English Version
Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 17
Arno Breker
Paris, Hitler et moi
Traduzione dal tedesco in francese di Jean-Pierre Tafforeau
Parigi, Presses de la cité, 1970, 300 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima
[Versione originale: maggio-giugno 2018 - Nuova versione: Aprile 2019]
![]() |
Fig. 1) La copertina delle memorie di Arno Breker's nell'edizione francese del 1970 |
Il nome di
Arno Breker (1900–1991), in Italia, è probabilmente sconosciuto ai più. Le sue
memorie, pubblicate in due versioni diverse (prima in francese nel 1970 col
titolo Paris, Hitler et moi [1] e poi
in tedesco nel 1972 con quello di Im
Strahlungsfeld der Ereignisse - Leben und Wirken eines Künstlers. Porträts,
Begegnungen, Schicksale, ovvero ‘In balia degli eventi - Vita ed opera di
un artista. Ritratti, incontri, destini’) [2], ci offrono l’occasione di
esaminare l’autobiografia di un artista il cui percorso personale è legato a
filo doppio al nazismo, ma anche di segnalare particolari dinamiche della
letteratura artistica tedesca nel XX secolo, effettivamente condizionata da
eventi storici di rara tragicità. Basti pensare ai repentini mutamenti nelle
condizioni di vita della maggior parte degli artisti tedeschi: Breker fu, ancor
relativamente giovane, scultore osannato dai nazisti, e mentre tutto ciò
capitava, molti altri artisti tedeschi erano in esilio, in campo di
concentramento o condannati all’inazione, per la proibizione loro imposta di
dipingere. Come vedremo nella seconda parte di questo post, Breker, invece, fu
nominato professore, ricevette in regalo un castello e poté godere di un
atelier di stato in cui lavoravano circa quaranta persone (compresi prigionieri
di guerra e condannati ai lavori forzati) per poter realizzare le sue opere
anche durante il conflitto. Poi le situazioni si sono ribaltate: Breker,
rilasciando un’intervista allo Spiegel
in occasione della pubblicazione delle sue memorie in francese, nel 1970,
sostenne di considerarsi ormai un “lebender
Leichnam” [3], ovvero un vero e proprio zombie, dichiarandosi vittima di
pregiudizi e di un’ingiusta condanna storica. La pubblicazione delle memorie fu
parte di un tentativo mai riuscito di riabilitazione. Nella versione tedesca
compare come vedremo una prefazione (assente in quella francese), che spiega
che il testo è stato redatto (in tedesco) già nei primi anni ‘60.
Punti di forza e debolezza dell’opera
È d’uso
nella critica letteraria distinguere le opere scritte dagli autori per
raccontare la propria vita nei due generi dei ‘ricordi’ e dell’autobiografia.
Nel primo caso si tratta di scritti che intendono offrire impressioni su
determinate fasi della vita, o su aspetti specifici, e che per molti aspetti
appartengono più al genere della documentazione storica che alla letteratura.
Si parla invece di autobiografie quando gli scritti riescono a offrire
un’immagine letteraria compiuta di un personaggio, narrandoci la sua vita come
se si trattasse della storia del protagonista di un romanzo. Le autobiografie sono
considerate superiori ai ricordi.
Che dire di
Paris, Hitler et moi? Appartiene al genere dei ricordi. Ci offre una documentazione al
tempo stesso utile e controversa del rapporto dello scultore tedesco con il suo
tempo, ma ha sicuramente tre limiti. In primo luogo la struttura narrativa è
discontinua: a episodi importanti della vita artistica dello scultore seguono
improvvisamente ampie digressioni su personaggi che ebbe modo di conoscere. In seconda istanza,
la sequenza cronologica non è sempre rispettata e a volte si rimane spiazzati nel cercare di seguire il corso degli eventi. Infine, vi è una
quantità impressionante di imprecisioni, che è facile scoprire anche per un
lettore come chi scrive, non appena si inizi a incrociare il testo con la
documentazione disponibile su internet. Non si tratta sicuramente di
imprecisioni dovute all’età: in un saggio per il catalogo della già citata
mostra di Schwerin del 2006, lo storico Bernd Kasten (1964-) scrive che,
paradossalmente, sono proprio i vuoti e gli errori nelle memorie – scritte per
scagionare la propria persona dalla compromissione col nazismo – a essere l’indizio più
evidente della sua vicinanza al regime [4].
Il ruolo dell'artista nella storia tedesca
La prima
cosa da evitare è pensare che il ruolo di Breker nell’ambito del regime nazista
sia ‘semplicemente’ stato quello della comparsa. Negli anni del massimo potere di
Hitler, quando la Germania nazista sembra dare una spallata all’intero mondo
libero e conquistare l’egemonia assoluta, le opere di Breker sono simboli della propaganda di regime. Si pensi alle due statue Il Partito e la Wehrmacht, collocate nel 1939 a sinistra e a destra dell’ingresso
sul cortile interno della “Nuova Cancelleria” progettata da Albert Speer. Si
pensi, sempre nel 1939, anche all’iconografia bellicosa della grande statua “Bereitschaft” (la Prestanza, ma anche
la Prontezza) in cui temi michelangioleschi vengono chiaramente utilizzati
per sottolineare la volontà di guerra: è pensata originariamente per essere
posta alla sommità del monumento di 45 metri che doveva onorare Mussolini al
centro di Piazza Adolf Hitler a Berlino. Dunque, la classicità del monumento, e
più specificamente la sua “italianità”, spesso identificata come conseguenza
della permanenza dello scultore a Roma nel 1932, non era affatto casuale, ma
del tutto coerente a un disegno politico-monumentale concordato con Speer.
Per
comprendere subito la complessità dei problemi che le memorie pongono, basta
pensare che al loro inizio è collocata una citazione di Adolf Hitler, tratta
dalle memorie di Gerhard Engel (1906-1976), uno dei suoi luogotenenti. Si
legge: “In politica tutti gli artisti
sono ingenui come Parsifal” [5]. Breker racconta che proprio citando questa frase il
dittatore tedesco avrebbe tolto d’impaccio il più famoso dei pittori nazisti,
ovvero Adolf Ziegler (1892-1959), che rischiava la fucilazione [6]. Ziegler era
stato colto in flagrante dalla Gestapo, mentre contrabbandava opere d'arte tra Francia e Spagna nel 1943. Hitler intervenne di persona perché venisse scarcerato senza alcuna conseguenza. Stando alle memorie, Breker avrebbe utilizzato la stessa identica frase, intervenendo di persona, più o meno contemporaneamente, presso il capo della Gestapo in persona, Heinrich Müller
(1900-1945) per evitare l’arresto di Picasso, dichiaratamente comunista, che non aveva abbandonato Parigi durante gli
anni dell’occupazione. È evidente che, ponendo quella frase all’inizio delle
memorie, Breker fornisce un'interpretazione della storia
che può sembrare pura provocazione, ma che, contemporaneamente, è anche il simbolo di tutte le
contraddizioni dell’artista. L'uomo, a suo dire, avrebbe salvato il maggiore degli
artisti contemporanei nonché l’autore, con Guernica (1937) del più famoso manifesto
pittorico antinazista. Nella sua trattativa con la Gestapo avrebbe citato una
frase di Adolf Hitler, che distrusse, di suo, ogni idea di
imparzialità dell’arte e negò ogni valore a quella praticata dagli oppositori politici. Nel 1970, secondo lo
scultore tedesco, Hitler diventa improvvisamente testimone
dell’idea della ‘neutralità dell’artista’ [7].
