English Version
Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 15
George Grosz
Una autobiografia
Milano, SugarCo, 1984, 336 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima
[Versione originale: febbraio 2018 - Nuova versione: aprile 2019]
Storia di un testo
La
prefazione dell’autobiografia spiega che molti avvenimenti sono stati
intenzionalmente omessi (il pittore introduce l’immagine di una ‘nebbia’ che li
ha avvolti, parlando di ‘dimenticanza’; sappiamo però che aveva conservato un
archivio accurato di tutte le sue cose) [6].
Alcune
omissioni colpiscono davvero. In primo luogo è evidente la reticenza
dell’artista nei confronti di Richard Müller, suo insegnante all’Accademia di
Belle Arti di Dresda, sotto il quale studiò nel 1910. Sappiamo (le lettere di Otto Dix in merito ne sono conferma) che, con l’arrivo
al potere di Hitler nel 1933, Müller si trasformò in censore implacabile,
espellendo dall’Accademia di Dresda figure come lo stesso Dix stesso e molti
altri insegnanti di indirizzo espressionista. Ebbene, Grosz descrive certamente
Müller [7] come uomo insopportabile, autoritario e intollerante nei confronti
di ogni avanguardia (durante una lezione Müller dichiara letteralmente che
Nolde “si ficca le dita nel culo e
imbratta la carta” [8]), ma non dice che (sia pur decenni dopo il loro
incontro) sarebbe stato uno dei maggiori protagonisti dell’epurazione nazista.
Un’epurazione che, in termini artistici, - lo si ricordi – riguardò anche lui.
Tuttavia Grosz ricorda Müller come un insegnante che non è noioso, e apprezza
le sue qualità come pittore. Questi giudizi positivi possono essere
comprensibili nei Ricordi pubblicati
da Grosz su Kunst und Künstler nel
1931 (in quella data Müller non si era ancora rivelato appieno un attivista
politico spregiudicato a servizio del regime), ma sorprende che nella versione
del 1946 non sia stato modificato nulla. Certo, sarebbe stato facile per Grosz
aggiungere anche un breve accenno al passato nazista di Müller: se non lo fece,
credo che vi dovessero essere dei motivi: forse aveva un debito di riconoscenza nei confronti di Müller per avergli insegnato a disegnare in maniera molta precisa – una delle cose che considerava più importanti.
Uno dei
messaggi dell’autobiografia oggi più ignorati è che Grosz ripudia, dopo
il trasferimento negli Stati Uniti, gran parte della propria produzione
precedente, che considera semplicemente caricaturale, e non arte nel senso puro
del termine. Il passaggio dallo stile dissacrante dell’epoca di Weimar ai
paesaggi e ai nudi degli anni americani è spesso interpretato come una
‘regressione’, dovuta all’impossibilità di praticare un’arte politicamente
aggressiva in un mondo dominato dal sistema di mercato capitalista e dai gusti
consumistici. Grosz, invece, ne dà una lettura assolutamente diversa: considera
quel passaggio come la conseguenza di una maturazione artistica, ma anche come
il ritorno alla propria vena originale, andata persa per colpa della guerra. Il
fatto che la prima mostra sull’arte ‘americana’ di Grosz si sia tenuta alla David Nolan Gallery di New York
solamente nel 2009 [9] spiega bene quanto la ricezione del suo messaggio sia
stata di fatto inesistente.
Ne consegue
che Grosz si trova, per uno strano gioco del destino, in una situazione molto
simile a quella di Dix,
che nelle sue lettere rivendica l’autenticità della sua arte degli anni ‘30 e
‘40, che abbandona i temi politici e sociali dell’arte di Weimar ed è invece
dominata da paesaggi e temi religiosi, e cerca invano di proporla al pubblico
tedesco come la sua creazione più autentica (sia nella Germania Federale sia in
quella Democratica). Entrambi non riusciranno nella promozione del loro nuovo
linguaggio pittorico: il loro (enorme) successo in Germania e nel mondo, dal
dopoguerra fino a oggi, rimarrà esclusivamente legato alla produzione nel
periodo di Weimar, e a una creazione artistica di chiara impronta politica.
Come spiegare tutto ciò? Nel dopoguerra, sia negli Stati Uniti sia in Germania,
la pittura figurativa entra in crisi (è associata sia all’arte nazista sia a
quella comunista) e viene rapidamente sostituita dall’arte astratta. Non a caso,
Karl Hofer e
Max Pechstein sono
protagonisti negli anni ‘50 di una fallita crociata contro l’arte astratta; chi
rimane ancorato al figurativo è sospettato di antimodernismo o (al peggio) di
adesione a visioni totalitarie del mondo. L’adesione di Grosz e Dix a un’arte
classicista e figurativa non convince.
Negli anni
seguenti (e in maniera più evidente dopo il viaggio in Russia nel 1922) Grosz
si allontanò dalle posizioni filo-sovietiche, ma le sue immagini degli anni
venti continuano ad essere universalmente interpretate negli anni trenta (sia dai suoi estimatori sia dai suoi oppositori) come espressione di una critica durissima nei confronti
della Repubblica di Weimar, condotta da posizioni di sinistra radicale. Non ci
si può insomma sorprendere se, sfogliando i cataloghi dedicati alla produzione
di quegli anni, Grosz viene considerato, dagli ambienti nazionalisti prima (e
dai nazionalsocialisti poi), come il maggior esponente di un preteso
‘culturbolscevismo’ pittorico. Ebbene (lo sottolinea Barbara McCloskey nella
sua introduzione alla versione americana del 1997), l’intera autobiografia
dell’artista sembra invece essere stata scritta da Grosz per smentire
quell’immagine.
