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Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 15
Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 15
George Grosz
Una autobiografia
Una autobiografia
Milano, SugarCo, 1984, 336 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda
[Versione originale: febbraio 2018 - Nuova versione: aprile 2019]
[Versione originale: febbraio 2018 - Nuova versione: aprile 2019]
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Fig. 9) La più recente versione tedesca, pubblicata dalla casa editrice Schöffling nel 2009 |
Gli anni americani (1932-1946)
Il 26
aprile 1932, un telegramma da New York raggiunge Grosz nella sua casa di
Berlino: “La Lega degli studenti d’arte
la invita a tenere lezioni ogni
mattina in giugno, luglio ed agosto, per un compenso di centocinquanta dollari
al mese, e una lezione serale dall’inizio d’ottobre, per un compenso di centoventi dollari per mese, oltre a due lezioni di critica d’arte ogni mese.
Risponda immediatamente a nostre spese” [45]. The Arts Students’ League of New York è una scuola (ancora attiva http://www.theartstudentsleague.org/) creata a Manhattan nel 1875, con
un programma ‘democratico’ di apertura rispetto all’Accademia di Belle Arti di
New York: sin dalla sua fondazione vi vengono ammessi studenti meno abbienti e
sono accettate anche le donne. Per il pittore tedesco, che
nell’autobiografia scrive di aver ricevuto la lettera appena dopo aver fatto un
sogno premonitore sull’imminente repressione della libertà in Germania, la
decisione di partire è immediata: “Oggi
so che una forza volle preservarmi. Per che cosa, non so dire. Forse perché
testimoniassi? A ogni modo è così che venni in America” [46]. Si imbarca
(senza i famigliari) il 26 maggio. È l’inizio di un’attività d’insegnamento che
lo occuperà a New York senza interruzioni per 25 anni [47].
Grosz è un
uomo da sempre affascinato dall’America. L’autobiografia è piena, sin dagli
anni della gioventù, di ricordi che testimoniano la sua passione per le storie
di indiani e cowboy, per i vestiti e le macchine americane ma anche per gli
orsacchiotti di pezza, per gli ‘American
bars’ e per il ragtime. Le prime
pagine del capitolo “New York in giugno”
sono un inno al paese della libertà e delle grandi opportunità.
Arrivato in
America, i primi contatti sono con intellettuali di lingua tedesca già ben
insediati nel mondo dell’arte newyorkese: il collezionista di grafica austriaco
Max Morgenstern (1883-1946) e il mercante d’arte berlinese Israel Ber Neumann
(1887-1961). Quest’ultimo – dopo aver sostenuto secessione, dada ed
espressionismo a Berlino e in altre città tedesche – si lancia nell’avventura
americana già nel 1923, promuovendo con la sua galleria di New York tutta
l’arte moderna tedesca ed europea (Chagall, Archipenko), ma anche giovani
americani come Alexander Calder. “In quei
giorni Neumann era mio amico e mio agente. Poteva discutere d’arte per ore ed
ore, con la sua morbida e profonda voce” [48]. E tuttavia i suoi tentativi
di riuscire a lanciare l’opera di Grosz negli Stati Uniti, da un punto di vista
commerciale, saranno vani.
New York –
sia pur “in pieno periodo di crisi”
[49] per effetto del collasso dei mercati finanziari del 1929 e della grande
depressione – piace all'artista. “D’inverno
si vedevano signore in pelliccia che per strada vendevano mele, e molte persone
ben vestite che facevano la fila per accedere alla mensa dei poveri. Avevo per
molti anni visto cose ben peggiori e le ricordavo bene, cosicché queste non mi
parevano poi tanto strane. (…) Amavo
New York. E forse New York amava me; ma si deve amare, per essere amati. Non
avevo la comune abitudine tedesca di paragonare immediatamente ogni cosa a
quelle di casa, e criticare da quel punto di vista. Io, alle nuove impressioni,
prestavo me stesso, e prima di esprimere giudizi prendevo tempo. Cercavo
d’apprendere la lingua, d’assorbire e comprendere ciò che m’era estraneo e
sconosciuto” [50].
Il successo
come insegnante è immediato; quello come pittore, limitato. Il suo sarcasmo iconografico
non è in linea con il gusto americano. “Saltuariamente
mi commissionavano un disegno, ma mi dicevano sempre: «Non sia eccessivamente
tedesco, mister Grosz; non sia troppo amaro. Lei sa cosa vogliamo dire, non è
vero?»” [51]. I.B. Neumann gli organizza
una personale al Barbizon Plaza, un hotel di grandissimo profilo: “Strinsi le mani di un migliaio di persone.
Era stato magnifico, tutti erano felicissimi di fare la mia conoscenza; avevano
udito «tanto parlare di me» («Oh, ma certamente!»), sfortunatamente, però, era un successo di prestigio, più che di
denaro” [52].
