Barbara Mancuso
Scrivere di marmi.
La scultura del Rinascimento nelle fonti siciliane
Messina, Magika, 2017
Recensione di Giovanni Mazzaferro
https://letteraturaartistica.blogspot.com/2016/12/lomazzo.html
Faccio fatica a definire lo
‘scrivere di marmi’ di Barbara Mancuso se non pensando che ha il grande pregio
di applicare al caso concreto tutte le principali acquisizioni storiografiche
nell’ambito della letteratura artistica degli ultimi cinquant’anni. Non era facile. Innanzi tutto perché
l’autrice si muove nell’ambito della storiografia artistica siciliana che,
ancor oggi, non ha una mappatura critica complessiva che possa aiutare a orientarsi; e poi perché, nell’ambito di tale storiografia, sceglie un
argomento (quello della scultura in marmo rinascimentale) che, di per sé, è di
nicchia, non solo sull’isola, ma anche nel resto d’Italia.
Mancuso organizza il
suo volume in due parti, fornendo nella prima un inquadramento storico che
segue un andamento cronologico e nel secondo il testo delle principali fonti
prese in considerazione (la trascrizione dei testi è di Sandra Condorelli e Salvatore
Pistone Nascone). Il periodo storico della letteratura presa in esame va dallo
stesso Cinquecento fino alla fine dell’Ottocento, ovvero all’affacciarsi, sulla
scena critica siciliana, della figura di Gioacchino Di Marzo e, con essa, della
storiografia artistica intesa in senso moderno. Le fonti possono essere di
natura la più disparata (“opere
storiografiche, letteratura biografica, annalistica, memorialistica, descrizioni
di opere, ma anche qualche inventario e qualche documento grafico, con incursioni
nella letteratura di viaggio e nella periegetica”. Cfr. p.7) e soprattutto
di livello qualitativo nettamente differente, dimostrando a volte interessi
meramente letterari o di carattere campanilistico, ma altre testimoniando
tentativi di avvicinamento stilistico all’opera d’arte e addirittura abbozzi di
inquadramento storiografico.
Senza stare a esaminare le
singole fonti nel particolare, trovo a mio avviso interessante sottolineare due
aspetti: il primo è che le letture più significative provengono, in linea di
massima, da figure che hanno a che vedere (o perché lo praticano o perché vi
son attente) col mondo del collezionismo (si vedano Susinno e Gallo). Il legame
fra fonti, storiografia artistica e collezionismo è una delle principali
acquisizioni del magistero di Paola Barocchi (che se ne è occupata soprattutto
con riferimento al collezionismo mediceo dagli anni ’70 del Novecento). Se
dovessi dire oggi in che cosa La letteratura artistica di Schlosser (uscita nel 1924) si dimostra vecchia è
proprio nella sistematica sottovalutazione di tale relazione (si pensi ai
giudizi trancianti di Schlosser sulla storiografia artistica fiamminga del
Settecento, in cui si sottolinea l’assenza di dati ‘positivi’, ma non si coglie
il ruolo del collezionismo nella loro produzione). Quella fornita da Mancuso è
un’ulteriore applicazione di tale legame a un ‘micro-caso’ reale. In secondo
luogo, mi sembra giusto riflettere sul ruolo che il campanilismo svolge in
ambito siciliano. Perché, in realtà, bisognerebbe parlare (al plurale) di
campanilismi: esiste un ‘localismo’ rivolto contro una lettura 'italiana' dello
svolgimento del fare artistico (ma, nel caso siciliano sembra trattarsi di una
rivendicazione ottocentesca), esiste un localismo rivolto contro la realtà
napoletana, spesso prevaricante, ma a caratterizzare gli scritti è un
campanilismo prettamente siculo, che ha i suoi due poli in Palermo, per la
Sicilia occidentale, e Messina, per quella orientale. L’espressione più
manifesta di questa rivalità è costituita, nell’ambito della scultura, dalla
‘querelle’ (durata secoli) sulla città natale di Antonello Gagini (1478-1536).
In merito, mi pare che Mancuso sia molto chiara: “la storiografia artistica siciliana, pienamente campanilistica se si
guarda agli scritti seicenteschi, ha generato il lapsus storiografico di una
netta separazione tra le due aree, quella occidentale e quella orientale,
dell’isola, con dicotomico riferimento ai due centri maggiori di Palermo e
Messina. Sono proprio le fonti, nel loro intento di celebrare le glorie locali,
che ingenerano l’equivoco [...] di una differenza che nei fatti esiste solo
in parte e di una separazione che nei fatti è invece assolutamente infondata
visti i numerosi artisti, anche scultori, che in entrambe le aree lavorano
generando prolifici scambi” (pp. 29-30). Rivalità sì, insomma, effettive
differenza di metodo assolutamente no.