Le diverse edizioni delle memorie
Si diceva
che il testo di Breker esiste in due versioni che riflettono, per certi versi,
il destino della vita dello scultore. Breker è un tedesco che, di fatto, ha due
patrie: la Germania e la Francia. Le memorie francesi escono nel 1970 per i
tipi di Presses de la Cité, importante casa
editrice parigina attiva ancor oggi, col titolo Paris,
Hitler et moi. Il libro è strutturato in due parti. La prima (di circa
duecento pagine) ricorda gli anni del nazismo, dal 1936 alla fine della guerra,
ed è scandita in quattro capitoli
intitolati “Scultore di Hitler”, “La Germania del Terzo Reich”, “La Guerra e l’occupazione” e “La disfatta”. La seconda parte, di un
centinaio di pagine, è dedicata a “I miei
amici scrittori e artisti di Francia”.
Il testo si sviluppa dunque attorno a due temi: la testimonianza di un
artista vicino al nazismo e il rapporto con la Francia. Va detto che, nel 1960,
lo scultore, evitato dai più come un paria in Germania, apre un atelier a
Parigi e si ricrea lì una vita sociale con gli amici degli anni Trenta e
Quaranta.
Nel
panorama editoriale francese, Presses de la Cité - fondata nel 1944 dal danese Sven
Nielsen (1901-1976) [8] – è, in quegli anni, una delle grandi case editrici
nazionali (la seconda, dopo Gallimard). Paris, Hitler et moi esce nella collana Coup d'œil (Colpo d’occhio), che ospita
numerosi saggi, biografie e autobiografie di natura storica. Fra i volumi della
collana vi sono, ad esempio, i ricordi di Laure Moulin sul fratello Jean (il
più noto eroe della resistenza francese), ma anche numerose memorie di gerarchi
nazisti o collaborazionisti francesi. È dunque chiaro che il volume è pubblicato
in Francia come testimonianza di avvenimenti politici, prima ancora che come
testo di memorie d’artista. Si tratta di soddisfare la curiosità dei lettori
francesi sul nazismo (viene da pensare, nel caso italiano, alle numerose
interviste a gerarchi nazisti che Enzo Biagi pubblica tra anni ’60 e ‘70, alla
ricerca dell’anima nera della Germania di venti o trenta anni prima).
La
copertina dell’edizione francese, peraltro, presenta un’immagine di grande
valenza simbolica. È tratta da una serie famosissima di
foto scattate da Heinrich Hoffmann, fotografo personale di Hitler, il 23 giugno
1940, con la visita trionfale del Führer
nella capitale francese. Alcuni di questi scatti immortalano Hitler con la
Torre Eiffel alle sue spalle, accompagnato da Breker, in divisa, sulla sinistra
e da Albert Speer, anch’egli in divisa, sulla destra. Breker (che conosce
Parigi come le sue tasche) può fare da guida a Hitler, ma la presenza dei due
è una sorta di ‘investitura’ per l’arte del regime: si tratta di costruire
Berlino in una forma molto più monumentale di Parigi (si pensa addirittura di cambiare il nome
alla città, di etimologia slava, in Germania)
come ‘la capitale del mondo’ (Hitler, ad esempio, diede a
Speer l’ordine di costruire a Berlino un arco di trionfo che fosse grande almeno il doppio di quello posto al termine degli Champs-Élysées). La descrizione
della brevissima visita (furono solo tre le ore che Hitler trascorse a Parigi) occupa una parte importante della seconda parte di questo post,
perché rivela i gusti estetici del dittatore tedesco in architettura.
Due anni
dopo la versione francese, esce l’edizione tedesca del libro. Siamo nel 1972, e
l’editore è Waldemar Schütz (1913-1999) un nazista della prima ora, ex membro
delle SS e, nel dopoguerra, stampatore di propaganda neonazista; a differenza di
quella francese, (curata da un editore ben noto che non appartiene all’ambiente
di estrema destra) la versione tedesca è invece segnata da un evidente odore di
revisionismo o persino giustificazionismo. La versione tedesca ha avuto meno
fortuna di quella francese, forse perché pubblicata da un editore screditato
all’occhio dell’opinione pubblica e giustificata, nell’introduzione, da una
volontà di rivalsa nei confronti della cultura tedesca del dopoguerra.
La
struttura delle memorie tedesche si presenta, peraltro, in maniera assai
differente da quelle francesi: l’attenzione – come logico - non è più rivolta
solo a Parigi (che comunque rimane centrale), ma piuttosto all’impatto degli
eventi storici sulla vita dell’artista (non a caso, nel titolo, compare il
termine “Strahlungsfeld”, che si
traduce “campo magnetico”, e che indica come l’autore sia in balia degli
avvenimenti politici). La prefazione
(assente nel testo francese) chiarisce che il testo è stato scritto durante
una convalescenza in una clinica di Francoforte nei primi anni Sessanta, quando
l’autore, per la prima volta nella sua vita, si trova a pensare seriamente alla
prospettiva della sua morte.
A spingere l'artista a scrivere furono dunque ragioni personali: dopo la nascita dal
secondo matrimonio dei figli dell’artista, a cui il volume è dedicato, il padre
vuol offrire loro un’immagine diversa da quella fornita dalla stampa. Ma non mancano ulteriori motivazioni: Breker spiega
che le memorie sono scritte in omaggio ai suoi amici francesi. Il tema
centrale del suo testo – chiarisce l’autore nell’Introduzione - è quello di
spiegare le ragioni culturali della collaborazione francese con i nazisti [9].
Breker crede che la sua testimonianza personale possa spiegare perché “la recezione favorevole degli intellettuali
francesi per la cultura tedesca sia così enormemente cresciuta durante l’epoca
hitleriana” [10]. L’introduzione continua affermando che la grandissima
maggioranza dei tedeschi non sapeva nulla dei campi di concentramento [11] e
che il numero dei responsabili era molto ridotto [12]. Breker si proclama dunque
del tutto ignaro in proposito. Sono tesi oggi ampiamente contestate, in
generale, dalla storiografia, che ha invece provato con lo storico Daniel
Goldhagen [13] come l’apparato repressivo sia stato direttamente sostenuto da
una parte molto consistente della popolazione. Difficile capire quale sia la verità nel caso particolare di Breker. Secondo i suoi difensori, avrebbe avuto un infarto nel 1945 proprio in seguito alla scoperta dei campi di concentramento, ma nel suo libro non si legge nulla in proposito. Le memorie testimoniano invece la sua frequentazione di persone come Martin Bormann
(1900-1945) che pianificarono direttamente la shoah. Come
vedremo inoltre nella seconda parte di questo post, Breker fu tutt’altro che
ignaro di ciò che voleva dire finire sotto le grinfie della Gestapo: oltre a
Picasso, salvò uomini di cultura (Peter Suhrkamp in Germania, Claude
Flammarion in Francia) e anche ebrei. Non poteva dunque essere completamente
ignaro di quel che succedeva in quegli anni.
