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lunedì 28 maggio 2018

Arno Breker. Paris, Hitler et moi. Parte Prima


English Version

Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 17

Arno Breker
Paris, Hitler et moi
Traduzione dal tedesco in francese di Jean-Pierre Tafforeau


Parigi, Presses de la cité, 1970, 300 pagine

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima

[Versione originale: maggio-giugno 2018 - Nuova versione: Aprile 2019]

Fig. 1) La copertina delle memorie di Arno Breker's nell'edizione francese del 1970

Il nome di Arno Breker (1900–1991), in Italia, è probabilmente sconosciuto ai più. Le sue memorie, pubblicate in due versioni diverse (prima in francese nel 1970 col titolo Paris, Hitler et moi [1] e poi in tedesco nel 1972 con quello di Im Strahlungsfeld der Ereignisse - Leben und Wirken eines Künstlers. Porträts, Begegnungen, Schicksale, ovvero ‘In balia degli eventi - Vita ed opera di un artista. Ritratti, incontri, destini’) [2], ci offrono l’occasione di esaminare l’autobiografia di un artista il cui percorso personale è legato a filo doppio al nazismo, ma anche di segnalare particolari dinamiche della letteratura artistica tedesca nel XX secolo, effettivamente condizionata da eventi storici di rara tragicità. Basti pensare ai repentini mutamenti nelle condizioni di vita della maggior parte degli artisti tedeschi: Breker fu, ancor relativamente giovane, scultore osannato dai nazisti, e mentre tutto ciò capitava, molti altri artisti tedeschi erano in esilio, in campo di concentramento o condannati all’inazione, per la proibizione loro imposta di dipingere. Come vedremo nella seconda parte di questo post, Breker, invece, fu nominato professore, ricevette in regalo un castello e poté godere di un atelier di stato in cui lavoravano circa quaranta persone (compresi prigionieri di guerra e condannati ai lavori forzati) per poter realizzare le sue opere anche durante il conflitto. Poi le situazioni si sono ribaltate: Breker, rilasciando un’intervista allo Spiegel in occasione della pubblicazione delle sue memorie in francese, nel 1970, sostenne di considerarsi ormai un “lebender Leichnam” [3], ovvero un vero e proprio zombie, dichiarandosi vittima di pregiudizi e di un’ingiusta condanna storica. La pubblicazione delle memorie fu parte di un tentativo mai riuscito di riabilitazione. Nella versione tedesca compare come vedremo una prefazione (assente in quella francese), che spiega che il testo è stato redatto (in tedesco) già nei primi anni ‘60.


Punti di forza e debolezza dell’opera

È d’uso nella critica letteraria distinguere le opere scritte dagli autori per raccontare la propria vita nei due generi dei ‘ricordi’ e dell’autobiografia. Nel primo caso si tratta di scritti che intendono offrire impressioni su determinate fasi della vita, o su aspetti specifici, e che per molti aspetti appartengono più al genere della documentazione storica che alla letteratura. Si parla invece di autobiografie quando gli scritti riescono a offrire un’immagine letteraria compiuta di un personaggio, narrandoci la sua vita come se si trattasse della storia del protagonista di un romanzo. Le autobiografie sono considerate superiori ai ricordi.

Che dire di Paris, Hitler et moi? Appartiene al genere dei ricordi. Ci offre una documentazione al tempo stesso utile e controversa del rapporto dello scultore tedesco con il suo tempo, ma ha sicuramente tre limiti. In primo luogo la struttura narrativa è discontinua: a episodi importanti della vita artistica dello scultore seguono improvvisamente ampie digressioni su personaggi che ebbe modo di conoscere. In seconda istanza, la sequenza cronologica non è sempre rispettata e a volte si rimane spiazzati nel cercare di seguire il corso degli eventi. Infine, vi è una quantità impressionante di imprecisioni, che è facile scoprire anche per un lettore come chi scrive, non appena si inizi a incrociare il testo con la documentazione disponibile su internet. Non si tratta sicuramente di imprecisioni dovute all’età: in un saggio per il catalogo della già citata mostra di Schwerin del 2006, lo storico Bernd Kasten (1964-) scrive che, paradossalmente, sono proprio i vuoti e gli errori nelle memorie – scritte per scagionare la propria persona dalla compromissione col nazismo – a essere l’indizio più evidente della sua vicinanza al regime [4]. 


Il ruolo dell'artista nella storia tedesca

La prima cosa da evitare è pensare che il ruolo di Breker nell’ambito del regime nazista sia ‘semplicemente’ stato quello della comparsa. Negli anni del massimo potere di Hitler, quando la Germania nazista sembra dare una spallata all’intero mondo libero e conquistare l’egemonia assoluta, le opere di Breker sono simboli della propaganda di regime. Si pensi alle due statue Il Partito e la Wehrmacht, collocate nel 1939 a sinistra e a destra dell’ingresso sul cortile interno della “Nuova Cancelleria” progettata da Albert Speer. Si pensi, sempre nel 1939, anche all’iconografia bellicosa della grande statua “Bereitschaft” (la Prestanza, ma anche la Prontezza) in cui temi michelangioleschi vengono chiaramente utilizzati per sottolineare la volontà di guerra: è pensata originariamente per essere posta alla sommità del monumento di 45 metri che doveva onorare Mussolini al centro di Piazza Adolf Hitler a Berlino. Dunque, la classicità del monumento, e più specificamente la sua “italianità”, spesso identificata come conseguenza della permanenza dello scultore a Roma nel 1932, non era affatto casuale, ma del tutto coerente a un disegno politico-monumentale concordato con Speer.

Per comprendere subito la complessità dei problemi che le memorie pongono, basta pensare che al loro inizio è collocata una citazione di Adolf Hitler, tratta dalle memorie di Gerhard Engel (1906-1976), uno dei suoi luogotenenti. Si legge: “In politica tutti gli artisti sono ingenui come Parsifal” [5]. Breker racconta che proprio citando questa frase il dittatore tedesco avrebbe tolto d’impaccio il più famoso dei pittori nazisti, ovvero Adolf Ziegler (1892-1959), che rischiava la fucilazione [6]. Ziegler era stato colto in flagrante dalla Gestapo, mentre contrabbandava opere d'arte tra Francia e Spagna nel 1943. Hitler intervenne di persona perché venisse scarcerato senza alcuna conseguenza. Stando alle memorie, Breker avrebbe utilizzato la stessa identica frase, intervenendo di persona, più o meno contemporaneamente, presso il capo della Gestapo in persona, Heinrich Müller (1900-1945) per evitare l’arresto di Picasso, dichiaratamente comunista, che non aveva abbandonato Parigi durante gli anni dell’occupazione. È evidente che, ponendo quella frase all’inizio delle memorie, Breker fornisce un'interpretazione della storia che può sembrare pura provocazione, ma che, contemporaneamente, è anche il simbolo di tutte le contraddizioni dell’artista. L'uomo, a suo dire, avrebbe salvato il maggiore degli artisti contemporanei nonché l’autore, con Guernica (1937) del più famoso manifesto pittorico antinazista. Nella sua trattativa con la Gestapo avrebbe citato una frase di Adolf Hitler, che distrusse, di suo, ogni idea di imparzialità dell’arte e negò ogni valore a quella praticata dagli oppositori politici. Nel 1970, secondo lo scultore tedesco, Hitler diventa improvvisamente testimone dell’idea della ‘neutralità dell’artista’ [7].
  