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Giovanni Angelo Montorsoli, Fontana di Orione, 1553, Messina Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons |
Antonello Gagini
Vasari a parte, non vi è
interprete che parli di scultura rinascimentale in Sicilia a prescindere dalla
figura di Antonello Gagini. Il caso vasariano è facilmente spiegabile. L’unico
scultore ‘siciliano’ a cui lo scrittore aretino dedica una biografia è il fiorentino [sic] Giovanni
Angelo Montorsoli. Montorsoli è citato in quanto allievo
di Michelangelo, e la sua presenza decennale in Sicilia (che peraltro non è il
momento centrale della biografia vasariana) sta a significare proprio lo sbarco
della ‘maniera moderna’ a Messina (esattamente come Vasari attribuì a se stesso
il merito di averla portata a Napoli). [1]
A Gagini è invece dedicata la
prima monografia riservata a uno scultore prodotta in Sicilia, il Gagino redivivo di Vincenzo Auria (siamo
nel 1698), come pure la biografia di Susinno (che ne rivendica a torto i natali
messinesi) nelle sue Vite, il Saggio sulla vita e le opere di Antonio
Gagino famoso scultore siciliano del secolo XV di Rosario Gregorio (1791),
l’Antonello Gagini celebre scultore ed
architetto palermitano di Giuseppe Bertini (1817) e l’Elogio storico di Antonio Gagini scultore e architetto palermitano di
Agostino Gallo (1821). I motivi sono ovvi: Gagini fu l’artefice (non unico, ma
certamente principale) dell’opera più celebre della statuaria marmorea
siciliana, la spettacolare Tribuna della Cattedrale di Palermo che tuttavia era
già un ricordo per chi scriveva nell’Ottocento (fu demolita nel 1798; le statue
che vi si trovavano furono ricollocate fuori e dentro la chiesa). Si tratta,
naturalmente, di testi molto diversi fra loro, e, fra l’altro, non sono gli
unici. Basti pensare al De maiestate
panormitana (1630) di Francesco Baronio, che contiene un capitolo De pictoribus, sculptoribus et organariis
panorminatis che certo non brilla per interesse nei confronti dell’analisi
di sculture, ma è il primo testimone di un aneddoto apologetico secondo cui
Michelangelo avrebbe apostrofato chi lo criticava per la nudità del Cristo
della Minerva rinviando ad Antonello Gagini, se l’avessero voluto vestito. Si
noti che l’aneddoto (di origine ignota) è ambivalente, perché potrebbe indicare
un atteggiamento spregiativo nei confronti dello scultore e dei suoi panneggi.
Qui (e per due secoli) se ne darà un’interpretazione ovviamente elogiativa, di
un Michelangelo ammirato dalla qualità dell’opera del Gagini. Non è che il
primo di una serie di ‘luoghi comuni’ relativi allo scultore, che
spuntano puntuali fra le righe delle biografie a lui dedicate e che, ad
esempio, vedono Auria segnalare nel Gagino
redivivo che l’artista collaborò con Michelangelo nella realizzazione
dell’incompiuta tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli a Roma, e che il
Buonarroti ne lodò l’opera. Se si tiene conto che il soggiorno di Gagini a Roma
è tutto da dimostrare, appare evidente cosa è successo: il posto che per Vasari
(toscano) spettava a Montorsoli (anch’egli toscano), ovvero quello di rinnovatore
dell’arte plastica sicula, viene ora attribuito dai suoi conterranei a Gagini,
in virtù di un ‘ideale’ (e quindi ‘reale’) legame con Michelangelo.
Restando al caso dello scritto di
fine Seicento di Auria, l’autrice ricorda che, pur rivelando un interesse
soprattutto letterario e dando appunto spazio a ‘leggende metropolitane’ di
dubbia attendibilità, il Gagino redivivo presenta “un embrionale catalogo delle opere di Gagini, volenterosamente ordinate
topograficamente, distinguendo, al di là della «Tribuna
della Cattedrale di Palermo»
(cap. VI), le «Altre opere del Gagino fatte in
Palermo» (cap. VII) e quelle «fatte in altre parti della Sicilia, e fuori dal
Regno» (cap. VIII)” (p. 43).
Antonello Gagini, Statua dell'Assunta, Cattedrale di Palermo Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons |
Antonello Gagini, Dormienza di Maria e corteo degli Apostoli. Cattedrale di Palermo Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons |
Susinno
Al catalogo di Auria
sostanzialmente attinge Francesco Susinno nelle sue Vite
dei Pittori Messinesi (1724). L’autore non cita la sua fonte, ma dichiara
esplicitamente che, nel caso di Gagini, non ha visto tutto ciò di cui sta
parlando, ma sta facendo riferimento a terzi: “Paradossalmente, è proprio in una vita in larghissima parte ricalcata
su un testo altrui che Susinno si rivela vero conoscitore. La consueta diversa
trattazione delle opere che ha visto e di quelle di cui ha avuto solo notizia
emerge infatti nella vita di Gagini, le cui opere elenca seccamente a eccezione
delle poche che sono a Messina e nei suoi dintorni” (p. 61).