Tuttavia, nonostante la sua arte non si venda, il pittore decide che la sua
vita è ormai in America; finite le lezioni, nell’ottobre del 1932, rientra in
Germania, ma solamente per organizzare il trasloco e ripartire di nuovo, questa
volta con la famiglia, nel gennaio 1933, pochi giorni prima delle elezioni che
porteranno al potere Adolf Hitler. L’intenzione originale del pittore, prima
della presa del potere di nazisti, non è di rompere i ponti con la Germania:
nell’agosto, settembre e dicembre 1932 pubblica su Kunst und Künstler tre lunghe Lettere
dall’America [53], vere e proprie corrispondenze giornalistiche che sono
un’altra testimonianza del suo stretto rapporto con la scrittura. Sono pagine
piene di entusiasmo e nulla traspira ancora dell’insoddisfazione profonda con
gli USA che descriverà anni dopo in Una
Autobiografia. Ma se nel 1932 Grosz si vede come un ponte tra America e
opinione pubblica tedesca, dopo la presa del potere di Hitler e l’incendio –
solamente un mese dopo – del Reichstag, l’artista si considera, di fatto, in
esilio volontario. L’intenzione di rompere con la Germania si consolida, dopo
aver saputo da amici che i nazisti l’hanno cercato invano nell’abitazione di
famiglia e nello studio. “Avevo ragione
di credere che m’avrebbero ucciso, se m’avessero trovato” [54].
Già durante
il primo anno di permanenza a New York, l’ispirazione come disegnatore satirico
si interrompe e subentra una vena più artistica. Ecco quello che scrive: “Allora (…) cominciai io stesso a cambiare. (…)
Sentivo che in me diventava predominante l’artista. Improvvisamente mi
disgustavano le distorsioni satiriche. (…) Non ero più interessato alle persone
intese come individui fatti di svolazzi divertenti. (…) E mentre le persone si
allontanavano, i paesaggi e la natura si avvicinavano, vedevo, nei particolari
le piante e i cespugli, l’erba e le foglie, le farfalle, le tartarughe, le
formiche. I miei panorami divennero desolati e privi di uomini. Era un segno
buono o cattivo per il mio sviluppo? Oggi posso dire che era un bene. Non era
una fuga, né un volo; era un accostarsi, una penetrazione” [55].
“Così fu, in America, la seconda metà della
mia vita, e cominciò con un conflitto interno; mi contrapponevo al passato, un
passato che respingo ancora oggi in un certo senso. Più che mai relego la
caricatura in una posizione inferiore nel contesto artistico; credo che
predomini in periodi di decadenza. Sicuramente, la vita e la morte sono grossi
soggetti, ma non adatti al sarcasmo e agli scherzi di buon mercato” [56].
“Mentre oggetti e persone diventavano
incessantemente più remoti, altri, nuovi mondi a un tratto s’aprivano. Scopersi
la natura nell’incertezza della sua semplicità, compattezza e bellezza, se pure
nell’inesorabile legittimità dei suoi elementi. Erravo per ore sopra le dune di
Capo Cod, e con umiltà cercavo di riprodurre i miei sentimenti sulla natura
come meglio mi era possibile, senza aggiungere od omettere nulla. Parole e
frasi ridondanti ed idealistiche cadevano giù come rami morti. Volevo essere un
artista libero, e credo d’esserlo stato da quel momento in poi” [57].
Questo
processo d’intimizzazione dell’arte avviene proprio nel momento in cui si
scatena il nuovo conflitto mondiale e dunque non può essere definitivo: “Allignano ancora in me i terrori, ma non
sono più visioni, sogni o caricature. Non sono inventati o progettati per
aiutare a educare l’umanità. Sono costituiti d’una materia apocalittica e
rivelano il dualismo del mondo dalla sua faccia nascosta, non il lato dove
tutto fiorisce, ma quello dell’omicidio, degli incendi, delle devastazioni e
della morte. Credo di sentire in me qualcosa dell’antica tradizione tedesca. È
questa tradizione che mi fa sempre vedere la dicotomia vita-morte; non posso
dunque più esclamare letteralmente ed ottimisticamente: «Vita!» «Vita!» «Vita!»” [58].
Le pagine
dell’autobiografia lasciano capire, tuttavia, che l’esperienza americana si
rivela, in sede di bilancio, una delusione. A quarant’anni assume la
cittadinanza della sua nuova patria: vuole “integrarsi
totalmente” [59] e si distanzia dall’atteggiamento degli esuli europei,
sempre pronti a criticare il paese che li accoglie per la sua assenza di cultura. Vuole perdere
l’arroganza europea [60]. Da un punto di vista pittorico, percepisce questo
processo come una liberazione, ma il successo non arriva mai: “Quanto più «americano» mi sentivo, tanto meglio dipingevo.