Dalla giovinezza alla Grande Guerra: realismo, caricatura, illustrazione
Prima della
Grande guerra Grosz non si considera parte di un’avanguardia artistica; il
conflitto cambia però tutto e lo fa aderire al movimento dadaista, fondato al Cabaret Voltaire di Zurigo nel 1916 e
subito arrivato a Berlino. “Se ciò
esprimeva qualcosa, era la nostra eccitata irrequietezza, il nostro scontento,
il nostro sarcasmo. Ogni sconfitta nazionale, ogni cambiamento verso una nuova
èra [sic], partorisce simili movimenti. In altri tempi, avremmo potuto essere
flagellanti” [33]. Al Dada è dedicato un intero capitolo, con ricordi di
tante azioni bizzarre compiute assieme agli scrittori Richard Huelsenbeck (1892-1974) e Franz Jung (1888-1963) e ad artisti come Kurt Schwitters (1887-1948), Johannes
Baader (1875–1955) e Rudolf Schlichter (1890-1955). Più che come movimento
estetico, Grosz pensa al Dada come a un atteggiamento dissacrante collettivo. “Noi dadaisti tenevamo «meetings» (usavamo il termine inglese)
durante i quali, alla gente che aveva pagato un piccolo biglietto d’ingresso,
non si diceva altro che la verità, cioè la si insultava. Ci esprimevamo senza
inibizioni, ad esempio dicevamo: «Sei un vecchio sacco di merda; sì, dico a te,
quel tale lì, dico che sei un asino scemo»; oppure: «Non ridere, cretino!». Se qualcuno avesse ribattuto, come
d’altronde succedeva, sbraitavamo come sotto le armi: «Chiudi il becco o ti
spacco il culo!». E via di questo passo” [34].
Il racconto
di Grosz è disincantato, anche su artisti che pur si sono affermati, come Kurt
Schwitters; nelle sue parole si coglie
come, in fondo, ritenga impossibile ogni forma di arte astratta: “Sino ad allora non c’era stata un’arte Dada
visiva, cioè un’espressione artistica e/o una filosofia del cestino per i
rifiuti. Il leader di questa scuola fu un certo Schwitters, di Hannover, il
quale raccoglieva qualsiasi cosa che trovava nelle discariche dei rifiuti, nei
bidoni della spazzatura, o chissà dove: chiodi arrugginiti, raggi di
bicicletta, spazzolini da denti senza più setole, mozziconi di sigaro, stracci
vecchi e ombrelli ch’erano colabrodi; raccoglieva ogni cosa, e cercava di
riordinarla sulle vecchie tavole o tele, in piccoli ammassi piatti che
attaccava con nastri e bindelle. Li esponeva con il nome di «Arte del rifiuto», e vendeva anche qualcosa. Parecchi
critici che volevano apparire moderni e informati prendevano questa roba sul
serio e scrivevano buone recensioni. Solo le persone comuni, che nulla sapevano
dell’arte, reagivano normalmente e chiamavano l’arte Dada scarti e spazzatura,
e in effetti di questo era fatta” [35]. Il pittore ricorda anche l’ostilità degli artisti contemporanei
“perché nulla veniva rispettato o preso
sul serio” [36]. Del resto egli ammette: “Ci facevamo beffe persino delle avanguardie” [37].
Vale la
pena ricordare comunque il breve riferimento che si coglie al processo che deve
subire nel 1923 per l'Ecce Homo,
raccolta di sedici acquarelli del 1922-1923 che viene accusata di oscenità: il
pittore ne parla dicendo che il controverso giornalista Maximilian Harden (1861–1927) ha testimoniato a suo favore (Grosz lo incontra per caso a un
ricevimento all’ambasciata sovietica di Berlino, ancora convalescente dai
postumi di un attentato subito da esponenti di corpi paramilitari contrari alla
Repubblica di Weimar). “Ora mi sembrava
amareggiato. Il suo sguardo vagava sulle persone come se stesse cercando
qualcuno che non trovava e, se l’avesse trovato, non avrebbe potuto
sopportarlo. Aveva coraggiosamente brandito la sua penna contro la camarilla e
la politica del Kaiser Guglielmo II, ma non gradiva neppure la nuova Repubblica
tedesca. Con un gesto stanco della mano, disse della nuova Russia: «Tutto sbagliato, tutto sbagliato…». Fu questa l’ultima volta che lo
vidi” [39]. Grosz
non dice che, nonostante la difesa di Harden e le memorie difensive di Max
Liebermann, perde la causa e viene condannato a pagare una multa. Appare evidente che
siamo in un momento storico in cui si tenta di portare a processo tutti gli
artisti che si dice attentino alla moralità. Nel 1923, sempre a Berlino, Otto
Dix fu processato con analoghe motivazioni per “Ragazza allo specchio” (ma, in questo caso, vinse la causa).