La figura di Breker oltre le memorie
Come
vedremo a conclusione di questa recensione, la figura di Arno Breker – anche al
di là delle memorie – ha continuato ad alimentare polemiche. La sua opera come
scultore è stata omaggiata, ad esempio, nella
Spagna franchista (Salvator Dalí era uso dire che “Dio è bellezza e Arno Breker il suo profeta”) [14] e ha certamente
goduto di simpatie negli ambienti più reazionari della cultura francese del
dopoguerra; in Germania occidentale si è creato negli anni Ottanta un gruppo di
cultori della sua persona – attorno alla famiglia Bodenstein – che ha cercato
di ‘pulirne’ l’immagine – creando una fondazione, un museo e una casa editrice
per onorarne la memoria dopo la scomparsa nel 1978. Credo che sia interessante che
gli ammiratori di Breker non abbiano mai cercato di ripubblicarne le memorie
(né nella versione francese né in quella tedesca), perché non sarebbero certo
servite all’obiettivo di riciclarne l’immagine in un mondo democratico. Si sono invece premurati di curare una raccolta di scritti, in tedesco [15] e in
inglese [16]. Qualche anno dopo la riunificazione fra le due Germanie, si è poi tenuta nell'ex-DDR,a Schwerin (città che nulla ha a che fare con la biografia dell’artista) la prima retrospettiva dedicata all'artista. Ne è sorta un’enorme
polemica sulla percezione di un crescente orientamento neoconservatore della
cultura ufficiale dell’ex DDR. Anche in
risposta alla mostra di Schwerin, lo storico Jürgen Trimborn ha pubblicato nel
2011 la prima biografia sullo scultore, di fatto smontando le sue memorie e rivelandone le ambiguità e
inesattezze. Nulla so invece delle
ragioni che hanno spinto nel 2011 a pubblicare una traduzione giapponese del
testo francese delle memorie da parte di Yōichi Takahashi [17].
Breker prima del Nazismo
Quasi nulla
si legge purtroppo (sia nelle memorie francesi sia in quelle tedesche) sulla
collocazione artistica di Breker nei primi anni della Repubblica di Weimar, che
lo vede attivo a Düsseldorf. Chiaramente influenzato dalla scultura francese,
Breker sembra già offrire soluzioni intermedie (si veda l’Aurora posta sul tetto del Museum
Kunstpalast di Düsseldorf nel 1926) tra l’espressionismo renano (si pensi a
Wilhelm Lehmbruck, 1881–1919) e la statuaria di Aristide Maillol, artista
francese che viene sempre più celebrato in quegli anni anche nella Germania
renana. Nel 1927 lo scultore si
trasferisce a Parigi (vi aveva già studiato nel 1925) dove vive
continuativamente fino al novembre 1933,
tranne una permanenza italiana grazie a una borsa di studio alla Villa Massimo di Roma tra 1932 e 1933.
Le memorie
tedesche iniziano con quattro medaglioni dedicati a “incontri fortunati” con
personalità della Repubblica di Weimar: l’industriale Berthold Nothmann (1865-1942),
morto in esilio in Gran Bretagna, il pittore Max Liebermann (1847 –1935), il Presidente
della Repubblica socialdemocratico Friedrich Ebert (1871-1925) e l’industriale Abraham
Frowein (1878-1957).
Tutti e
quattro furono ritratti da Breker tra 1924 e 1935. L’intenzione è chiara:
collocare l’esperienza artistica al di fuori del solo quadro nazista,
legandola, al contrario, a personalità eminenti della vita democratica tedesca
durante la repubblica di Weimar. Segue un lungo capitolo sulla vita a Parigi
nel 1927-1934 e sulla parentesi romana del 1932. Solo a questo punto, a partire
dal ritorno a Berlino nel 1934, inizia il contenuto presente anche
nell’edizione francese.
Il rientro in Germania e il rapporto con Max
Liebermann
Nelle prime
pagine delle memorie francesi Breker scrive di essere rientrato in Germania nel
1934, “dopo molti anni passati in
Francia, anni felici e di grande formazione, e un lungo soggiorno in Italia”
[18]. Va subito notato che secondo Trimborn l’affermazione è inesatta: il
rientro avviene nel novembre 1933. Qualunque sia la data precisa, i ricordi francesi
iniziano con l’affermazione che lo scultore torna in Germania su invito degli “amici [Max] Liebermann e [Wilhelm]
Hausenstein” [19]. Più precisamente, secondo quanto scrive Breker in un
breve appunto sulla permanenza a Roma, pubblicato anni dopo, l’invito gli
giunge a Roma tramite Grete Ring (1887-1952), nipote di Liebermann. L’idea del
pittore, decano degli artisti tedeschi e a lungo presidente
dell’Accademia delle Belle Arti di Berlino, sarebbe quella di creare una massa
critica di intellettuali per resistere alla pressione nazista e “salvare il
salvabile” [20]. Max Liebermann (1847–1935) è ebreo, e non può certo avere alcuna
indulgenza nei confronti dei nazisti. Quanto a Wilhelm Hausenstein (1882-1957),
lo abbiamo già incontrato in questo blog come uno dei critici più importanti a
sostegno dell’arte di Paul Klee. Di lui Breker si lamenta per essere stato uno dei tanti
che, dopo la seconda guerra mondiale, rinnegarono l’amicizia di un tempo [21].
La versione
tedesca delle memorie contiene la descrizione di un incontro molto caloroso con Libermann avvenuto nel febbraio 1934.
L’anziano pittore (ha 87 anni) è molto angustiato dalla presa del potere
di nazisti nella sua Berlino e cerca conforto nella comune passione per l’arte
francese. I due conversano sui comuni conoscenti parigini [22] - soprattutto
Aristide Maillol (1861-1944), ma anche André Derain (1880-1954), Maurice de
Vlaminck (1876 –1958) e André Dunoyer de Segonzac (1884 –1974) [23]. Nel corso della conversazione Liebermann chiede a Breker di scolpire un busto col suo ritratto da Breker. Nel corso delle
sessioni di posa i due - stando alle memorie - si scambiano idee su altri artisti
francesi, come Pierre Bonnard (1867-1947) [24] ed Édouard Manet (1832-1883), ma
anche sull’impressionista tedesco Lovis Corinth (1858–1925) [25].
Un giorno i
due incrociano sotto la Porta di Brandeburgo (Liebermann abita nelle immediate prossimità, nella Pariser Platz) un
plotone di camice brune delle SA, a passo di marcia: “Liebermann aspettò che fosse passato l’ultimo membro del plotone, poi
continuammo in direzione opposta. Sembrava raccolto nei suoi pensieri.
Improvvisamente si fermò, indicò con il bastone le SA che stavano andandosene e
disse: «Breker, lei dovrebbe entrare nelle SA, guadagnare influsso e fermarli,
spero prima che tutto finisca in un incendio.» In silenzio continuammo a camminare
verso casa sua, ognuno occupato nei suoi pensieri. Poi si fermò e concluse le
sue riflessioni: «Vede, rimane valido quel che le ho già detto: non posso
mangiare abbastanza da vomitare tutto quel che vorrei»” [26].
