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lunedì 5 marzo 2018

Hito Steyerl. [Art Duty Free. L'arte nell'età della guerra civile planetaria]


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Hito Steyerl
[Art Duty Free. L'arte nell'età della guerra civile planetaria]

Duty Free Art. Art in the Age of Planetary Civil War

London, New York, Verso Publishers, 2017, 244 pagine

Recensione di Francesco Mazzaferro

[Versione originale: marzo 2018 - Nuova versione: aprile 2019]

Fig. 1) La copertina del libro

L’occasione che mi ha spinto a leggere l’ultimo libro di Hito Steyerl, artista nata nel 1966 a Monaco di Baviera e oggi residente a Berlino (dove insegna arte dei nuovi media all’Università delle Arti) è stata del tutto fortuita. Avevo già visto la sua video-installazione Factory of the Sun al padiglione tedesco della Biennale di Venezia del 2015 (e l’ho rivista una seconda volta alla mostra Come una falena alla fiamma alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino); poi ho trovato in libreria il volume che qui recensisco e il numero di Art Review che l’ha proclamata prima nella classifica delle cento personalità più influenti e rappresentative dell’arte contemporanea nel 2017 (per la classifica, si veda https://artreview.com/power_100/), definendola “artista e teorica, teorica e artista”. Va subito detto che il libro contiene una valutazione molto dura proprio in merito a questo genere di classifiche, create in gran parte in modo meccanico sulla base di algoritmi [1]. Steyerl, insomma è una delle protagoniste del mondo dell’arte nei nostri giorni, ma anche una delle sue più radicali contestatrici.

Ero curioso di capire quale ruolo una figura molto conosciuta per l’uso degli strumenti tecnologici più sofisticati avesse riservato alla tradizionalissima parola scritta. Il libro raccoglie i suoi contributi più recenti, quelli preparati per convegni e riviste dal 2011 ad oggi, molto spesso pubblicati su una rivista affermata, ma molto alternativa, l’e-flux journal (www.e-flux.com), disponibile solamente sull’internet. L’autrice aveva trattato il tema della scrittura nel 2014, in un’intervista al giovane critico polacco Łukasz Zaremba: “Io ho sempre scritto. Per molto tempo mi sono mantenuta come scrittrice, come giornalista. Forse, questa è una delle ragioni per le quali io cerco di assicurarmi che i miei articoli non siano mai descrizioni dei miei video. Un’altra ragione è la mia educazione come artista visiva. Mi hanno insegnato che l’immagine non deve mai essere l’illustrazione di un testo; e io la penso nello stesso modo a proposito dei miei scritti: anch’essi non dovranno mai essere un’illustrazione delle mie immagini. Bisogna che tra testi e immagini vi sia una tensione. Si tratta insomma di mantenere la tensione e rispettare l’autonomia di ogni linguaggio” [2]. È la stessa tesi (contro l’ut pictura poiesis) teorizzata da Lessing nel suo Laocoonte ovvero sui confini tra poesia e pittura del 1766.

Mi si consenta dunque – in risposta al mio interrogativo di partenza – di fare alcune considerazioni preliminari che potranno forse sembrare sorprendenti rispetto alle intenzioni della Steyerl. Vorrei infatti osservare che, in molte occasioni, la storia dell’arte ci ha fatto conoscere artisti che si sono posti (almeno nella percezione della loro epoca e di quelle successive) il problema di abbinare creazione delle immagini e diffusione delle rispettive idee. Il loro obiettivo è stato  quello di infrangere (con la forza di nuove concezioni intellettuali che sovente vanno al di là della semplice formulazione di preferenze estetiche innovative ed esprimono attraverso le immagini nuove convinzioni ontologiche) strutture di pensiero storicamente consolidate. L’espressione ‘pittore-filosofo’ è stata utilizzata per la prima volta a proposito di Nicolas Poussin (1594-1665) negli Éloges de Nicolas Poussin da Nicolas Guibal (1725-1784) nel 1783. Sempre nel Settecento è stata estesa ad Anton Raphael Mengs (1728–1779) da Stefano Ticozzi (1762-1836). Non sorprende che il concetto nasca nell’epoca dei lumi. Da allora si è parlato di “pittori filosofi” a proposito di un numero straordinariamente alto di artisti, dell’Otto e del Novecento. Un altro filone della creazione artistica che mi sembra rilevante è legato all’invenzione di realtà virtuali: si pensi a Piranesi, ma anche a tutti i pittori metafisici del Novecento.