Tra le
amicizie degli anni di Weimar spicca il pittore Jules Pascin (1885-1930), uno
degli animatori della cosiddetta Scuola di Parigi (ispirata all’idea del
ritorno all’ordine) e della vita artistica attorno al Café du Dôme a Montparnasse. Insieme a Grosz, Pascin è uno degli
anelli di congiunzione tra arte francese e tedesca nel riavvicinamento fra i
due paesi dopo il Trattato di Locarno del 1925. Nei confronti del classicismo
della Scuola di Parigi, Grosz ha, in realtà, grandi riserve (le esprime ad
esempio nell’Almanacco dell’Europa di
Carl Einstein e Paul Westheim del 1925). Nell’autobiografia la critica anticlassicista è
invece molto velata. Rivolgendosi retoricamente all’amico, lo rimprovera con
tono gentile: “Venivi improvvisamente
preso da un’incontrollabile smania, si diceva tu fossi andato in Italia per
riscoprire Raffaello” [40].
Grosz
scrive comunque alcune pagine piene di nostalgia per l’amico (Pascin si toglie
la vita nel 1930, dopo essersi trasferito negli Stati Uniti): “L’ultima volta che ti vidi, fu durante una
di quelle serate in cui ci si trascinava da un locale notturno all’altro
tirando l’alba, raccogliendo via via amici e conoscenti occasionali. Tu eri
quello che pagava per tutti. Gettavi via i soldi come fossero stracci sporchi,
ma per qualche motivo il denaro ti veniva dietro e ne avevi sempre in tasca.
Non riuscivi a liberartene. Io sedevo accanto a te; i pensieri seguivano le
onde della musica e dell’alcool. Ti confidavi con me a bassa voce; rivelavi ciò
che c’era in te. E poco dopo t’incidesti i polsi, come se stessi semplicemente
tagliando le estremità sporche dei polsini della camicia…” [41]
[1] McCloskey, Barbara - Introduzione all’edizione dell’autobiografia di George Grosz del 1997, pubblicata dall’University of California Press, pagina viii.
[2] I Ricordi (Lebenserinnerungen) sono pubblicati in Kunst und Künstler nei primi tre numeri del 1931 (e sono disponibili su internet agli indirizzi
Una autobiografia
Milano, SugarCo, 1984, 336 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima
[Versione originale: febbraio 2018 - Nuova versione: aprile 2019]
![]() |
Fig. 1) L’edizione italiana del 1984 |
Storia di un testo
George
Grosz (1893-1959) ci ha lasciato un’autobiografia e un’imponente raccolta di
lettere (queste ultime pubblicate, solo in parte, nel 1979; le recensiremo
separatamente). L’autobiografia esce per la prima volta nel 1946 negli Stati
Uniti, ed è in inglese. L’editore Dial
Press la pubblica con il titolo sibillino A little yes and a big no. The autobiography of George
Grosz (Un piccolo sì ed un grande no.
L’autobiografia di George Grosz). Si tratta di un testo concepito per un
pubblico americano (Grosz vive dal 1932 negli Stati Uniti, e ha acquisito la
cittadinanza dal 1938), anche se scritto in tedesco e tradotto in inglese da
Lola Sachs Dorin. Sappiamo che Grosz aveva firmato il contratto con l’editore
già nel 1941 [1]; aveva l’incarico di scrivere le sue memorie anche per
spiegare al lettore americano, il cui paese stava per entrare in guerra, cosa
fosse successo in Germania nei decenni precedenti e avesse spinto l’artista
all’esilio volontario negli Stati Uniti.
L’autobiografia
di Grosz va dalla giovinezza alla fine della seconda guerra mondiale. Alcune
sezioni del libro riprendono i Ricordi
(Lebenserinnerungen) che Grosz ha già
pubblicato nel 1931, in tre puntate [2], su Kunst
und Künstler, rivista berlinese dell’editore Bruno Cassirer. Quei Ricordi sono tutti dedicati al periodo
degli studi a Dresda e al trasferimento a Berlino, tra 1908 e 1912. Forse
l’artista ha già l’intenzione di scrivere un’autobiografia in Germania
all’inizio degli anni Trenta, anche per l’interessamento di Cassirer. Se così
è, la presa del potere da parte di Hitler nel 1933 rende questo disegno del
tutto impossibile: l’arte di Grosz è inserita dal regime nazista in quella
considerata ‘degenerata’ e la casa editrice di Cassirer viene chiusa in seguito
alle leggi razziali.
La prima
versione in tedesco dell’autobiografia compare solo nel 1955 con il titolo Ein kleines Ja und ein großes Nein: Sein
Leben von ihm selbst erzählt ( Un piccolo sì ed un grosso no: la sua vita
raccontata da sé), per i tipi dell’editore Rowohlt di Amburgo. In contemporanea, sempre nel 1955, ampie
sezioni del testo sono pubblicate sul prestigioso settimanale Die Zeit [3].
![]() |
Fig. 2) La prima edizione dell’autobiografia di George Grosz, pubblicata dalla casa editrice Dial Press nel 1946 |
Rispetto al
testo inglese del 1946, la versione tedesca del 1955 è arricchita da un nuovo
capitolo sul viaggio compiuto da Grosz nel 1922 in Unione Sovietica, insieme
allo scrittore danese Martin Andersen-Nexo. I due erano stati invitati dal
regime comunista in quanto intellettuali ‘amici’, per scrivere in Occidente un
testo celebrativo della nuova Russia sovietica durante l’esperimento della
Nuova Politica Economica (nel corso del viaggio furono persino presentati a
Lenin). L’obiettivo principale dell’inserimento del capitolo sulla Russia nell’Autobiografia, tuttavia, è proprio
quello di chiarire la sostanziale estraneità del pittore rispetto al mondo
comunista. Non a caso, il capitolo era già stato pubblicato, singolarmente
preso, nel 1953 (sempre in tedesco, con il titolo “Russlandsreise 1922” ovvero Viaggio
in Russia nel 1922) nella rivista di cultura Der Monat – Eine Internationale Zeitschrift für Politik und geistiges
Leben (Il mese – rivista internazionale di politica e vita culturale [4] – un mensile pubblicato a Berlino
Occidentale e finanziato in chiave chiaramente anti-sovietica dal governo degli
Stati Uniti, in piena guerra fredda).
