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A Changing Art
Nineteenth-Century Painting Practice and Conservation
[Un’arte che cambia. Pratica e conservazione della pittura del XIX secolo]
A cura di Nicola Costaras, Kate Lowry, Helen Glanville, Pippa Balch, Victoria Sutcliffe e Polly Saltmarsh
Londra, Archetype Publications, 2017
Recensione di Giovanni Mazzaferro
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In copertina: Anonimo, Ragazza allo specchio con kimono rosso, collezione privata |
A Changing Art raccoglie gli atti dell’omonimo convegno internazionale svoltosi a Londra, presso la Wallace Collection nell’ottobre del 2016 e organizzato dalla British Association of Paintings Conservator-Restorers (BAPCR). Convegno prima e libro poi cercano di far fronte a un’esigenza sempre più evidente nel mondo dei conservatori e dei restauratori (non solo) inglesi: il numero dei quadri ottocenteschi che necessitano di restauro, per i motivi più disparati, sta crescendo in modo esponenziale. A fronte di questo fenomeno, le conoscenze che abbiamo sulle tecniche con cui tali opere furono eseguite sono assai scarse. Si tratta, quindi, di intraprendere un lavoro di scavo cercando di combinare fra loro fonti letterarie, documenti d’archivio e, naturalmente, analisi di laboratorio. Il fenomeno – come logico – è indagato nel volume da una prospettiva soprattutto inglese: Sally Woodcock, nella sua Introduzione, fa presente, ad esempio, che, al momento in cui si teneva il convegno, erano stati eseguiti esami tecnici sulle opere di soli ventitre artisti britannici dell’Ottocento. Non solo: quegli artisti facevano parte fondamentalmente del gruppo dei Preraffaelliti (che notoriamente avevano fatto della ‘tecnica’ un motivo di distinzione rispetto all’arte che andava per la maggiore in Inghilterra all’epoca) o erano comunque figure ‘eccentriche’ rispetto alla norma, da Turner in poi. Manca, insomma, un’analisi ad ampio spettro sulle opere di artisti più ‘normali’ e allineati alla tradizione vittoriana. Quanto emerge dalla lettura dei saggi (alcuni ‘generalisti’, altri assai più tecnici) è che la pittura dell’Ottocento vede letteralmente un’esplosione nel numero degli operatori del mondo dell’arte, dagli artisti in primis fino ai venditori industriali di colori, a cui corrisponde una varietà di prodotti e procedimenti che il restauratore contemporaneo deve tenere ben presente al momento di intraprendere interventi conservativi sulle opere dell’epoca.
Resta da spiegare perché occuparsi di un libro del genere (ovvero di un libro dedicato fondamentalmente a restauratori) in un blog che è specializzato in letteratura artistica: la risposta è semplicissima: perché l’Ottocento vittoriano vede un intreccio strettissimo fra mondo del restauro da un lato, riscoperta e pubblicazione delle principali fonti sulle tecniche artistiche, politiche museali, promozione e pratica dell’arte dall'altro; un intreccio così stretto che vi sono figure (come ad esempio quella di Charles Lock Eastlake) che, di fatto, scrivono la storia, a pieno titolo, con riferimento a ciascuno di questi aspetti.
Qui di seguito riporto la lista dei saggi presenti nel volume, tre dei quali saranno oggetto di un esame più approfondito. La maggior parte dei contributi riguarda artisti inglesi, o artisti stranieri le cui opere siano comunque presenti in musei inglesi; non mancano tuttavia riferimenti ad altre realtà straniere (si veda ad esempio il saggio su Giovanni Boldini).
- Sally Woodcock, Introduction;
- Jacob Simon, Restoration practice in museum and galleries in Britain in the nineteenth century;
- Nicola Costaras, ‘These pitchy pigments from their nature never harden’: a nineteenth-century perspective on premature cracking in oil paintings;
- Leslie Carlyle, Building visual evidence of past practices in the creation of oil paintings;
- Sally Woodcock, Alteration, restoration and why pictures foam: what conservators can learn from a Victorian artist’ colourman;
- Hayley Tomlinson, Sarah Herring e Gabriella Macaro, Ernest-Victor Hareux and the Barbizon artists;
- Gabriella Macaro, The Barbizon paintings at the National Gallery: a technical study;
- Rosalind Whitehouse, Oily drops on the window panes: celebrity portraiture in a murky climate;
- Nele Brodt e Katy Sanders-Blessley, Observations on Rudolf Swoboda’s painting technique;
- Nienke Woltman e Suzanne Veldink, George Hendrick Breitner at work: new insights;
- Adèle Wright, ‘Method cannot govern everything’. Delacroix: mid century modern master;
- Gianluca Poldi, Fabio Frezzato, Francesca Lo Russo, Enzo Savoia e Arianna Splendore, Giovanni Boldini: technique and conservation. A systematic scientific study;
- Roxane Sperber, The retouching practices of John Linnell: technique, patronage and practice from two works in the Yale Center for British Art;
- Lidwien Speleers, The cleaning of a solvent-sensitive painting by Jacob Maris;
- Michaela Straub, The conservation and research of two paintings by Alfred East RA.