Ebbene, per quanto Hito Steyerl si guardi bene da citare uno qualsiasi di questi artisti (presumo che li considererebbe probabilmente tutti espressione di un mondo a lei molto lontano) e nonostante rivendichi l’indipendenza di opere d’arte e scrittura, dopo aver letto il suo libro mi sono convinto che la sua riflessione si pone lungo la tradizione dei pittori-filosofi. Si tratta di artisti che, in una negazione della realtà terrena che punta a una ricostruzione filosofica di un mondo diverso, producono parvenze di verità parallele. La Steyerl è in questo senso un’erede di Poussin. Vorrei aggiungere che, quando nel 1869 viene pubblicato – ormai postumo – un articolo di Charles Baudelaire sull’arte tedesca del secolo precedente (l’arte sorta dalle concezioni del Winckelmann alla metà del Settecento, che influenza nazareni e neoclassici), egli la bolla nel suo complesso con l’espressione “arte filosofica”, ovvero un’arte il cui creatore ambisce a offrire una sintesi tra mondo esteriore e interiore. Secondo un’espressione famosa, l’arte filosofica è per Baudelaire “un’arte plastica che ha la pretesa di sostituire i libri, e dunque di competere con l’editoria per insegnare storia, morale e filosofia” [3]. E dunque mi sembra che la Steyerl non sia solamente l’espressione di un’arte filosofica e in fondo anti-romantica, ma anche di una tradizione che è da secoli molto presente nella cultura tedesca. Con la precisazione che, come spesso avviene, quel che per Baudelaire era un termine negativo, va letto oggi in senso positivo: l’arte di Hito Steyerl partecipa, nelle sue ambizioni, sia della filosofia morale come di quella politica.

Un’ulteriore precisazione è necessaria prima di analizzare più da vicino la raccolta degli scritti. Spesso si considera l’arte contemporanea come una massa magmatica, che tuttavia vive di occasioni comuni in momenti espositivi e liturgie estetiche che ne segnano lo sviluppo: le esposizioni regolari (biennali, triennali) ormai diffuse in tutte il mondo, le fiere d’arte, le riviste, ecc. Ebbene, quel che può sembrare un universo enormemente variegato, ma comunque espressione di un’opinione pubblica globale d’intenditori e amatori del contemporaneo (capaci di dialogare a livello planetario ed esprimere, sia pur in tutte le sue contraddizioni, l’esistenza di un mondo transnazionale) è invece, per la Steyerl, terreno di scontro. Per lei esistono un’arte globalizzata di regime e un’arte che pone invece radicalmente in dubbio la legittimità e l’esistenza stessa di quel regime. La sua installazione “Factory of the Sun” narra in forma di video i medesimi conflitti di cui l’artista scrive in “Duty Free Art”. Un giorno si guarderà forse alla sua arte con lo stesso distacco con cui prendiamo atto delle passioni che mossero un Honorè Daumier (1808-1879) o un Gustave Courbet (1819-1877) contro Luigi Filippo e Napoleone III; in quei giorni, tuttavia, la loro arte era anche espressione di lotta politica. Nella mia recensione mi sono permesso di fare citazioni selettive: ho evitato tutte quelle espressioni che mi sembravano fuori misura e forse offensivi, proprio perché credo che molti degli argomenti dell’artista vadano letti sine ira et studio, cogliendo in essi quelle suggestioni che sono valide anche per chi non ne condivide tutte le motivazioni.


Duty free art

Il titolo del libro si basa su uno dei concetti chiave del pensiero della Steyerl. A suo parere, l’arte contemporanea dovrebbe essere libera da ogni dipendenza, inclusa la pretesa di definire identità politiche e territoriali (e dunque dovrebbe essere sempre free of duty, o per utilizzare l’espressione più conosciuta, duty free); dovrebbe insomma rifiutare ogni sponsorizzazione economica [4], basarsi su piattaforme cooperative [5] ed essere anzi al servizio di un processo di decrescita costruttiva [6], che segni un cambio di passo nel modello di sviluppo globale. A suo parere un’arte di tal genere sarebbe qualcosa di più complesso della semplice proclamazione di un’arte ‘autonoma’, perché l’artista dovrebbe essere pienamente cosciente della dipendenza dell’arte contemporanea dai sistemi di potere [7].

