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Storia delle antologie di letteratura artistica
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Émilie Passignat
Il Cinquecento.
Le fonti per la storia dell’arte
Roma, Carocci, 2017
La collana Le fonti per la storia
dell’arte
Il Cinquecento di Émilie Passignat è, in termini
cronologici, il quinto volume antologico ad essere pubblicato, dal 2001 a oggi,
nell’ambito della collana Le fonti per la
storia dell’arte, ideata e curata da Antonio Pinelli ed edita da Carocci.
Nel momento in cui mi accingo a recensirlo, avverto la necessità di spendere
due parole, innanzi tutto, sulla collana in sé, dando conto per prima cosa dei
titoli finora stampati:
- M. Letizia Gualandi, L’antichità classica, 2001;
- Émilie Passignat, Il Cinquecento, 2017;
- Tomaso Montanari, L’età barocca (1600-1750), 2013;
- Chiara Savettieri, Dal Neoclassicismo al Romanticismo, 2006;
- Silvia Bordini, L’Ottocento, 2002.
L’idea alla base della collana, esposta
dal curatore nella sua presentazione (stampata identica in ogni volume) è
quella di fare ordine in una massa enorme di testimonianze scritte (le fonti,
appunto) che spesse volte finiscono per essere dimenticate o sono addirittura
del tutto ignote. L’indagine riguarda non solo i testi rientranti nelle
tipologie che ai suoi tempi Julius
von Schlosser citò come integranti la nozione di Letteratura artistica, ma si estendono a documenti come
contratti, inventari e altri testi di natura notarile.
La collana è pensata in dieci
volumi, che coprono un arco cronologico che va “dall’antichità classica ai nostri giorni”. Purtroppo non sono stato
in grado di reperire il piano complessivo dell’opera, e non sono quindi in
grado di dire quale sarà la scansione dei titoli mancanti.
L’impostazione dei volumi si
mantiene sostanzialmente identica. L’organizzazione, innanzi tutto, è per temi.
A una prima corposa sezione di Percorsi
di lettura che offre un’interpretazione critica dei vari argomenti trattati
corrisponde un’amplissima scelta di testi (spesso rari, a volte addirittura
inediti) raccolta nella vera e propria Antologia
delle fonti. All’interno di ogni sezione, i testi sono presentati in ordine
rigidamente cronologico. La struttura modulare dell’antologia permette una
comoda lettura incrociata fra Percorsi di
lettura e Antologia delle fonti,
grazie ai relativi rimandi (che sono chiarissimi). L’indice finale, che
presenta anche voci tematiche, consente anche una lettura trasversale
nell’ambito dell’antologia.
Naturalmente non è mia intenzione
tracciare qui una storia delle antologie di letteratura artistica (agli
interessati consiglio di
consultare la serie di recensioni ad esse dedicate su questo blog); mi pare
di poter dire che, pur risentendo di influssi di antologie storiche, come
quelle (mai benedette abbastanza) di Paola Barocchi sul versante italiano e gli
agili volumetti pubblicati da Prentice-Hall nella Sources & Documents in the History of Art Series nel mondo
anglosassone, la collana diretta da Antonio Pinelli (destinata soprattutto al
mercato delle adozioni universitarie) presenti caratteri di originalità e di
indubbio interesse.
Lo dico perché, a questo punto, devo
confessare una cosa: non ho mai letto nella loro interezza (ma solo usato per
consultazione) i quattro volumi editi prima del presente. Non l’ho fatto
perché, personalmente, nutro una sorta di diffidenza nei confronti di tutte le
antologie. Tale diffidenza non è relativa alla loro maggiore o minore
completezza, ma alla loro insita natura. Nel dar conto dei dibattiti di natura
più o meno teorica relativi al mondo dell’arte, un’antologia, inevitabilmente,
tende a mettere in evidenza le differenze di pensiero, l’evoluzione storica, la
dinamica delle idee. Io invece, quando leggo le fonti, cerco le uniformità che
testimonino la diffusione e circolazione (non solo senso in senso cronologico,
ma anche geografico) delle stesse idee di fondo, poi declinate a seconda delle
specificità. Semplificando in maniera del tutto scorretta, a me piace cercare
ciò che unisce, mentre, per la loro stessa natura, le antologie finiscono per
mettere in evidenza ciò che fa la differenza.