Jürgen
Trimborn, nella sua biografia, dubita fortemente che Liebermann abbia seriamente
potuto consigliare a Breker, nel febbraio 1934, di diventare nazista per poter
influenzare il regime dall’interno e ammorbidirlo sulle questioni estetiche,
anche se non può escludere che in realtà si
trattasse di una semplice battuta di un uomo molto anziano. Breker,
peraltro, fa riferimento al suo rapporto con Liebermann come se, fra i due,
esistesse un’amicizia consolidata negli anni. Trimborn, invece, ritiene che si
siano incontrati non prima del novembre 1933 grazie ad alcune conoscenze
comuni [27]. Purtroppo la voluminosa pubblicazione del carteggio di Liebermann
è giunta al settimo volume (1922-1926) e non ci può ancora aiutare a
comprendere se vi fossero legami epistolari precedenti il novembre 1933.
Certamente, il rapporto tra l’anziano pittore e il più giovane scultore deve
essere stato intenso. Infatti, quando Liebermann muore nel 1935, la moglie Martha
lo incarica di modellare la sua maschera mortuaria. Trimborn osserva che Breker
non assistette però al funerale di Liebermann a cui – per paura di rappresaglie
naziste – parteciparono solamente settanta conoscenti e appena tre artisti
[28].
Berlino 1934-1935
Rientrando
in Germania, sia che fosse a novembre 1933 o nella prima parte del 1934, Breker
si aspetta di ricevere una consacrazione definitiva, accompagnata da
commissioni pubbliche necessarie “per uno
scultore monumentale che deve partecipare nella decorazione dell’architettura,
compresa l’erezione di monumenti” [29]. Eppure scrive che il successo tarda
a venire: “Certo, ero stato ben accolto
nei circoli artistici di Berlino, avevo ricevuto ed eseguito commissioni di
busti, ma il fossato che divideva allora il mondo delle arti dal grande
pubblico tedesco e dagli ambienti di governo, nel mio caso, non si era colmato
e i pronostici favorevoli dei miei amici si stavano rivelando una pia
illusione. Inoltre, quando la stampa non m’ignorava, mi attaccava per ragioni
che ancora oggi non riesco a comprendere” [30]. Le prime esperienze,
dunque, non furono facili.
Lo scultore
attribuisce le sue difficoltà iniziali al fatto di essere un tedesco
proveniente dalle regioni renane (estraneo, in qualche modo, alla mentalità
prussiana di Berlino) e con molti anni di Francia alle spalle. Non si può
escludere, tuttavia, che – nelle sue memorie – Breker abbia voluto accentuare
le prime difficoltà del suo reinserimento soprattutto per giustificare il
successivo avvicinamento (e poi l’adesione incondizionata) al regime nazista. Certamente,
non rimase senza commissioni. È, ad esempio del 1935, un Prometeo, chiaramente ispirato a Rodin nell’impianto. E tuttavia in
Paris, Hitler et moi Breker scrive
addirittura di essere stato così deluso da Berlino in un primo tempo, da essere
tentato di tornare in Francia (se non lo fa è soprattutto perché il Fronte
popolare, ovvero il nuovo governo di sinistra appena eletto nel 1936, obbliga
ogni straniero a dimostrare di poter contare su un reddito certo per concedere
il permesso di soggiorno nel paese [31]). Le ricerche condotte da Trimborn, in
realtà, non lo dipingono come un uomo isolato; semplicemente, ancora nel 1936,
l’artista frequenta ambienti che nulla hanno a che fare con il
nazionalsocialismo ed è dunque isolato rispetto al potere. Del resto Breker non è tra i
firmatari del manifesto promosso da Goebbels nell’agosto 1934 per chiamare i
tedeschi a confermare con un referendum l’attribuzione dei pieni poteri a
Hitler. Dunque, almeno in quell’anno,
non sembra ancora essere parte della cerchia di uomini di cultura che si
stringono attorno al nuovo regime.
Il tema della
distanza tra arte e popolo e di come assicurare che l’arte ‘arrivi alla gente’
è una delle questioni su cui più si discute sia in Francia sia in Germania tra
le due guerre mondiali. La risposta è spesso il “ritorno all’ordine’ (un
fenomeno comune a Francia, Germania e Italia) e il recupero della classicità
dopo gli anni ‘sregolati’ delle avanguardie. Quando abbiamo recensito in questo
blog le antologie pubblicate dal tedesco Paul Westheim e dal francese Florent Fels nel 1925, abbiamo
visto l’impostazione chiaramente figurativa di entrambi i critici e il loro
desiderio di accomunare l’arte moderna a un gesto legato al modo classico.
Evidentemente anche Breker, appena tornato a Berlino, si pone il problema del
superamento della propria statuaria espressionista partendo dalle soluzioni che
ha sperimentato a Parigi. Nella sua idea di classicismo egli non è infatti attratto
da Max Klinger (1857-1920),
ovvero il rappresentante ‘ufficiale’ della statuaria classicista nell’arte
moderna tedesca, che considera artista troppo colto e intellettuale, ma assume
come punto di riferimento Maillol [32]. Nella capitale francese Breker è del
resto arrivato seguendo le tracce del naturalismo di Auguste Rodin (1840-1917), ma è sempre più
stato influenzato in quegli anni dalla plastica classicista di Charles Despiau
(1874–1946) e, appunto, di Aristide Maillol. A questa tendenza classicista
della statuaria di quegli anni si accomuna una spinta al gigantismo (un altro
modo di far sì che l’arte divenga più fruibile al pubblico). Al di fuori
dell’ambiente francese, Breker può trovare ispirazione anche nell’opera di Adolf
von Hildebrand (1847-1921), nella teoria della forma di Konrad Fiedler (1841-1895)
e nella statuaria fascista di quegli anni.
Berlino 1936
Le memorie
dedicano molte pagine al clima d’entusiasmo che precede le Olimpiadi berlinesi
del 1936. È in queste circostanze che, dopo mesi di delusioni, Breker dice di
essere stato particolarmente (e piacevolmente) sorpreso per essersi aggiudicato
una commissione di stato per due bronzi monumentali di atleti (di oltre tre
metri) da realizzare per la Scuola Superiore di Ginnastica di Berlino. Gli
artisti possono formulare proposte sul tema e Breker sceglie il Decatleta e la Vittoria. In termini stilistici (le memorie non lo dicono) si
tratta di due opere molto diverse fra loro: la prima è pensata secondo
un’iconografia arcaica, che ricorda l’impianto frontale della statuaria antica
e appare ispirata da Despiau; la seconda ricorda invece le sculture-volume di
Maillol di quegli anni. Lo scultore
scrive anche di essersi servito come modelli di atleti viventi: un decatleta “splendido e con il corpo più proporzionato
che io abbia mai incontrato” [33] e di una lanciatrice di giavellotto “il cui corpo meravigliosamente allenato
sopportava il paragone con le statue greche delle grandi epoche” [34]. Dal
giorno dell’aggiudicazione dell’incarico [35] – scrive lo scultore – Breker diventa
ormai ben accetto negli ambienti d’arte della capitale.
