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mercoledì 24 gennaio 2018

Barbara Mancuso. Scrivere di marmi. La scultura del Rinascimento nelle fonti siciliane


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Barbara Mancuso
Scrivere di marmi.
La scultura del Rinascimento nelle fonti siciliane


Messina, Magika, 2017

Recensione di Giovanni Mazzaferro



Faccio fatica a definire lo ‘scrivere di marmi’ di Barbara Mancuso se non pensando che ha il grande pregio di applicare al caso concreto tutte le principali acquisizioni storiografiche nell’ambito della letteratura artistica degli ultimi cinquant’anni.  Non era facile. Innanzi tutto perché l’autrice si muove nell’ambito della storiografia artistica siciliana che, ancor oggi, non ha una mappatura critica complessiva che possa aiutare a orientarsi; e poi perché, nell’ambito di tale storiografia, sceglie un argomento (quello della scultura in marmo rinascimentale) che, di per sé, è di nicchia, non solo sull’isola, ma anche nel resto d’Italia.

Mancuso organizza il suo volume in due parti, fornendo nella prima un inquadramento storico che segue un andamento cronologico e nel secondo il testo delle principali fonti prese in considerazione (la trascrizione dei testi è di Sandra Condorelli e Salvatore Pistone Nascone). Il periodo storico della letteratura presa in esame va dallo stesso Cinquecento fino alla fine dell’Ottocento, ovvero all’affacciarsi, sulla scena critica siciliana, della figura di Gioacchino Di Marzo e, con essa, della storiografia artistica intesa in senso moderno. Le fonti possono essere di natura la più disparata (“opere storiografiche, letteratura biografica, annalistica, memorialistica, descrizioni di opere, ma anche qualche inventario e qualche documento grafico, con incursioni nella letteratura di viaggio e nella periegetica”. Cfr. p.7) e soprattutto di livello qualitativo nettamente differente, dimostrando a volte interessi meramente letterari o di carattere campanilistico, ma altre testimoniando tentativi di avvicinamento stilistico all’opera d’arte e addirittura abbozzi di inquadramento storiografico.

Senza stare a esaminare le singole fonti nel particolare, trovo a mio avviso interessante sottolineare due aspetti: il primo è che le letture più significative provengono, in linea di massima, da figure che hanno a che vedere (o perché lo praticano o perché vi son attente) col mondo del collezionismo (si vedano Susinno e Gallo). Il legame fra fonti, storiografia artistica e collezionismo è una delle principali acquisizioni del magistero di Paola Barocchi (che se ne è occupata soprattutto con riferimento al collezionismo mediceo dagli anni ’70 del Novecento). Se dovessi dire oggi in che cosa La letteratura artistica di Schlosser (uscita nel 1924) si dimostra vecchia è proprio nella sistematica sottovalutazione di tale relazione (si pensi ai giudizi trancianti di Schlosser sulla storiografia artistica fiamminga del Settecento, in cui si sottolinea l’assenza di dati ‘positivi’, ma non si coglie il ruolo del collezionismo nella loro produzione). Quella fornita da Mancuso è un’ulteriore applicazione di tale legame a un ‘micro-caso’ reale. In secondo luogo, mi sembra giusto riflettere sul ruolo che il campanilismo svolge in ambito siciliano. Perché, in realtà, bisognerebbe parlare (al plurale) di campanilismi: esiste un ‘localismo’ rivolto contro una lettura 'italiana' dello svolgimento del fare artistico (ma, nel caso siciliano sembra trattarsi di una rivendicazione ottocentesca), esiste un localismo rivolto contro la realtà napoletana, spesso prevaricante, ma a caratterizzare gli scritti è un campanilismo prettamente siculo, che ha i suoi due poli in Palermo, per la Sicilia occidentale, e Messina, per quella orientale. L’espressione più manifesta di questa rivalità è costituita, nell’ambito della scultura, dalla ‘querelle’ (durata secoli) sulla città natale di Antonello Gagini (1478-1536). In merito, mi pare che Mancuso sia molto chiara: “la storiografia artistica siciliana, pienamente campanilistica se si guarda agli scritti seicenteschi, ha generato il lapsus storiografico di una netta separazione tra le due aree, quella occidentale e quella orientale, dell’isola, con dicotomico riferimento ai due centri maggiori di Palermo e Messina. Sono proprio le fonti, nel loro intento di celebrare le glorie locali, che ingenerano l’equivoco [...]  di una differenza che nei fatti esiste solo in parte e di una separazione che nei fatti è invece assolutamente infondata visti i numerosi artisti, anche scultori, che in entrambe le aree lavorano generando prolifici scambi” (pp. 29-30). Rivalità sì, insomma, effettive differenza di metodo assolutamente no.

