena atmosfera di guerra civile. Si tratta senza dubbio di un manifesto militante contro la dittatura militare. Gli autori lo definiscono come un testo “profondamente influenzato dal secolo degli inferni militari e della pandemia atomica” [111], ma io lo considero anche intriso di intensa poetica. Come scrive Jessica Lack, “il titolo del gruppo allude al loro desiderio di creare una spina dorsale estetica attraverso i paesi del Centro America, unendo gli artisti di Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Honduras e Costa Rica. Promuove il collage e una tecnica chiamata ‘materismo’ in cui la tinta è mischiata con sabbia, conchiglie e fango per creare un tessuto” [112]. Se dunque – dal punto di vista iconografico – l’arte di Vertebra rimane come vedremo nel campo figurativo, dal punto di vista della tecnica si tratta, mi sembra ovvio, di una citazione centroamericana delle tendenze materiche dell’arte informale, presenti nel mondo ispanico (come nel resto dell’Europa) dalla fine degli anni quaranta.

I tre autori affermano di riconoscersi in un nuovo umanesimo, e di trovare ispirazione sia “nel trascendentalismo tempestoso e terribile del mondo gotico” [113] sia “nel labirinto del tormento dei nostri giorni” [114]. Ne derivano “un’alchimia d’evoluzione catartica e un’evoluzione mistica delle nostre vite interiori, che rivelano l’intensità di un’epoca e di un ambiente: quel che siamo, dove siamo, dove andiamo” [115].

Il manifesto si oppone all’arte astratta. Va ricordato che sia in America centrale sia in molte altre regioni del mondo la battaglia tra astrattisti e figurativi coincide in quegli anni con l’opposizione ideologica tra i fautori del mondo statunitense e coloro invece che predicano modelli alternativi. “La nostra arte aspira a salire al di sopra del gioco conformista e dei canti delle sirene del purismo artistico globale. Al di sopra della falsa espansione dell’astrattismo e del semplice tradizionalismo. Noi ci poniamo lungo il sentiero della nostra configurazione genetica, fedeli ad un’espressione che la ponga in contatto con l’ambiente. Il nostro linguaggio, radicato nell’umanesimo, sorge dalla realtà che ci circonda. Non ci interessa – a buon ragione – il rantolo mortale dell’arte meccanica ed egotistica ripetuta a New York o Londra. Noi riconosciamo ed apprezziamo la qualità intrinseca delle sue radici, ma siamo interessati all’altra faccia della medaglia: la faccia che rivela l’integrità dell’uomo” [116]. 


Il Manifesto FANGO/CARNE FOGNA (1970) [117]

Con il testo di Artur Barrio (1945-), portoghese cresciuto artisticamente in Brasile negli anni della dittatura militare e poi tornato in Europa dopo la rivoluzione dei garofani del 1974 che riporta il Portogallo alla democrazia, ci imbattiamo in un'altra espressione del radicalismo artistico dell’America Latina, che cerca di scuotere l’opinione pubblica dal torpore con azioni eclatanti. Scrive Jessica Lack: “Barrio sostiene l’anti-arte come una strategia di sopravvivenza, con azioni di performance e situazioni simulate nella strada. Invece di tenere mostre nelle gallerie, l’artista riesce in tal modo a evitare i meccanismi di controllo del governo” [118]. La sua estetica si basa sulla distribuzione nei marciapiedi delle strade delle città brasiliane di materiali in decomposizione, ovviamente considerati repellenti, fotografando poi la reazione scioccata dei passanti.

Quel che cerco è un contatto diretto con la realtà nella sua totalità: ogni cosa che è rifiutata, ogni cosa che è messa da parte per il suo carattere contenzioso. Una contestazione che include una realtà radicale, perché questa realtà esiste, nonostante sia dissimulata attraverso simboli” [119]. Barrio descrive le sue opere (gli scarti di materiali deperibili) come non appartenenti al mondo dell’arte, ma a quello della realtà. Egli rinuncia a considerarsi artista, ma attribuisce invece quel ruolo ai passanti che con la loro reazione disgustata diventano i veri creatori.


Il Manifesto del Gruppo delle Antille (1978) [120]

Il Gruppo delle Antille viene creato a Cuba dallo scultore Rafael Queneditt Morales (1942-2016), che riunisce attorno a sé una quindicina di artisti, scrittori e musicisti cubani di colore che intendono recuperare le loro origini africane ed esprimere al tempo stesso la loro solidarietà con gli altri artisti delle Antille. Essi recuperano perciò i contenuti dei manifesti d’arte nera nei Caraibi, presenti già negli anni trenta, e si legano al tempo stesso ai concetti d’arte panafricana presenti negli anni settanta. Jessica Lack scrive: “Le opere create dai membri del gruppo non rivelano un unico stile distinto che lo contraddistingue. Invece, mostrano una larga varietà di influenze estetiche africane, dall’arte folk al simbolismo religioso, e sono caratterizzate da un forte desiderio sottostante di rappresentare l’intera cultura delle Antille, e non solamente l’eredità ispanica” [121]. 