L’arte contemporanea è molto lontana da questo paradigma, secondo la Steyerl. La produzione di opere d’arte, infatti, è divenuta un elemento di accelerazione del sistema economico (usando un neologismo, la Steyerl parla di ‘circolazionismo’ [8]). In pratica, l’arte è divenuta bene d’investimento per uno sparuto gruppo di supermiliardari sparsi per il mondo, che la prendono in considerazione e la comprano come alternativa alla moneta. Citando il collezionista californiano Stefan Simchowitz, “l’arte continuerà la sua funzione strutturale come moneta alternativa che serve a coprire il rischio contro inflazione e svalutazione della moneta” [9]. 

Invece di essere moneta emessa da una nazione e amministrata da banche centrali – scrive la Steyerl in un passaggio chiave di un suo saggio scritto apposta per essere inserito nel volume – l’arte è un sistema di valore che ha la forma di una rete di contatti, è decentralizzato e ben distribuito. Essa accresce la propria stabilità perché calibra credito e disgrazia tra istituzioni o cricche in competizione tra loro. Mercati, collezionisti, musei, pubblicazioni e l’accademia registrano asincronicamente (o nella maggior parte dei casi, non riescono a farlo) mostre, scandali, preferenze e prezzi. Come nel caso delle criptovalute, non vi è nessuna istituzione centralizzata a garantire il valore; al contrario vi è un guazzabuglio di sponsor, censori, blogger, sviluppatori, produttori, hipster, commercianti, patrocinatori, corsari, collezionisti e figure molto più confuse. Il valore dipende da una combinazione di chiacchiere, circolazione di idee e uso abusivo di informazioni privilegiate. Frodatori e artisti dell’imbroglio si mischiano in totale confusione con professori pontificanti, galleristi in piena crisi di nervi e studenti senza un soldo. Quest’ecologia informale può certamente essere soggetta a condizionamenti esterni, ma dal momento che tutti lo fanno, a volte l’effetto reciproco si neutralizza (sia pure a livelli altamente manipolati). L’arte è al tempo stesso molto malleabile e inerte, sublime, dopata, opaca, bizzarra e sfacciata: un gioco in cui la maggior parte dei fenomeni trascendentali sono nella lista d’attesa dei collezionisti” [10]. 

Potrebbe sembrare una condanna senza attenuanti, ma in realtà non lo è: l’arte è infatti – secondo l’autrice – la prima forma di un sistema economico anarchico, interamente basato su meccanismi alternativi, non legati alla produzione di beni, ma alla creazione di contatti: “Il risultato è un solido groviglio di lealtà feudali e inimicizie raggianti, amore rigettato e invidia fervente, energie vitali e brame messe in comune. In breve, il valore non è nel prodotto, ma nella rete; non nel tentativo di aggirare o predire il mercato, ma nella creazione di scambio” [11].

Vi è però una seconda ragione per la quale l’arte è definita come “duty free”. Per motivi di tassazione gli investitori conservano le opere da loro acquistate in porti franchi internazionali (il più famoso è Ginevra [12], ma molti altri sono stati aperti, come ad esempio a Singapore, nel Principato di Monaco e in Lussemburgo) dove le opere non sono soggette a tasse, ma non possono essere viste da nessuno. E qui si manifesta una contraddizione: l’arte non è arte se non può essere vista, ma oggi la sua visibilità è minacciata dal fatto che in gran parte è conservata in “musei segreti” [13] dove non la può vedere nessuno, se non quando è spostata provvisoriamente per eventi espositivi in giro per il mondo.