Neppure oggi so spiegare questo fenomeno, ma i miei oli divennero più ricchi, i
miei colori e le strutture più articolati, più plastico il mio modellare. In
superficie diventavo sempre più cinico e saltuariamente avevo eccessi di furore
contro l’arte e contro gli artisti. Sia l’una che gli altri, me compreso, mi
sembravano completamente superflui, e mi dicevo che sarebbe stato meglio se
avessi cambiato vocazione. Questi scatti di nervi, certo, si verificavano
sempre quando non vendevo, e ciò accadeva spesso per mesi e mesi di fila” [61]. Il pittore ha a disposizione
solamente il modesto salario d’insegnante all’Arts Students’ League, che integra con lezioni private. Il
tentativo di fondare una scuola propria di “pittura,
disegno, composizione e critica d’arte”, prima con il collega pittore
Maurice Sterne (1878-1957) e poi da solo non decolla [62]. In momenti fortunati
riceve incarichi d’insegnamento privato da industriali e famiglie benestanti.
Di conseguenza Grosz è molto spesso costretto a vivere anche d’espedienti,
raccontando menzogne alla moglie e a se stesso. La salvezza proviene da una borsa
di studio della fondazione Guggenheim e da un incarico come illustratore dalla
rivista Esquire [63].
La volontà
di assumere atteggiamenti e mentalità del paese ospite pone Grosz in conflitto
con alcuni dei maggiori intellettuali tedeschi in esilio. Il racconto
dell’incontro con Thomas Mann (1877-1955) [64], ad esempio, è particolarmente
spiacevole: lo scrittore e sua moglie sono convinti che Hitler sia un fenomeno
passeggero, e che di lì a qualche settimana il popolo tedesco si libererà di un
buffone; il pittore è sicuro, invece, che le masse tedesche siano ormai assuefatte
ad accettare ordini senza esitazioni e che ricevano dunque quel che si
meritano. La discussione, svolta nel corso di un pranzo, finisce con un
litigio e non vi sarà mai un secondo incontro. Grosz riceve la visita
dell’amico Brecht, ma di quell’occasione riporta solamente la brutta
impressione che gli lascia la guardia del corpo dell’ormai famoso letterato
[65]. Mostra invece molta empatia per il suicidio del drammaturgo Ernst Toller
(1893-1939) [66] e l’arrivo a Ellis Island dello scrittore Hans Borchardt (1888-1951),
che Grosz aiuta ad uscire dalla Germania dopo anni passati nei campi di
concentramento: nel corso della prigionia ha perso l’udito, un dito della mano
e la necessaria tranquillità [67]. Tra i molti incontri, Grosz conosce a New
York anche de Chirico, che descrive come uomo molto solo [68].
Un grande cinico
Che
immagine ricaviamo di Grosz uomo,
leggendone l’autobiografia? Nel 1954 il mensile Der Spiegel gli dedica la copertina, definendolo “Il più triste degli uomini in Europa”.
L’articolo, disponibile su internet in tedesco [69], parla di qualche verso che
Grosz ha composto sul tema, definendosi un “fenomeno della tristezza”.
L’espressione è divenuta quasi paradigmatica e viene portata ad esempio di
quanto la sua fosse la personalità di un uomo depresso. L’autobiografia inglese
del 1946 (e l’edizione tedesca del 1955) non presentano frasi simili. Tuttavia,
parlando della sua giovinezza, Grosz scrive: “Ero una persona più socievole allora di quanto lo sia oggi, così il
mondo mi sembrava più amichevole. Adesso so che ho vissuto la fine di un mondo,
e che gli ultimi anni di quel mondo perduto furono i più inconsapevoli e,
perciò, i più felici della mia esistenza” [70].
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Fig. 11) La prima delle tre Lettere dall’America pubblicate su Kunst und Künstler del 1932 |
Certamente,
sin dall’introduzione l’autore si compiace di ritrarsi come un grande cinico: “Se in merito al progresso sono diventato
scettico, è per le esperienze della mia vita intera. Mio è stato il tempo in
cui le più sentite dichiarazioni di fratellanza venivano proclamate a gran voce
mentre si combattevano le guerre più sanguinose della storia; era un conforto e
un suicidio in grande stile” [71]. A quell’attitudine di fondo contribuisce
sicuramente l’esperienza della trincea: “La
guerra significò orrore, mutilazione, devastazione. (…) Quando tutto si sfasciò
nella disfatta, qualche anno dopo, quando crollò ogni cosa, nulla rimase a me e
ai miei amici se non il disgusto, l’orrore” [72]. Negli anni seguenti,
l’esperienza negativa della Repubblica di Weimar lo segna per sempre,
colpendolo nella capacità di sperare nel raggiungimento del bene collettivo:
dopo quegli anni, l’artista crede solamente nella felicità come dimensione
privata: “Eravamo come barche al vento,
con vele bianche, nere o rosse. Talune issavano orifiamme con tre folgori, o
con la falce e martello, o con una svastica su un elmetto d’acciaio; da una
certa distanza, parevano tutte uguali. Non riuscivamo a controllare molto bene
le nostre imbarcazioni, e dovevamo manovrare accortamente per tenerle lontane
dal ciclone. Molte barche erano già state capovolte. La tempesta imperversava
ininterrottamente, ma noi continuavamo a navigare; non comprendevamo il suo
rumoreggiare, il nostro udito essendo obnubilato dalla fiumana dei comandi.