La
descrizione dell’inaugurazione dei giochi olimpici tradisce un tono enfatico.
Scrive Breker: “l’apogeo di questa
magnifica cerimonia fu forse l’ingresso della squadra francese, dietro il
tricolore. I francesi entrarono nell’arena facendo il saluto hitleriano. Questo
gesto fece saltare di gioia la gente dagli spalti. Ne risultò un clamore
incontrollato, ripetuto in eco successive. Il gesto era stato spontaneo e aveva
sorpreso tutti. La squadra francese fu toccata e profondamente commossa
dall’accoglienza entusiasta che le fu riservata. Ci si abbracciava nelle
tribune, si piangeva di gioia. È davvero in quel momento che si tracciò una
croce sulle due tragedie che opposero il popolo francese e quello tedesco nel
loro scontro guerriero” [36]. Devo confessare che queste frasi mi hanno
fatto sobbalzare sulla sedia: invece che sulla base della ricostruzione
pacifica del dopoguerra nell’Europa democratica, la riappacificazione
franco-tedesca dopo la guerra franco-prussiana del 1871 e la prima guerra
mondiale ha dunque origine, secondo Breker, in uno dei momenti tradizionalmente
ancora considerati in Francia con maggior senso di vergogna collettiva: la
decisione spontanea della squadra francese di entrare nello stadio con la mano
tesa per rendere omaggio a Hitler.
Mi sono
addirittura chiesto se non vi potesse essere stato un errore compiuto dal
traduttore francese Jean-Pierre Tafforeau (che certamente utilizza, di per sé,
uno stile enfatico), ma il testo tedesco del 1972 conferma la circostanza, sia
pur con alcune sfumature: “Certamente
qualcuno avrebbe potuto credere che qui si potesse, in conclusione, porre la parola
fine, così caldamente attesa, alle tragedie dei conflitti militari tra entrambi
i popoli” [37]. La realtà è che – per il pittore tedesco vissuto a lungo in
Francia – gli anni precedenti sono stati difficili: Breker racconta delle manifestazioni
di odio popolare nei confronti della Germania alla notizia diffusa nei
cinegiornali francesi della nomina di Paul von Hindenburg (1847-1934), ex capo
di stato maggiore dell’esercito, a
presidente della Repubblica di Weimar nel 1925 (l’artista stava studiando a
Parigi) e di come abbia dovuto a volte tenere nascosta la sua nazionalità per
paura di essere linciato [38].
Breker e l'“arte degenerata”
Ma è soprattutto
quando nel diario si arriva a parlare di “arte degenerata” che Breker conferma
le sue contraddizioni. Breker scrive di non essere stato per nulla d’accordo
con la politica nazista nei confronti dell’ “arte degenerata”. Per spiegarsi
meglio, traccia una breve storia del gusto moderno per l’arte, che in Germania
si era andato formando sulla base dell’interesse per l’impressionismo francese,
come pure per Cézanne, Gauguin e Van Gogh e per i movimenti d’avanguardia
successivi (pointillisme, fauvisme, cubismo) in Francia [39].
Per Breker,
insomma, è l’influsso dell’arte francese nel suo complesso, dal primissimo
novecento, a essersi rivelato benefico per la Germania, e la veloce conversione
del pubblico tedesco dal gusto accademico ottocentesco a quello moderno e
contemporaneo non è il risultato di un complotto internazionale e di logiche
speculative in mano al mondo ebraico, come invece scrivevano Hitler e i suoi
teorici dell’arte come Paul Schultze-Naumburg. Inoltre lo scultore non mostra nelle
memorie nessuna adesione alle tesi razziste anti-ebraiche, e parla di “fanatismo
razzista” [40]: sottolinea come le famiglie ebraiche berlinesi fossero tutte
profondamente radicate nell’identità prussiana, avessero preferenze politiche
conservatrici e fieramente patriottiche. Infine Breker prende le distanze anche
dalle correnti minoritarie espressioniste filo-naziste, ovvero da chi (come
Emil Nolde o
Max Sauerlandt nel 1934) è favorevole a un’arte tedesco-nazionale che rompa le
convenzioni stilistiche classiche e si allontani dall’influenza francese,
ritenendo l’espressionismo tedesco compatibile con il nazismo.
Breker è
insomma convinto che la buona arte possa essere solamente d’ispirazione
francese: ciò che fa la differenza non è in realtà se gli artisti appartengano
a classicismo o all’avanguardia, ma se siano aperti o no al mondo francese.
In questo
senso, ad esempio, dichiara di ammirare in particolare Arthur Kampf per aver
organizzato la prima mostra su Rodin a Düsseldorf nel 1905 (in realtà si tratta
della Grande Esposizione internazionale del 1904) e aver meritato la Légion d’honneur. Dell’architetto Mies
van der Rohe (1886-1969) sottolinea come il suo tentativo “di realizzare l’opera architettonica universale” sia ispirato
dall’intransigenza creatrice di Cézanne [41]. Insomma, tutto quel che è
francese è bene e va difeso. Nelle memorie Breker scrive che gli ambasciatori
del nuovo gusto in Germania sono i grandi galleristi (Cassirer a Berlino e Thannhauser
a Monaco per gli impressionisti; Flechtheim per fauves e cubisti) e i mecenati
privati [42]. Il meglio dell’arte tedesca (cita in merito Liebermann, Corinth,
Slevogt, Mar, Macke, Klee) è ispirato dall’arte francese di quei giorni.
Si legge
dunque: “Il fauvisme ha prestato al movimento espressionista
tedesco, che ha raggiunto il suo apogeo tra le due guerre, un impulso
essenziale. L’impiego di colori puri, non attenuati, ha originato una forza
esplosiva che offre una visione autentica ed elementare del mondo. Questa tappa
era logica, anche se la maggioranza del pubblico ha mostrato qualche reticenza.
Il ritmo di queste metamorfosi è stato talmente accelerato, che questa
gestazione di forme pittoriche o plastiche non ha potuto essere colta e
compresa se non da una minoranza. (…) E tuttavia l’interesse del pubblico
tedesco per l’arte è rimasto vivace anche dopo la sconfitta della Prima guerra
mondiale. Ma l’inflazione e la bancarotta economica ebbero la conseguenza di
bloccare le fonti rigeneratrici dell’arte e di frenarne l’evoluzione. Se una
buona dozzina di artisti come Nolde, Beckmann, Schmidt-Rottluf, Heckel,
Kirchner sono riusciti ad affermarsi, gli artisti di secondo piano – e
soprattutto i giovani che crescevano e rappresentavano sempre un fattore
importante nella diffusione dei problemi artistici – morivano di fame e l’arte
è divenuta sempre più il privilegio privato di una minoranza sempre più limitata”
[43].