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Leonardo, Dama con l'ermellino, 1490 circa. Museo nazionale di Cracovia Fonte: http://www.ncm.com/content/files/art_downloads/LeonardodaVinci-TheLadywithanErmineX6803.jpg |
Il Cinquecento di Émilie Passignat
Non è il caso del Cinquecento di Émilie Passignat [1], a cui
peraltro posso immaginare che siano tremate le gambe al momento di assumere
l’incarico di occuparsi del secolo di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, e
naturalmente delle Vite di Vasari,
specie tenuto conto che i precedenti italiani riportano direttamente ai Trattati d’arte del Cinquecento [2] e
agli Scritti d’arte del Cinquecento
[3], entrambi di Paola Barocchi. Da quelle pubblicazioni (di taglio senz’altro
più ambizioso, e che sarebbe del tutto ingeneroso mettere a confronto con
l’antologia odierna) sono passati quarant’anni, e quindi il primo merito
dell’edizione Carocci è quello di segnalare le novità, tramite l’inserimento di
testi riscoperti (o emersi all’attenzione degli studiosi) solo di recente, e
grazie a una bibliografia essenziale, ma aggiornata. La scelta (di collana) di
presentare molti testi, ma di lunghezza più contenuta rispetto, ad esempio,
alle antologie barocchiane si esponeva al rischio dell’eccessiva frammentarietà
del discorso, e anche qui devo dire che il risultato finale è invece un libro
compatto, molto denso, in cui però emergono con chiarezza le tendenze di fondo.
Poi, naturalmente, si può discutere sull’inserimento di questo o quel testo, su
cosa manca e che cosa c’è, in un giochino che viene subito spontaneo quando si
ha a che fare con opere di questo tipo. Dico subito che a quel giochino non è
mia intenzione iscrivermi (salvo in un caso, alla fine di questa recensione,
che sarà pubblicata in due puntate); l’essenziale c’è eccome, e quindi
parliamone.
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Albrecht Dürer, Adorazione dei Magi, 1504, Firenze, Galleria degli Uffizi Fonte: https://www.google.com/culturalinstitute/beta/asset/zwFGJLYuIszRRw |
Nobiltà degli artisti e modelli di riferimento
Se c’è una tendenza di fondo che,
di fatto, accomuna tutti i testi dell’antologia (e. più in generale, tutti i
discorsi sull’arte almeno fino a fine Ottocento) è quello della nobiltà degli
artisti. Il che, naturalmente, non deve stupire: in ultima analisi si tratta di
riflessioni sull’importanza del proprio lavoro, riflessioni che oggi potremmo
sentir fare (accettatela come una provocazione) anche da un dentista, un
infermiere o un idraulico. In fondo, un ragionamento sulla ‘nobiltà’ della
pittura viene condotto a fine Trecento anche da Cennino Cennini nel
suo Libro sull’Arte, che assicura
alla medesima il secondo posto dopo la scienza, al pari della poesia. Semmai l’aspetto
da tener presente è la consapevolezza generale del proprio ruolo che ormai
permea in merito il mondo degli artefici (che non a caso durante il ‘500
cominciano a essere chiamati artisti). La nobiltà dell’arte è discorso che
riguarda prima di tutto l’architettura. È la figura dell’architetto che emerge
in maniera più netta sia a livello storico sia su un piano teorico. Il motivo è
banale. Esiste un testo di riferimento che, in un numero insolitamente elevato
di copie manoscritte, è giunto sino a quei giorni, e quel testo è, ovviamente,
il De architectura di Vitruvio. Vitruvio
come modello è imprescindibile per comprendere operazioni di rielaborazione
personale (si pensi al De re
aedificatoria di Leon Battista Alberti), ma anche le riedizioni a stampa e
le prime traduzioni italiane del Cinquecento (si veda cap. III.3.2.1). Il
primato cinquecentesco del trattato di architettura su quello di pittura mi
pare fuori discussione. Anche perché, a essere onesti, il trattato di pittura
‘complessivo’ non esiste, né vedrà mai la luce. La pittura, ovviamente, ha
Plinio, e Plinio, coi suoi innumerevoli aneddoti, e in assenza delle opere
antiche, è una fonte d’ispirazione inesauribile per sostenere la nobiltà della
medesima, a partire, ad esempio, dal fatto che gli antichi Greci non la
lasciavano praticare se non a soggetti provenienti da nobile stirpe. Plinio,
dunque, in assenza di un trattato ‘enciclopedico’ sulla pittura, è il vero
riferimento di chi vuol scrivere d’arte nel Cinquecento, e non solo in Italia.