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John Constable, Il carro di fieno, 1821, Londra, The National Gallery Fonte: https://www.nationalgallery.org.uk/paintings/john-constable-the-hay-wain |
Jacob Simon
Restoration practice in museum and galleries in Britain in the nineteenth century
Restoration practice in museum and galleries in Britain in the nineteenth century
La figura del restauratore, professionalmente distinta da quella dell’artista che, saltuariamente, si occupa di restauro, è legata in Gran Bretagna alla nascita dei grandi musei inglesi dell’Ottocento: vi è una serie di date particolarmente indicative in questo senso: il 1824, con la fondazione della National Gallery, il 1838 con l’apertura al pubblico della Royal Collection a Hampton Court e, ancora, il 1852 (creazione del South Kensington Museum sull’onda dell’Esposizione Universale dell’anno precedente) e il 1855 (rifondazione della National Gallery). In questo contesto si vanno affermando figure (spesso vere e proprie dinastie) di restauratori come i Seguier, i Buttery e i Reeve. La scelta dei restauratori, in linea di massima, è affidata alle conoscenze dei direttori dei musei e non a concorsi veri e propri; si tratta, insomma, di incarichi fiduciari, spesso conservati per tutta una vita professionale. In questo senso è noto, ad esempio, che Charles Lock Eastlake, presidente della National Gallery, impiegò in tali attività John Bentley, Charles Buttery, Henry Merritt e l’italiano Raffaele Pinti. I problemi a cui dovevano far fronte i restauratori spaziavano da questioni, tutto sommato, tradizionali, come l’alterazione e l’inscurimento dei colori ad altre senza dubbio nuove: si pensi ad esempio all’effetto dell’inquinamento ambientale sulle opere e a quello dell’uso del riscaldamento e dell’illuminazione a gas sulle medesime (si veda il saggio di Costaras più avanti). Vi erano da combattere poi gli insetti, da risolvere problemi di foderatura (anche se sembra che quella dei foderatori fosse un’attività demandata ad appositi operatori) e, soprattutto, da cercare di limitare i danni che potevano derivare dall’utilizzo da parte del pittore di materiali scadenti o di particolari sostanze usate come medium (si veda il megilp più avanti). La professionalizzazione del mestiere di restauratore andava peraltro di pari passo con la formazione di un grande pubblico che, sulle riviste specializzate, leggeva commenti e dava opinioni (spesso campate in aria) sui risultati dell’attività di restauro. Quanto possa essere stato importante il ruolo dell’opinione pubblica è peraltro testimoniato dalla vicenda personale dello stesso Eastlake. È noto che Eastlake fu nominato Keeper della National Gallery già nel 1843, ma, a partire dal 1846, fu oggetto delle critiche severe di molta stampa per gli interventi di pulitura delle opere in collezione [1], tanto da indurlo alle dimissioni. Eastlake era veramente uno straordinario conoscitore delle tecniche artistiche e della letteratura in materia. Il suo lungo soggiorno ultradecennale in Italia lo aveva peraltro portato a conoscere una serie di restauratori – scrive Jacob Simon - come il romano Pietro Palmaroli, Ugo Baldi a Firenze e Jakob Schlesinger a Berlino (p. 6). In realtà la lista doveva essere assai più lunga. Nelle lettere (1845-1846) che Mary Philadelphia Merrifield invia a suo marito nel corso del suo viaggio in Italia in cerca di manoscritti che testimonino le tecniche degli antichi maestri, ad esempio, possiamo leggere che è Eastlake a chiederle di contattare il parmense Filippo Morini, professore di pittura presso la locale Accademia. La fama di Morini come restauratore di opere del Correggio fu senza dubbio circoscritta, ma evidentemente giunse a Eastlake; probabilmente sapeva che Morini era accreditato dalla stampa locale di aver scoperto “una vernice d’ambra sconosciuta ai nostri tempi” che permetteva di riprodurre “quella vaghezza e trasparenza tanto ammirate nelle opere dei Sommi Artisti del secolo XVI” [2]. Allo stesso modo Eastlake sapeva dell’esistenza di un manoscritto scritto nel 1833 da Giovanni Edwards O’Kelles, figlio di Pietro Edwards, restauratore veneziano di fama internazionale, e aveva insistito con la Merrifield perché lo rintracciasse una volta arrivata a Venezia. La cosa appare straordinaria, perché il manoscritto fu di fatto chiuso quasi subito in un cassetto per via delle accuse (infondate) che conteneva nei confronti dell’ex direttore dell’Accademia, Leopoldo Cicognara [3]. Come la notizia sia arrivata alle orecchie dell’allora Keeper della National Gallery è davvero un mistero. E tuttavia è ben chiaro che le polemiche sulla pulitura dei quadri risalenti agli anni ’40 lasciarono tracce sul comportamento di Eastlake negli anni ’50, tanto da indurlo a commissionare direttamente in Italia interventi non sempre unicamente conservativi, ma anche volti alla modifica di particolari aspetti dei quadri che andava comperando per conto della National Gallery per renderli più ‘graditi’ al pubblico inglese [4].