Le diverse edizioni delle memorie

Si diceva che il testo di Breker esiste in due versioni che riflettono, per certi versi, il destino della vita dello scultore. Breker è un tedesco che, di fatto, ha due patrie: la Germania e la Francia. Le memorie francesi escono nel 1970 per i tipi di Presses de la Cité, importante casa editrice parigina attiva ancor oggi, col titolo Paris, Hitler et moi. Il libro è strutturato in due parti. La prima (di circa duecento pagine) ricorda gli anni del nazismo, dal 1936 alla fine della guerra, ed è scandita in quattro  capitoli intitolati “Scultore di Hitler”, “La Germania del Terzo Reich”, “La Guerra e l’occupazione” e “La disfatta”. La seconda parte, di un centinaio di pagine, è dedicata a “I miei amici scrittori e artisti di Francia”.  Il testo si sviluppa dunque attorno a due temi: la testimonianza di un artista vicino al nazismo e il rapporto con la Francia. Va detto che, nel 1960, lo scultore, evitato dai più come un paria in Germania, apre un atelier a Parigi e si ricrea lì una vita sociale con gli amici degli anni Trenta e Quaranta.

Nel panorama editoriale francese, Presses de la Cité - fondata nel 1944 dal danese Sven Nielsen (1901-1976) [8] – è, in quegli anni, una delle grandi case editrici nazionali  (la seconda, dopo Gallimard). Paris, Hitler et moi esce nella collana Coup d'œil (Colpo d’occhio), che ospita numerosi saggi, biografie e autobiografie di natura storica. Fra i volumi della collana vi sono, ad esempio, i ricordi di Laure Moulin sul fratello Jean (il più noto eroe della resistenza francese), ma anche numerose memorie di gerarchi nazisti o collaborazionisti francesi. È dunque chiaro che il volume è pubblicato in Francia come testimonianza di avvenimenti politici, prima ancora che come testo di memorie d’artista. Si tratta di soddisfare la curiosità dei lettori francesi sul nazismo (viene da pensare, nel caso italiano, alle numerose interviste a gerarchi nazisti che Enzo Biagi pubblica tra anni ’60 e ‘70, alla ricerca dell’anima nera della Germania di venti o trenta anni prima).

La copertina dell’edizione francese, peraltro, presenta un’immagine di grande valenza simbolica. È tratta da una serie famosissima di foto scattate da Heinrich Hoffmann, fotografo personale di Hitler, il 23 giugno 1940, con la visita trionfale del Führer nella capitale francese. Alcuni di questi scatti immortalano Hitler con la Torre Eiffel alle sue spalle, accompagnato da Breker, in divisa, sulla sinistra e da Albert Speer, anch’egli in divisa, sulla destra. Breker (che conosce Parigi come le sue tasche) può fare da guida a Hitler, ma la presenza dei due è una sorta di ‘investitura’ per l’arte del regime: si tratta di costruire Berlino in una forma molto più monumentale di Parigi  (si pensa addirittura di cambiare il nome alla città, di etimologia slava, in Germania) come ‘la capitale del mondo’ (Hitler, ad esempio, diede a Speer l’ordine di costruire a Berlino un arco di trionfo che fosse grande almeno il doppio di quello posto al termine degli Champs-Élysées). La descrizione della brevissima visita (furono solo tre le ore che Hitler trascorse a Parigi) occupa una parte importante della seconda parte di questo post, perché rivela i gusti estetici del dittatore tedesco in architettura. 

Due anni dopo la versione francese, esce l’edizione tedesca del libro. Siamo nel 1972, e l’editore è Waldemar Schütz (1913-1999) un nazista della prima ora, ex membro delle SS e, nel dopoguerra, stampatore di propaganda neonazista; a differenza di quella francese, (curata da un editore ben noto che non appartiene all’ambiente di estrema destra) la versione tedesca è invece segnata da un evidente odore di revisionismo o persino giustificazionismo. La versione tedesca ha avuto meno fortuna di quella francese, forse perché pubblicata da un editore screditato all’occhio dell’opinione pubblica e giustificata, nell’introduzione, da una volontà di rivalsa nei confronti della cultura tedesca del dopoguerra.

La struttura delle memorie tedesche si presenta, peraltro, in maniera assai differente da quelle francesi: l’attenzione – come logico - non è più rivolta solo a Parigi (che comunque rimane centrale), ma piuttosto all’impatto degli eventi storici sulla vita dell’artista (non a caso, nel titolo, compare il termine “Strahlungsfeld”, che si traduce “campo magnetico”, e che indica come l’autore sia in balia degli avvenimenti politici).  La prefazione (assente nel testo francese) chiarisce che il testo è stato scritto durante una convalescenza in una clinica di Francoforte nei primi anni Sessanta, quando l’autore, per la prima volta nella sua vita, si trova a pensare seriamente alla prospettiva della sua morte.

A spingere l'artista a scrivere furono dunque ragioni personali: dopo la nascita dal secondo matrimonio dei figli dell’artista, a cui il volume è dedicato, il padre vuol offrire loro un’immagine diversa da quella fornita dalla stampa. Ma non mancano ulteriori motivazioni: Breker spiega che le memorie sono scritte in omaggio ai suoi amici francesi. Il tema centrale del suo testo – chiarisce l’autore nell’Introduzione - è quello di spiegare le ragioni culturali della collaborazione francese con i nazisti [9]. Breker crede che la sua testimonianza personale possa spiegare perché “la recezione favorevole degli intellettuali francesi per la cultura tedesca sia così enormemente cresciuta durante l’epoca hitleriana” [10]. L’introduzione continua affermando che la grandissima maggioranza dei tedeschi non sapeva nulla dei campi di concentramento [11] e che il numero dei responsabili era molto ridotto [12]. Breker si proclama dunque del tutto ignaro in proposito. Sono tesi oggi ampiamente contestate, in generale, dalla storiografia, che ha invece provato con lo storico Daniel Goldhagen [13] come l’apparato repressivo sia stato direttamente sostenuto da una parte molto consistente della popolazione. Difficile capire quale sia la verità nel caso particolare di Breker. Secondo i suoi difensori, avrebbe avuto un infarto nel 1945 proprio in seguito alla scoperta dei campi di concentramento, ma nel suo libro non si legge nulla in proposito. Le  memorie testimoniano invece la sua frequentazione di persone come Martin Bormann (1900-1945) che pianificarono direttamente la shoah. Come vedremo inoltre nella seconda parte di questo post, Breker fu tutt’altro che ignaro di ciò che voleva dire finire sotto le grinfie della Gestapo: oltre a Picasso, salvò uomini di cultura (Peter Suhrkamp in Germania, Claude Flammarion in Francia) e anche ebrei. Non poteva dunque essere completamente ignaro di quel che succedeva in quegli anni.


