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mercoledì 7 giugno 2017

Viaggio d'artista nell'Italia del Settecento. Il diario di Thomas Jones. A cura di Anna Ottani Cavina


English Version

Viaggio d’artista nell’Italia del Settecento.
Il diario di Thomas Jones
A cura di Anna Ottani Cavina


Milano, Mondadori Electa, 2003

Recensione di Giovanni Mazzaferro

Giuseppe Marchi, Ritratto di Thomas Jones, 1768, Cardiff, National Museum and Galleries of Wales
Fonte: Wikimedia Commons

Il diario è ricavato da brevi annotazioni che ho buttato giù in diversi anni; qualche episodio è stato poi ampliato, ma poiché avevo concepito il racconto solo come diversivo per rallegrare le ore vuote della vecchiaia, e magari per essere letto dai pochi amici o parenti che avrebbero potuto nutrire un qualche interesse per questi fatti insignificanti, non ho avuto alcun motivo o desiderio di alterare la realtà” (p. 225). Così scrive il pittore gallese Thomas Jones (1742-1803) al termine del suo diario. Ho voluto cominciare proprio da qui, perché, in qualche modo, l’edizione oggetto di questa recensione tende a travisare i termini della questione. Quello di Jones non è un resoconto di viaggio, ma un diario, che parte di fatto dalle prime esperienze artistiche dell’autore per giungere fino alla conclusione dell’esperienza italiana, nel 1783 (comprendendo quindi anche gli anni della formazione inglese); e soprattutto Jones non compie un viaggio in Italia, ma ci vive proprio, per otto anni, dal 1775 fino appunto alla conclusione del 1783. L’esperienza italiana è a sua volta suddivisibile in due diverse sezioni; i primi anni (fino al maggio 1780) sono spesi a Roma; gli ultimi a Napoli. Purtroppo, la confusione di fondo generata da un titolo poco felice non è l’unico elemento da addebitare a un’edizione riccamente illustrata, pubblicata con molte ambizioni all’indomani della mostra che ha fatto scoprire il pittore in Italia, tenutasi a Mantova a fine 2001, ma che se vuol essere elegante, altrettanto si dimostra confusa e scomoda nella sua fruizione fisica.

Come scrive lo stesso pittore, le note scritte da Jones sono poi riviste negli anni successivi (come risulta da evidenze interne, almeno fra il 1794 e il 1798), nell’ambito di un progetto rivolto fondamentalmente a se stesso e ai parenti, senza velleità di pubblicazione. Diario, dicevamo, e non autobiografia. Le annotazioni hanno spesso natura annalistica, e, ad essere sinceri, non c’è molto di personale. Se il diario rivisto doveva essere destinato ai parenti, va pur detto, a titolo di esempio, che l’ingresso in scena della futura moglie di Jones (Maria Moncke), conosciuta a Roma e da cui l’artista ebbe due figlie, è il seguente: “Incontro ravvicinato con una persona che conosce bene la lingua e le abitudini inglesi e che ho convinto ad assumere il governo della mia casa” (p. 157). Quattro anni dopo si scopre che i due hanno avuto insieme due bambine.

Ma non è tanto l’aspetto privato di Jones che ci manca; ciò che avvertiamo terribilmente assente è la spiegazione della sua poetica. Perché c’è poco da fare: nel suo soggiorno napoletano Jones dipinse olii su carta e acquerelli assolutamente straordinari, di una modernità tale da sfiorare l’astrazione; veri e propri frammenti (sostiene Anna Ottani Cavina) di una città dipinta centinaia di volte, ma mai dipinta in quel modo; di un luogo non-luogo a noi totalmente ignoto. Ebbene, come e perché l’artista giunse a produrre questo tipo di immagini, non ci viene spiegato. Dobbiamo accontentarci invece di ciò che racconta il diario: Jones è tagliato fuori dal circuito delle grandi committenze romane, in mano a un paio di operatori commerciali con pochi scrupoli che è riuscito a inimicarsi in pari misura e tenta di spezzare questo andamento recandosi a Napoli. Si tratta di un tentativo inutile e frustrante, che lo porterà a dire di aver deciso di dipingere libero da vincoli, senza alcuna aspettativa di successo, per il solo gusto di farlo.

Ma andiamo con ordine.

Thomas Jones, Paesaggio con vista sul fiume Wye, 1772 circa, Denver Art Museum
Fonte: http://www.bergercollection.org/index.php?id=5&artwork_id=55
Thomas Jones, Paesaggio italiano immaginario con figure classiche e cascata, 1773 circa, Yale Center for British Art
Fonte: https://www.google.com/culturalinstitute/beta/asset/EAEoWmaxS9gPCQ