Nel manifesto si legge: “Arte e letteratura sono le rappresentazioni più raffinate e profonde della condizione sociale e dello sviluppo di un popolo. Grazie a queste manifestazioni culturali i gruppi proiettano appieno la loro personalità e riaffermano la loro nazionalità. L’imperialismo comprende questo fenomeno; si spiega così il tentativo incessante di penetrare culturalmente altri popoli, con il fine ultimo di depersonalizzare e denazionalizzare” [122]. La rivoluzione cubana - continua il manifesto -  ha invece creato le condizioni per liberare gli artisti e renderli consapevoli delle loro origini etniche. Si tratta di affermazioni che contrastano con la posizione ufficiale del regime, che condanna in realtà ogni riferimento etnico-africano come primitivo e controrivoluzionario, non essendo interessato a riconoscere identità separate all’interno del popolo cubano, che viene invece esaltato come tutto unito a sostegno del castrismo.

Per gli artisti del gruppo, l’origine africana è al centro dell’identità e della produzione artistica. “Oggi … vediamo un numero crescente di pittori e scultori cubani che sono semplicemente motivati dalla loro profonda condizione di cubani e della consapevolezza delle loro origini etniche. Coscientemente o incoscientemente, essi intraprendono l’unica strada possibile nella direzione di un’identità comune” [123]. Nella sua introduzione al documento, Jessica Lack scrive che l’eco del gruppo a Cuba è stato limitato, portandone allo scioglimento nel 1983. La stessa arte cubana non di regime (la cosiddetta “nuova arte cubana”) si è manifestata a partire dagli anni ottanta come tentativo di apertura nei confronti dell’arte dell’occidente, lasciando dunque isolato il Gruppo delle Antille, come unica manifestazione di un sentimento etnico che solo recentemente è stato riscoperto in una serie di mostre itineranti tra Cuba e gli Stati Uniti tra 2013 e 2016 (http://www.queloides-exhibit.com/grupo-antillano/).


Colectivo de Acciones de Arte – Dichiarazione del gruppo CADA (1982) [124]

CADA significa Colectivo de Acciones de Arte, ed è un gruppo di cinque artisti dissidenti vissuti nel Cile di Pinochet, sfidando la repressione militare con performance e azione diretta: Fernando Balcells (1950-), Juan Castillo (1952-), Diamela Eltit (1947-), Lotty Rosenfeld (1943-) e Raúl Zurita (1950-). CADA viene creato nel 1979, due anni dopo il colpo di stato del 1977; il loro manifesto viene pubblicato nel 1982 dalla rivista Ruptura; la loro azione No+ viene ripetuta continuamente tra 1983 e 1984. Scrive Jessica Lack: “Il gruppo copre clandestinamente i muri di Santiago con il segno NO+, invitando tacitamente il pubblico a dar voce alla protesta completando la frase: ‘NO+omicidi’, ‘NO+tortura’, ‘NO+armi’ e così via. L’impatto dell’opera trasforma ‘Non più’ in un potente slogan contro Pinochet, slogan che continua ad essere usato fino alla caduta del regime del dittatore nel 1990” [125]. Dei cinque membri la più famosa è oggi Lotty Rosenfeld, rappresentata alla mostra di Francoforte con la documentazione sulle azioni che svolge a Santiago, intervenendo sulla segnaletica stradale come forma di provocazione che intende costringere i passanti a riflettere criticamente sulla realtà.

Mentre Rosenfeld e Castillo sono due artisti, gli altri membri sono sociologi (Balcells), poeti (Zurita) e scrittori (Eltit). Il testo è dunque scritto in linguaggio astratto, ma si pone una serie di problemi estetici proclamando che l’insufficienza dell’arte latino-americana è divenuta ragione “di vita o di morte” [126]. In primo luogo il gruppo CADA si chiede come il “concetto di creatività” [127] si possa e si debba affermare “in un contesto come il nostro” [128] (gli artisti non esitano a parlare di “dipendenza, imperialismo, regimi autoritari” [129]), richiedendo “specificità con riferimento alla produzione artistica” [130]. Poi i firmatari si pongono il problema del ritardo culturale dell’America Latina: “Marginalizzata storicamente dai movimenti di arte internazionale e dalle loro reti di finanziamento e distribuzione, ogni forma di espressione nata in questa regione, anche quando fa riferimento alla stessa terminologia e trova rifugio sotto le stesse idee di arte definite dai centri internazionali di cultura solleva domande sulla propria natura, sui suoi metodi e sui suoi obiettivi. Le risposte a questi interrogativi vanno al di là del campo dell’assiomatica semiologica, sollevando invece il tema del suo rapporto complessivo con le battaglie e gli sviluppi della nostra realtà sociale” [131].  