La figura di Breker oltre le memorie

Come vedremo a conclusione di questa recensione, la figura di Arno Breker – anche al di là delle memorie – ha continuato ad alimentare polemiche. La sua opera come scultore è stata omaggiata, ad esempio, nella Spagna franchista (Salvator Dalí era uso dire che “Dio è bellezza e Arno Breker il suo profeta”) [14] e ha certamente goduto di simpatie negli ambienti più reazionari della cultura francese del dopoguerra; in Germania occidentale si è creato negli anni Ottanta un gruppo di cultori della sua persona – attorno alla famiglia Bodenstein – che ha cercato di ‘pulirne’ l’immagine – creando una fondazione, un museo e una casa editrice per onorarne la memoria dopo la scomparsa nel 1978. Credo che sia interessante che gli ammiratori di Breker non abbiano mai cercato di ripubblicarne le memorie (né nella versione francese né in quella tedesca), perché non sarebbero certo servite all’obiettivo di riciclarne l’immagine in un mondo democratico. Si sono invece premurati di curare una raccolta di scritti, in tedesco [15] e in inglese [16]. Qualche anno dopo la riunificazione fra le due Germanie, si è poi tenuta nell'ex-DDR,a Schwerin (città che nulla ha a che fare con la biografia dell’artista) la prima retrospettiva dedicata all'artista. Ne è sorta un’enorme polemica sulla percezione di un crescente orientamento neoconservatore della cultura ufficiale dell’ex DDR. Anche in risposta alla mostra di Schwerin, lo storico Jürgen Trimborn ha pubblicato nel 2011 la prima biografia sullo scultore, di fatto smontando le sue memorie e rivelandone le ambiguità e inesattezze.  Nulla so invece delle ragioni che hanno spinto nel 2011 a pubblicare una traduzione giapponese del testo francese delle memorie da parte di Yōichi Takahashi [17].



Breker prima del Nazismo

Quasi nulla si legge purtroppo (sia nelle memorie francesi sia in quelle tedesche) sulla collocazione artistica di Breker nei primi anni della Repubblica di Weimar, che lo vede attivo a Düsseldorf. Chiaramente influenzato dalla scultura francese, Breker sembra già offrire soluzioni intermedie (si veda l’Aurora posta sul tetto del Museum Kunstpalast di Düsseldorf nel 1926) tra l’espressionismo renano (si pensi a Wilhelm Lehmbruck, 1881–1919) e la statuaria di Aristide Maillol, artista francese che viene sempre più celebrato in quegli anni anche nella Germania renana.  Nel 1927 lo scultore si trasferisce a Parigi (vi aveva già studiato nel 1925) dove vive continuativamente  fino al novembre 1933, tranne una permanenza italiana grazie a una borsa di studio alla Villa Massimo di Roma tra 1932 e 1933.

Le memorie tedesche iniziano con quattro medaglioni dedicati a “incontri fortunati” con personalità della Repubblica di Weimar: l’industriale Berthold Nothmann (1865-1942), morto in esilio in Gran Bretagna, il pittore Max Liebermann (1847 –1935), il Presidente della Repubblica socialdemocratico Friedrich Ebert (1871-1925) e l’industriale Abraham Frowein (1878-1957).

Tutti e quattro furono ritratti da Breker tra 1924 e 1935. L’intenzione è chiara: collocare l’esperienza artistica al di fuori del solo quadro nazista, legandola, al contrario, a personalità eminenti della vita democratica tedesca durante la repubblica di Weimar. Segue un lungo capitolo sulla vita a Parigi nel 1927-1934 e sulla parentesi romana del 1932. Solo a questo punto, a partire dal ritorno a Berlino nel 1934, inizia il contenuto presente anche nell’edizione francese. 


Il rientro in Germania e il rapporto con Max Liebermann

Nelle prime pagine delle memorie francesi Breker scrive di essere rientrato in Germania nel 1934, “dopo molti anni passati in Francia, anni felici e di grande formazione, e un lungo soggiorno in Italia” [18]. Va subito notato che secondo Trimborn l’affermazione è inesatta: il rientro avviene nel novembre 1933. Qualunque sia la data precisa, i ricordi francesi iniziano con l’affermazione che lo scultore torna in Germania su invito degli “amici [Max] Liebermann e [Wilhelm] Hausenstein” [19]. Più precisamente, secondo quanto scrive Breker in un breve appunto sulla permanenza a Roma, pubblicato anni dopo, l’invito gli giunge a Roma tramite Grete Ring (1887-1952), nipote di Liebermann. L’idea del pittore, decano degli artisti tedeschi e a lungo presidente dell’Accademia delle Belle Arti di Berlino, sarebbe quella di creare una massa critica di intellettuali per resistere alla pressione nazista e “salvare il salvabile” [20]. Max Liebermann (1847–1935) è ebreo, e non può certo avere alcuna indulgenza nei confronti dei nazisti. Quanto a Wilhelm Hausenstein (1882-1957), lo abbiamo già incontrato in questo blog come uno dei critici più importanti a sostegno dell’arte di Paul Klee. Di lui Breker si lamenta per essere stato uno dei tanti che, dopo la seconda guerra mondiale, rinnegarono l’amicizia di un tempo [21].

La versione tedesca delle memorie contiene la descrizione di un incontro molto caloroso con Libermann avvenuto nel febbraio 1934.  L’anziano pittore (ha 87 anni) è molto angustiato dalla presa del potere di nazisti nella sua Berlino e cerca conforto nella comune passione per l’arte francese. I due conversano sui comuni conoscenti parigini [22] - soprattutto Aristide Maillol (1861-1944), ma anche André Derain (1880-1954), Maurice de Vlaminck (1876 –1958) e André Dunoyer de Segonzac (1884 –1974) [23]. Nel corso della conversazione Liebermann chiede a Breker di scolpire un busto col suo ritratto da Breker. Nel corso delle sessioni di posa i due - stando alle memorie - si scambiano idee su altri artisti francesi, come Pierre Bonnard (1867-1947) [24] ed Édouard Manet (1832-1883), ma anche sull’impressionista tedesco Lovis Corinth (1858–1925) [25].