Che il ruolo del restauratore rimanesse ancora lontano rispetto a come lo si intende oggi è peraltro evidente non solo per via di questi ‘ritocchi’ tutt’altro che infrequenti. L’importanza del bravo restauratore era percepita non solo con riferimento alla conservazione dei quadri, ma anche perché potenzialmente in grado di arrivare a conoscere i segreti dei quadri degli antichi maestri, tramite la loro distruzione fisica, e quindi di promuovere il livello dell’arte contemporanea rendendo note tali procedure. Parlando di Antonio Fidanza, per venticinque anni restauratore a Brera, la stessa Merrifield scrive a suo marito: “È esattamente l’uomo che volevo vedere; ha grande cultura sulle conoscenze tramandate dalla tradizione e molta esperienza pratica, che gli viene dal numero di vecchi quadri che ha distrutto – volevo dire, riparato, ma mi spiace dire che i due termini sono quasi sinonimi” [5].
La specializzazione del mestiere, insomma, è ancora bel lungi dall’individuare la figura del restauratore come si afferma nel Novecento.
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David Wilkie, La lettera di introduzione, 1813, Scottish National Gallery Fonte: https://artsandculture.google.com/asset/lQFgrxakxziNug |
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John Everett Millais, Ophelia, 1852, Londra, Tate Britain Fonte: https://artsandculture.google.com/asset/lQFgrxakxziNug |
Nicola Costaras
‘These pitchy pigments from their nature never harden’: a nineteenth century perspective on premature cracking in oil paintings
‘These pitchy pigments from their nature never harden’: a nineteenth century perspective on premature cracking in oil paintings
Uno dei fenomeni più discussi,
nel corso dell’Ottocento inglese’, è la screpolatura precoce di molti quadri
eseguiti da pittori inglesi a fine Settecento: il caso di scuola, in questo
senso, è rappresentato dalle opere di Sir Joshua Reynolds (1723-1792). Sin dal
1813 – scrive Costaras – “la British
Institution aveva allestito una mostra di quadri di Joshua Reynolds con
problemi tecnici, nel tentativo di mettere in guardia gli artisti dai pericoli
di cercare di emulare la sua tecnica” (p. 22). Costaras fa riferimento in
particolare alle tesi di Richard Redgrave (1804-1888), artista e ispettore
generale per l’arte dal 1857. L’esperienza professionale si svolse a lungo
nell’ambito del South Kensington Museum (l’attuale Victoria and Albert Museum).
