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venerdì 9 febbraio 2018

Émilie Passignat. Il Cinquecento. Le fonti per la storia dell'arte. Parte Prima


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Storia delle antologie di letteratura artistica
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Émilie Passignat
Il Cinquecento.
Le fonti per la storia dell’arte


Roma, Carocci, 2017

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima



La collana Le fonti per la storia dell’arte

Il Cinquecento di Émilie Passignat è, in termini cronologici, il quinto volume antologico ad essere pubblicato, dal 2001 a oggi, nell’ambito della collana Le fonti per la storia dell’arte, ideata e curata da Antonio Pinelli ed edita da Carocci. Nel momento in cui mi accingo a recensirlo, avverto la necessità di spendere due parole, innanzi tutto, sulla collana in sé, dando conto per prima cosa dei titoli finora stampati:
  • M. Letizia Gualandi, L’antichità classica, 2001;
  • Émilie Passignat, Il Cinquecento, 2017;
  • Tomaso Montanari, L’età barocca (1600-1750), 2013;
  • Chiara Savettieri, Dal Neoclassicismo al Romanticismo, 2006;
  • Silvia Bordini, L’Ottocento, 2002.

L’idea alla base della collana, esposta dal curatore nella sua presentazione (stampata identica in ogni volume) è quella di fare ordine in una massa enorme di testimonianze scritte (le fonti, appunto) che spesse volte finiscono per essere dimenticate o sono addirittura del tutto ignote. L’indagine riguarda non solo i testi rientranti nelle tipologie che ai suoi tempi Julius von Schlosser citò come integranti la nozione di Letteratura artistica, ma si estendono a documenti come contratti, inventari e altri testi di natura notarile.

La collana è pensata in dieci volumi, che coprono un arco cronologico che va “dall’antichità classica ai nostri giorni”. Purtroppo non sono stato in grado di reperire il piano complessivo dell’opera, e non sono quindi in grado di dire quale sarà la scansione dei titoli mancanti.

L’impostazione dei volumi si mantiene sostanzialmente identica. L’organizzazione, innanzi tutto, è per temi. A una prima corposa sezione di Percorsi di lettura che offre un’interpretazione critica dei vari argomenti trattati corrisponde un’amplissima scelta di testi (spesso rari, a volte addirittura inediti) raccolta nella vera e propria Antologia delle fonti. All’interno di ogni sezione, i testi sono presentati in ordine rigidamente cronologico. La struttura modulare dell’antologia permette una comoda lettura incrociata fra Percorsi di lettura e Antologia delle fonti, grazie ai relativi rimandi (che sono chiarissimi). L’indice finale, che presenta anche voci tematiche, consente anche una lettura trasversale nell’ambito dell’antologia.

Naturalmente non è mia intenzione tracciare qui una storia delle antologie di letteratura artistica (agli interessati consiglio di consultare la serie di recensioni ad esse dedicate su questo blog); mi pare di poter dire che, pur risentendo di influssi di antologie storiche, come quelle (mai benedette abbastanza) di Paola Barocchi sul versante italiano e gli agili volumetti pubblicati da Prentice-Hall nella Sources & Documents in the History of Art Series nel mondo anglosassone, la collana diretta da Antonio Pinelli (destinata soprattutto al mercato delle adozioni universitarie) presenti caratteri di originalità e di indubbio interesse.

Lo dico perché, a questo punto, devo confessare una cosa: non ho mai letto nella loro interezza (ma solo usato per consultazione) i quattro volumi editi prima del presente. Non l’ho fatto perché, personalmente, nutro una sorta di diffidenza nei confronti di tutte le antologie. Tale diffidenza non è relativa alla loro maggiore o minore completezza, ma alla loro insita natura. Nel dar conto dei dibattiti di natura più o meno teorica relativi al mondo dell’arte, un’antologia, inevitabilmente, tende a mettere in evidenza le differenze di pensiero, l’evoluzione storica, la dinamica delle idee. Io invece, quando leggo le fonti, cerco le uniformità che testimonino la diffusione e circolazione (non solo senso in senso cronologico, ma anche geografico) delle stesse idee di fondo, poi declinate a seconda delle specificità. Semplificando in maniera del tutto scorretta, a me piace cercare ciò che unisce, mentre, per la loro stessa natura, le antologie finiscono per mettere in evidenza ciò che fa la differenza.