Trasferitosi
di nuovo in Germania nel 1959, Grosz prende contatto con il mondo editoriale
tedesco per sondare l’interesse in merito a un secondo volume di memorie, per
il quale aveva già raccolto i materiali. Non se ne farà nulla: il pittore muore
d’infarto solamente tre mesi dopo il rientro nella patria d’origine.
La fortuna del testo
Basta
verificare quante siano state le ristampe tedesche e le traduzioni in lingua
per rendersi conto che quella di Grosz è uno dei testi più fortunati tra quelli
di artisti tedeschi del XX secolo. Dopo l’edizione tedesca del 1955, le
ristampe in Germania sono del 1974, 1986, 1995 presso Rowohlt e del 2009 con la
casa editrice Schöffling.
Fuori dalla
Germania compare una versione olandese nel 1978 (Een klein ja, een
groot nee: herinneringen). Nel 1982 esce una nuova edizione tascabile in lingua inglese, questa
volta per i tipi dell’editore Allison and Babsy, tradotta da Arnold Pomerans. È davvero singolare che, quasi
contemporaneamente (1983), esca una nuova edizione americana per i tipi di Macmillan
(con testo inglese di Nora Hodges); questa volta il titolo cambia e diventa il
più prosaico An Autobiography. Si
tratta di una versione rilegata e arricchita da centinaia di disegni e illustrazioni dell’artista; a sua volta sarà ristampata nel 1997 da University of California
Press, con una
nuova prefazione di Barbara McCloskey, la maggiore studiosa americana di Grosz
[5].
![]() |
Fig. 3) La prima parte dei Ricordi (Lebenserinnerungen) di Grosz, pubblicata su Arte ed Artisti nel 1931 |
La versione
italiana Un’autobiografia del 1984
(tradotta in modo davvero eccellente in italiano dallo scrittore milanese Giovanni
Nebuloni) è talmente ispirata, in termini editoriali, a quella americana
dell’anno precedente da avere lo stesso titolo semplificato, la stessa
copertina e la medesima impaginatura. Il titolo completo e originale
dell’autobiografia ricompare, invece, nella sua forma estesa nella versione francese
(Un petit oui et un grand non. Sa vie racontée
par lui-même) e
ceca del 1999 (Malé Ano a velké́ Ne: vlastní životopis) e in quella spagnola del 2011 (Un sí menor y un no mayor. Memorias de George Grosz).
L'immagine dell'artista
Perché il
titolo originario dell’autobiografia è ‘Un
piccolo sì e un grande no’? Nel volume il pittore si presenta al pubblico
americano come artista slegato da ogni convenzione, individualista,
anticonformista, e dunque più propenso a negarsi che ad accettare compromessi,
più ad opporsi a ogni tendenza prevalente che a partecipare a movimenti
generalizzati, più ad andare controcorrente che a seguire le mode.
L’immagine
che Grosz ci offre di sé è quella di un uomo che disprezza profondamente le
masse: nell’ambito dell’autobiografia utilizza più volte il termine ‘masse’ in
senso spregiativo, per esprimere il disgusto nei confronti dei soldati che
accettano, e anzi sostengono il militarismo degli ufficiali, dei cittadini
tedeschi che non riescono a far uso della libertà data loro dalla Repubblica di
Weimar ed abbracciano entusiasti il nazismo, ma anche degli americani schiavi
del consumo di massa e dell’industria dello spettacolo. Grosz non esita a
descriversi come un cinico, un misantropo, un disilluso. E, comunque, è sempre
pronto a contestare e a vivere in solitudine (il grande no) pur di non accodarsi e aderire a sentimenti
collettivi (il piccolo sì).
![]() |
Fig. 4) La prima edizione tedesca, pubblicata da Rowohlt nel 1955 |
Un'autobiografia di chiaro stampo letterario
Motivo
importante della fortuna dell’autobiografia di George Grosz è la sua
leggibilità: le 336 pagine dell’edizione italiana si divorano tutte d’un fiato.
Prevale senza dubbio la dimensione del racconto. Se si vuole scoprire
un’immagine affascinante, veloce e variopinta della Germania degli anni
1910-1920 e degli Stati Uniti degli anni 1930-1940, questo è un testo da
leggere. In molte sezioni, il libro somiglia più a un romanzo che al diario
meditato di un pittore che riflette sulla sua vita d’artista (non abbiamo forse
detto lo stesso anche per le memorie di Paul Klee)?
![]() |
Fig. 5) Il numero 56 della rivista Der Monat – Eine Internationale Zeitschrift für Politik und geistiges Leben, con l'articolo “Russlandreise 1922” di George Grosz |
Non è certo
cosa da poco (almeno per il nostro immaginario artistico, che oggi,
sostanzialmente, li accomuna quali severissimi censori della società tedesca
all’epoca della Repubblica di Weimar) che Grosz non parli mai di Otto Dix
(d’altra parte dalle lettere di Dix sappiamo che l’antipatia era reciproca).