Secondo Redgrave il problema stava nell’utilizzo di bitume e del megilp (una
miscela di olio bollito e vernice resinosa), che gli artisti (a partire da
Reynolds, appunto) trovavano di particolare efficacia sia per dare un aspetto
particolarmente traslucido ai colori sia per dare alla superficie pittorica una
consistenza colloidale che permetteva frequenti e ripetuti ripensamenti in
corso d’opera. In un testo del 1869 Redgrave scrive chiaramente che i pigmenti
bituminosi, che hanno la consistenza della pece, non si seccano mai e
mantengono una loro fluidità, tendendo a contrarsi o a espandersi a seconda dei
cambiamenti di temperatura. Secondo lo stesso Redgrave, la potenziale
pericolosità dell’utilizzo di tali strumenti emergeva in particolar modo quando
si procedeva a stendere sulla superficie pittorica uno strato di vernice. Come
dirò più avanti, le tesi dell’ispettore del South Kensigton non erano nuove, e
avevano illustri precedenti. Fatto sta che non tutti erano disposti ad
accettare l’idea che la rovina dei quadri di Reynolds (e di chi ne seguì la
tecnica) fosse insita nei materiali utilizzati e non da attribuire a fattori
esogeni. In particolare, e con particolare riferimento al South Kensington, si
discusse dei danni prodotti dagli impianti di riscaldamento e di quelli di
illuminazione. A partire dal 1859, ad esempio, il museo cominciò a effettuare
tre aperture serali, il che comportò anche l’installazione di un sistema di
illuminazione a gas prodotto, naturalmente, dal carbone. La circostanza suscitò
un ampio dibattito, che a dire il vero non si limitò ai meri aspetti tecnici,
ma, più in generale, riguardò il decoro del museo e il tipo di pubblico così
indotto a entrarvi (la National Gallery – stando ai critici - era divenuta in
situazioni analoghe punto di riparo dal freddo per gli indigenti e luogo in cui
le mamme portavano a giocare i loro bambini). Mi pare particolarmente
interessante come, a fronte di accuse diffuse, ma generiche, Reynolds,
d’accordo con Eastlake, abbia fatto ricorso alla tecnologia più moderna per
cercare di misurare i presunti danni prodotti dal gas: le crepe dei quadri
furono infatti fotografate una a una a intervalli regolari per tre anni di
seguito, rivelando, alla fine, che le cattive condizioni di conservazione delle
opere non erano dovute a fattori esogeni.
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Joshua Reynolds, Lord Heathfield di Gibilterra, 1787, Londra, National Gallery Fonte: https://www.nationalgallery.org.uk/paintings/sir-joshua-reynolds-lord-heathfield-of-gibraltar |
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Richard Redgrave, Gulliver a Brobdingnag, 1835, Londra, Victoria and Albert Museum Fonte: Wikimedia Commons |
Si è detto delle convinzioni di
Redgrave in merito al megilp. Vorrei qui brevemente ricordare le convinzioni manifestate
sulla stampa dall’artista e critico d’arte John Eagles (e condivise, ad
esempio, da Mrs. Merrifield) sin dal 1839. In quell’anno uscì, infatti, la
traduzione inglese di De la Peinture à
l’Huile di J.F. Merimée, col titolo On
Oil Painting. A dimostrazione che l’utilizzo di sostanze bituminose non era
proprio della sola Inghilterra, vi veniva in sostanza sostenuta l’efficacia di
prodotti molto simili a quelli utilizzati da Reynolds. Sia recensendo l’opera,
sia cinque anni più tardi, commentando la traduzione inglese di Cennino Cennini operata da Mary Philadelphia Merrifield, Eagles ebbe a scagliarsi contro
l’utilizzo del megilp, indicandolo come principale responsabile della sciagurata
situazione in cui si trovavano i quadri inglesi dipinti nel Settecento e
sostenendo, invece, la necessità di recuperare i procedimenti degli antichi
maestri.
Sally Woodcock
Alteration, restoration and why pictures foam: what conservators can learn from a Victorian artists’ colourman
Alteration, restoration and why pictures foam: what conservators can learn from a Victorian artists’ colourman
Il saggio di Sally Woodcock si
basa sull’esame dell’archivio della ditta di Charles Roberson: Roberson aprì
nel 1820 la sua attività di produzione e rivendita di colori divenendo ben
presto uno dei più famosi operatori del settore. Il suo archivio si è
conservato quasi completamente con riferimento al periodo che va dal 1820 al
1939 e oggi è depositato all’Hamilton Kerr
Institute del Fitzwilliam Museum. La prima cosa che si nota, ad un’analisi
quantitativa, è l’esplosione del numero dei clienti che tengono un conto aperto
presso Roberson (si veda p. 2) ; naturalmente si può presumere che la
numerosità dei clienti sia dovuta al buon andamento dell’attività imprenditoriale,
ma è fuori di dubbio che la quantità dei praticanti l’arte a vario titolo (dai