Giovanni Angelo Montorsoli, Fontana di Orione, 1553, Messina
Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons

Antonello Gagini

Vasari a parte, non vi è interprete che parli di scultura rinascimentale in Sicilia a prescindere dalla figura di Antonello Gagini. Il caso vasariano è facilmente spiegabile. L’unico scultore ‘siciliano’ a cui lo scrittore aretino dedica una biografia è il fiorentino [sic] Giovanni Angelo Montorsoli. Montorsoli è citato in quanto allievo di Michelangelo, e la sua presenza decennale in Sicilia (che peraltro non è il momento centrale della biografia vasariana) sta a significare proprio lo sbarco della ‘maniera moderna’ a Messina (esattamente come Vasari attribuì a se stesso il merito di averla portata a Napoli). [1]

A Gagini è invece dedicata la prima monografia riservata a uno scultore prodotta in Sicilia, il Gagino redivivo di Vincenzo Auria (siamo nel 1698), come pure la biografia di Susinno (che ne rivendica a torto i natali messinesi) nelle sue Vite, il Saggio sulla vita e le opere di Antonio Gagino famoso scultore siciliano del secolo XV di Rosario Gregorio (1791), l’Antonello Gagini celebre scultore ed architetto palermitano di Giuseppe Bertini (1817) e l’Elogio storico di Antonio Gagini scultore e architetto palermitano di Agostino Gallo (1821). I motivi sono ovvi: Gagini fu l’artefice (non unico, ma certamente principale) dell’opera più celebre della statuaria marmorea siciliana, la spettacolare Tribuna della Cattedrale di Palermo che tuttavia era già un ricordo per chi scriveva nell’Ottocento (fu demolita nel 1798; le statue che vi si trovavano furono ricollocate fuori e dentro la chiesa). Si tratta, naturalmente, di testi molto diversi fra loro, e, fra l’altro, non sono gli unici. Basti pensare al De maiestate panormitana (1630) di Francesco Baronio, che contiene un capitolo De pictoribus, sculptoribus et organariis panorminatis che certo non brilla per interesse nei confronti dell’analisi di sculture, ma è il primo testimone di un aneddoto apologetico secondo cui Michelangelo avrebbe apostrofato chi lo criticava per la nudità del Cristo della Minerva rinviando ad Antonello Gagini, se l’avessero voluto vestito. Si noti che l’aneddoto (di origine ignota) è ambivalente, perché potrebbe indicare un atteggiamento spregiativo nei confronti dello scultore e dei suoi panneggi. Qui (e per due secoli) se ne darà un’interpretazione ovviamente elogiativa, di un Michelangelo ammirato dalla qualità dell’opera del Gagini. Non è che il primo di una serie di ‘luoghi comuni’ relativi allo scultore, che spuntano puntuali fra le righe delle biografie a lui dedicate e che, ad esempio, vedono Auria segnalare nel Gagino redivivo che l’artista collaborò con Michelangelo nella realizzazione dell’incompiuta tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli a Roma, e che il Buonarroti ne lodò l’opera. Se si tiene conto che il soggiorno di Gagini a Roma è tutto da dimostrare, appare evidente cosa è successo: il posto che per Vasari (toscano) spettava a Montorsoli (anch’egli toscano), ovvero quello di rinnovatore dell’arte plastica sicula, viene ora attribuito dai suoi conterranei a Gagini, in virtù di un ‘ideale’ (e quindi ‘reale’) legame con Michelangelo.

Restando al caso dello scritto di fine Seicento di Auria, l’autrice ricorda che, pur rivelando un interesse soprattutto letterario e dando appunto spazio a ‘leggende metropolitane’ di dubbia attendibilità, il Gagino redivivo presenta “un embrionale catalogo delle opere di Gagini, volenterosamente ordinate topograficamente, distinguendo, al di là della «Tribuna della Cattedrale di Palermo» (cap. VI), le «Altre opere del Gagino fatte in Palermo» (cap. VII) e quelle «fatte in altre parti della Sicilia, e fuori dal Regno» (cap. VIII)” (p. 43).

Antonello Gagini, Statua dell'Assunta, Cattedrale di Palermo
Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons

Antonello Gagini, Dormienza di Maria e corteo degli Apostoli. Cattedrale di Palermo
Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons

Susinno

Al catalogo di Auria sostanzialmente attinge Francesco Susinno nelle sue Vite dei Pittori Messinesi (1724). L’autore non cita la sua fonte, ma dichiara esplicitamente che, nel caso di Gagini, non ha visto tutto ciò di cui sta parlando, ma sta facendo riferimento a terzi: “Paradossalmente, è proprio in una vita in larghissima parte ricalcata su un testo altrui che Susinno si rivela vero conoscitore. La consueta diversa trattazione delle opere che ha visto e di quelle di cui ha avuto solo notizia emerge infatti nella vita di Gagini, le cui opere elenca seccamente a eccezione delle poche che sono a Messina e nei suoi dintorni” (p. 61).