Un giorno i due incrociano sotto la Porta di Brandeburgo (Liebermann abita nelle immediate prossimità, nella Pariser Platz) un plotone di camice brune delle SA, a passo di marcia: “Liebermann aspettò che fosse passato l’ultimo membro del plotone, poi continuammo in direzione opposta. Sembrava raccolto nei suoi pensieri. Improvvisamente si fermò, indicò con il bastone le SA che stavano andandosene e disse: «Breker, lei dovrebbe entrare nelle SA, guadagnare influsso e fermarli, spero prima che tutto finisca in un incendio.» In silenzio continuammo a camminare verso casa sua, ognuno occupato nei suoi pensieri. Poi si fermò e concluse le sue riflessioni: «Vede, rimane valido quel che le ho già detto: non posso mangiare abbastanza da vomitare tutto quel che vorrei»[26].

Jürgen Trimborn, nella sua biografia, dubita fortemente che Liebermann abbia seriamente potuto consigliare a Breker, nel febbraio 1934, di diventare nazista per poter influenzare il regime dall’interno e ammorbidirlo sulle questioni estetiche, anche se non può escludere che in realtà si  trattasse di una semplice battuta di un uomo molto anziano. Breker, peraltro, fa riferimento al suo rapporto con Liebermann come se, fra i due, esistesse un’amicizia consolidata negli anni. Trimborn, invece, ritiene che si siano incontrati non prima del novembre 1933 grazie ad alcune conoscenze comuni [27]. Purtroppo la voluminosa pubblicazione del carteggio di Liebermann è giunta al settimo volume (1922-1926) e non ci può ancora aiutare a comprendere se vi fossero legami epistolari precedenti il novembre 1933. Certamente, il rapporto tra l’anziano pittore e il più giovane scultore deve essere stato intenso. Infatti, quando Liebermann muore nel 1935, la moglie Martha lo incarica di modellare la sua maschera mortuaria. Trimborn osserva che Breker non assistette però al funerale di Liebermann a cui – per paura di rappresaglie naziste – parteciparono solamente settanta conoscenti e appena tre artisti [28].


Berlino 1934-1935

Rientrando in Germania, sia che fosse a novembre 1933 o nella prima parte del 1934, Breker si aspetta di ricevere una consacrazione definitiva, accompagnata da commissioni pubbliche necessarie “per uno scultore monumentale che deve partecipare nella decorazione dell’architettura, compresa l’erezione di monumenti” [29]. Eppure scrive che il successo tarda a venire: “Certo, ero stato ben accolto nei circoli artistici di Berlino, avevo ricevuto ed eseguito commissioni di busti, ma il fossato che divideva allora il mondo delle arti dal grande pubblico tedesco e dagli ambienti di governo, nel mio caso, non si era colmato e i pronostici favorevoli dei miei amici si stavano rivelando una pia illusione. Inoltre, quando la stampa non m’ignorava, mi attaccava per ragioni che ancora oggi non riesco a comprendere” [30]. Le prime esperienze, dunque, non furono facili.

Lo scultore attribuisce le sue difficoltà iniziali al fatto di essere un tedesco proveniente dalle regioni renane (estraneo, in qualche modo, alla mentalità prussiana di Berlino) e con molti anni di Francia alle spalle. Non si può escludere, tuttavia, che – nelle sue memorie – Breker abbia voluto accentuare le prime difficoltà del suo reinserimento soprattutto per giustificare il successivo avvicinamento (e poi l’adesione incondizionata) al regime nazista. Certamente, non rimase senza commissioni. È, ad esempio del 1935, un Prometeo, chiaramente ispirato a Rodin nell’impianto. E tuttavia in Paris, Hitler et moi Breker scrive addirittura di essere stato così deluso da Berlino in un primo tempo, da essere tentato di tornare in Francia (se non lo fa è soprattutto perché il Fronte popolare, ovvero il nuovo governo di sinistra appena eletto nel 1936, obbliga ogni straniero a dimostrare di poter contare su un reddito certo per concedere il permesso di soggiorno nel paese [31]). Le ricerche condotte da Trimborn, in realtà, non lo dipingono come un uomo isolato; semplicemente, ancora nel 1936, l’artista frequenta ambienti che nulla hanno a che fare con il nazionalsocialismo ed è dunque isolato rispetto al potere. Del resto Breker non è tra i firmatari del manifesto promosso da Goebbels nell’agosto 1934 per chiamare i tedeschi a confermare con un referendum l’attribuzione dei pieni poteri a Hitler.  Dunque, almeno in quell’anno, non sembra ancora essere parte della cerchia di uomini di cultura che si stringono attorno al nuovo regime.

Il tema della distanza tra arte e popolo e di come assicurare che l’arte ‘arrivi alla gente’ è una delle questioni su cui più si discute sia in Francia sia in Germania tra le due guerre mondiali. La risposta è spesso il “ritorno all’ordine’ (un fenomeno comune a Francia, Germania e Italia) e il recupero della classicità dopo gli anni ‘sregolati’ delle avanguardie. Quando abbiamo recensito in questo blog le antologie pubblicate dal tedesco Paul Westheim e dal francese Florent Fels nel 1925, abbiamo visto l’impostazione chiaramente figurativa di entrambi i critici e il loro desiderio di accomunare l’arte moderna a un gesto legato al modo classico. Evidentemente anche Breker, appena tornato a Berlino, si pone il problema del superamento della propria statuaria espressionista partendo dalle soluzioni che ha sperimentato a Parigi. Nella sua idea di classicismo egli non è infatti attratto da Max Klinger (1857-1920), ovvero il rappresentante ‘ufficiale’ della statuaria classicista nell’arte moderna tedesca, che considera artista troppo colto e intellettuale, ma assume come punto di riferimento Maillol [32]. Nella capitale francese Breker è del resto arrivato seguendo le tracce del naturalismo di Auguste Rodin (1840-1917), ma è sempre più stato influenzato in quegli anni dalla plastica classicista di Charles Despiau (1874–1946) e, appunto, di Aristide Maillol. A questa tendenza classicista della statuaria di quegli anni si accomuna una spinta al gigantismo (un altro modo di far sì che l’arte divenga più fruibile al pubblico). Al di fuori dell’ambiente francese, Breker può trovare ispirazione anche nell’opera di Adolf von Hildebrand (1847-1921), nella teoria della forma di Konrad Fiedler (1841-1895) e nella statuaria fascista di quegli anni.