Uscendo dal caso specifico di un’antipatia personale, va peraltro segnalato che
l’autobiografia non contiene riferimenti alla corrente artistica della “Nuova Oggettività”
(sono invece molto dettagliate le notizie rispetto alla partecipazione al mondo
Dada). Oggi la maggior parte delle esposizioni su Grosz lo vedono come capofila
proprio della “Nuova Oggettività”, negli anni più creativi della Repubblica di
Weimar. Invece, il termine Neue
Sachlichkeit (lanciato nel 1925 da Gustav Friedrich Hartlaub con una famosa
mostra a Mannheim) compare una sola volta, a proposito di Bertold Brecht e non
identifica un movimento pittorico, ma un modo di pensare ‘oggettivo’, attento
alla scienza e alla statistica. Mancano anche riferimenti ai maggiori pittori
di quella corrente (oltre che a Dix, non si legge nulla, ad esempio, su Max
Beckmann). Se dovessimo impostare una mostra dedicata a Grosz sulla base
dell’autobiografia, molti degli accostamenti che oggi vengono proposti al
pubblico si rivelerebbero per quello che sono: ricostruzioni artificiali
operate nel dopoguerra.
Desideri irrealizzati e realtà nascoste
Insomma,
l’autobiografia propone l’immagine, certamente interessante, di Grosz come uomo
e intellettuale, fa luce sulle sue amicizie e sui suoi affetti, ma non restituisce un'immagine del pittore in linea con quella che è oggi l’interpretazione
prevalente della sua arte. Da qui l’importanza di tornare a leggerla, ponendoci
almeno una serie di interrogativi. Che cosa ci ha voluto dire Grosz sulla sua
arte, che forse non abbiamo ascoltato? Che cosa sappiamo, invece, su di lui e
sulla sua creazione artistica che si è volontariamente dimenticato di scrivere?
Nell’ambito
dei temi che Grosz cerca di sminuire nel suo libro, rientra senza dubbio la
militanza in gruppi di artisti favorevoli alla rivoluzione sovietica, immediatamente dopo la prima guerra mondiale. Nell’autobiografia l’artista
presenta questa fase con i toni dell’ironia e addirittura del ridicolo: “Mai mi diedi anima e corpo alla politica.
Tenevo discorsi non perché ne fossi convinto veramente, ma piuttosto perché ero
continuamente attorniato da persone che discutevano e le mie esperienze
trascorse non mi avevano insegnato nulla di meglio. I miei discorsi erano
sciocche ripetizioni di banalità liberali, ma, mentre le mie parole scorrevano
dolci e soavi come miele, finivo per credere io stesso a quelle sciocchezze,
intossicato dal suono della mia stessa voce. Una volta venni issato sulle
spalle d’un uomo, fra le grida di: «Lunga vita al proletariato!». Come al
solito, ero stato propugnatore d’una tesi della quale non sapevo nulla: la
libertà accademica. Dipinsi un quadro spaventosamente bello di come da quel
momento in poi, grazie alla conquista del potere da parte del proletariato,
ogni spazzino, ogni operaio si sarebbe potuto iscrivere alle accademie e alle
università. Un privilegio, dissi con sarcasmo tagliente, prima d’allora
esclusivo dei figli della classe abbiente. «Lunga vita al proletariato!»” [10].
Dalla giovinezza alla Grande Guerra: realismo, caricatura, illustrazione
Cerchiamo
ora di cogliere nell’autobiografa alcuni spunti che offrano elementi
d’interpretazione per comprendere l’opera di Grosz. Fin dalle prime pagine,
egli scrive di sempre aver concepito l’arte come rappresentazione della natura
e si descrive, quindi, come un realista nato: “M’attirava l’intento di evocare ciò che era la natura. Questo piacere
della franchezza, dell’onesta imitazione, non m’avrebbe più lasciato” [11].
“Disegnai e ricopiai ogni sorta di cosa”
[12]. Ancora bambino, nella provincia tedesca più remota, in Pomerania (oggi
Polonia), prende corsi di disegno da decoratori e disegnatori che s’ispirano
all’arte secessionista viennese di Koloman Moser (1868-1918). Il suo, sin dal
principio, è “uno stile lineare” [13].
Il gusto
dell’osservazione del mondo reale e il ruolo fondamentale della linea – due dei
tre elementi propri della creazione artistica di Grosz nel corso della sua vita – sono insomma presenti sin dagli anni della primissima giovinezza. Il
terzo, invece (ovvero la forte vena satirica) si manifesterà col tempo: “La mia propensione verso l’ironia, per non
dire la satira, non aveva fatto ancora la sua comparsa, sebbene vi fossero
indicazioni accidentali del dono futuro” [14].
All’Accademia
di Dresda – in cui entra nel 1908, a soli quindici anni –
Grosz riceve un’educazione tradizionale (“un
residuo della vecchia tradizione accademica di Winckelmann e Cornelius”
[15]), basata sulla copia di modelli greci antichi (“Poiché non facevamo altro che ricopiare i noiosi busti di gesso, il
lavoro diventava monotono. Ci sembrava che i nostri sforzi non avessero utilità
alcuna. Nessuno si peritava d’esporci la bellezza classica delle proporzioni
negli originali, così non la potevamo comprendere. Inoltre, vivevamo in tempi
che glorificavano la bruttezza e rigettavano la proporzione classica. Copiare
questi esempi della grande arte greca non era altro che una stupida occupazione”
[16]).