Leonardo, Dama con l'ermellino, 1490 circa. Museo nazionale di Cracovia
Fonte: http://www.ncm.com/content/files/art_downloads/LeonardodaVinci-TheLadywithanErmineX6803.jpg


Il Cinquecento di Émilie Passignat

Non è il caso del Cinquecento di Émilie Passignat [1], a cui peraltro posso immaginare che siano tremate le gambe al momento di assumere l’incarico di occuparsi del secolo di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, e naturalmente delle Vite di Vasari, specie tenuto conto che i precedenti italiani riportano direttamente ai Trattati d’arte del Cinquecento [2] e agli Scritti d’arte del Cinquecento [3], entrambi di Paola Barocchi. Da quelle pubblicazioni (di taglio senz’altro più ambizioso, e che sarebbe del tutto ingeneroso mettere a confronto con l’antologia odierna) sono passati quarant’anni, e quindi il primo merito dell’edizione Carocci è quello di segnalare le novità, tramite l’inserimento di testi riscoperti (o emersi all’attenzione degli studiosi) solo di recente, e grazie a una bibliografia essenziale, ma aggiornata. La scelta (di collana) di presentare molti testi, ma di lunghezza più contenuta rispetto, ad esempio, alle antologie barocchiane si esponeva al rischio dell’eccessiva frammentarietà del discorso, e anche qui devo dire che il risultato finale è invece un libro compatto, molto denso, in cui però emergono con chiarezza le tendenze di fondo. Poi, naturalmente, si può discutere sull’inserimento di questo o quel testo, su cosa manca e che cosa c’è, in un giochino che viene subito spontaneo quando si ha a che fare con opere di questo tipo. Dico subito che a quel giochino non è mia intenzione iscrivermi (salvo in un caso, alla fine di questa recensione, che sarà pubblicata in due puntate); l’essenziale c’è eccome, e quindi parliamone.

Albrecht Dürer, Adorazione dei Magi, 1504, Firenze, Galleria degli Uffizi
Fonte: https://www.google.com/culturalinstitute/beta/asset/zwFGJLYuIszRRw


Nobiltà degli artisti e modelli di riferimento

Se c’è una tendenza di fondo che, di fatto, accomuna tutti i testi dell’antologia (e. più in generale, tutti i discorsi sull’arte almeno fino a fine Ottocento) è quello della nobiltà degli artisti. Il che, naturalmente, non deve stupire: in ultima analisi si tratta di riflessioni sull’importanza del proprio lavoro, riflessioni che oggi potremmo sentir fare (accettatela come una provocazione) anche da un dentista, un infermiere o un idraulico. In fondo, un ragionamento sulla ‘nobiltà’ della pittura viene condotto a fine Trecento anche da Cennino Cennini nel suo Libro sull’Arte, che assicura alla medesima il secondo posto dopo la scienza, al pari della poesia. Semmai l’aspetto da tener presente è la consapevolezza generale del proprio ruolo che ormai permea in merito il mondo degli artefici (che non a caso durante il ‘500 cominciano a essere chiamati artisti). La nobiltà dell’arte è discorso che riguarda prima di tutto l’architettura. È la figura dell’architetto che emerge in maniera più netta sia a livello storico sia su un piano teorico. Il motivo è banale. Esiste un testo di riferimento che, in un numero insolitamente elevato di copie manoscritte, è giunto sino a quei giorni, e quel testo è, ovviamente, il De architectura di Vitruvio. Vitruvio come modello è imprescindibile per comprendere operazioni di rielaborazione personale (si pensi al De re aedificatoria di Leon Battista Alberti), ma anche le riedizioni a stampa e le prime traduzioni italiane del Cinquecento (si veda cap. III.3.2.1). Il primato cinquecentesco del trattato di architettura su quello di pittura mi pare fuori discussione. Anche perché, a essere onesti, il trattato di pittura ‘complessivo’ non esiste, né vedrà mai la luce. La pittura, ovviamente, ha Plinio, e Plinio, coi suoi innumerevoli aneddoti, e in assenza delle opere antiche, è una fonte d’ispirazione inesauribile per sostenere la nobiltà della medesima, a partire, ad esempio, dal fatto che gli antichi Greci non la lasciavano praticare se non a soggetti provenienti da nobile stirpe. Plinio, dunque, in assenza di un trattato ‘enciclopedico’ sulla pittura, è il vero riferimento di chi vuol scrivere d’arte nel Cinquecento, e non solo in Italia. Basti pensare al Comentario de la pintura y pintores antiguos di Felipe de Guevara (1560 circa) e alla ‘biografia collettiva’ di artisti presentata nella Batavia di Hadrianus Junius (1566-1575). Lo stesso Vasari, nelle sue Vite, pur citando in diverse occasioni episodi pliniani nella prima edizione Torrentiniana (1550), avverte comunque il bisogno di inserire nella Giuntina, nel 1568, la lettera di Giambattista Adriani, parafrasi di fatto del testo pliniano, che con il progetto storiografico dell’aretino ha poco in comune, ma che evidentemente è ‘richiesta’ dal pubblico (e se si sfoglia qualche esemplare delle Vite si vedrà che la lettera dell’Adriani è fra le più sottolineate).