Uno dei punti fondamentali del manifesto è che, mentre “il concetto d’arte… nei paesi capitalisti occidentali ci consente di distinguere tra attività come politica, scienza, arte o religione… e di definire per esse obiettivi specifici e strategie individuali” [132], ciò non è possibile in Cile (in fondo, ogni gruppo d’arte rivoluzionaria vive sempre nel mito romantico dell’arte totale, resa necessaria dalla straordinarietà delle condizioni del proprio tempo). Inoltre, la marginalità rispetto all’arte internazionale può divenire una condizione di libertà: “lavorare in quello spazio marginale implica innanzi tutto un grado di appartenenza che non è necessariamente fissato e che si definisce invece come un campo di battaglia, come un’arena di confronto in cui i concetti d’arte e vita al tempo stesso si completano e si dividono” [133]. Chi è esposto – anche fisicamente – a un rischio per la propria sopravvivenza non può infatti intendere l’arte totale come faceva Duchamp che l’identificava come ogni oggetto di uso quotidiano. 

Alla situazione cilena, invece, si applicano le esperienze della “body art, landscape art, performance” [134]. Anzi, queste manifestazioni sono rilevanti in America latina prima ancora che esse vengano definite come espressioni artistiche in occidente, “per il grado di familiarità quotidiana con queste forme viventi: corpi affamati, vaste pianure infertili, campi incolti” [135]. Quel che in occidente si è sviluppato come arte estemporanea, in Cile è dunque invece parte dell’esperienza vissuta, ovvero “contatto con la precarietà e il dolore, nonché con la sterilità delle vite concrete” [136]. CADA si pone dunque l’obiettivo non solamente di “spostare i limiti della nostra realtà” [137], ma anche “di criticare e rivedere da una prospettiva globale cosa significhi l’avanguardia” [138].

Ne deriva una critica alla natura autoreferenziale dell’arte. Ogni azione deve “stabilire una pratica che operi all’interno dei parametri della nostra storia” [139] e divenire un atto politico [140]. Al tempo stesso, la performance ha un significato più profondo di un semplice evento. Da un lato, infatti, l’azione è un momento esistenziale: come attore delle azioni artistiche, l’artista “opera sia come somma sia come sublimazione, è il bianco ed il nero dei circuiti collettivi. Il creatore d’arte è sia parte del paesaggio sia parte della scena; la fame di riprodurre la realtà è identica a quella per il cibo o, almeno, ha la stessa natura. Il corpo del creatore è, in ultima istanza, un buco nero in cui convergono tutte le perplessità sul significato e dove pratica e teoria convergono. È quella bipolarità di creazione e creatore che precede la formalizzazione delle correnti artistiche” [141]. Dall’altro, l’azione è un momento di rivendicazione di un futuro migliore: “L’attesa di cambiamento, sia esso in bene o in male, riflette la propria base materiale e diviene tratto caratteristico del modo in cui opera la storia. Travolta costantemente dall’andare e venire della storia (dalle dittature di estrema destra alle esperienze socialiste) quell’attesa rafforza la natura della storia, sostenendo pratiche creative; la scena non è solamente il presente, ma anche una certa dimensione del futuro, che si manifesta sia in fede (nel senso cristiano della parola) sia in posizioni politiche (un futuro permanentemente negato, alterato, rifatto, i cui effetti sono evidenti nelle sfide del passato – le agende socialiste – e nella richiesta di tracce di quel passato nei modelli del futuro – tipico dei governi autoritari). In ogni caso l’attesa afferma una comprensione derivata dal presente. È precisamente il riportare indietro le possibilità del futuro al presente che definisce le pratiche artistiche più conseguenti. È lì che risiede il modello d’azione. Il modello è l’action art” [142].

Manifesto del Fronte 3 febbraio [143]

Il gruppo 3 di Febbraio (2004) opera in Brasile per protestare contro il razzismo della polizia. Il gruppo multidisciplinare di artisti si costituisce per protestare in seguito a molti tragici episodi che vedono giovani brasiliani di colore cadere uccisi per mano delle forze dell’ordine in situazioni manifestamente ingiustificate. Gli omicidi hanno il loro apice nell’uccisione di uno studente universitario il 3 febbraio 2004 durante quello che doveva essere un semplice controllo dei documenti d’identità. Il modello degli aderenti al gruppo è quello delle performance del già citato Artur Barrio, l’artista che esegue azioni improvvise e imprevedibili distribuendo materiali disgustosi per le strade delle città brasiliane. Cambia tuttavia l’oggetto della creazione artistica. Nel 2007 il gruppo produce tra l’altro un video, un disco e un libro, tutti intitolati Zumbi Somos Nos: Cartografía del Racismo para la Juventud Urbana. Il titolo è ispirato alle vicende di Zumbi dos Palmares (1655-1695), un guerrigliero che guidò la resistenza degli schiavi neri in una comunità politica indipendente – territorialmente molto ampia – in Brasile che per molti decenni riuscì a sottrarsi al controllo portoghese.