Tutti noi sapevamo che v’era un vento che soffiava da est, e un altro vento che
soffiava da ovest. E che l’uragano infuriava su tutto il globo. Era un
calderone bollente anche la capitale della nostra Germania. Non si vedeva chi
alimentava il fuoco; si poteva solamente scorgere che bolliva, e si sentiva il
calore che aumentava. V’erano oratori ad ogni angolo di strada, e cantori
d’odio, ovunque. Tutti erano odiati: gli ebrei, i capitalisti, i piccoli
borghesi, i comunisti, i soldati, i proprietari terrieri, gli operai, i
disoccupati, il Reichswehr, le commissioni di controllo, i politici, i
commercianti e, ancora, gli ebrei. Era una vera orgia d’istigazioni, e la
Repubblica era così debole che la si poteva notare a malapena. Tutto ciò doveva
concludersi con una potente deflagrazione. Era un mondo del tutto negativo, con
una gaia schiuma colorata in superficie che molti scambiavano per la vera, la
felice Germania prima dell’eruzione dei nuovi barbari” [73]. Le conclusioni
a cui porta questo discorso sono totalmente in contrasto con l’immagine che
normalmente ci viene proposta di Grosz artista politico che denuncia i
privilegi di classe della grande borghesia: “Ponderai allora molto su ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.
Era nell’aria. Ma sempre le mie conclusioni venivano a detrimento di ciascuno.
Classificare le persone in bianche e nere sarebbe potuto essere un metodo
efficiente per trattare con le masse, ma ciò andava contro il mio buon senso.
Quanto più s’ingrandiva il gruppo al quale m’ero associato, tanto più ero
diventato individualista. Pervenni finalmente alla convinzione che il mondo è
come un fenomeno naturale, un eterno va e vieni, e non è detto che debba essere
necessariamente spiegato. Ammetto che questo non era propriamente un concetto
religioso, ma dopo Nietzsche dubitavo della «moralità»; non v’è il bene o il male, nella
pioggia e nel vento, nelle eruzioni vulcaniche, o nella neve che ci punge le
gambe” [74].
Ciò che è
chiaro è che l’artista ha grande nostalgia del vecchio regime guglielmino, come
epoca contraddistinta da stile e profondità di pensiero: “Ogni cosa che noi oggi sperimentiamo come repellente banalità ebbe
inizio durante la prima guerra mondiale. La volgarità della vita pubblica che
noi ora accettiamo era allora mitigata da un regime aristocratico moderato.
Qualcosa del vecchio umanesimo dei sommi poeti e pensatori era ancora in vita;
i tempi dei campi di concentramento, delle esecuzioni in massa, degli odi
razziali e di classe non erano ancora arrivati” [75]. Quel mondo ovviamente
racchiudeva già in sé tutti i germi della propria rovina: “Vivevamo ancora negli spensierati anni che precedevano la prima guerra
mondiale, non ancora nel mondo che Nietzsche aveva presagito. I superuomini, i
distruttivi Machiavelli esistevano, ma ancora confinati nei caffè bohémien,
negli studi e simili, o davano sfogo ai loro sentimenti sulle colonne dei
giornali. Gli orologi del tempo già erano puntati. Hitler, Mussolini, Lenin,
erano vivi, avevano le loro carte di viaggio e sapevano dove avrebbero dovuto
cambiare convoglio. Ma a noi, comuni mortali, il futuro non era stato ancora
rivelato. Grida sporadiche di sacerdoti oracolari suonavano importune,
sgradevoli. Gli esseri umani sono innanzitutto ottimisti e desiderano
sopravvivere, così s’otturano le orecchie con la cera della speranza, fino
all’ultimo istante, ed evitano Cassandra” [76].
“Vivevamo in un quieto, poco dispendioso
mondo che non aveva sentito l’odore del sangue e non aveva veduto cadaveri da
quasi cinquanta, incredibili, anni di pace, ed era diventato tanto «molle» che la gente si sconvolgeva per il
minimo segno d’umana ingiustizia. Eravamo vicini al disprezzo
fascista-bolscevico nei confronti degli esseri umani, che vedeva l’uomo come un
perfetto zero privo d’identità. Vicini, sempre più; eppure, vi sarebbero stati
ancora alcuni anni di «diritti umani». Vi era ancora una traccia degli
eccelsi umanisti i quali avevano vissuto e lavorato in Germania, nei primi
dell’Ottocento, di Goethe, di Weimar in quanto concetto di cultura, dei
fratelli Humboldt, di Hardenberg, Winckelmann, Büchner, del pensiero romantico
tedesco – sebben quel movimento irrazionale avesse seminato ciò che non sarebbe
sbocciato sino dopo il 1918. Prima della prima guerra mondiale, il socialismo
tedesco s’identificava col pacifismo e, grazie a Dio, nel nostro paese non
v’erano comunisti. Rosa Luxembourg, la «Rosa Rossa» era socialista; diventò comunista
solo in seguito al collasso della Germania e dopo aver espresso a Lenin la
propria disapprovazione di taluni principi” [77].