professionisti ai dilettanti) sia aumentata costantemente nei cinquant’anni
centrali del XIX secolo. L’analisi dell’autrice, tuttavia, riguarda più che
altro gli aspetti qualitativi e punta a mettere in luce la varietà delle
casistiche praticate all’epoca, così come risulta dagli ordini dei libri
contabili di Roberson. Ne consegue che i restauratori contemporanei devono
essere particolarmente accorti quando si accostano ad opere dell’epoca. Sono
frequenti ad esempio le situazioni in cui le opere non sono eseguite su tele
standard, ma multistrato, spesso realizzate ad hoc; dai mastri di Roberson
appare particolarmente comune (molto più di quanto la letteratura tecnica
ritenga oggi) il caso di tele su cui è applicata della carta. Sono testimoniati
inoltre frequenti interventi per ridimensionare i supporti tramite l’aggiunta
di strisce di tela cucite in un secondo momento, quando l’artista si rende
conto, evidentemente, che le dimensioni pianificate non sono sufficienti. Si
segnala, insomma, una serie di interventi ‘tailormade’ che in realtà integrano
a tutti gli effetti l’opera nella sua originalità (spesso tali interventi
possono essere giustificati anche da lunghi intervalli di tempo trascorsi nella
lavorazione dei quadri) e che il restauratore deve essere bravo a riconoscere
come tali, e non come interventi di restauro successivi. L’aspetto senza dubbio
più problematico è legato alla necessità di riconoscere il medium utilizzato
nella lavorazione dell’opera. La produzione industriale di colori e veicoli
porta ben presto a un proliferare di centinaia di tipi di prodotti, realizzati
da soggetti fra loro concorrenti, e spesso fra loro distinti solo dall’utilizzo
di un nome diverso. Abbiamo visto qualcosa di simile con riferimento alla
pittura a tempera a cavallo fra Otto e Novecento in Painting
in Tempera, c. 1900. La pittura a olio non fa eccezione. Di alcuni di
questi medium sappiamo molte cose (il Roberson’s medium, ad esempio, era
estremamente comune), ma nomi come ‘Eliza Turk’s Florentine medium’, ‘Miller’s
silica medium’, ‘Pyne’s Mc Guilp’, ‘Edouard mixtion’ e ‘Van Eyck’s glass medium’
corrispondono a prodotti che divennero largamente obsoleti già entro la fine
del XIX secolo e di cui noi non conosciamo bene le caratteristiche, rischiando
quindi di non riconoscerne l’utilizzo originario e di porre in essere
interventi conservativi non corretti. Fra i tanti l’autrice si sofferma in
particolare sul Marble Medium di Edmund Thomas Parris e sullo Spirit Fresco di
Thomas Gambier Parry. Naturalmente gli strumenti per promuovere l’utilizzo di
nuovi prodotti – mi permetto di aggiungere, rispetto a quanto scritto da
Woodcock – potevano essere i più disparati: dalla presenza di artisti famosi
utilizzati come testimonial alla pubblicità sulle riviste specializzate. Mi
pare che meriti di essere segnalata anche un’editoria specializzata a carico degli
stessi commercianti di colori, che stampavano pubblicazioni a prezzi popolari e
in grosse tirature, spesso a firma di operatori famosi in ambienti artistici;
tali pubblicazioni erano veri e propri manuali rivolti al dilettante in cui
però le ultime trenta pagine circa contenevano il catalogo completo del
rivenditore/editore. Mi limiterò a far qui il caso delle Practical
Directions for Portrait Painting in Water-Colours di Mary Philadelphia
Merrifield stampate da Winsor e Newton nel 1851 (Merrifield all’epoca era
già assurta a fama internazionale) in cui la seconda parte dell’opera, con
numerazione a parte, contiene un’Illustrated
List of Colours and Materials, for Drawing and Water-Colour Painting,
Manufactured and Sold by Winsor and Newton, 38 Rathbone Place, London. Il
nome della Merrifield doveva essere garanzia di ampia distribuzione dell’opera,
specie presso un pubblico femminile, tradizionalmente assai coinvolto nella
tecnica dell’acquarello. Storici delle tecniche artistiche e venditori di
colori appaiono quindi legati da vincoli assai più stretti di quanto, a prima
vista, si potrebbe ritenere.
NOTE
[1] Si veda S. Avery-Quash, J.
Sheldon, Art for the Nation. The Eastlakes and the Victorian Art World, Londra,
The National Gallery, 2011, in particolare pp. 46-47
[2] Si veda G. Mazzaferro, La
donna che amava i colori. Mary Philadelphia Merrifield. Lettere dall’Italia
(1845-1846), Milano, Officina Libraria, 2018, p. 176 e nota 9.
[3] Si veda G. Mazzaferro, Le Belle Arti a Venezia nei manoscritti di Pietro e Giovanni Edwards, Firenze, goWare,
2015.
[4] Si veda S. S. Avery-Quash, J.
Sheldon, Art for the Nation cit. p. 150.
[5] Si veda G. Mazzaferro, La
donna che amava i colori. Mary Philadelphia Merrifield cit., p. 69.
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