Raffaello, La scuola di Atene, 1509-11 circa, Musei Vaticani
Fonte: Wikimedia Commons

Da Plinio a Vasari, passando per Dürer

Se un trattato di pittura a cui far riferimento e su cui eventualmente costruire il proprio non esiste, non vuol dire che nessuno vi abbia pensato. È importante, a questo punto, aver chiaro che un conto è la produzione a stampa e un conto è quella manoscritta, ma aver anche presente che i manoscritti hanno comunque una loro circolazione, e che vanno quindi tenuti in considerazione nell’evolvere delle cose. Non sto pensando, nel caso specifico, al De pictura di Leon Battista Alberti, di cui una circolazione manoscritta è ben documentata, e che diviene a pieno titolo ‘libro del ‘500’ con la princeps di Basilea (1540) e soprattutto con la traduzione bartoliana in italiano del 1568; il caso probabilmente più importante, all’inizio del secolo, è invece Leonardo da Vinci e la massa di appunti manoscritti a cui a un certo punto pensò di dare forma organica (p. 235). Sappiamo che frutto di questo tentativo fu il Libro di Pittura scritto dall’allievo prediletto Francesco Melzi. Non starò qui a dilungarmi sui dibattiti sull’ ‘autografia’ del Libro di Pittura. C’è chi dice (Carlo Pedretti) che il Libro di Pittura può essere considerato a tutti gli effetti un autografo di Leonardo, pur non essendolo fisicamente; chi sostiene che Melzi ne abbia fatto una rielaborazione e che il vinciano lo avrebbe scritto in maniera diversa. Fatto sta che, a un certo punto, il Libro di pittura andò perso e fu ritrovato solo secoli dopo. Tuttavia un numero elevatissimo di manoscritti apografi (e parziali) è testimoniato a Firenze, a Milano, a Roma, a testimonianza che le circolazioni manoscritte sono comunque da tenere in considerazione [4].

Anche Dürer pensò di scrivere un trattato di pittura; il suo progetto, peraltro, testimonia sin dall'indice l’attenzione del mondo del primo Cinquecento per proporzione e simmetria (un’opera organizzata in tre libri; in ogni libro tre parti; per ogni parte, sei ‘modi’ (o scansioni, se preferite)). Pur non riuscendo nell’impresa, Dürer pubblicò trattati sull’architettura fortificata, la geometria euclidea e le proporzioni umane, e ci fu una breve stagione (soprattutto fiorentina), attorno al 1535, in cui i suoi libri (nella traduzione postuma latina del Camerarius) rischiarono di diventare riferimenti per la riflessione teorica dell’epoca (p. 57). Ne è testimonianza, ad esempio, l’incompleta traduzione in italiano (rimasta manoscritta e scoperta solo di recente) delle Institutiones geometricae a opera di Cosimo Bartoli. Quella stagione viene sepolta rapidamente dalla svolta culturale legata alla nascita dell’Accademia Fiorentina (1541) voluta da Cosimo I de’ Medici e dall’emergere del mito vivente di Michelangelo [6]. Non a caso Ascanio Condivi scrive di saper bene, parlando di Michelangelo, “che quando legge Alberto Duro, gli par cosa molto debole […] E a dire il vero, Alberto non tratta se non delle misure e varietà de’ corpi, di che certa regula dar non si può, formando le figure ritte come pali; quel che più importava, de gli atti et gesti humani, non ne dice parola” (p. 238).