Un uomo solo contro le masse
Se c'è una
linea di continuità lungo l’intera biografia, questa è l’orrore della
massificazione. In ogni momento della sua vita, Grosz dice di essere terrorizzato all’idea di
perdere la sua individualità e affidare il suo destino ad un movimento ‘di
popolo’. Ciò vale già negli anni in cui è appena giunto da Dresda a Berlino,
immediatamente prima della Grande Guerra: “Le
mie speranze personali non furono mai con le masse, anche prima che conoscessi
l’opera di Spengler e il chiarissimo Gustave Le Bon. Anche il mio modo di
vivere dimostrava la mia tendenza a dissociarmi. Vivevo al di sopra d’ogni cosa
e d’ognuno, in uno studio in una soffitta, più vicino alla luna, alle stelle,
agli uccelli che alle persone, dalle quali avrei sempre potuto discendere, se
ne avessi voluto voglia. Le mie speranze erano basate su me solo, non su altri.
Senza essere un intellettuale egotista, solamente a me stesso prestavo
attenzione. Volevo aver successo, questa era la summa e la sostanza della mia
filosofia, e probabilmente il credo di molti giovani artisti. Naturalmente ero
completamente apolitico [78]”.
La
diffidenza – anzi l’odio proclamato –
nei confronti di ogni istituzione collettiva si materializza presto,
negli anni del servizio militare durante la Prima Guerra Mondiale (a cui
tuttavia – lo ricordiamo ancora una volta - partecipa come volontario): “Odiavo essere un numero; l’avrei odiato
anche se quel numero fosse stato alto. Ne fui tanto angustiato che finalmente
ebbi il coraggio di gridarlo. Lottavo contro la fetida stupidità e brutalità,
ma restavo in una minoranza. Da parte mia non era che una semplice autodifesa.
Non ero per alcun ideale o credo; io difendevo me stesso. Un credo? Ah! Credere
in che cosa? Nell’industria pesante tedesca, nei grossi pescecani? Nei nostri
illustri generali? O nella nostra diletta madre patria? Almeno avevo il
coraggio di urlare ciò che molti pensavano. Probabilmente era follia, più che
coraggio. Ognuno attorno a me aveva paura. L’avevo anch’io, ma non temevo di
resistere ad essa. Di questo discusso tema, potrei scrivere pagine su pagine,
ma ciò che ho da dire può essere visto nei miei disegni” [79].
Grosz viene
congedato per motivi di salute, ma, col procedere della guerra, è nuovamente
riarruolato (questa volta non come volontario): “Ero stato nuovamente richiamato, verso la metà del 1917. Questa volta
dovevo addestrare reclute, e custodire e trasportare prigionieri di guerra. Ma,
semplicemente, non ne potevo più. Mi trovarono una notte, quasi privo di sensi,
con la testa nella latrina… Rimasi in infermeria per un tempo abbastanza lungo.
Improvvisamente, mi dissero che stavo bene. Non era vero, avevo i nervi a
pezzi, così rifiutai di alzarmi, poi, infuriato, assalii fisicamente il
sergente medico. Non potrò mai dimenticare con quale lurido entusiasmo sette
dei miei «compagni» di cura mi si lanciarono contro. Uno di loro, che nella vita civile era
un fornaio, si gettò con tutto il suo peso sule mie gambe, esclamando con
gioia: «Devo camminarti sulle gambe, devo calpestarle, le tue gambe! Questo ti
calmerà un po’». Ottenne ciò che voleva. Questo incidente si stampò nella mia mente in
maniera indelebile; come quella gente normale, innocua in altri momenti,
m’avesse percosso, e come ne avesse goduto. Non v’era animosità personale.
Erano mossi dal principio inconscio: noi non protestiamo, e non lo puoi fare
neanche tu. «Lasciate che gli spezzi le ossa!». Probabilmente, dopo di ciò avremo [sic]
continuato tranquillamente a giocare a carte, a bere birra assieme, a fumare e
a raccontarci storielle sporche. Questo accadde nel 1917, tempo in cui nessuno
piú credeva in qualcosa, e noi nell’infermeria ci nutrivamo di vegetali secchi,
caffè fatto con le rape e miele artificiale che intaccava le pareti del nostro
intestino. Non avevo mai creduto nella solidarietà delle masse, e mai avevo
desiderato di vivere con le masse; ma allora, in guerra, quando potei toccare
con mano cosa siano le cosiddette masse, trovai solidarietà solo in casi
isolati, da amico ad amico” [80].