Berlino 1936

Le memorie dedicano molte pagine al clima d’entusiasmo che precede le Olimpiadi berlinesi del 1936. È in queste circostanze che, dopo mesi di delusioni, Breker dice di essere stato particolarmente (e piacevolmente) sorpreso per essersi aggiudicato una commissione di stato per due bronzi monumentali di atleti (di oltre tre metri) da realizzare per la Scuola Superiore di Ginnastica di Berlino. Gli artisti possono formulare proposte sul tema e Breker sceglie il Decatleta e la Vittoria. In termini stilistici (le memorie non lo dicono) si tratta di due opere molto diverse fra loro: la prima è pensata secondo un’iconografia arcaica, che ricorda l’impianto frontale della statuaria antica e appare ispirata da Despiau; la seconda ricorda invece le sculture-volume di Maillol di quegli anni. Lo scultore scrive anche di essersi servito come modelli di atleti viventi: un decatleta “splendido e con il corpo più proporzionato che io abbia mai incontrato” [33] e di una lanciatrice di giavellotto “il cui corpo meravigliosamente allenato sopportava il paragone con le statue greche delle grandi epoche” [34]. Dal giorno dell’aggiudicazione dell’incarico [35] – scrive lo scultore – Breker diventa ormai ben accetto negli ambienti d’arte della capitale.


La descrizione dell’inaugurazione dei giochi olimpici tradisce un tono enfatico. Scrive Breker: “l’apogeo di questa magnifica cerimonia fu forse l’ingresso della squadra francese, dietro il tricolore. I francesi entrarono nell’arena facendo il saluto hitleriano. Questo gesto fece saltare di gioia la gente dagli spalti. Ne risultò un clamore incontrollato, ripetuto in eco successive. Il gesto era stato spontaneo e aveva sorpreso tutti. La squadra francese fu toccata e profondamente commossa dall’accoglienza entusiasta che le fu riservata. Ci si abbracciava nelle tribune, si piangeva di gioia. È davvero in quel momento che si tracciò una croce sulle due tragedie che opposero il popolo francese e quello tedesco nel loro scontro guerriero” [36]. Devo confessare che queste frasi mi hanno fatto sobbalzare sulla sedia: invece che sulla base della ricostruzione pacifica del dopoguerra nell’Europa democratica, la riappacificazione franco-tedesca dopo la guerra franco-prussiana del 1871 e la prima guerra mondiale ha dunque origine, secondo Breker, in uno dei momenti tradizionalmente ancora considerati in Francia con maggior senso di vergogna collettiva: la decisione spontanea della squadra francese di entrare nello stadio con la mano tesa per rendere omaggio a Hitler.

Mi sono addirittura chiesto se non vi potesse essere stato un errore compiuto dal traduttore francese Jean-Pierre Tafforeau (che certamente utilizza, di per sé, uno stile enfatico), ma il testo tedesco del 1972 conferma la circostanza, sia pur con alcune sfumature: “Certamente qualcuno avrebbe potuto credere che qui si potesse, in conclusione, porre la parola fine, così caldamente attesa, alle tragedie dei conflitti militari tra entrambi i popoli” [37]. La realtà è che – per il pittore tedesco vissuto a lungo in Francia – gli anni precedenti sono stati difficili: Breker racconta delle manifestazioni di odio popolare nei confronti della Germania alla notizia diffusa nei cinegiornali francesi della nomina di Paul von Hindenburg (1847-1934), ex capo di stato maggiore dell’esercito,  a presidente della Repubblica di Weimar nel 1925 (l’artista stava studiando a Parigi) e di come abbia dovuto a volte tenere nascosta la sua nazionalità per paura di essere linciato [38].

Breker e l'“arte degenerata”

Ma è soprattutto quando nel diario si arriva a parlare di “arte degenerata” che Breker conferma le sue contraddizioni. Breker scrive di non essere stato per nulla d’accordo con la politica nazista nei confronti dell’ “arte degenerata”. Per spiegarsi meglio, traccia una breve storia del gusto moderno per l’arte, che in Germania si era andato formando sulla base dell’interesse per l’impressionismo francese, come pure per Cézanne, Gauguin e Van Gogh e per i movimenti d’avanguardia successivi (pointillisme, fauvisme, cubismo) in Francia [39].

Per Breker, insomma, è l’influsso dell’arte francese nel suo complesso, dal primissimo novecento, a essersi rivelato benefico per la Germania, e la veloce conversione del pubblico tedesco dal gusto accademico ottocentesco a quello moderno e contemporaneo non è il risultato di un complotto internazionale e di logiche speculative in mano al mondo ebraico, come invece scrivevano Hitler e i suoi teorici dell’arte come Paul Schultze-Naumburg. Inoltre lo scultore non mostra nelle memorie nessuna adesione alle tesi razziste anti-ebraiche, e parla di “fanatismo razzista” [40]: sottolinea come le famiglie ebraiche berlinesi fossero tutte profondamente radicate nell’identità prussiana, avessero preferenze politiche conservatrici e fieramente patriottiche. Infine Breker prende le distanze anche dalle correnti minoritarie espressioniste filo-naziste, ovvero da chi (come Emil Nolde o Max Sauerlandt nel 1934) è favorevole a un’arte tedesco-nazionale che rompa le convenzioni stilistiche classiche e si allontani dall’influenza francese, ritenendo l’espressionismo tedesco compatibile con il nazismo.

Breker è insomma convinto che la buona arte possa essere solamente d’ispirazione francese: ciò che fa la differenza non è in realtà se gli artisti appartengano a classicismo o all’avanguardia, ma se siano aperti o no al mondo francese.

In questo senso, ad esempio, dichiara di ammirare in particolare Arthur Kampf per aver organizzato la prima mostra su Rodin a Düsseldorf nel 1905 (in realtà si tratta della Grande Esposizione internazionale del 1904) e aver meritato la Légion d’honneur. Dell’architetto Mies van der Rohe (1886-1969) sottolinea come il suo tentativo “di realizzare l’opera architettonica universale” sia ispirato dall’intransigenza creatrice di Cézanne [41]. Insomma, tutto quel che è francese è bene e va difeso. Nelle memorie Breker scrive che gli ambasciatori del nuovo gusto in Germania sono i grandi galleristi (Cassirer a Berlino e Thannhauser a Monaco per gli impressionisti; Flechtheim per fauves e cubisti) e i mecenati privati [42]. Il meglio dell’arte tedesca (cita in merito Liebermann, Corinth, Slevogt, Mar, Macke, Klee) è ispirato dall’arte francese di quei giorni.