Se dunque vi è stata una fase durante la quale l’arte contemporanea era visibile a una parte crescente dell’umanità grazie alle grandi esposizioni universali (si pensi a Guernica, esposto all’esterno del Padiglione spagnolo a Parigi nel 1937), i nostri anni – scrive la Steyerl – sono contrassegnati dall’emergere di un’enorme asimmetria tra chi può godere della bellezza (è il famoso 1% della società che detiene una quota assolutamente sproporzionata di beni) e chi da essa è invece esclusa. Fino a qualche anno fa (quando si credeva ancora al valore liberatorio della globalizzazione), si sperava che l’internet potesse creare una comunità globale di intellettuali per liberare le energie di cui tutto il mondo è pieno; oggi l’internet è invece vissuto come sovrastruttura che manipola l’opinione pubblica mondiale, un “tecno-leviatano” [14] che opera attraverso strumenti di “stupidità artificiale decentralizzata” [15]: sono “tecnologie sociali di frammentazione (…): robot che azionano account twitter, si comportano come agitatori informatici, provocano fughe d’informazione e interruzioni dell’internet, tutti strumenti attivati per accelerare una regola autocratica (…). L’innovazione distruttrice causa polarizzazione sociale attraverso la decimazione dei posti di lavoro, la sorveglianza di massa e la confusione algoritmica” [16]. Alla robotizzazione è dedicata la più recente installazione di Hito Steyerl, presentata a Münster nel 2017 in occasione di “Skulptur Projekte 2017”, l’esposizione decennale di scultura.

Duty free art, a seconda dei casi, può dunque essere un’arte amica o nemica, ed è anche nel campo della produzione d’arte contemporanea che si combatte una vera e propria guerra civile planetaria, definita come il mix di una serie di conflitti regionali tradizionali (ad esempio in Siria, nelle regioni curde in Turchia), nuove forme di guerra non convenzionale attraverso gli strumenti della tecnologia (è la storia di Factory of the Sun), un aumento della diseguaglianza economica e l’impossessamento di proprietà attraverso l’uso dei diritti d’autore sulle immagini in un mondo governato dall’internet. Steyerl, citando il filosofo Giorgio Agamben, scrive che questa sorta di guerra civile è caratterizzata dal termine greco antico στάσις (stasi), che indica al tempo stesso guerra civile e immutabilità, estremo dinamismo e impossibilità di cambiare. È un processo in cui “quel che era privato è privatizzato usando violenza, e quel che prima era un odio privato diventa il nuovo spirito pubblico” [17]. È una guerra che si svolge non solamente nei teatri d’odio del mondo, ma anche nelle sale dei musei, e il cui obiettivo non è preservare il passato, ma impedire il futuro. Ed è una guerra che l’arte può vincere: la funzione dei musei, dunque, non deve essere quella di “preservare il passato, ma piuttosto di creare il futuro degli spazi pubblici, il futuro dell’arte e il futuro come tale” [18].

Perché i musei non sono spazi neutrali

L’autrice nota che la neutralità dei musei (e della loro funzione, che è quella di organizzare tempo e spazio della visita) è sempre e solo apparente. In linea con Peter Osborne [19], considera, in particolare, pura finzione l’impressione che i musei di arte contemporanea suscitano, quando ispirano al pubblico l’idea di un’universalità di valori. Contrariamente a quel che io penso, secondo Hito Steyerl non esiste un’arte contemporanea globale: “L’arte contemporanea ci mostra la mancanza di un tempo e uno spazio globali. Inoltre, proietta un’unità fittizia su una varietà di idee differenti di tempo e spazio, in tal modo fornendoci una superficie comune là dove non ve n’ è nessuna” [20]. In queste pagine la Steyerl è severissima con l’arte contemporanea, che “è resa possibile dal capitale neoliberale più l’internet, le biennali, le fiere dell’arte, commenti paralleli sull’internet e diseguaglianze economiche crescenti. Si aggiungano guerre asimmetriche (che causano una vasta redistribuzione di ricchezza), speculazione sul mercato immobiliare, evasione fiscale, riciclaggio di denaro sporco e mercati finanziari deregolamentati” [21].