Anni dopo,
qualche giorno prima di lasciare la Germania per gli Stati Uniti, parlando
questa volta dei primi anni trenta, Grosz conferma: “Allora m’interessavo ancora di politica, ma la mia fede nelle masse era
diventata vacillante – come, francamente, il mio credo nell’arte come «missione». Avevo gradualmente recepito che la
propaganda era molto sopravvalutata, che gli agitatori non capivano che la loro
azione aveva su loro stessi un effetto diverso da quello che esercitava sulle
loro masse tanto amate, e che i leader, coi loro piacevoli slogan,
consideravano le masse proletarie alla stregua di un branco di pecore, del
quale essi si ponevano alla testa” [81].
La dimensione del racconto
Una delle
caratteristiche principali di Una
autobiografia - lo si è già detto - è la dimensione del racconto. Basti
pensare, ad esempio, al lungo capitolo in cui Grosz spiega la crescente
presenza del nazismo in Germania narrando una favola dalla conclusione infausta
(intitolata “Un racconto di fate”)
[82]. La dimensione del racconto è prevalente anche nel ricordo della visita
all’anziano romanziere Karl May [83], nelle pagine in cui spiega il fallito
tentativo del Dottor Stadelmann – uno dei sostenitori del dadaismo – di
richiamare in vita gli spiriti [84], nel resoconto irriguardoso del ricevimento
all’ambasciata sovietica di Berlino [85], nella bella descrizione del viaggio
nel capitolo “La Russia nel 1922” [86], nelle pagine sulla “Vita in America” in
cui racconta con molto distacco dei suoi umilianti tentativi di farsi assumere
a Hollywood [87]. Insomma, il Grosz di Un’autobiografia
è, soprattutto, uno scrittore.
Vorrei qui
riprodurre, a conclusione di questa recensione, alcune pagine di contenuto
erotico. Contengono il ricordo della prima volta in cui il giovane Grosz, ancora
bambino, spiando da una finestra, vede una donna spogliarsi e l’osserva
meticolosamente. Quella donna è, per molti aspetti, la sua prima modella; forse
l’artista racconta quell’episodio avendo in mente i movimenti e le posizioni
che, nei decenni successivi, ha chiesto alle modelle di assumere. All’episodio
– che qui riporto solo in parte – è dedicato un intero capitolo: “Sbirciando nella tredicesima stanza”
[88]. Da un punto di vista temporale, come si è detto, si tratta di una vicenda
del periodo giovanile, già rievocato nei ricordi pubblicati sulla rivista Kunst und Künstler nel 1931. Tuttavia
nel 1931 l’artista non ne parla, e, a mio parere, queste pagine sono state
scritte molto dopo quella data, molto probabilmente negli Stati Uniti.
Proprio
negli anni americani, infatti, Grosz sviluppa appieno la vena erotica che era
sempre stata presente nella sua arte (sin dal periodo Dada degli anni venti),
facendone uno dei temi costanti della sua attività e producendo una serie molto
ampia (persino ripetitiva) di nudi di donna. Sembra quasi che Grosz abbia
percorso la stessa traiettoria che ha interessato gli ultimi anni di
vita di Reboir, quando scoprì Rubens come fonte d’ispirazione. Rispetto ai decenni
precedenti, i nudi di Grosz negli anni americani sembrano aver abbandonato ogni
aspetto caricaturale e paradigmatico della condizione umana nella società (fino
ad allora la donna era stata sempre rappresentata nuda per dissacrare; quasi sempre,
la nudità e la giovinezza delle donne erano contrapposte alla presenza di
uomini sempre più anziani, ritratti in
abiti civili e professionali, a segnalare che si trattava di scene di
prostituzione) e rivelano piuttosto il piacere dell’osservazione di corpi
flessuosi, in posizioni dalla forte carica erotica.
Nei nudi
americani di Grosz, la donna è spesso immersa nella natura, come espressione
della comune bellezza del corpo femminile e del paesaggio. Secondo i curatori
della mostra “Grosz. Gli anni in America
1932-1958”, a servire da modella nelle dune dell’amata spiaggia di Capo
Cod, nel Massachusetts, fu la moglie Eva (1895-1960) [89], ritratta, a secondo
dei casi, alla maniera di Rubens, Boucher o Dürer. Non bisogna dimenticare,
peraltro, che Grosz fu per molti anni professore di nudo all’Arts Students’ League of New York.
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Fig. 12) La copertina su Der Spiegel,nel 1954 definisce George Grosz come "l'uomo piú triste in Europa" |
Il
dettaglio della scrittura, la cura della descrizione dei movimenti, il diario
delle emozioni del giovane, l’attenzione alla caduta di ogni capo
d’abbigliamento, la progressiva scoperta di sempre più remote parti del corpo,
tutto ciò sembra rappresentare il corrispondente letterario di un’arte che è
divenuta scopertamente sensuale. L’atteggiamento della critica è stato quello
di considerare i nudi di Grosz come un’appendice ‘proibita’ della sua attività
d’illustratore per riviste leggere come Vanity
Fair, un po’ come se si trattasse di fumetti erotici segreti.
L’autobiografia (in particolare queste pagine sulla sua prima scoperta di un
nudo femminile) ci aiuta però a scoprire un’ispirazione sempre presente nella
sua vita e ormai prevalente, negli anni quaranta, sul filone politico-sociale.