Londra

Thomas Jones è figlio di una famiglia benestante gallese e, dopo una mancata carriera religiosa, decide di dedicarsi all’arte e, in particolare, alla pittura di paesaggio. Trasferitosi a Londra, il suo maestro diventa Richard Wilson, probabilmente il più noto paesaggista inglese dell’epoca, la cui arte è improntata a un tranquillo e rassicurante paesaggismo d’atelier. Di quegli anni vissuti nella capitale inglese il diario segnala alcuni aspetti interessanti, sia sul piano pubblico sia su quello personale: Jones vive un periodo in cui si consumano le battaglie fra fazioni di pittori per il controllo delle istituzioni artistiche. La Società degli artisti, di cui Jones fa parte, era controllata da 24 direttori (ovviamente gli artisti più affermati) che decidevano quali quadri ammettere alle mostre, riservando per loro stessi privilegi e incarichi di maggior prestigio. Di fronte a questa circostanza, si venne a creare un partito ‘d’opposizione’, che di fatto determinò la spaccatura della Società in due enti separati e in ultima analisi portò alla creazione di una terza struttura, la Royal Academy, fondata nel 1768 sotto gli auspici di re Giorgio III. In questa serie di diatribe la posizione di Jones sembra in qualche modo defilata (oserei dire quasi casuale); emerge invece, forte, un tema che ritroveremo nel corso di tutto il diario, che è quello della malinconia. Fino a che punto questo aspetto sia una rielaborazione successiva del diario o sia reale non è dato sapere: certo è che Jones percepisce di essere “nato in un tempo sbagliato”; non so dire se si possa parlare di depressione; sicuramente di un’insicurezza di fondo che lo confina alla pittura di paesaggio. Le frustrazioni non mancano. Jones si sente portato per la pittura di paesaggio, ma non all’altezza in quella di figura; ogni qual volta si prospetta la possibilità di inserire figure nelle sue tele non si sente sicuro del proprio modo di dipingere e lavora a quattro mani con amici e colleghi; in maniera del tutto speculare, può capitare che gli sia chiesto di dipingere fondi per quadri di storia. Niente di inusuale, si intenda; ma il chiaro sintomo che Jones non si sente padrone dell’arte nel suo complesso.

Degli anni londinesi vale la pena sottolineare due altri aspetti se si vuole marginali, ma comunque significativi. Da un lato l’incipiente ruolo della chimica per l’utilizzo dei pigmenti. È del 1770 la segnalazione di un corso tenuto da un chimico (“un certo dottor Aussiter”) nell’Accademia in Maiden Lane, con riferimento alla natura dei pigmenti. Siamo agli inizi di un processo che porterà nel secolo successivo agli studi di Eastlake e della Merrifield. Il secondo rivela invece la sostanziale misoginia dell’artista (un elemento comune alla società dell'epoca). Dedicandosi alla pittura di paesaggio e lavorando soprattutto all’acquerello, Jones va in realtà a coprire un’area che, nelle convenzioni della pittura inglese dell’epoca, è aperta anche alle donne, perché poco impegnativa da un punto di vista intellettuale (questo è il motivo ufficiale che viene addotto). Nel 1768 si dedica a realizzare un certo numero di pastelli, che furono visti da alcune istitutrici che andarono a chiedergli “a quali condizioni fossi disposto a insegnare, “giacchè erano i quadretti più carini che avessero mai visto”. Tuttavia, più con orgoglio che saggezza, non considerai neppure la possibilità di abbassarmi a divenire insegnante di disegno negli istituti femminili” (p. 49). Meglio continuare a vivere in un tempo sbagliato, che insegnare a una donna.