Hito Steyerl cita il saggio Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism di Benedict Anderson [22], confermando che per creare una nazione può non essere necessario che quella nazione esista, ma è invece assolutamente indispensabile definirne la sua identità all’interno di un museo. L’autrice fa riferimento in particolare al Louvre, che diviene simbolo di potere dall’epoca rivoluzionaria in poi ed è preso d’assalto ogni volta che vi è un’insurrezione nella Parigi dell’Ottocento; cita poi il progetto di Assad di creare un nuovo Museo Nazionale di Siria a Damasco e l’esistenza di scambi di corripondenza della famiglia Assad con l’architetto Rem Koolhaas negli archivi di WikiLeaks; menziona infine un caso molto specifico, quello del museo municipale di Diyarbakir, che nel 2014 viene trasformato in campo profughi per la minoranza Yazida, perseguitata dall’Isis in Iraq, e diviene dunque luogo dove l’identità di quel gruppo si cementa (prima che l’Isis compia un orribile attentato nel museo stesso). L’autrice non dimentica infine come i totalitarismi del Novecento (nazismo e stalinismo) abbiano prima svuotato e poi riempito gli spazi museali, utilizzando il concetto di arte degenerata per eliminare il dissenso e accusando gli artisti di atteggiamenti elitari ogni volta che non si adeguavano alle direttive di regime [23].


Art in the Age of Planetary Civil War

Il sottotitolo di Duty Free Art è “Art in the Age of Planetary Civil War”. L’arte partecipa alla guerra civile planetaria in molti modi. In un caso isolato (ma paradigmatico) le truppe separatiste pro-russe di Kostantinovka, in Ucraina, liberano dal piedistallo sopra cui si trovava e rimettono in moto un IS-3 (un vero e proprio carro armato della Seconda Guerra Mondiale, che era parte integrante di un monumento per celebrare la liberazione della città nel 1943) e lo portano in battaglia nel giugno 2014. In questo caso, la storia invade l’arte. “Questa vicenda non è una storia nobile, quanto piuttosto qualcosa da essere studiato in nome dell'umanità per evitare che si ripeta. È una storia parziale, partigiana e privatizzata, un’impresa dominata dai propri interessi, uno strumento per sentirsi titolati, un ostacolo oggettivo alla coesistenza e una nebbia temporanea che cattura le genti, tenendole per il collo prigioniere di origini immaginarie” [24]. E, in futuro, i luoghi dell’arte potrebbero essere il centro dello scontro, come raccontano i registi Doug Liman nel film “Senza domani” (in cui il Louvre è il luogo in cui si manifesta l’invasione degli alieni) e Alfonso Cuarón nel film “I figli degli uomini” (dove quel che rimane dell’arte semi-distrutta dopo una guerra civile globale è conservato nei locali della Tate Gallery di Londra, trasformata in un imprendibile bunker cui solo una parte privilegiata dei sopravvissuti ha accesso). Il riferimento ovvio è quello alla distruzione di Palmira e di molti altri siti archeologici della Mesopotamia da parte di Daesh.


L’arte in un mondo di tecnologia

Quale sarà la fisionomia dell’arte nel mondo che verrà? Le stampanti 3D faciliteranno la creazione di superfici, in linea con la tradizione figurativa [25]. Ma questa sarà la minore delle innovazioni. Non si può escludere - scrive la Steyerl - che un giorno l’arte possa interagire con il pubblico. Grazie al riconoscimento facciale e ai programmi d’interazione tra i robot e la reazione del volto degli umani, l’opera robotizzata saprà adattarsi al gusto dell’individuo. Non vi saranno più, in questo mondo tecnologizzato, opere che non piaceranno. La robotizzazione dell’arte accrescerà il potere di giudizio del pubblico, oppure al contrario creerà una maggiore dipendenza dei cittadini da un potere centralizzato? L’artista teme che si possa verificare il secondo fenomeno, ponendo la necessità di ridefinire tutta la terminologia e i concetti di critica d’arte diffusisi nel ventesimo secolo. Insomma, non sarà un riscatto del pubblico verso un’arte contemporanea sempre più incomprensibile, ma piuttosto un altro episodio dell’affermazione di un controllo globale sulla società (l’autrice dedica due articoli ai pericoli di un nuovo fascismo).