Sono pagine
– lo ricordo ancora una volta - scritte negli anni Sessanta, col senno di poi:
è ovvio sia al pubblico sia a Breker che moltissimi dei critici d’arte,
galleristi e artisti citati sono stati vittime del nazismo (si parla
esplicitamente [44] della persecuzione cui è sottoposto Ernst Gosebruch (1872 -1953),
il maggior conoscitore d’arte contemporanea di quegli anni). Oltre a
testimoniare il gusto dell’artista, mirano anche a marcare la sua distanza con
la politica di regime. In termini stilistici, sorprende poi la passione con cui
Breker appoggia la causa espressionista citando artisti a lui molto distanti e
dimenticando invece, lui che fu uno scultore classico, tutte le correnti tra le
due guerre ispirate al ‘ritorno all’ordine’ (come la Nuova Oggettività);
meraviglia anche l’approssimazione con cui afferma che l’espressionismo aveva
incontrato il più alto favore del pubblico (in francese apogée, in
tedesco si parla di höchste Wertschätzung [45], ovvero il massimo della
stima) soprattutto tra le due guerre, e cioè in una fase in cui in realtà era
ormai posto in discussione da altre correnti contemporanee e in parte era considerato
ormai esaurito. Sono davvero singolari anche le tesi sull’atteggiamento
opportunista degli artisti tedeschi nel momento in cui la Repubblica di Weimar
entrò nella sua crisi finale: “Quando il
comunismo e il nazionalsocialismo scatenarono la lotta per il potere contro la
repubblica di Weimar, la miseria economica, il combattimento quotidiano per la
semplice esistenza avrebbero spinto gli artisti nelle braccia di quelli che non
solamente garantivano loro ciò di cui vivere, ma lasciavano loro intravedere
il riconoscimento ufficiale delle loro opere. Hitler riconobbe assai presto
questa situazione e ne tirò benefici considerevoli. E tuttavia, i contorni
precisi della sua posizione non potevano essere definiti se non in modo vago
negli anni che seguirono la sua presa del potere. Egli sperava che un nuovo
confronto dell’arte con la natura avrebbe fatto nascere uno stile che, in
seguito, potesse raccogliere il consenso generale di strati sempre più larghi
della popolazione” [46].
Breker: un nazista dissidente?
Breker
racconta come la pressione nazista sulle strutture museali inizi immediatamente
a esercitarsi spingendo ai margini gli artisti dell’avanguardia tedesca, ma
rivendica per sé un ruolo di libertà e tolleranza nei confronti dei colleghi
artisti. Lo Stato della Baviera organizza nel 1935 una mostra di artisti
berlinesi a Monaco; Goebbels affida la giuria al già menzionato pittore Arthur
Kampf (1864-1950), al suo collega Leo von König (1871-1944) e agli scultori Georges
Kolbe (1877-1947) e Arno Breker, assegnando loro il compito di scegliere le
opere dei candidati, che vengono da loro inviate all’Accademia Prussiane delle
Belle Arti a Berlino. “Nessuno di noi
apparteneva a un partito politico. Il ministero della propaganda ci lasciava
completa libertà di scelta: solamente la qualità artistica delle opere doveva
motivare la nostra scelta” [47].
Alla
competizione si presenta anche l’anziana Käthe Kollwitz (1867-1945),
notoriamente un’artista di campo socialista. “I miei tre colleghi la conoscevano da anni. Per quel che mi riguarda,
era la prima volta che avevo il privilegio di conoscere una persona di tanta
discrezione e modestia. Tutta la sua opera aveva simbolizzato la sua accesa
battaglia per la crescita sociale delle classi meno favorite. Era divenuta
celebre per la sua commovente illustrazione del dramma ‘I tessitori’ di
Hauptmann [Nota dell’editore: Gerhart Hauptmann (1862-1946), Premio Nobel
per la letteratura nel 1912, ritratto da Breker nel 1942]. Il suo socialismo era una semplice espressione dello slancio più
sincero del suo cuore e legittimava la sua arte. L’accordo della giuria
nell’apprezzamento dei lavori depositati era stato unanime. Ciascuno di noi era
stato formato da un lungo soggiorno a Parigi, da cui discendevano alcune
affinità nei nostri giudizi estetici” [48].
Tutto è pronto per l’inaugurazione quando fa irruzione nei locali Adolf
Ziegler (1892-1959) a testa di una commissione “composta di membri a noi sconosciuti” [49]. Ziegler è l’artista che,
di lì a poco, organizza l’opera sistematica di requisizione dell’arte
cosiddetta “degenerata” da tutti i musei pubblici tedeschi; il nuovo censore
critica violentemente metà delle opere esposte e il pomeriggio stesso il
Presidente della circoscrizione del partito (Gauleiter) Adolf Wagner
(1890-1944) si presenta e impone con la forza che le opere siano tolte. “Lasciammo le sale non senza aver protestato
nel modo più risoluto. La notizia di quest’affare – il primo di tal genere nella
storia ancora giovane del nazismo – si propagò a Monaco come una striscia di
polvere da sparo. Nella serata si formò una marcia di protesta di studenti che
manifestarono contro quest’intervento scandaloso. Fu la prima e ultima forma di
rivolta tollerata dallo Stato” [50].
Il ruolo di
Breker come contestatore dell’azione estetica di regime viene accreditato in Paris, Hitler et moi da altri episodi.
Nell’estate 1937 si sta preparando, sempre a Monaco, l’inaugurazione della
prima Grande Mostra dell’Arte Tedesca,
la mostra di regime cui Breker partecipa con un busto di Arthur Kampf e
un’altra opera di dimensioni più contenute, quando improvvisamente comincia a
circolare la voce che in parallelo si terrà – sempre a Monaco – una mostra
dedicata all’arte che deve essere requisita dai musei, additata al pubblico ludibrio e poi distrutta. Nessuno sa chi abbia presso l’iniziativa. E qui inizia il racconto:
“Tra i quadri dirigenti, tuttavia,
qualche personalità ebbe il coraggio di esprimere obiezioni. Il Ministro alla
Cultura Rust [Nota dell’editore: Bernhard Rust (1883-1945)] mi chiamò al telefono il giorno prima
dell’inaugurazione della «Casa dell’Arte Tedesca» chiedendomi di raggiungerlo
immediatamente in albergo. Lo trovai in una fitta discussione con il principe
Filippo d’Assia
[Nota dell’editore: Filippo d’Assia (1896-1980), marito di Mafalda di Savoia] con aria preoccupata. La hall dell’albergo
era vuota in quel momento e la nostra conversazione passò inosservata. Mi
spiegò, senza troppe cerimonie e in tono commosso, che l’apertura della mostra
sull’ «Arte degenerata» avrebbe avuto luogo il giorno dopo la cerimonia d’inaugurazione
della «Casa dell’Arte Tedesca». Bisognava trovare immediatamente il modo che fosse annullata, perché
questa manifestazione sarebbe stata un vero e proprio saccheggio dei musei
tedeschi. In un gran numero di musei nazionali o comunali – continuò – vi sono
opere d’arte il cui significato è contestato… Ma in nessun modo bisogna che
scompaiano le opere di Marres [Sic – credo si tratti di Hans von Marées (1837-1887)], Liebermann, Corinth, Nolde, Lehnbruck … senza parlare degli
impressionisti francesi e dei loro successori. Io non sono stato ancora
avvertito ufficialmente di quel che si prepara. Ho conosciuto ciò che so
solamente da fonti ufficiose e solo ieri. Quel che vi è di grottesco in questa
situazione è che vi sono circoli internazionali che si preparano da molto tempo
ad acquistare a poco prezzo opere conservate nei nostri musei… si tratta di
maestri come Cézanne, Van Gogh, i Fauves … tutte opere di rado disponibili sul
mercato.. Questi gruppi internazionali anonimi sono stati in grado di piazzare
articoli nella nostra stampa, sostenendo che questi artisti non sarebbero più
in condizione di essere in linea con questa pretesa sensibilità popolare
dell’arte. E quel che è davvero sinistro è che questa gentaglia trovi
controparti nei nostri ranghi… si parla di Heinrich Hoffmann” [51] [Nota dell’editore: Heinrich Hoffmann
(1885-1957), fotografo ufficiale di Hitler, autore di tutte le foto su Breker
che accompagna Hitler a Parigi nel giugno 1940]”. Il ministro chiede a Breker informazioni su quali siano i
maggiori pittori francesi del momento. I due concludono che ognuno di loro
cercherà di essere ricevuto da Goebbels, ma ogni tentativo fallisce. Il
ministro Rust telefona a notte fonda e spiega che l’esposizione è sotto il
controllo delle SS. Breker conclude: “Tutto
era perduto. Il destino seguiva il suo corso. Il tesoro di cui eravamo così
fieri, e in particolare le opere dei pittori francesi, fu trasportato in
Svizzera per essere venduto a prezzi di liquidazione” [52].