Intendiamoci: l’opera di Susinno (a metà fra la raccolta di vite e una vera e propria ‘storia’, come ricorda Martinelli nella sua edizione del manoscritto pubblicata nel 1960) presenta 81 biografie, di cui solo cinque dedicate a scultori. Ma già in quelle cinque si colgono accenti interessanti: l’attenzione alle ‘filiazioni’ da artista ad artista, ovvero a una dinamica storiografica, è indice della “sua capacità di guardare gli artisti come pedine in movimento e alle scuole come momenti di sviluppo e poi di diffusione di nuove soluzioni formali” (p. 63). In questo contesto va ricondotto l’apprezzamento di Susinno (dichiaratamente classicista) per gli esiti della scultura manierista, “esempi della grandezza della scuola messinese e di una linea di continuità ininterrotta di grandi artisti dalle origini ai suoi tempi” (p. 59).

Antonello Gagini, Santi Agostino, Sebastiano e Damiano, Cattedrale di Palermo
Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons
Antonello Gagini, Santi Cosma e Benedetto, Cattedrale di Palermo
Fonte: Effems tramite Wikimedia Commons

Agostino Gallo

È sempre bene ricordare il manoscritto di Susinno non fu mai pubblicato, e il suo approccio da storiografo proto-conoscitore rimase in linea di massima nascosto (se non per i plagi a cui fu sottoposto). Il Settecento e il primo Ottocento vedono comunque il consolidarsi dell’attenzione al dato stilistico, anche se tale attenzione – scrive Mancuso – si colloca “in una dimensione che, nell’ambito strettamente storico artistico, resta ancorata all’analisi della maniera del singolo e non alla storia della maniera e degli stili” (p. 78). È il caso dell’Antonello Gagini celebre scultore ed architetto Palermitano, scritto da Giuseppe Bertini e pubblicato all’interno della Biografia degli uomini illustri della Sicilia ornata de’ loro rispettivi ritratti (1817). A Gagini dedica una biografia nel 1821 anche Agostino Gallo (1790-1872). Ho già avuto modo di esporre alcune perplessità sulla figura dell’erudito palermitano. È probabile che mi sia sbagliato e non abbia colto un’impostazione da conoscitore che invece l’autrice non manca di segnalare. Certo Gallo mette in discussione il legame con Michelangelo (frutto della letteratura encomiastica precedente) e semmai rimanda a Raffaello, non tanto in termini di frequentazione, ma di richiamo alla grazia e a un delicato naturalismo (cfr. p. 82). Sicuramente è molto interessante che l’erudito riscopra la figura del padre di Antonello, ovvero Domenico Gagini, scultore anch’egli, originario di Lugano. È inoltre apprezzabile che lo scrittore si applichi a un vero e proprio esercizio da conoscitore, cercando di distinguere lo stile di Antonello rispetto a quelli dei figli e degli allievi (p. 83). Non si può poi tacere che, in ambito di scultura, Gallo non si limita certo allo studio di Gagini, ma produce nell’ambito del suo incompiuto progetto per la Storia delle belle arti in Sicilia un manoscritto intitolato Notizie de’ figularj degli scultori e fonditori e cisellatori siciliani ed esteri che son fioriti in Sicilia da più antichi tempi fino al 1846, solo di recente pubblicato dalla Biblioteca della Regione Siciliana. Il problema, però, con Gallo è la massa sterminata di carte che ha prodotto. La semplice pubblicazione delle stesse – come avvenuto pochi anni fa, con criteri distributivi del tutto fuori luogo [2] – è cosa importante, ma di per sé insufficiente. C’è bisogno di un inquadramento critico che Barbara Mancuso, ad esempio, partendo da propositi molto meno mastodontici, riesce a dare nel suo commento alla biografia del 1821. Di tutto questo (e di molto altro ancora), le sono grato.


NOTE

[1] L’autrice ricorda anche il poco spazio dedicato da Vasari ad Angelo Marini siciliano, scultore attivo in Duomo a Milano (Marini fu anche apprezzato da Lomazzo). Approfitto per segnalare che Angelo Siciliano è citato anche da Malvasia negli appunti del suo viaggio a Milano del 1667 (e a sproposito, chiaro riflesso di un mondo locale che degli scultori attivi a Milano ha “un ricordo collettivo e sommario”; cfr. p. 11).

[2] Ho scoperto che la Regione Siciliana aveva cominciato a pubblicare i Manoscritti di Agostino Gallo allo stand della Regione stessa al Salone del Libro di Torino del 2000. Il terzo volume della serie veniva regalato ai passanti come se fosse un volantino. Da allora, ho cercato in tutti i modi di recuperare i primi due, naturalmente rivolgendomi anche alla Biblioteca stessa, che mi ha risposto che, purtroppo, erano andati esauriti. 


https://letteraturaartistica.blogspot.com/2016/12/lomazzo.html

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