Intendiamoci: l’opera di Susinno (a
metà fra la raccolta di vite e una vera e propria ‘storia’, come ricorda
Martinelli nella sua edizione del manoscritto pubblicata nel 1960) presenta 81
biografie, di cui solo cinque dedicate a scultori. Ma già in quelle cinque si
colgono accenti interessanti: l’attenzione alle ‘filiazioni’ da artista ad
artista, ovvero a una dinamica storiografica, è indice della “sua capacità di guardare gli artisti come
pedine in movimento e alle scuole come momenti di sviluppo e poi di diffusione
di nuove soluzioni formali” (p. 63). In questo contesto va ricondotto
l’apprezzamento di Susinno (dichiaratamente classicista) per gli esiti della
scultura manierista, “esempi della
grandezza della scuola messinese e di una linea di continuità ininterrotta di
grandi artisti dalle origini ai suoi tempi” (p. 59).
Antonello Gagini, Santi Agostino, Sebastiano e Damiano, Cattedrale di Palermo Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons |
Antonello Gagini, Santi Cosma e Benedetto, Cattedrale di Palermo Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons |
Agostino Gallo
È sempre bene ricordare il
manoscritto di Susinno non fu mai pubblicato, e il suo approccio da storiografo
proto-conoscitore rimase in linea di massima nascosto (se non per i plagi a cui
fu sottoposto). Il Settecento e il primo Ottocento vedono comunque il consolidarsi
dell’attenzione al dato stilistico, anche se tale attenzione – scrive Mancuso –
si colloca “in una dimensione che,
nell’ambito strettamente storico artistico, resta ancorata all’analisi della
maniera del singolo e non alla storia della maniera e degli stili” (p. 78).
È
il caso dell’Antonello Gagini celebre
scultore ed architetto Palermitano, scritto da Giuseppe Bertini e
pubblicato all’interno della Biografia
degli uomini illustri della Sicilia ornata de’ loro rispettivi ritratti
(1817). A Gagini dedica una biografia nel 1821 anche Agostino Gallo
(1790-1872). Ho
già avuto modo di esporre alcune perplessità sulla figura dell’erudito
palermitano. È probabile che mi sia sbagliato e non abbia colto
un’impostazione da conoscitore che invece l’autrice non manca di segnalare.
Certo Gallo mette in discussione il legame con Michelangelo (frutto della
letteratura encomiastica precedente) e semmai rimanda a Raffaello, non tanto in
termini di frequentazione, ma di richiamo alla grazia e a un delicato
naturalismo (cfr. p. 82). Sicuramente è molto interessante che l’erudito
riscopra la figura del padre di Antonello, ovvero Domenico Gagini, scultore
anch’egli, originario di Lugano. È inoltre apprezzabile che lo scrittore
si applichi a un vero e proprio esercizio da conoscitore, cercando di
distinguere lo stile di Antonello rispetto a quelli dei figli e degli allievi
(p. 83). Non si può poi tacere che, in ambito di scultura, Gallo non si limita
certo allo studio di Gagini, ma produce nell’ambito del suo incompiuto progetto
per la Storia delle belle arti in Sicilia
un manoscritto intitolato Notizie de’
figularj degli scultori e fonditori e cisellatori siciliani ed esteri che son
fioriti in Sicilia da più antichi tempi fino al 1846, solo di recente
pubblicato dalla Biblioteca della Regione Siciliana. Il problema, però, con
Gallo è la massa sterminata di carte che ha prodotto. La semplice pubblicazione
delle stesse – come avvenuto pochi anni fa, con criteri distributivi del tutto
fuori luogo [2] – è cosa importante, ma di per sé insufficiente. C’è bisogno di
un inquadramento critico che Barbara Mancuso, ad esempio, partendo da propositi
molto meno mastodontici, riesce a dare nel suo commento alla biografia del
1821. Di tutto questo (e di molto altro ancora), le sono grato.
NOTE
[1] L’autrice ricorda anche il
poco spazio dedicato da Vasari ad Angelo Marini siciliano, scultore attivo in
Duomo a Milano (Marini fu anche apprezzato da Lomazzo). Approfitto per
segnalare che Angelo Siciliano è citato anche da Malvasia negli appunti del suo viaggio a Milano del 1667 (e a sproposito, chiaro riflesso di un mondo locale
che degli scultori attivi a Milano ha “un
ricordo collettivo e sommario”; cfr. p. 11).
[2] Ho scoperto che la Regione
Siciliana aveva cominciato a pubblicare i Manoscritti
di Agostino Gallo allo stand della Regione stessa al Salone del Libro di
Torino del 2000. Il terzo volume della serie veniva regalato ai passanti come
se fosse un volantino. Da allora, ho cercato in tutti i modi di recuperare i
primi due, naturalmente rivolgendomi anche alla Biblioteca stessa, che mi ha
risposto che, purtroppo, erano andati esauriti.
https://letteraturaartistica.blogspot.com/2016/12/lomazzo.html
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