Breker in Polonia
Le memorie
citano un episodio per accreditare l’idea che Breker sia stato manipolato dalla
politica in modo spregiudicato. Nel gennaio 1938, per esempio, gli viene
affidato l’incarico di organizzare la Mostra della scultura tedesca
contemporanea (Wystawa współczesnych
rzeźbiarzy niemieckich) [53], che si tiene prima a Varsavia e poi a
Cracovia. Il manifesto della mostra ospita il suo Ritratto di un giovane gitano del 1928, mentre il catalogo presenta
– fianco a fianco – il busto di Adolf Hitler (sempre di Breker, e datato 1938),
e quello del generale e politico polacco Józef Pilsudski, eseguito da Josef
Thorak (1889-1952), un altro scultore molto vicino ai nazisti, tra il 1933 e il 1935. Le due immagini sono poste l’una a fianco dell’altra con l’evidente
obiettivo di rappresentare in modo parallelo i due politici come esponenti di
un comune asse anticomunista.
Tutto deve
dare l’impressione di un rapporto armonioso tra i due popoli, ridurre le
tensioni che vedono movimenti nazionalisti all’opera da entrambe le parti
(Breker sottolinea l’ostilità dei polacchi nei suoi confronti, alleviata dal
fatto di essere amico dai tempi parigini del ministro polacco della propaganda
che ospita l’evento) e rassicurare il governo polacco sulle intenzioni di
Hitler. La mostra è inaugurata dal presidente della Repubblica Ignacy Mościcki
(1867-1946), e Breker è figura fondamentale in quell’occasione per creare un
clima disteso, suscitando l’impressione di un nuovo clima di conciliazione
politica. Nell’autunno dello stesso anno, ovvero un anno prima dell’invasione
della Polonia (e quando la decisione è stata già presa) l’ambasciata polacca di
Berlino dà un ricevimento per festeggiare il successo della mostra. Per la
Germania partecipano Hitler, Goering e Goebbels e la serata è tutta dedicata
alla discussione su come Germania e Polonia possano arginare insieme la
minaccia bolscevica. Secondo le memorie, l’ambasciatore polacco Józef Lipski (1894-1958)
tesse di fronte ai leader l’elogio di Breker: “Signori, con un uomo come Breker, si possono appianare tutti gli
ostacoli che ostruiscono la via della nostra definitiva riconciliazione! A
Varsavia coma a Cracovia egli non ha solamente introdotto l’arte tedesca in
modo ammirevole, ma guadagnato alla sua maniera la simpatia dei miei
compatrioti per la Germania. Ha provato che un dialogo è possibile e ci ha
mostrato quale risonanza positiva possa avere. È un inizio promettente”
[54]. La tesi che Breker sostiene ex-post, insomma, è quella di essere stato
usato dai circoli di potere di Berlino per creare la falsa impressione che la
Germania non intenda entrare in guerra.
L'avvio della collaborazione con Albert Speer
Alla fine
del 1938 Breker riceve una telefonata da Albert Speer (1905-1981), architetto
e urbanista del regime, che, a suo dire, cambia per sempre la sua vita.
L’architetto lo convoca immediatamente nel suo ufficio e durante una riunione
che dura solamente cinque minuti gli affida il compito di scolpire due
statue destinate a essere collocate nel cortile interno della Nuova Cancelleria del Reich, I
progetti precedenti non lo avevano soddisfatto. Speer lascia Breker libero di scegliere il
soggetto delle sculture. Nelle sue memorie l’artista racconta di aver disegnato
le statue già sul tram che lo portava indietro al suo studio, nel centro
storico della città [55].
Breker
scrive di aver voluto conservare aspetti tradizionali del proprio linguaggio
(cercando di “rimanere, nella sua arte,
comprensibile agli strati più larghi della popolazione” [56]) e al tempo
stesso di aver voluto fornire simboli iconici al nuovo potere (“un ideale appropriato all’edificio che
dovevo ornare” [57]). Sceglie dunque “come
motivi i due pilastri su cui si basa ogni stato: l’uomo che manifesta il suo
spirito, rappresentato da una fiamma, e il guardiano dello Stato, rappresentato
da una spada” [58]. Il giorno dopo aver fatto recapitare a Speer i due
modellini, l’architetto lo convoca per mostrargli il plastico segreto con i
piani di rinnovamento di Berlino. “Il
Führer – dice Speer – è stato talmente entusiasta delle sue due statue che mi
ha incaricato di affidarle la fontana” [59] gigantesca
destinata ad arredare una rotonda nel nuovo centro della città. Ancora una
volta allo scultore viene assegnata piena libertà di scelta sul tema. Questa
volta, ad essere progettato, è un enorme Apollo di otto metri.
Da allora
lo scultore diviene uno degli intimi del circolo di Hitler. Le memorie fanno
riferimento ad un incontro particolarmente cordiale, l’1 giugno 1939, durante
un ricevimento all’Hotel Kaiserhof in occasione della visita del principe
reggente di Jugoslavia. In quell’occasione Hitler lo paragona addirittura a
Fidia. In quei mesi – almeno così scrive lo scultore – la possibilità di una
guerra gli sembrava remota: “Per quel che
mi riguarda, io consideravo escluso che un governo che si era fissato dei
grandi obiettivi nel campo della costruzione urbana, la cui realizzazione
avrebbe richiesto uno sforzo sostenuto da numerose generazioni e che richiedeva
in anticipo una volontà pacifista, si sottraesse a questa strada lungo la quale
si era già impegnato, o che la mettesse
in questione in nome di esigenze politiche di pura provocazione e irrealiste”
[60]. Breker continua il suo racconto con parole di grande ammirazione per
Speer e per l’equipe di architetti che lo circondano, per l’ingegnere Fritz
Todt (1891-1942) e, più in generale, per i piani economici di Hitler.