E qui va
ricordato che, sin dal 1905, a Dresda era attivo il primo
gruppo espressionista tedesco, il Ponte (Die
Brücke). I giovani dell’Accademia - scrive Grosz - ne sono entusiasti e
sono affascinati in particolar modo da Nolde; lo considerano una specie di pazzo creativo,
che dipinge abbandonando i pennelli e usando stracci per posare il colore sulla
tela al di fuori di ogni regola. Grosz è all’Accademia negli anni in cui a
Dresda arriva l’eco di Klee e Kandinskij, dei cubisti, dei futuristi, di Delaunay, Chagall ed Ensor [17].
Alla fine
degli studi a Dresda, Grosz, in procinto di trasferirsi a Berlino (siamo nel
1912), confessa – pur essendo un buon disegnatore – di non aver ancora imparato
il mestiere di pittore (“Ripensando agli
anni vissuti a Dresda, senza rancori posso affermare che in realtà non appresi
molto” [18]) e non si considera ancora un artista che opera “nell’ordinato schema della vecchia
tradizione” [19]. Ritiene che la sua sia ancora una semplice vocazione per
l’illustrazione (molto ispirata dalla sua personale predilezione per il disegno
giapponese), che diviene sempre più di stampo caricaturale (grazie all’amore
per Daumier e Toulouse-Lautrec [20]). L’artista è fortemente influenzato dai
disegnatori della rivista satirica Simplicissimus
[21], ma anche da quelli che disegnano pubblicità commerciale per le grandi
catene dei supermercati.
Certo, il
pittore scrive che, in termini di progresso nell’arte, “quelli furono tempi interessanti (…), c’era entusiasmo per le idee
innovatrici, e noi alle prime armi eravamo vivamente interessati ai pittori
contemporanei che lavoravano a Parigi” [22]. Ma Grosz non si ritiene – in
quegli anni almeno – un pittore d’avanguardia e, anzi, non esita a esprimere
(implicitamente) qualche sostegno alle tesi della “Protesta degli artisti tedeschi” contro l’arte moderna francese, il
manifesto scritto da Carl Vinnen nel 1911 contro gli acquisti di opere francesi
da parte dei musei tedeschi: “In quei
giorni, con gli stranieri, Berlino era molto accogliente. L’arte francese
veniva importata a prezzi elevati; critici molto noti (e i cui nomi sono stati
da lungo tempo dimenticati) cantavano la lode d’ogni cosa che usciva da Rue de
la Boëtie [nota di redazione: sede della famosissima galleria di Paul
Rosenberg (1881-1959)] in libri, rivisti,
giornali. I più influenti, quelli che controllavano il mercato e stabilivano i
prezzi, disprezzavano l’arte tedesca, da loro ritenuta barbara e retrograda”
[23]. Ciò nonostante, Grosz aggiunge che anche alcuni artisti tedeschi
riuscivano a raggiungere fama e agiatezza.
Berlino –
caratterizzata in quegli anni dallo scontro tra l’estetica tradizionalista
dell’imperatore e del suo circolo e la volontà innovatrice delle diverse anime
della Secessione – è uno dei centri di sviluppo del gusto in
Germania. “I capofila della pittura
tedesca moderna che vi vivevano erano Max Liebermann, Lovis Corinth, Max Slevogt, il
triumvirato dell’impressionismo tedesco” [24]. Ma i punti di riferimento
del nuovo arrivato Grosz sono i pittori Erwin Liebe (1844-?) e Theodor
Kittelsen (1857-1914), tutto sommato molto marginali nella scena della capitale
tedesca. Al simbolista Liebe l’autobiografia dedica un numero di pagine del
tutto sproporzionato rispetto al ricordo che è oggi rimasto di lui: si tratta di un
pittore dilettante innamorato del romanziere d’avventura Karl May, del filosofo
Friedrich Nietzsche e del musicista Richard Wagner. Il cinquantenne Theodor
Kittelsen, pittore norvegese di grande cultura (uno dei tanti scandinavi
presenti a Berlino in quegli anni e legati al mondo della fiaba nordica), è “un sognatore incline all’assurdo” [25]
che lo introduce alla cultura del decadentismo e a quello del mondo
mefistofelico, oltre a essere instancabile compagno di bevute. Ben presto, però, arriva l’esigenza di allontanarsi da questo mondo un
po’ allucinato: “Io, invece, nonostante
la mia propensione alla satira grottesca e alla fantasiosità, avevo un forte
senso della realtà. (…) Anche quando ero attratto dall’irreale, il mio innato
scetticismo mi faceva tornare indietro all’apparentemente sicura banalità
quotidiana; avevo un desiderio disinteressato, quasi sportivo, che mi faceva
ricercare il «vero», gli accadimenti reali, che velocemente m’avrebbero ricondotto sul
solido terreno della «ragione»” [26]. Un giorno, al culmine di una
lite, Grosz rovescia un’insalata sulla testa di Kittelsen [27]. Ciò non toglie
che l’artista gli riconosca un debito nell’evolvere del suo stile: “Probabilmente influenzato da Kittelsen,
ampliai il mio stile monocromatico e cominciai a dipingere zone in colori
uniformi e ricercati” [28].