In attesa delle nuove tecnologie, Hito Steyerl non ha comunque paura di far uso di quelle già esistenti che si basano sulla realtà virtuale. Invece di imitare la natura, l’artista può e anzi deve cambiarla facendo uso delle tecnologie informatiche (e qui mi sembra che concettualmente la Steyerl sia in linea con l’ideologia neoclassica, che sostituisce l’imitazione degli antichi all’imitazione della natura; il gioco elettronico è una nuova Arcadia). Molti dei suoi video rigettano ogni riferimento alla natura e somigliano dunque a enormi schermi per giochi elettronici. “Il punto è che i giochi non sono una conseguenza del fatto che i computer rendono il mondo più irreale. Al contrario, i giochi rendono i computer più reali. I giochi sono finzioni con capacità di generare (generative fictions)” [26]. In altre parola, l’autrice ritiene che possano generare “alcuni cambiamenti nelle relazioni reali” [27]. Ed è per questo che si lamenta del fatto che i suoi colleghi artisti tendano a negare il ruolo fondamentale del gioco nell’arte, perché “socialmente irrilevante o non abbastanza reale” [28].



L’immagine in un mondo interconnesso

Se per secoli i pittori, almeno da Cennino Cennini in poi, si sono dedicati alla questione della produzione dell’immagine tramite il controllo della tecnologia dei pigmenti, nell’era dell’immagine elettronica Hito Steyerl si dedica alle procedure di creazione elettronica. È il tema dell’installazione How Not to be Seen: A Fucking Didactic Educational .MOV File, presentata nel 2013 al MoMA di New York e successivamente in molte altre sedi, come serie di cinque lezioni su visibilità ed invisibilità.

In Duty Free Art, la Steyerl si concentra sull’illusione che ogni immagine sia una creazione personale, quando invece essa è quasi sempre il risultato dell’interazione con reti informatiche amplissime e onnipresenti. È il tema dello scritto Proxy Politics: Signal and Noise del 2014, originariamente pubblicato sulla rivista e-flux [29], e ripubblicato nel volume del 2017.

Qualche tempo fa ho incontrato una persona estremamente interessante: uno sviluppatore di programmi informatici. Stava lavorando sulla tecnologia della fotocamera per smartphone. La fotografia è pensata, in termini tradizionali, come la riproduzione di quel che è esteriore attraverso strumenti tecnologici, idealmente grazie alla capacità di rappresentarla in un contesto preciso. Ciò è ancora vero? Lo sviluppatore mi ha spiegato che la tecnologia per le macchine fotografiche da telefono è molto differente da quella per le macchine fotografiche originali: le lenti sono minuscole e fanno sostanzialmente schifo. Di conseguenza, metà dei dati catturati dalla camera sono sostanzialmente ‘rumore’. Il trucco, allora, è di scrivere l’algoritmo che neutralizzi il rumore, o in altri termini, consenta di riconoscere le immagini dall’interno del rumore. Ma come può la camera del telefono farlo? È molto semplice: il telefono scansiona tutte le altre figure immagazzinate nella camera o sui social media ed esplora tutti i contatti presenti. Analizza le foto che sono state già prese, o quelle che sono associate al proprietario, e cerca di combinare facce e forme per legarle a lui. Combinando quel che proprietario e la sua rete di contatti hanno già fotografato, l’algoritmo indovina quel che egli potrebbe aver voluto fotografare ora. Crea la fotografia presente sulla base di foto precedenti, sulla base della memoria del telefono e della memoria della rete. Questo nuovo paradigma è chiamato fotografia computazionale. Il risultato potrebbe essere un’immagine di qualcosa che non è mai esistito, ma che l’algoritmo pensa che voi vogliate vedere. Questo tipo di fotografia è speculativo e relazionale” [30]. Insomma, l’accelerazione tecnologica che consente a qualche miliardo di persone di produrre in un solo giorno molte più immagini nel mondo intero di quanto non sia stato fatto nel corso di anni è dovuta interamente alla disponibilità di strumenti fotografici individuali a prezzo relativamente basso e a calcoli probabilistici basati sulla nuova potenza delle reti informatiche. Sempre più quella tecnologia (già oggi utilizzata, per esempio, dalle grandi reti informatiche per setacciare le immagini che il pubblico posta continuamente, identificando ed escludendo attraverso algoritmi immagini inaccettabili, come quelle che mostrano un sesso maschile) filtrerà il contributo dell’individuo con logiche proprietarie definite dai giganti dell’informatica.