Ecco lo
scritto: George quasi ancora bambino è andato a visitare un amico e, sul punto
di entrare la sua casa, ha scoperto che può ammirare di nascosto – attraverso
una fessura – il corpo di una donna che si sta spogliando.
“Nel
frattempo, la donna aveva aperto la blusa, e io guardavo attentamente,
deliziato, dalla fessura a forma di cuore. I suoi seni gonfi, prosperosi, erano
spinti verso l’alto dal corsetto alla moda. Erano come due pesche mature in un
cesto, e il cesto era ornato di pizzi, come in un rinomato negozio di frutta,
perché la moda decretava che una camicia dovesse essere indossata sotto il
corsetto. Poi si tolse la gonna. S’abbatté come una conchiglia, fuori portata
della luce, nel circolo d’ombra del tappeto. La seguì una sottoveste
luccicante. E pure questa cadde sul pavimento. Erano come pelli, pensavo,
sconvolto a quella vista.
La zia del mio amico doveva avere allora circa
trentotto anni. Era una cosiddetta signora altera, il tipo di donna che a quei
tempi gli uomini prediligevano. C’era stato qualche pettegolezzo quando il
padre del mio amico l’aveva portata nella sua casa: veniva da una grande città
ed era vestita con ricercatezza; bastò questo perché nella nostra piccola città
sorgessero sospetti. Non si sapeva nulla di specifico; si supponeva avesse
avuto un affare d’amore, o qualcosa di simile, ma erano solo illazioni,
mormorii, perché, ripeto, nulla di concreto si sapeva. E il suo comportamento
era sempre ineccepibile, impeccabile, anche con noi ragazzi.
Era statuaria, anche se d’altezza media; aveva
capelli scuri, non neri ma scuri, acconciati in una crocchia… E io ero là,
paralizzato. Ogni cosa attorno a me si dissolveva. I miei occhi erano in quella
stanza. La donna ora era in piena luce, semi spogliata. Le bianche mutande di
batista con il nastro blu erano lunghe, fin sotto le ginocchia. Sebbene fossero
doviziosamente tagliate, aderivano strettamente alle cosce forti. Erano
allacciate attorno alla vita con un nastro. Vidi i robusti polpacci nelle calze
nere che si assottigliavano nello scendere fino agli stivaletti allacciati che
sembravano eccessivamente piccoli.
Non avevo mai veduto nulla di simile, forse ne
avevo solamente sognato ad occhi aperti. Lei si piegò, raccattò gli indumenti
dal pavimento – le curve dei suoi fianchi pieni s’accentuarono un istante,
strettamente fasciati dal batista – e li lanciò distrattamente su una sedia.
Attorno a me non un rumore. Assorto com’ero
nell’avvincente spettacolo, qualcuno sarebbe potuto arrivare e cogliermi sul
fatto. La donna si diresse al lavabo e tornò sui suoi passi. Si slacciò
qualcosa sulla schiena; sollevò le gambe e sgusciò dai mutandoni. La camicia,
un poco gualcita [sic], frusciò giù come una cascata. Era molto lunga. Raccolse
le mutande per riporle sulla sedia con altri indumenti. Era ora in camicia,
corsetto, e reggiseno che si tolse; il corsetto allacciato creava rotoli di
carne, visibili anche sotto la comoda camicia. Si pose le mani sui seni;
cominciò ad aprire i ganci del corsetto. Ci voleva un certo sforzo, potevo,
quasi, sentire l’affanno del respiro. S’aperse la parte superiore del corsetto.
I grandi seni furono liberati, si riversarono fuori piano, ancora trattenuti
dal bordo della scollatura triangolare di pizzo di camicia.
Adagiò il corsetto con gli altri indumenti. Ora
indossava solo la camicia. Esitò un po’; sollevò una mano al capo come
intendesse ravviarsi i capelli, ma scese sulla camicia. Movimenti inconsci,
probabilmente. Si sedette sulla sponda del letto; spinse di lato gli indumenti
che v’erano sopra e si portò nuovamente la mano ai capelli, sfilandosi una
grossa forcina. Si piegò accavallando le gambe; si sbottonò le scarpe.
Intravedevo, attraverso la scollatura, i seni che pendevano come frutta matura.
Si sfilò le scarpe e arrotolò le calze. M’avvidi solo allora che portava le
giarrettiere. I suoi gesti avevano spostato d’un tanto la camicia rivelando la
polpa rosata delle cosce, dove le giarrettiere avevano lasciato il segno.
Sull’orlo del letto, era in piena luce. S’arrestò un istante, sbadigliò e di
nuovo si passò le mani sulla camicia. Si raddrizzò. Notai con piacere che i
seni, sotto la bianca batista, erano ritti, come montagnole. S’alzò in piedi
improvvisamente, le mani raggiunsero le ascelle, e si sfilò la camicia.