Il manifesto pone in discussione i criteri con cui la polizia di San Paolo porta avanti le sue indagini, ferma e controlla individui sospetti e fa ricorso alla violenza, considerando l’azione delle forze dell’ordine come dettata da razzismo. I membri del Fronte 3 febbraio vedono tutti questi aspetti come manifestazioni di una cultura razzista che rischia di contaminare il paese già nelle scuole. Il manifesto pone dunque in discussione uno dei fondamenti più diffusi dell’immagine che i brasiliani hanno di loro: quello che in Brasile il razzismo non esista: “Il Brasile ha creato uno dei meccanismi di discriminazione razziale più crudeli ed efficaci, perché il sistema esclude ogni possibilità di mettere in discussione l’esistenza del razzismo nella società brasiliana” [144].


Il Manifesto dei migranti (2011) [145]

Abbiamo già parlato dell’artista cubana Tania Bruguera (1968-)  nella prima parte di questo post, a proposito del suo Manifesto per i diritti degli artisti del 2012, letto alle Nazioni Unite per protestare contro la repressione e la censura. Qui vogliamo invece far riferimento al manifesto del Movimento internazionale dei migranti, da lei promosso nel 2011 insieme al Queens Museum di New York, dove è stata artista residente (vivendo anche lei – sia pur in modo privilegiato – la realtà della migrazione da un paese latino americano negli Stati Uniti). Con la Bruguera, che è stata spesso sottoposta a Cuba a misure di restrizione della libertà per le proprie azioni irriverenti nei confronti del potere, la causa del dissenso interno contro il regime castrista si sposa dunque con le ragioni universali dei diritti dell’uomo, in un mondo dove la circolazione delle persone è vista come fattore che rende possibile la “connessione internazionale” [146]  dell’umanità. L’immigrazione, scrive il manifesto, assicura inoltre alle popolazioni che ricevono migranti servizi di prossimità (ad esempio, con le badanti) che migliorano la loro qualità della vita. Dal punto di vista artistico, la lettura pubblica del manifesto (nella prima parte abbiamo visto la foto di un’azione a New York, qui sotto alla Settimana internazionale di performance art di Venezia nel 2014) diviene il fatto artistico.

Fine della Parte Seconda
Vai alla Parte Terza


NOTE

[79] A Tale of Two Worlds. Experimental Latin American Art in Dialogue with the MMK Collection, 1940s-1980s, curated by Klaus Görner, Victoria Noorthoorn, Javier Villa, MMK Museum für Moderne Kunst, Frankfurt am Main 25/11/2017 – 2/4/2018; Museo de Arte Moderno de Buenos Aires 7/7/2018 – 14/10/2018, Bielefeld, Kerber Verlag, 2018, 495 pagine.

[80] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos, London, Penguin Modern Classics, 2017, 501 pagine. Citazione alle pp. 38-41.

[81] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 38.

[82] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 39.

[83] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 39-40.

[84] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 40.

[85] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 40.

[86] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 40.

[87] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 40.

[88] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 54.

[89] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 54.

[90] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 54.

[91] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 55.

[92] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 55.

[93] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 64-65.

[94] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 64-65.

[95] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 78-80.

[96] Corriere d’Informazione, Topi vivi sui piedi di Segni mentre visita la Biennale, Sabato-Domenica, 16-17 giugno 1962.

[97] Si veda: https://it.wikipedia.org/wiki/Cristo_%2763#cite_note-ReferenceA-6.

[98] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 78-79.

[99] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 79.

[100] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 99-101.

[101] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 99.

[102] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 100.

[103] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 101.

[104] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 113-118.

[105] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 113.

[106] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 114.

[107] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 116.

[108] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 119-120.

[109] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 120.

[110] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 150-153.

[111] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 151.

[112] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 150.

[113] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 151.

[114] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 151.

[115] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 151.

[116] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 152.

[117] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 154-155.

[118] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 154.

[119] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 154.

[120] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 320-323.

[121] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 320.

[122] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 321.

[123] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 322.

[124] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 343-351.

[125] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 343.

[126] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.

[127] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.

[128] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.

[129] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.

[130] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.

[131] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.

[132] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 344.

[133] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.

[134] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.

[135] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.

[136] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.

[137] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.

[138] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 345.

[139] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 346.

[140] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 346.

[141] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 346.

[142] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 346-347.

[143] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 435-435.

[144] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 435.

[145] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 458-460.

[146] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 459.



Nessun commento:

Posta un commento