A Berlino
Grosz compie i passaggi necessari per apprendere il mestiere. “Cominciavo a dipingere ad olio. Non avevo
maestri, ma compravo dei libri ed imparavo come potevo. Dipingevo, a memoria,
composizioni che avevano lo stile dei miei disegni, delineate con inchiostro
d’India sulle tele, e quindi ripassate ad olio. Questi quadri assomigliavano a
disegni colorati, perché era la linea a predominare” [29]. Poi, seguendo
altri pittori berlinesi, decide di andare a Parigi all’Accademie Colarossi. Il
resoconto è – tutto sommato – molto asciutto: “Il mio amico Fiedler [Nota del traduttore: Herbert Fiedler
(1891-1962)] era andato a Parigi nel 1912
e mi aveva scritto lettere entusiastiche. Nella primavera del 1913 avevo
risparmiato un po’ di denaro, così decisi di recarmici pure io. (…) Stetti a
Parigi circa otto mesi. Lavorai molto poco, e disegnai soprattutto modelli al
Croquis Colarossi. Esclusi pochi amici, non frequentavo nessuno. Avrei dovuto
stare più a lungo per sentire il polso del posto, ma non ero uno di quei
tedeschi i quali vengono a Parigi per dieci giorni e dieci anni più tardi sono
ancora lì” [30].
Dalla Prima guerra mondiale al 1932
Allo
scoppio della guerra, Grosz si arruola volontario come soldato semplice;
nell’autobiografia non parla della circostanza. Dalle sue pagine traspare
invece il rapido emergere del senso di orrore per il conflitto. Un altro
elemento che nel diario è taciuto è che, durante gli anni di guerra, l’artista
cambia il suo nome, anglicizzandolo (da Georg a George) in spregio alla
Germania. È evidente che un trauma così violento non può che avere un impatto
profondissimo, innanzi tutto sui soggetti delle sue opere; quasi tutti i suoi
disegni sono ormai dedicati ai disastri della guerra: “Per me, l’arte fu una sorta di valvola di sicurezza, che lasciava
fuoriuscire l’accumulo di vapore surriscaldato. Ogni volta che lo potevo fare,
placavo la mia rabbia, disegnando” [31]. Ed è proprio nei mesi di un primo
congedo a Berlino, a partire dal 1915 (stranamente l’autobiografia parla
erroneamente di 1916), che il pittore esce dalla sua marginalità nel mondo
dell’arte berlinese.
Lo
scopritore di Grosz è uno dei maggiori intellettuali pacifisti tedeschi di
quegli anni, Theodor Däubler (1876-1934), poeta e letterato, ma anche critico
d’arte, residente a Berlino, ma esponente del mondo asburgico di un’Europa
centrale che si sente ancora espressione di tante culture fra loro integrate.
Däubler scrive su Grosz nella rivista letteraria intellettualmente più aperta
dell’epoca (Die Weißen Blätter – Le pagine bianche, dove viene pubblicata
fra l’altro per la prima volta La
Metamorfosi di Kafka, nel 1915) e lo introduce nella società che conta. Fra
gli altri, conosce l’industriale Henry
Falk e il conte Harry Kessler, che diventeranno suoi mecenati. A tutti loro
Grosz dedica pagine piene di gratitudine, riconoscendo che deve loro molta della sua fortuna.
Sono anche mesi di maturazione da un punto di vista iconografico: nelle sue
tele ad olio Grosz non abbandona mai la linea, ma mette nuova enfasi sul
colore: “Quel periodo della durata d’un
respiro, il 1916-1917, fu un periodo fertile della mia vita, contemporaneamente
realistico e romantico. I miei colori favoriti erano un rosso cupo e un blu
nerastro. Sentivo sotto di me la terra ondeggiare, e ciò è evidente nei miei
quadri e nei miei acquerelli” [32].
Le pagine
autobiografiche dedicate alla Repubblica di Weimar ci offrono un affresco straordinariamente
vivace degli avvenimenti e dell’atmosfera di uno spazio di libertà di cui,
collettivamente, i tedeschi non riescono a fare buon uso (bellissime le
considerazioni sulla Germania nelle passeggiate con l’amico Bertold Brecht [38]).
Poco si legge, però, sull’evoluzione del suo stile nei dieci anni che separano
l’inizio del periodo Dada dal trasferimento dell’artista negli Stati Uniti.
L’autobiografia ci dice di più su come la sua arte stia stata recepita dal
pubblico e soprattutto sui rapporti tra Grosz e molti esponenti della cultura.
Pare evidente, in particolare, come (anche in virtù del suo individualismo) ciò
che conti, per l’artista, siano i rapporti con i singoli.