Vi sono ovviamente implicazioni importanti dal punto di vista dell’originalità dell’atto artistico, che diviene sempre più difficile (l’algoritmo si basa sulla probabilità della ripetizione). Ma vi sono anche aspetti più generali sul libero accesso alla visibilità informatica: secondo quali criteri la sostanza dei dati catturati dagli strumenti informatici viene identificata e separata dal rumore delle informazioni che non hanno consistenza alcuna? In termini molto pratici, come si è sicuri che – nell’identificare i materiali come terroristici, pornografici o comunque inaccettabili – il sistema non marginalizzi volontariamente informazioni che racchiudono invece un messaggio politico indesiderato? E come evitare che la discussione collettiva sull’arte non venga distorta intenzionalmente da robot informatici?


Concludendo

Si è fatto riferimento all’intervista dell’autrice con Łukasz Zaremba nel 2014, in cui Hito Steyerl propone una dicotomia tra le sue opere d’arte e i suoi scritti. Mi permetto rispettosamente di non essere convinto su questo punto. Leggere Duty Free Art accresce, non diminuisce, la capacità di comprendere la creazione dell’artista tedesca. Mi è senz’altro capitato più volte in questi anni di leggere scritti e memorie di artisti che erano assolutamente sorprendenti: dalle pagine traevo impressioni e informazioni che erano a volte molto divergenti da quelle che la visione delle opere aveva procurato non solamente a me, ma a gran parte del pubblico e della critica. Qui vi è un’assoluta coerenza.

Si potrebbe ovviamente commentare gli orientamenti politici dell’autrice, che chiaramente appartiene al campo degli avversari più radicali della globalizzazione. E tuttavia mi sembra che in una democrazia sia normale imbattersi in chi la pensa molto diversamente. Semmai, un punto di debolezza mi sembra la dipendenza dallo sviluppo delle tecnologie: se è vero che le ricette per la tempera e l’affresco di Cennino (all’incrocio tra gotico e rinascimento) non sono molto diverse da quelle che si usavano ancora nell’Ottocento, la velocità con la quale lo sviluppo tecnologico ha travolto molte delle opere d’avanguardia del secondo Novecento è eccezionale. Molte delle intuizioni di Hito Steyerl dipenderanno, in ultima analisi, non solamente dalla permanenza delle tecnologie di cui si è servita, ma anche dalla direzione che prenderà la tecnologia. Se l’elettronica sarà uno strumento di liberazione od oppressione dell’umanità – nel campo dell’arte come in quello della vita di tutti i giorni – non è ancora deciso.


NOTE

[1] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, Londra, New York, Verso, 2017, 256 pagine. Citazione a pagina 164.

[2] Zaremba, Łukasz - To Work as a Pixel. Interview with Hito Steyerl. In Szum, 20 dicembre 2014. https://magazynszum.pl/to-work-as-a-pixel-interviev-with-hito-steyerl/.

[3] Baudelaire, Charles - L’Art romantique, Paris, Michel Lévy Frères, 1869, 471 pagine.

[4] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 188.

[5] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 188.

[6] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 18.

[7] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 97.

[8] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 150.

[9] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 181.

[10] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), pp. 182-183.

[11] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 189.

[12] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 79.

[13] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 81.

[14] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 41.

[15] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 16.

[16] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 15.

[17] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 3.

[18] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 8.

[19] Osborne, Peter – Anywhere or Not at All: Philosophy of Contemporary Art, London, New York, Verso, 2013, 282 pagine.

[20] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 78.

[21] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 78.

[22] Anderson, Benedict - Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism. New York, London, Verso, 2006, 240 pagine. La traduzione italiana è uscita nel 2009: Anderson, Benedict - Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Traduzione di M. Vignale, Milano, 2009, 238 pagine.

[23] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 184-185.

[24] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 2.

[25] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 192.

[26] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 157.

[27] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 169.

[28] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 169.

[29] Si veda: http://www.e-flux.com/journal/60/61045/proxy-politics-signal-and-noise/.

[30] Steyerl, Hito - Art in the Age of Planetary Civil War, (citato), p. 31.

1 commento:

  1. Molto interessante. Grazie per le stimolanti informazioni.
    Auf Wiedersehen

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