Si legge dunque: “Il fauvisme ha prestato al movimento espressionista tedesco, che ha raggiunto il suo apogeo tra le due guerre, un impulso essenziale. L’impiego di colori puri, non attenuati, ha originato una forza esplosiva che offre una visione autentica ed elementare del mondo. Questa tappa era logica, anche se la maggioranza del pubblico ha mostrato qualche reticenza. Il ritmo di queste metamorfosi è stato talmente accelerato, che questa gestazione di forme pittoriche o plastiche non ha potuto essere colta e compresa se non da una minoranza. (…) E tuttavia l’interesse del pubblico tedesco per l’arte è rimasto vivace anche dopo la sconfitta della Prima guerra mondiale. Ma l’inflazione e la bancarotta economica ebbero la conseguenza di bloccare le fonti rigeneratrici dell’arte e di frenarne l’evoluzione. Se una buona dozzina di artisti come Nolde, Beckmann, Schmidt-Rottluf, Heckel, Kirchner sono riusciti ad affermarsi, gli artisti di secondo piano – e soprattutto i giovani che crescevano e rappresentavano sempre un fattore importante nella diffusione dei problemi artistici – morivano di fame e l’arte è divenuta sempre più il privilegio privato di una minoranza sempre più limitata” [43].

Sono pagine – lo ricordo ancora una volta - scritte negli anni Sessanta, col senno di poi: è ovvio sia al pubblico sia a Breker che moltissimi dei critici d’arte, galleristi e artisti citati sono stati vittime del nazismo (si parla esplicitamente [44] della persecuzione cui è sottoposto Ernst Gosebruch (1872 -1953), il maggior conoscitore d’arte contemporanea di quegli anni). Oltre a testimoniare il gusto dell’artista, mirano anche a marcare la sua distanza con la politica di regime. In termini stilistici, sorprende poi la passione con cui Breker appoggia la causa espressionista citando artisti a lui molto distanti e dimenticando invece, lui che fu uno scultore classico, tutte le correnti tra le due guerre ispirate al ‘ritorno all’ordine’ (come la Nuova Oggettività); meraviglia anche l’approssimazione con cui afferma che l’espressionismo aveva incontrato il più alto favore del pubblico (in francese apogée, in tedesco si parla di höchste Wertschätzung [45], ovvero il massimo della stima) soprattutto tra le due guerre, e cioè in una fase in cui in realtà era ormai posto in discussione da altre correnti contemporanee e in parte era considerato ormai esaurito. Sono davvero singolari anche le tesi sull’atteggiamento opportunista degli artisti tedeschi nel momento in cui la Repubblica di Weimar entrò nella sua crisi finale: “Quando il comunismo e il nazionalsocialismo scatenarono la lotta per il potere contro la repubblica di Weimar, la miseria economica, il combattimento quotidiano per la semplice esistenza avrebbero spinto gli artisti nelle braccia di quelli che non solamente garantivano loro ciò di cui vivere, ma lasciavano loro intravedere il riconoscimento ufficiale delle loro opere. Hitler riconobbe assai presto questa situazione e ne tirò benefici considerevoli. E tuttavia, i contorni precisi della sua posizione non potevano essere definiti se non in modo vago negli anni che seguirono la sua presa del potere. Egli sperava che un nuovo confronto dell’arte con la natura avrebbe fatto nascere uno stile che, in seguito, potesse raccogliere il consenso generale di strati sempre più larghi della popolazione” [46].    

Breker: un nazista dissidente?

Breker racconta come la pressione nazista sulle strutture museali inizi immediatamente a esercitarsi spingendo ai margini gli artisti dell’avanguardia tedesca, ma rivendica per sé un ruolo di libertà e tolleranza nei confronti dei colleghi artisti. Lo Stato della Baviera organizza nel 1935 una mostra di artisti berlinesi a Monaco; Goebbels affida la giuria al già menzionato pittore Arthur Kampf  (1864-1950), al suo collega Leo von König (1871-1944) e agli scultori Georges Kolbe (1877-1947) e Arno Breker, assegnando loro il compito di scegliere le opere dei candidati, che vengono da loro inviate all’Accademia Prussiane delle Belle Arti a Berlino. “Nessuno di noi apparteneva a un partito politico. Il ministero della propaganda ci lasciava completa libertà di scelta: solamente la qualità artistica delle opere doveva motivare la nostra scelta” [47].

Alla competizione si presenta anche l’anziana Käthe Kollwitz (1867-1945), notoriamente un’artista di campo socialista. “I miei tre colleghi la conoscevano da anni. Per quel che mi riguarda, era la prima volta che avevo il privilegio di conoscere una persona di tanta discrezione e modestia. Tutta la sua opera aveva simbolizzato la sua accesa battaglia per la crescita sociale delle classi meno favorite. Era divenuta celebre per la sua commovente illustrazione del dramma ‘I tessitori’ di Hauptmann [Nota dell’editore: Gerhart Hauptmann (1862-1946), Premio Nobel per la letteratura nel 1912, ritratto da Breker nel 1942]. Il suo socialismo era una semplice espressione dello slancio più sincero del suo cuore e legittimava la sua arte. L’accordo della giuria nell’apprezzamento dei lavori depositati era stato unanime. Ciascuno di noi era stato formato da un lungo soggiorno a Parigi, da cui discendevano alcune affinità nei nostri giudizi estetici” [48].  Tutto è pronto per l’inaugurazione quando fa irruzione nei locali Adolf Ziegler (1892-1959) a testa di una commissione “composta di membri a noi sconosciuti” [49]. Ziegler è l’artista che, di lì a poco, organizza l’opera sistematica di requisizione dell’arte cosiddetta “degenerata” da tutti i musei pubblici tedeschi; il nuovo censore critica violentemente metà delle opere esposte e il pomeriggio stesso il Presidente della circoscrizione del partito (Gauleiter) Adolf Wagner (1890-1944) si presenta e impone con la forza che le opere siano tolte. “Lasciammo le sale non senza aver protestato nel modo più risoluto. La notizia di quest’affare – il primo di tal genere nella storia ancora giovane del nazismo – si propagò a Monaco come una striscia di polvere da sparo. Nella serata si formò una marcia di protesta di studenti che manifestarono contro quest’intervento scandaloso. Fu la prima e ultima forma di rivolta tollerata dallo Stato” [50].