Osservai senza respirare quel morbido e
voluttuoso corpo di donna matura, che con lentezza emergeva dal candido
involucro. Sembrava che lo stesso arredamento della stanza partecipasse a
quello spettacolo. Non stava allungandosi, la sedia, per poter vedere meglio?
Non pareva che la lampada guizzasse? Assorbivo tutto, in un’eccitazione
mozzafiato. Ero turbato, ma incantato. Era fatta così, una donna! Queste due
metà!
Si volse e mostrò una schiena scultorea.
Estasiato, ammiravo i rosei, torniti globi delle natiche, con quelle buffe
fossette. Notai i rotoli di grasso che spesso hanno le donne voluttuose. E con
felice sorpresa scoprii qualcosa di scuro, come un largo cuore peloso, sotto il
ventre rotondo e chiaro.
Mosse alcuni passi con naturalezza; e come
infatti poteva sapere che qualcuno, in questo caso io, la stesse guardando? Si
stirò, si lisciò il corpo; giunse allo specchio e sollevò le braccia,
cominciando a pettinarsi. Aveva peli sotto le ascelle, scuri come i capelli.
Erano piccole oasi, questi ciuffi di peli, che punteggiavano un vasto e
armonico paesaggio di dune carnose, dove poteva rifugiarsi l’assetato per
riposare, dopo aver vagato sulle arroventate dune, piccole e grandi. Si sfilò
le forcine dai capelli, ne tenne qualcuna in bocca e depose le altre sul
tavolo. Aveva pure una sorta di toupet, che si usava per rendere l’acconciatura
più tonda e più alta. I suoi capelli si srotolarono e le coprirono metà schiena.
Cercò uno spillone che le era caduto, chinandosi e volgendomi la schiena. Non
lo rintracciò immediatamente, e di nuovo scorsi quella macchia scura, quel
qualcosa in forma di cuore stretto fra le cosce.
Mi sentii febbricitante. Ero scosso
dall’eccitazione e non riuscivo a strapparmi di lì. Ero intontito. Com’era
possibile che questa rispettabile signora borghese producesse a un tratto
un’impressione così diversa? Era una metamorfosi? Riconoscevo a fatica la zia
del mio amico, per il modo col quale si muoveva in quella sua camicia. Qualcosa
era venuto via insieme con i vestiti, e questo era il frutto stesso. Sensualità
femminile allo stato puro, completa d’ogni attributo. Curve bianco-rosate,
ombre di carne, vene bluastre in evidenza sulla pelle bianca. Mi venne in mente
di colpo un cavallo che avevo veduto. Una giumenta fulva, grigia e bianca. Non
aveva i medesimi posteriori? Questa fu la prima volta che vidi una donna nuda e
questa esperienza mi stimolò sino al midollo. Era una cosa immensa” [91].
NOTE
[46] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 245.
[47] George Grosz, The Years in America (citato), p. 244.
[48] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 250.
[49] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 251.
[50] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 251.
[51] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 255.
[52] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 255.
[53] Si veda: http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1932/0287?sid=c3906b874b9e99b972614f5fffc038f0;
http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1932/0447?sid=c3906b874b9e99b972614f5fffc038f0.
[54] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 266.
[55] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 259.
[56] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 259.
[57] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 260.
[58] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 260.
[59] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 269.
[60] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 270.
[61] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 272.
[62] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 296-298.
[63] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 302.
[64] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 308-310.
[65] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 304.
[66] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 311-314.
[67] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 314-317.
[68] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 321.
[69] Si veda: http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-28956891.html.
[70] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 96.
[71] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 8.
[72] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 110.
[73] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 165.
[74] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 168.
[75] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 22.
[76] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 96.
[77] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 97.
[78] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 97.
[79] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 110-111.
[80] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 121.
[81] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 265.
[82] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 220-239.
[83] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 85-86.
[84] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 156-163.
[85] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 169-173.
[86] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 178-200.
[87] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 281-291.
[88] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 30-38.
[89] George Grosz, The Years in America (citato), p. 86.
[90] George Grosz, The Years in America (citato), p. 36.
[91] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 33-38.
[54] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 266.
[55] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 259.
[56] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 259.
[57] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 260.
[58] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 260.
[59] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 269.
[60] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 270.
[61] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 272.
[62] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 296-298.
[63] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 302.
[64] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 308-310.
[65] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 304.
[66] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 311-314.
[67] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 314-317.
[68] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 321.
[69] Si veda: http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-28956891.html.
[70] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 96.
[71] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 8.
[72] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 110.
[73] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 165.
[74] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 168.
[75] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 22.
[76] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 96.
[77] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 97.
[78] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 97.
[79] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 110-111.
[80] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 121.
[81] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 265.
[82] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 220-239.
[83] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 85-86.
[84] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 156-163.
[85] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 169-173.
[86] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 178-200.
[87] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 281-291.
[88] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 30-38.
[89] George Grosz, The Years in America (citato), p. 86.
[90] George Grosz, The Years in America (citato), p. 36.
[91] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 33-38.
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