Basti pensare al Comentario de la pintura y pintores antiguos
di Felipe de Guevara (1560 circa) e alla ‘biografia collettiva’ di artisti
presentata nella
Batavia di Hadrianus Junius
(1566-1575). Lo stesso Vasari, nelle sue Vite,
pur citando in diverse occasioni episodi pliniani nella prima edizione
Torrentiniana (1550), avverte comunque il bisogno di inserire nella Giuntina,
nel 1568, la lettera di Giambattista Adriani, parafrasi di fatto del testo
pliniano, che con il progetto storiografico dell’aretino ha poco in comune, ma
che evidentemente è ‘richiesta’ dal pubblico (e se si sfoglia qualche esemplare
delle Vite si vedrà che la lettera
dell’Adriani è fra le più sottolineate).
Se un trattato di pittura a cui
far riferimento e su cui eventualmente costruire il proprio non esiste, non
vuol dire che nessuno vi abbia pensato. È importante, a questo punto, aver
chiaro che un conto è la produzione a stampa e un conto è quella manoscritta,
ma aver anche presente che i manoscritti hanno comunque una loro circolazione,
e che vanno quindi tenuti in considerazione nell’evolvere delle cose. Non sto
pensando, nel caso specifico, al
De pictura di Leon Battista Alberti,
di cui una circolazione manoscritta è ben documentata, e che diviene a pieno titolo ‘libro del ‘500’ con la princeps di Basilea (1540) e soprattutto
con la traduzione bartoliana in italiano del 1568; il caso probabilmente più
importante, all’inizio del secolo, è invece Leonardo da Vinci e la massa di
appunti manoscritti a cui a un certo punto pensò di dare forma organica (p.
235). Sappiamo che frutto di questo tentativo fu il Libro di Pittura scritto dall’allievo prediletto Francesco Melzi.
Non starò qui a dilungarmi sui dibattiti sull’ ‘autografia’ del Libro di Pittura. C’è chi dice (Carlo
Pedretti) che il Libro di Pittura può
essere considerato a tutti gli effetti un autografo di Leonardo, pur non
essendolo fisicamente; chi sostiene che Melzi ne abbia fatto una rielaborazione
e che il vinciano lo avrebbe scritto in maniera diversa. Fatto sta che, a un
certo punto, il Libro di pittura andò
perso e fu ritrovato solo secoli dopo. Tuttavia un numero elevatissimo di manoscritti
apografi (e parziali) è testimoniato a Firenze, a Milano, a Roma, a
testimonianza che le circolazioni manoscritte sono comunque da tenere in
considerazione [4].
Anche Dürer pensò di scrivere un trattato di
pittura; il suo progetto, peraltro, testimonia sin dall'indice l’attenzione del mondo del primo
Cinquecento per proporzione e simmetria (un’opera organizzata in tre libri; in
ogni libro tre parti; per ogni parte, sei ‘modi’ (o scansioni, se preferite)). Pur
non riuscendo nell’impresa, Dürer pubblicò trattati sull’architettura
fortificata, la geometria euclidea e le proporzioni umane, e ci fu una breve
stagione (soprattutto fiorentina), attorno al 1535, in cui i suoi libri (nella
traduzione postuma latina del Camerarius) rischiarono di diventare riferimenti
per la riflessione teorica dell’epoca (p. 57). Ne è testimonianza, ad esempio,
l’incompleta traduzione in italiano (rimasta manoscritta e scoperta solo di
recente) delle Institutiones geometricae a opera di
Cosimo Bartoli. Quella stagione viene sepolta rapidamente dalla svolta culturale
legata alla nascita dell’Accademia Fiorentina (1541) voluta da Cosimo I de’
Medici e dall’emergere del mito vivente di Michelangelo [6]. Non a caso Ascanio
Condivi scrive di saper bene, parlando di Michelangelo, “che quando legge Alberto Duro, gli par cosa molto debole […] E a dire il vero, Alberto non tratta se non
delle misure e varietà de’ corpi, di che certa regula dar non si può, formando
le figure ritte come pali; quel che più importava, de gli atti et gesti humani,
non ne dice parola” (p. 238).