Il ruolo di Breker come contestatore dell’azione estetica di regime viene accreditato in Paris, Hitler et moi da altri episodi. Nell’estate 1937 si sta preparando, sempre a Monaco, l’inaugurazione della prima Grande Mostra dell’Arte Tedesca, la mostra di regime cui Breker partecipa con un busto di Arthur Kampf e un’altra opera di dimensioni più contenute, quando improvvisamente comincia a circolare la voce che in parallelo si terrà – sempre a Monaco – una mostra dedicata all’arte che deve essere requisita dai musei, additata al pubblico ludibrio e poi distrutta. Nessuno sa chi abbia presso l’iniziativa. E qui inizia il racconto: “Tra i quadri dirigenti, tuttavia, qualche personalità ebbe il coraggio di esprimere obiezioni. Il Ministro alla Cultura Rust [Nota dell’editore: Bernhard Rust (1883-1945)] mi chiamò al telefono il giorno prima dell’inaugurazione della «Casa dell’Arte Tedesca» chiedendomi di raggiungerlo immediatamente in albergo. Lo trovai in una fitta discussione con il principe Filippo d’Assia [Nota dell’editore: Filippo d’Assia (1896-1980), marito di Mafalda di Savoia] con aria preoccupata. La hall dell’albergo era vuota in quel momento e la nostra conversazione passò inosservata. Mi spiegò, senza troppe cerimonie e in tono commosso, che l’apertura della mostra sull’ «Arte degenerata» avrebbe avuto luogo il giorno dopo la cerimonia d’inaugurazione della «Casa dell’Arte Tedesca». Bisognava trovare immediatamente il modo che fosse annullata, perché questa manifestazione sarebbe stata un vero e proprio saccheggio dei musei tedeschi. In un gran numero di musei nazionali o comunali – continuò – vi sono opere d’arte il cui significato è contestato… Ma in nessun modo bisogna che scompaiano le opere di Marres [Sic – credo si tratti di Hans von Marées (1837-1887)], Liebermann, Corinth, Nolde, Lehnbruck … senza parlare degli impressionisti francesi e dei loro successori. Io non sono stato ancora avvertito ufficialmente di quel che si prepara. Ho conosciuto ciò che so solamente da fonti ufficiose e solo ieri. Quel che vi è di grottesco in questa situazione è che vi sono circoli internazionali che si preparano da molto tempo ad acquistare a poco prezzo opere conservate nei nostri musei… si tratta di maestri come Cézanne, Van Gogh, i Fauves … tutte opere di rado disponibili sul mercato.. Questi gruppi internazionali anonimi sono stati in grado di piazzare articoli nella nostra stampa, sostenendo che questi artisti non sarebbero più in condizione di essere in linea con questa pretesa sensibilità popolare dell’arte. E quel che è davvero sinistro è che questa gentaglia trovi controparti nei nostri ranghi… si parla di Heinrich Hoffmann” [51] [Nota dell’editore: Heinrich Hoffmann (1885-1957), fotografo ufficiale di Hitler, autore di tutte le foto su Breker che accompagna Hitler a Parigi nel giugno 1940]”. Il ministro chiede a Breker informazioni su quali siano i maggiori pittori francesi del momento. I due concludono che ognuno di loro cercherà di essere ricevuto da Goebbels, ma ogni tentativo fallisce. Il ministro Rust telefona a notte fonda e spiega che l’esposizione è sotto il controllo delle SS. Breker conclude: “Tutto era perduto. Il destino seguiva il suo corso. Il tesoro di cui eravamo così fieri, e in particolare le opere dei pittori francesi, fu trasportato in Svizzera per essere venduto a prezzi di liquidazione” [52].   
   

Breker in Polonia

Le memorie citano un episodio per accreditare l’idea che Breker sia stato manipolato dalla politica in modo spregiudicato. Nel gennaio 1938, per esempio, gli viene affidato l’incarico di organizzare la Mostra della scultura tedesca contemporanea (Wystawa współczesnych rzeźbiarzy niemieckich) [53], che si tiene prima a Varsavia e poi a Cracovia. Il manifesto della mostra ospita il suo Ritratto di un giovane gitano del 1928, mentre il catalogo presenta – fianco a fianco – il busto di Adolf Hitler (sempre di Breker, e datato 1938), e quello del generale e politico polacco Józef Pilsudski, eseguito da Josef Thorak (1889-1952), un altro scultore molto vicino ai nazisti, tra il 1933 e il 1935. Le due immagini sono poste l’una a fianco dell’altra con l’evidente obiettivo di rappresentare in modo parallelo i due politici come esponenti di un comune asse anticomunista.

Tutto deve dare l’impressione di un rapporto armonioso tra i due popoli, ridurre le tensioni che vedono movimenti nazionalisti all’opera da entrambe le parti (Breker sottolinea l’ostilità dei polacchi nei suoi confronti, alleviata dal fatto di essere amico dai tempi parigini del ministro polacco della propaganda che ospita l’evento) e rassicurare il governo polacco sulle intenzioni di Hitler. La mostra è inaugurata dal presidente della Repubblica Ignacy Mościcki (1867-1946), e Breker è figura fondamentale in quell’occasione per creare un clima disteso, suscitando l’impressione di un nuovo clima di conciliazione politica. Nell’autunno dello stesso anno, ovvero un anno prima dell’invasione della Polonia (e quando la decisione è stata già presa) l’ambasciata polacca di Berlino dà un ricevimento per festeggiare il successo della mostra. Per la Germania partecipano Hitler, Goering e Goebbels e la serata è tutta dedicata alla discussione su come Germania e Polonia possano arginare insieme la minaccia bolscevica. Secondo le memorie, l’ambasciatore polacco Józef Lipski (1894-1958) tesse di fronte ai leader l’elogio di Breker: “Signori, con un uomo come Breker, si possono appianare tutti gli ostacoli che ostruiscono la via della nostra definitiva riconciliazione! A Varsavia coma a Cracovia egli non ha solamente introdotto l’arte tedesca in modo ammirevole, ma guadagnato alla sua maniera la simpatia dei miei compatrioti per la Germania. Ha provato che un dialogo è possibile e ci ha mostrato quale risonanza positiva possa avere. È un inizio promettente” [54]. La tesi che Breker sostiene ex-post, insomma, è quella di essere stato usato dai circoli di potere di Berlino per creare la falsa impressione che la Germania non intenda entrare in guerra.

L'avvio della collaborazione con Albert Speer

Alla fine del 1938 Breker riceve una telefonata da Albert Speer (1905-1981), architetto e urbanista del regime, che, a suo dire, cambia per sempre la sua vita. L’architetto lo convoca immediatamente nel suo ufficio e durante una riunione che dura solamente cinque minuti gli affida il compito di scolpire due statue destinate a essere collocate nel cortile interno della Nuova Cancelleria del Reich, I progetti precedenti non lo avevano soddisfatto. Speer lascia Breker libero di scegliere il soggetto delle sculture. Nelle sue memorie l’artista racconta di aver disegnato le statue già sul tram che lo portava indietro al suo studio, nel centro storico della città [55].