Non è certo un caso se, con la prima edizione delle Vite (1550), Vasari collochi Michelangelo in vetta alla sua parabola storiografica e ne presenti la biografia, unica di un artista vivente. Le Vite non segnano, tuttavia, la sola ‘beatificazione’ di Michelangelo; costituiscono l’emersione (e il trionfo) del genere biografico applicato agli artisti, ovvero della “storia come «specchio della vita umana»” (p. 66), che lo stesso Vasari indica come idea proveniente da Paolo Giovio. Se la prima edizione rispecchia l’impostazione gioviana, la seconda (1568) sembra essere debitrice in maggior misura dell’impostazione filologica di Vincenzo Borghini, più incline all’indagine storiografica e topografica. “Con un approccio globale alle arti, essa combinava storia, teoria, topografia, biografie, ampi spunti sulle tecniche e i materiali, offrendo angolature e percorsi di lettura multipli. Niente era assente, o quasi. […] L’opera vasariana fu per i contemporanei veramente spiazzante, proprio perché doppia, audace ed esauriente nella sua vastità” (p. 68). L’impostazione storiografica di Vasari è notissima, e riflette la suddivisione in tre parti delle Vite, ben delineata nel Proemio della terza parte (pp. 480-84): la rinascita delle arti per merito di Cimabue e Giotto, la stagione quattrocentesca che segna il progresso delle arti, ma in misura secca e imperfetta, e infine la maniera moderna, da Leonardo in poi, che culmina con la stagione michelangiolesca. Il tutto con una chiara impostazione filo-toscana (specie nella Giuntina) che riflette la politica culturale di Cosimo I. Questo modello sarà condiviso o criticato, in maniera più o meno articolata (si pensi solo al caso delle postille), ma mai messo in competizione con un’opera analoga portatrice di una diversa prospettiva storiografica.


Tiziano, Pala Pesaro (particolare),  1519-26 circa, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari
Fonte: Weg Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

Tutta l’arte in un secolo

Non mancano, nella seconda metà del secolo, trattati (il più importante è sicuramente quello di Lomazzo) che tentano di fornire una risposta ‘tassonomica’ al problema di cosa sia l’arte, e vedono man mano aumentare di peso le preoccupazioni di ordine didattico, volte all’insegnamento dell’arte; ma la prospettiva storiografica di Vasari, che parte da Giotto e Cimabue e dedica le prime due parti della sua opera a Trecento e Quattrocento, è totalmente assente. Non stupisca quindi leggere Lomazzo che scrive (1590): “Fin al tempo di Michel Angelo Buonarroti, tutte l’arti giacquero come sepolte. Cominciarono poi a risorgere, et nell’arte nostra fu il primo Donato, cognominato Bramante…” (pp. 229-29); gli fa eco Possevino (1594): “Ma (per venire ai nostri tempi), dopo essere decaduta e morta nei secoli passati, l’arte della pittura è risorta in questo secolo, così come hanno fatto gli studi letterari” (p. 231); e non dimenticherei Armenini (1586), che condanna le ‘stravaganze’ degli antichi pittori, da Giotto a Perugino, che, a suo dire, operavano secondo la debolezza di quei tempi. L’arte, nel suo senso più compiuto, è tutta chiusa in un secolo, e nell’ambito di quel secolo descrive una parabola che, sul finire del Cinquecento, porta a parlare di una crisi successiva alla morte dei grandi artisti. È la messa in discussione di ciò che oggi chiamiamo Manierismo, a mio avviso solo parzialmente legata alle nuove esigenze di ordine etico imposte dalla Controriforma.