Non è certo un caso se, con la prima
edizione delle Vite (1550), Vasari
collochi Michelangelo in vetta alla sua parabola storiografica e ne presenti la
biografia, unica di un artista vivente. Le Vite
non segnano, tuttavia, la sola ‘beatificazione’ di Michelangelo; costituiscono l’emersione
(e il trionfo) del genere biografico applicato agli artisti, ovvero della
“storia come «specchio della vita umana»” (p. 66), che lo stesso Vasari indica
come idea proveniente da Paolo
Giovio. Se la prima edizione rispecchia l’impostazione gioviana, la
seconda (1568) sembra essere debitrice in maggior misura dell’impostazione
filologica di Vincenzo Borghini, più incline all’indagine storiografica e
topografica. “Con un approccio globale
alle arti, essa combinava storia, teoria, topografia, biografie, ampi spunti
sulle tecniche e i materiali, offrendo angolature e percorsi di lettura
multipli. Niente era assente, o quasi. […] L’opera vasariana fu per i contemporanei veramente spiazzante, proprio
perché doppia, audace ed esauriente nella sua vastità” (p. 68).
L’impostazione storiografica di Vasari è notissima, e riflette la suddivisione
in tre parti delle Vite, ben
delineata nel Proemio della terza parte (pp. 480-84): la rinascita delle arti
per merito di Cimabue e Giotto, la stagione quattrocentesca che segna il
progresso delle arti, ma in misura secca e imperfetta, e infine la maniera
moderna, da Leonardo in poi, che culmina con la stagione michelangiolesca. Il
tutto con una chiara impostazione filo-toscana (specie nella Giuntina) che
riflette la politica culturale di Cosimo I. Questo modello sarà condiviso o
criticato, in maniera più o meno articolata (si pensi solo al caso
delle postille), ma mai messo in competizione con un’opera analoga portatrice di
una diversa prospettiva storiografica.
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Tiziano, Pala Pesaro (particolare), 1519-26 circa, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari Fonte: Weg Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
Tutta
l’arte in un secolo
Non mancano, nella seconda metà
del secolo, trattati (il più importante è sicuramente quello di
Lomazzo) che tentano di fornire una risposta ‘tassonomica’ al problema di
cosa sia l’arte, e vedono man mano aumentare di peso le preoccupazioni di
ordine didattico, volte all’insegnamento dell’arte; ma la prospettiva storiografica
di Vasari, che parte da Giotto e Cimabue e dedica le prime due parti della sua
opera a Trecento e Quattrocento, è totalmente assente. Non stupisca quindi
leggere Lomazzo che scrive (1590): “Fin
al tempo di Michel Angelo Buonarroti, tutte l’arti giacquero come sepolte.
Cominciarono poi a risorgere, et nell’arte nostra fu il primo Donato,
cognominato Bramante…” (pp. 229-29); gli fa eco Possevino (1594): “Ma (per venire ai nostri tempi), dopo essere
decaduta e morta nei secoli passati, l’arte della pittura è risorta in questo
secolo, così come hanno fatto gli studi letterari” (p. 231); e non
dimenticherei Armenini
(1586), che condanna le ‘stravaganze’ degli antichi pittori, da Giotto a
Perugino, che, a suo dire, operavano secondo la debolezza di quei tempi.
L’arte, nel suo senso più compiuto, è tutta chiusa in un secolo, e nell’ambito
di quel secolo descrive una parabola che, sul finire del Cinquecento, porta a parlare
di una crisi successiva alla morte dei grandi artisti. È la messa in discussione di
ciò che oggi chiamiamo Manierismo, a mio avviso solo parzialmente legata alle
nuove esigenze di ordine etico imposte dalla Controriforma.