Roma

Il viaggio a Roma è uno sbocco quasi obbligato per qualsiasi artista con un minimo di ambizione nel mondo culturale inglese. La permanenza romana è quella a cui è dedicato il maggior numero di pagine nel diario. L’aspetto che personalmente mi colpisce di più è il sostanziale isolamento della comunità inglese rispetto non tanto a quella italiana, ma a tutti gli altri gruppi di artisti stranieri. La barriera linguistica, ovviamente, è solo uno dei fattori. Gli inglesi avevano il loro punto di ritrovo presso l’omonimo Caffè in Piazza di Spagna, che non era solo luogo di ritrovo serale, né occasione per organizzare le innumerevoli escursioni nei paraggi (“Non posso fare a meno di riconoscere le emozioni nuove e straordinarie che provai nell’attraversare per la prima volta queste terre bellissime e pittoresche. Era come se ogni scena mi fosse già apparsa in sogno. Sembrava un paese incantato. Avevo copiato tanti studi che il grande Richard Wilson, il mio vecchio maestro, aveva disegnato in quella e in altre parti d’Italia che, in modo quasi impercettibile, il paesaggio italiano mi era diventato familiare. Mi ero insomma innamorato di quei panorami, e credo di aver gustato piaceri ignoti ai miei compagni” – cfr. p- 109). Il Caffè degli Inglesi è soprattutto luogo dove si organizzano strategie, cordate e alleanze fra connazionali per la gestione delle ricche committenze locali o dei Grand Tourists in visita in città. Sta precisamente qui l’aspetto di gran lunga più importante del diario: nel fatto che sono citati decine e decine di artisti, antiquari, collezionisti a cui afferisce il mondo della cultura inglese. Va detto che di quasi tutte le figure citate vengono fornite informazioni esaurienti grazie al ricchissimo apparato delle note (oltre 400), per le quali è qui il caso di ringraziare Eleonora Onghi per quelle sugli anni inglesi ed Emilia Calbi per il soggiorno italiano (cfr. p. 28). Proprio alla fine del periodo trascorso a Roma, Jones chiarisce ciò che in realtà è evidente già leggendo le pagine precedenti. A ‘controllare’ gli artisti inglesi presenti a Roma, non solo in termini di committenze assegnate, ma anche fornendo veri e propri servizi di carattere para-finanziario sono Thomas Jenkins e James Byres. Entrambi sono mercanti d’arte, entrambi vivono a Roma per decenni e sono accreditati presso la nobiltà e i cardinali locali (Jenkins è ambasciatore britannico non ufficiale presso la Santa Sede), entrambi influenzano le scelte dei collezionisti. “Ciascuno di questi due gentiluomini aveva il suo seguito fra gli artisti, ed era usanza che ognuno dovesse offrire al protettore un saggio delle proprie capacità; in cambio otteneva un anello antico o qualche zecchino. Le opere venivano poi appese nelle rispettive stanze di ricevimento, per essere mostrate ai gentiluomini in visita. Ogni gruppo inoltre per consuetudine si raccoglieva intorno al proprio mecenate per il pranzo di Natale” (p. 164). Messo a confronto con una situazione di questo genere, Jones si dimostra subito combattuto fra l’adesione ad una delle due fazioni e l’innata propensione ad essere non tanto un ribelle, ma un ‘cane sciolto’. Sarà proprio una cena organizzata per Natale a casa sua a segnare la fine di ogni possibilità di appartenere ad una o all’altra parte e a spingerlo a Napoli nella primavera del 1780 (vi era già stato per due mesi a cavallo fra 1778 e 1779).

Thomas Jones, Un muro a Napoli, olio su carta, 11,4 x 16 cm, 1782, Londra, National Gallery
Fonte: www.spamula.net
Thomas Jones, La Cappella nuova fuori della porta di Chiaia, olio su carta, 20 x 23,2 cm., 1782, Londra, Tate Gallery
Fonte: http://www.tate.org.uk

Napoli

Le cose a Napoli non migliorano. In realtà Jenkins e Byres hanno i loro emissari anche nella città campana e l’artista gallese conosce una sorta di ostracismo da parte della sua stessa comunità d’appartenenza. Jones cerca la protezione di Sir William Hamilton, ambasciatore inglese presso i Borbone, ma l’ottiene solo due anni dopo, e in maniera molto tiepida. È in questo contesto, ovvero nell’ambito di un personalissimo ritorno al privato, che il pittore sfodera i suoi paesaggi urbani, immagini straordinarie di dimensioni contenute (normalmente 20 x 30 circa) che sicuramente produce per proprio diletto personale dalla terrazza della sua abitazione: “Al vedermi abbandonato dai miei compatrioti mi avvilii talmente che cercai di evitare il più possibile i posti in cui era facile incontrarli; così la maggior parte delle mie escursioni nei dintorni divennero tristi e solitarie. La natura e i paesaggi conservavano ancora tutto il loro fascino, e io continuavo a eseguire degli studi con la passione di sempre, ma lo facevo per puro piacere, non certo con la speranza di ricompense economiche, poiché le aspettative che ancora mi restavano in quel senso svanivano velocemente” (p. 168). Il diario non dice altro in merito. Certo, se si confrontano i muri dei palazzi di una Napoli mai vista fino ad allora in questa maniera e i (pochi) olii su tela di grandi dimensioni eseguiti nel corso del soggiorno italiano, il contrasto è stridente. Jones lascia Napoli assieme alla famiglia e torna in Inghilterra con un avventuroso viaggio via mare alla fine del 1803. Dopo qualche anno passato a Londra, abbandonerà definitivamente l’attività artistica e tornerà a vivere in Galles, gestendo i beni ricevuti in eredità da genitori e fratelli e vivendo in una certa agiatezza. Tutti si dimenticheranno di lui, fino alla sua riscoperta a partire dagli anni ’50 del Novecento.

Thomas Jones, Case a Napoli,  olio su carta,14,2 x 21,6 cm., 1782, Cardiff, National Museums and Galleries of Wales
Fonte; http://www.pinsdaddy.com/
Thomas Jones, Case sulla scogliera, olio su carta, 28,7 x 38,7 cm., Londra, Tate Gallery
Fonte: http://www.tate.org.uk/

Il manoscritto

I Memoirs of Thomas Jones sono conservati oggi presso a Cardiff, presso la National Library of Wales (https://www.llgc.org.uk/pencerrig/thjones_s_pennodau.htm), ove sono giunti solo di recente per donazione da parte degli eredi del pittore. Sono stati pubblicati per la prima volta da Paul Oppé per conto della Walpole Society nel 1951 (Volume 32, 1946-48). La prima edizione francese è del 2001. La presente è la prima (e finora unica) traduzione italiana.



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