![]() |
Fig. 8) La versione francese pubblicata dall’editore Jacqueline Chambon nel 1999 |
Altra
figura di riferimento è quella di Alfred Flechtheim (1878–1937), uno dei
maggiori operatori del mercato dell’arte in quei decenni. “Alfred Flechtheim era mio agente e anche mio amico, relazione del tutto
atipica. Ma come può capitare che un cane e un gatto vadano d’accordo, la
natura anche nel nostro caso aveva fatto un’eccezione e, tutto sommato, ci
piacevamo. Flechtheim in realtà era un fossile. Cioè uno degli ultimi
sopravvissuti d’una generazione di mercanti d’arte che concepivano l’arte non
solo come mercanzia; essi agivano più da mecenati che da mercanti. C’erano tipi
simili in Europa quando i nobili finirono di comprare arte contemporanea e
cominciarono a prendere il loro posto i ricchi borghesi, ivi inclusi i
mercanti. (…) Nel 1905, durante la sua luna di miele a Parigi, spese l’intera
dote della moglie per acquistare quadri francesi moderni. Tornò a casa senza un
soldo, tra lo sbigottimento dei suoceri. Ciò che aveva acquistato era un
mucchio d’incomprensibili quadri cubisti, che Alfred sosteneva essere belli e
di notevole valore. Il suo fiuto, grande come lo era il suo naso, non l’aveva
ingannato. Nel giro di pochi anni, i quadri valevano due o tre volte la dote
ch’era stata investita” [42].
Complessivamente,
comunque, dieci anni di vita sono
raccolti in pochissime pagine. L’autobiografia evita, di fatto, di raccontare
le vicende di Grosz in uno dei periodi
più affascinanti dell’arte tedesca. Va comunque ricordato che nel 1931 Grosz
pubblica i suoi Ricordi sulla rivista
Kunst und Künstler, segno che il
pittore è affermato e, anzi, occupa una delle posizioni centrali del mondo
dell’arte tedesco. Nulla di tutto ciò compare nel diario del 1946. Gli anni
tedeschi si concludono con due capitoli che hanno valore paradigmatico: una
favola [43] su un uomo buono travolto dagli avvenimenti per colpa di una
società impazzita (fino al suicidio) e il resoconto dettagliato del sogno
premonitore [44] che spinge il pittore ad accettare, nel 1932, l’offerta
dell’Unione degli Studenti d’Arte di New York, una scuola d’arte indipendente,
per tenere corsi d’arte nella metropoli americana. Tutto sommato, un racconto
“tutto rose e fiori” degli anni che portano alla presa del potere dei nazisti.
NOTE
[2] I Ricordi (Lebenserinnerungen) sono pubblicati in Kunst und Künstler nei primi tre numeri del 1931 (e sono disponibili su internet agli indirizzi
http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/kk1931/0135?sid=4dce2e7a3cdc3e390d29af56eaba71bf.
[3] Si veda: http://www.zeit.de/1955/04/ein-kleines-ja-und-ein-grosses-nein.
[4] Grosz, George - Rußlandreise 1922, in “Der Monat”, anno quinto, numero 56, pagine 116-223, 1953.
[5] Sono suoi i due studi “George Grosz and the Communist Party: Art and Radicalism in Crisis, 1918-1936” del 1997 e “The Exile of George Grosz: Modernism, America, and the One World Order” del 2015.
[6] Grosz George – Una autobiografia, Milano, SugarCo Edizioni, 1984, 336 pagine. Citazione a pagina 7.
[7] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 58-59; 69-73.
[8] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 73.
[9] George Grosz: The years in America 1933 – 1958, a cura di Ralph Jentsch, Hatje Cantz, 2009, 280 pagine.
[10] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 127.
[11] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 11.
[12] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 40.
[13] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 18.
[14] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 40.
[15] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 61.
[16] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 62.
[17] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 73-75.
[18] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[19] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 74.
[20] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[21] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[22] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 73.
[23] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 74.
[24] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 100.
[25] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 90.
[26] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 90.
[27] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 91.
[28] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 93.
[29] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 107.
[30] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 109.
[31] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 125.
[32] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 113.
[33] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 147.
[34] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 149.
[35] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 149-151.
[36] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 153.
[37] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 153.
[38] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 207.
[39] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 171.
[40] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 204.
[41] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 204.
[42] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 213-214.
[43] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 220-239.
[44] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 240-245.
[3] Si veda: http://www.zeit.de/1955/04/ein-kleines-ja-und-ein-grosses-nein.
[4] Grosz, George - Rußlandreise 1922, in “Der Monat”, anno quinto, numero 56, pagine 116-223, 1953.
[5] Sono suoi i due studi “George Grosz and the Communist Party: Art and Radicalism in Crisis, 1918-1936” del 1997 e “The Exile of George Grosz: Modernism, America, and the One World Order” del 2015.
[6] Grosz George – Una autobiografia, Milano, SugarCo Edizioni, 1984, 336 pagine. Citazione a pagina 7.
[7] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 58-59; 69-73.
[8] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 73.
[9] George Grosz: The years in America 1933 – 1958, a cura di Ralph Jentsch, Hatje Cantz, 2009, 280 pagine.
[10] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 127.
[11] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 11.
[12] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 40.
[13] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 18.
[14] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 40.
[15] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 61.
[16] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 62.
[17] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 73-75.
[18] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[19] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 74.
[20] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[21] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 92.
[22] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 73.
[23] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 74.
[24] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 100.
[25] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 90.
[26] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 90.
[27] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 91.
[28] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 93.
[29] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 107.
[30] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 109.
[31] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 125.
[32] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 113.
[33] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 147.
[34] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 149.
[35] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 149-151.
[36] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 153.
[37] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 153.
[38] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 207.
[39] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 171.
[40] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 204.
[41] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 204.
[42] Grosz George – Una autobiografia, (citato), pp. 213-214.
[43] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 220-239.
[44] Grosz George – Una autobiografia, (citato), p. 240-245.
Nessun commento:
Posta un commento