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Michelangelo, Sibilla Libica, Cappella Sistina, 1508-12 circa Fonte: Wikimedia Commns |
L’imitazione
Fra le varie ‘parti’ dell’arte
che sono individuate nell’ambito della teoria artistica del Cinquecento, non vi
è dubbio che l’imitazione giochi un ruolo fondamentale. Nulla di nuovo:
l’imitazione della natura è in linea di massima un elemento su ci si basa tutta
l’arte fino alla nascita dell’astrazione. Le differenze si notano quando si
passa a discutere su cosa si imita (la natura) e su come lo si imita (se cioè
limitandosi alla pura rappresentazione dal vero o invece correggendo la natura
stessa nelle parti in cui è imperfetta per giungere a una rappresentazione
idealizzata della forma). Sotto questo punto di vista mi pare interessante
(anche perché spiega come i significati attribuiti a determinati termini
possano modificarsi nel corso dei secoli) la distinzione operata da Vincenzo
Danti fra ‘ritrarre’ e ‘imitare’ (pp. 318-19). Ritrarre, per Danti, vuol dire
riprodurre una cosa esattamente come la si vede; imitare “fare una cosa non solo in quel modo che altri vede (…), ma farla come ella arebbe [sic] da essere in tutta perfezione”.
L’imitazione, insomma, è una forma di idealizzazione della natura e sta al
ritrarre come in letteratura (il paragone con il mondo letterario è un topos) la poesia sta al semplice
racconto di una storia. Come tale, l’imitazione dimostra una maggiore nobiltà:
“onde si vede che il ritrarre può essere
di due specie: l’una si è ritrarre le cose, o perfette o imperfette che sieno,
come elle si veggiono, e questa non si può amettere sotto il vero disegno”,
dove il disegno assume una carica ideale che non è molto diversa da quella che Bellori,
più di un secolo dopo, utilizza per la sua teorica e in nome della quale
contesta il ‘naturalismo’ caravaggesco. Tale aspetto ideale si carica di
significati nel corso di buona parte del secolo tanto che – scrive Passignat –
“non si trattava più, per valutare la
qualità di un artista, di sapere quanta parte della natura egli avesse corretto
con la fantasia, bensì quanta parte dell’Idea egli avesse trasmesso alla sua
opera” (p. 90). L’autrice fa riferimento alla fantasia ed è innegabile che
il secolo veda un progressivo espandersi dell’importanza ad essa attribuita
(un’importanza che trova il suo suggello nelle parole di Michelangelo) per poi
tornare a comprimersi con le istanze controriformate. Ad un certo punto il
ruolo della fantasia, e quindi dell’invenzione, porta alla nascita di stretti sodalizi fra artisti e letterati (come Borghini e Caro) che stilano i veri e
propri programmi iconografici (rivolti sempre alla ricerca del ‘nuovo’) dei
cicli pittorici commissionati agli artefici. Ne risulta messa in discussione,
per assurdo, la manualità stessa dell’artista, che su un piano teorico rischia
di essere considerata un semplice atto pratico, tornando per assurdo a
dimostrare l’artigianalità del fare. Il secolo vive dunque su un sottile
equilibrio fra ‘fantasia’ e ‘operazione di mano’, in cui la prima sembra
prevalere sulla seconda col Manierismo, salvo poi vedersi ridimensionata in
sede di trattatistica controriformata. Ho parlato volutamente di ‘fantasia’ e
‘operazione di mano’ perché sono gli stessi termini con cui Cennino Cennini, a
fine Trecento, definisce la pittura nel
Libro dell’Arte: “queste un arte che ssi chiama dipingnere che
conviene / avere fantasia e hoperazione dimano di trovare cose non vedute
chacciandosi sotto ombra di naturali e fermarle / con lamano”, e, a meno
che non si pensi di sostenere che Cennino fosse un manierista, vale la pena
ricordare che contestualizzare una fonte nell’epoca in cui fu scritta è sempre
il primo dovere di chi fa l’interprete.
NOTE
[1] Per una rassegna delle fonti
del Cinquecento recensite o discusse su questo blog si
veda il relativo indice.
[2] Trattati d’arte del
Cinquecento tra Manierismo e Controriforma, a cura di Paola Barocchi, 3 volumi,
Bari, Laterza, 1960-62.
[3] Paola Barocchi, Scritti
d’arte del Cinquecento, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1971-77.
[4] Si veda Re-Reading
Leonardo. The Treatise on Painting across Europe, 1550-1900, a cura di
Claire Farago.
[5] Si veda Giovanni
Maria Fara, Albrecht Dürer nelle fonti italiane antiche 1508-1686, Leo S.
Olschki editore, 2014
https://letteraturaartistica.blogspot.com/2018/12/vasari-vite.html
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