Michelangelo, Sibilla Libica, Cappella Sistina, 1508-12 circa
Fonte: Wikimedia Commns

L’imitazione

Fra le varie ‘parti’ dell’arte che sono individuate nell’ambito della teoria artistica del Cinquecento, non vi è dubbio che l’imitazione giochi un ruolo fondamentale. Nulla di nuovo: l’imitazione della natura è in linea di massima un elemento su ci si basa tutta l’arte fino alla nascita dell’astrazione. Le differenze si notano quando si passa a discutere su cosa si imita (la natura) e su come lo si imita (se cioè limitandosi alla pura rappresentazione dal vero o invece correggendo la natura stessa nelle parti in cui è imperfetta per giungere a una rappresentazione idealizzata della forma). Sotto questo punto di vista mi pare interessante (anche perché spiega come i significati attribuiti a determinati termini possano modificarsi nel corso dei secoli) la distinzione operata da Vincenzo Danti fra ‘ritrarre’ e ‘imitare’ (pp. 318-19). Ritrarre, per Danti, vuol dire riprodurre una cosa esattamente come la si vede; imitare “fare una cosa non solo in quel modo che altri vede (…), ma farla come ella arebbe [sic] da essere in tutta perfezione”. L’imitazione, insomma, è una forma di idealizzazione della natura e sta al ritrarre come in letteratura (il paragone con il mondo letterario è un topos) la poesia sta al semplice racconto di una storia. Come tale, l’imitazione dimostra una maggiore nobiltà: “onde si vede che il ritrarre può essere di due specie: l’una si è ritrarre le cose, o perfette o imperfette che sieno, come elle si veggiono, e questa non si può amettere sotto il vero disegno”, dove il disegno assume una carica ideale che non è molto diversa da quella che Bellori, più di un secolo dopo, utilizza per la sua teorica e in nome della quale contesta il ‘naturalismo’ caravaggesco. Tale aspetto ideale si carica di significati nel corso di buona parte del secolo tanto che – scrive Passignat – “non si trattava più, per valutare la qualità di un artista, di sapere quanta parte della natura egli avesse corretto con la fantasia, bensì quanta parte dell’Idea egli avesse trasmesso alla sua opera” (p. 90). L’autrice fa riferimento alla fantasia ed è innegabile che il secolo veda un progressivo espandersi dell’importanza ad essa attribuita (un’importanza che trova il suo suggello nelle parole di Michelangelo) per poi tornare a comprimersi con le istanze controriformate. Ad un certo punto il ruolo della fantasia, e quindi dell’invenzione, porta alla nascita di stretti sodalizi fra artisti e letterati (come Borghini e Caro) che stilano i veri e propri programmi iconografici (rivolti sempre alla ricerca del ‘nuovo’) dei cicli pittorici commissionati agli artefici. Ne risulta messa in discussione, per assurdo, la manualità stessa dell’artista, che su un piano teorico rischia di essere considerata un semplice atto pratico, tornando per assurdo a dimostrare l’artigianalità del fare. Il secolo vive dunque su un sottile equilibrio fra ‘fantasia’ e ‘operazione di mano’, in cui la prima sembra prevalere sulla seconda col Manierismo, salvo poi vedersi ridimensionata in sede di trattatistica controriformata. Ho parlato volutamente di ‘fantasia’ e ‘operazione di mano’ perché sono gli stessi termini con cui Cennino Cennini, a fine Trecento, definisce la pittura nel Libro dell’Arte: “queste un arte che ssi chiama dipingnere che conviene / avere fantasia e hoperazione dimano di trovare cose non vedute chacciandosi sotto ombra di naturali e fermarle / con lamano”, e, a meno che non si pensi di sostenere che Cennino fosse un manierista, vale la pena ricordare che contestualizzare una fonte nell’epoca in cui fu scritta è sempre il primo dovere di chi fa l’interprete.

Fine della Parte Prima
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NOTE

[1] Per una rassegna delle fonti del Cinquecento recensite o discusse su questo blog si veda il relativo indice.

[2] Trattati d’arte del Cinquecento tra Manierismo e Controriforma, a cura di Paola Barocchi, 3 volumi, Bari, Laterza, 1960-62.

[3] Paola Barocchi, Scritti d’arte del Cinquecento, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1971-77.


https://letteraturaartistica.blogspot.com/2018/12/vasari-vite.html

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