L’investimento del regime nell’arte è per lui prova inconfutabile che la guerra
non ci sarà. Non è certamente il primo caso di un artista che si rivela
incapace di comprendere la dinamica degli avvenimenti che lo circondano.
Fine della Parte Prima
NOTE
[2] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse : Leben und Wirken eines Künstlers : Porträts, Begegnungen, Schicksale, Preussisch Oldendorf, K.W. Schütz, 1972, 399 pagine.
[3] Spiegel del 28 dicembre 1970
http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-43822563.html.
[4] Zur Diskussion gestellt: Der Bildhauer Arno Breker Paperback, a cura di Rudolf Conrades, 2006, Schwerin, Cw-Verl.-Gruppe, 191 pagine. Citazione alle pagine 98-99.
[5] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 9.
[6] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 234-235.
[8] Per una breve storia della casa editrice, si veda:
[4] Zur Diskussion gestellt: Der Bildhauer Arno Breker Paperback, a cura di Rudolf Conrades, 2006, Schwerin, Cw-Verl.-Gruppe, 191 pagine. Citazione alle pagine 98-99.
[5] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 9.
[6] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 234-235.
[7] In una conferenza del 1973 tenuta al Rotary Club di Düsseldorf e poi pubblicata nel 1983 (Schriften, pp. 65-71), Breker ha raccontato quell’episodio con molti particolari, spiegando di aver ricevuto una telefonata allarmata da Parigi da parte uno dei maggiori intellettuali francesi e suo caro amico, Jean Cocteau, dopo che Picasso aveva ricevuto una lettera di convocazione della Gestapo. Che Breker e Picasso frequentassero gli stessi ambienti a Parigi è del resto provato dal fatto che la sua prima moglie, la greca Demetra Messala (Δήμητρα Μεσσάλα - 1902-1956), era stata modella di Picasso. Lo storico Jonathan Petropoulos, autore del saggio Artists Under Hitler: Collaboration and Survival in Nazi Germany, Yale University Press, 2014, 407 pagine. Citazione a pagina 273), conferma l’episodio e sostiene che Breker potrebbe aver aiutato Picasso anche a procurarsi materiali per le proprie sculture durante gli anni dell’occupazione.[1] Il biografo di Breker, Jürgen Trimborn, mette in dubbio che ciò sia avvenuto (soprattutto per l’assenza di ogni documentazione d’archivio), considerando la storia parte di una strategia di ‘denazificazione’ della biografia dell’artista. (Tromborn, Jürgen – Arno Breker. Der Künstler und di Macht. Die Biographie, Berlin, 2011, Aufbau Verlag, 711 pagine. Citazione alle pagine 336-342).
[8] Per una breve storia della casa editrice, si veda:
https://www.lisez.com/presses-de-la-cite/qui-sommes-nous/6.
[9] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 11.
[10] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.
[11] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.
[12] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.
[13] Goldhagen, Daniel - I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l'Olocausto, 1998, Milano, Mondadori, 651 pagine.
[14] Si veda anche: Marmin, Michel e Infiesta, José Manuel: Arno Breker: le Michel-Ange du XXeme siècle. Der Michelangelo des XX. Jahrhunderts. Il Michelàngelo del secolo XX, Barcelona, Ediciones du Nuevo Arte Thor, 1982, ripubblicato nel 1982.
[15] Schriften: Arno Breker, a cura di Volker G. Probst, con un’introduzione di Franz J Hall, 1983, Düsseldorf, Marco Editon, 189 pagine.
[16] Arno Breker. The Collected Writings. With an introduction by B. John Zavrel, Clarence, N.Y., West-Art, 1990, 255 pagine.
[17] Takahashi, Yōichi- パリとヒトラーと私 : ナチスの彫刻家の回想 /, Tokio, Chūōkōronshinsha, 2011, 347 pagine.
[18] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.
[19] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.
[20] Schriften (citato), pp. 36-37.
[21] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 49.
[22] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 17.
[23] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 18.
[24] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 19.
[25] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 20.
[26] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 20.
[27] Tromborn, Jürgen – Arno Breker. Der Künstler und di Macht, (citato), p. 124.
[28] Tromborn, Jürgen – Arno Breker. Der Künstler und di Macht, (citato), p. 126.
[29] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.
[30] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.
[31] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.
[32] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 45.
[33] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.
[34] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 17.
[35] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.
[36] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 19.
[37] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 88.
[38] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 67.
[39] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 22.
[40] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 45.
[41] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 69.
[42] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 23.
[43] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 23.
[44] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 44.
[45] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 104..
[46] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), pp. 23-24.
[47] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 24.
[48] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 24.
[49] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 25.
[50] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 25.
[51] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 28.
[52] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 28.
[53] Si veda: https://www.atticus.pl/?pag=poz&id=94264.
[54] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 33.
[55] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 35.
[56] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.
[57] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.
[58] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.
[59] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.
[60] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 84.
[9] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 11.
[10] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.
[11] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.
[12] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 12.
[13] Goldhagen, Daniel - I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l'Olocausto, 1998, Milano, Mondadori, 651 pagine.
[14] Si veda anche: Marmin, Michel e Infiesta, José Manuel: Arno Breker: le Michel-Ange du XXeme siècle. Der Michelangelo des XX. Jahrhunderts. Il Michelàngelo del secolo XX, Barcelona, Ediciones du Nuevo Arte Thor, 1982, ripubblicato nel 1982.
[15] Schriften: Arno Breker, a cura di Volker G. Probst, con un’introduzione di Franz J Hall, 1983, Düsseldorf, Marco Editon, 189 pagine.
[16] Arno Breker. The Collected Writings. With an introduction by B. John Zavrel, Clarence, N.Y., West-Art, 1990, 255 pagine.
[17] Takahashi, Yōichi- パリとヒトラーと私 : ナチスの彫刻家の回想 /, Tokio, Chūōkōronshinsha, 2011, 347 pagine.
[18] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.
[19] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.
[20] Schriften (citato), pp. 36-37.
[21] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 49.
[22] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 17.
[23] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 18.
[24] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 19.
[25] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 20.
[26] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 20.
[27] Tromborn, Jürgen – Arno Breker. Der Künstler und di Macht, (citato), p. 124.
[28] Tromborn, Jürgen – Arno Breker. Der Künstler und di Macht, (citato), p. 126.
[29] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.
[30] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 15.
[31] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.
[32] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 45.
[33] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.
[34] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 17.
[35] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 16.
[36] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 19.
[37] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 88.
[38] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 67.
[39] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 22.
[40] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 45.
[41] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 69.
[42] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 23.
[43] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 23.
[44] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 44.
[45] Breker, Arno - Im Strahlungsfeld der Ereignisse, (citato), p. 104..
[46] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), pp. 23-24.
[47] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 24.
[48] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 24.
[49] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 25.
[50] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 25.
[51] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 28.
[52] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 28.
[53] Si veda: https://www.atticus.pl/?pag=poz&id=94264.
[54] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 33.
[55] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 35.
[56] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.
[57] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.
[58] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.
[59] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 36.
[60] Breker, Arno - Paris, Hitler et moi, (citato), p. 84.
Nessun commento:
Posta un commento