Breker scrive di aver voluto conservare aspetti tradizionali del proprio linguaggio (cercando di “rimanere, nella sua arte, comprensibile agli strati più larghi della popolazione” [56]) e al tempo stesso di aver voluto fornire simboli iconici al nuovo potere (“un ideale appropriato all’edificio che dovevo ornare” [57]). Sceglie dunque “come motivi i due pilastri su cui si basa ogni stato: l’uomo che manifesta il suo spirito, rappresentato da una fiamma, e il guardiano dello Stato, rappresentato da una spada” [58]. Il giorno dopo aver fatto recapitare a Speer i due modellini, l’architetto lo convoca per mostrargli il plastico segreto con i piani di rinnovamento di Berlino. “Il Führer – dice Speer – è stato talmente entusiasta delle sue due statue che mi ha incaricato di affidarle la fontana [59] gigantesca destinata ad arredare una rotonda nel nuovo centro della città. Ancora una volta allo scultore viene assegnata piena libertà di scelta sul tema. Questa volta, ad essere progettato, è un enorme Apollo di otto metri.

Da allora lo scultore diviene uno degli intimi del circolo di Hitler. Le memorie fanno riferimento ad un incontro particolarmente cordiale, l’1 giugno 1939, durante un ricevimento all’Hotel Kaiserhof in occasione della visita del principe reggente di Jugoslavia. In quell’occasione Hitler lo paragona addirittura a Fidia. In quei mesi – almeno così scrive lo scultore – la possibilità di una guerra gli sembrava remota: “Per quel che mi riguarda, io consideravo escluso che un governo che si era fissato dei grandi obiettivi nel campo della costruzione urbana, la cui realizzazione avrebbe richiesto uno sforzo sostenuto da numerose generazioni e che richiedeva in anticipo una volontà pacifista, si sottraesse a questa strada lungo la quale si era già impegnato, o che la  mettesse in questione in nome di esigenze politiche di pura provocazione e irrealiste” [60]. Breker continua il suo racconto con parole di grande ammirazione per Speer e per l’equipe di architetti che lo circondano, per l’ingegnere Fritz Todt (1891-1942) e, più in generale, per i piani economici di Hitler. L’investimento del regime nell’arte è per lui prova inconfutabile che la guerra non ci sarà. Non è certamente il primo caso di un artista che si rivela incapace di comprendere la dinamica degli avvenimenti che lo circondano.


Fine della Parte Prima


NOTE

[1] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, Parigi, Presses de la Cité, 1970, 300 pagine.

[2] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse : Leben und Wirken eines Künstlers : Porträts, Begegnungen, Schicksale, Preussisch Oldendorf, K.W. Schütz, 1972, 399 pagine.

[3] Spiegel del 28 dicembre 1970
http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-43822563.html.

[4] Zur Diskussion gestellt: Der Bildhauer Arno Breker Paperback, a cura di Rudolf Conrades, 2006, Schwerin, Cw-Verl.-Gruppe, 191 pagine. Citazione alle pagine 98-99.

[5] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 9.

[6] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 234-235.

[7] In una conferenza del 1973 tenuta al Rotary Club di Düsseldorf e poi pubblicata nel 1983 (Schriften, pp. 65-71), Breker ha raccontato quell’episodio con molti particolari, spiegando di aver ricevuto una telefonata allarmata da Parigi da parte uno dei maggiori intellettuali francesi e suo caro amico, Jean Cocteau, dopo che Picasso aveva ricevuto una lettera di convocazione della Gestapo. Che Breker e Picasso frequentassero gli stessi ambienti a Parigi è del resto provato dal fatto che la sua prima moglie, la greca Demetra Messala (Δήμητρα Μεσσάλα - 1902-1956), era stata modella di Picasso. Lo storico Jonathan Petropoulos, autore del saggio Artists Under Hitler: Collaboration and Survival in Nazi Germany, Yale University Press, 2014, 407 pagine. Citazione a pagina 273), conferma l’episodio e sostiene che Breker potrebbe aver aiutato Picasso anche a procurarsi materiali per le proprie sculture durante gli anni dell’occupazione.[1] Il biografo di Breker, Jürgen Trimborn, mette in dubbio che ciò sia avvenuto (soprattutto per l’assenza di ogni documentazione d’archivio), considerando la storia parte di una strategia di ‘denazificazione’ della biografia dell’artista. (Tromborn, Jürgen – Arno Breker. Der Künstler und di Macht. Die Biographie, Berlin, 2011, Aufbau Verlag, 711 pagine. Citazione alle pagine 336-342). 

[8] Per una breve storia della casa editrice, si veda: 
https://www.lisez.com/presses-de-la-cite/qui-sommes-nous/6.

[9] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 11.

[10] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.

[11] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.

[12] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.

[13] Goldhagen, Daniel - I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l'Olocausto, 1998, Milano, Mondadori, 651 pagine.

[14] Si veda anche: Marmin, Michel e Infiesta, José Manuel: Arno Breker: le Michel-Ange du XXeme siècle. Der Michelangelo des XX. Jahrhunderts. Il Michelàngelo del secolo XX, Barcelona, Ediciones du Nuevo Arte Thor, 1982, ripubblicato nel 1982.

[15] Schriften: Arno Breker, a cura di Volker G. Probst, con un’introduzione di Franz J Hall, 1983, Düsseldorf, Marco Editon, 189 pagine.

[16] Arno Breker. The Collected Writings. With an introduction by B. John Zavrel, Clarence, N.Y., West-Art, 1990, 255 pagine.

[17] Takahashi, Yōichi- パリとヒトラーと私 : ナチスの彫刻家の回想 /, Tokio, Chūōkōronshinsha, 2011, 347 pagine.

[18] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.

[19] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.

[20] Schriften (citato), pp. 36-37.

[21] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 49.

[22] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 17.

[23] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 18.

[24] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 19.

[25] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 20.

[26] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 20.

[27] Tromborn, Jürgen – Arno Breker. Der Künstler und di Macht, (citato), p. 124.

[28] Tromborn, Jürgen – Arno Breker. Der Künstler und di Macht, (citato), p. 126.

[29] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.

[30] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.

[31] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.

[32] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 45.

[33] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.

[34] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 17.

[35] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.

[36] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 19.

[37] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 88.

[38] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 67.

[39] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 22.

[40] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 45.

[41] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 69.

[42] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 23.

[43] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 23.

[44] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 44.

[45] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 104..

[46] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), pp. 23-24.

[47] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 24.

[48] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 24.

[49] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 25.

[50] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 25.

[51] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 28.

[52] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 28.

[53] Si veda: https://www.atticus.pl/?pag=poz&id=94264.

[54] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 33.

[55] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 35.

[56] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.

[57] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.

[58] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.

[59] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.

[60] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 84. 



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