Federico Borromeo
Della pittura sacra – Libri due
A cura di Barbara Agosti
Scuola Normale Superiore di Pisa, 1994
Recensione di Giovanni Mazzaferro
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Giulio Cesare Procaccini, Ritratto di Federico Borromeo, 1610. Milano, Pinacoteca Ambrosiana Fonte: it:Museo diocesano di Milano tramite Wikimedia Commons |
Di Barbara Agosti si veda in questo blog: Barbara
Agosti, Paolo Giovio. Uno storico lombardo nella cultura artistica del
Cinquecento; Barbara
Agosti, Giorgio Vasari. Luoghi e tempi delle Vite; Federico
Borromeo, Della pittura sacra – Libri due. A cura di Barbara Agosti
Federico Borromeo (1564-1631) fu
un grafomane. Le sue carte, custodite a Milano presso la Biblioteca Ambrosiana,
una delle sue creature più note, contengono decine e decine di testi
manoscritti, a cui, naturalmente, vanno aggiunti i libri dati a stampa, di
argomenti vari, a partire dalla teologia arrivando all’arte. Mai come nel caso
di Federico (arcivescovo di Milano dal 1595 in poi) la distinzione fra
manoscritti e libri a stampa è così flebile. Appare evidente che la stampa era
semplicemente una fase di produzione di un’opera, e nemmeno l’unica. Si trattava
di una “messa in bella copia” che non impediva poi al Borromeo di tornare sul
testo, modificandolo con postille e con appunti rintracciati nelle sue carte o
aggiungendo rimandi ad altre opere, a loro volta manoscritte o a stampa. La
tiratura era pressoché inesistente. Del De pictura sacra, oggetto di questa
recensione, sono note ad oggi due copie a stampa in latino [1] ed una manoscritta
in italiano (ms. G. 25 inf. dell’Ambrosiana).
Ma prima di parlare di eventuale
precedenza fra versione italiana e versione latina è forse il caso di fare il
quadro sulle pubblicazioni artistiche del Cardinal Borromeo. Si tratta
fondamentalmente di due opere, pubblicate a distanza di un anno l’una
dall’altra: il De pictura sacra
(1624) e il Musaeum (1625). Due testi
che più diversi non potrebbero essere, l’uno impregnato di dottrina
controriformata a ribadire concetti ormai datati di sessant’anni, già esposti
dal cugino nonché predecessore San Carlo Borromeo nelle Instructionum
Fabricae et Supellectilis ecclesiasticae (1577) e da Gabriele Paleotti nel Discorso
intorno alle immagini sacre e profane (1582); il secondo inteso invece come
una guida fra i quadri della collezione del cardinale, donati nel 1618 alla
Pinacoteca Ambrosiana, un testo molto più libero e ricco di una cultura critica
e collezionistica che personalmente mi viene da associare alle indicazioni
fornite da Giulio Mancini nelle sue Considerazioni
sulla pittura, sostanzialmente coeve. Scritti diversi, si diceva, quasi a
rivelare una ‘schizofrenia’ di fondo, come se uno fosse destinato a un pubblico
e l’altro a una differente platea, se non fosse che – come detto – gli scritti
del cardinale non sono destinati alla diffusione se non fra una cerchia di
amici, e che in una serie di note preparatorie al Musaeum, riscoperta e stampata di recente, è lo stesso cardinale a
parlare delle due opere come finalizzate ad essere complementari fra loro [2].
In realtà molti appunti presenti
su altri manoscritti (come i Rerum
Memorabilium libri I e II pubblicati da Alessandro Rovetta [3]) sono di
natura artistica, senza tener conto che il cardinale progettò la redazione (mai
effettuata) di un De antiquis
christanorum picturis e che due scritti pubblicati alla fine del secolo
scorso da Scheiwiller con il titolo Le
colonne per la facciata del Duomo riguardano la
progettazione della facciata del Duomo di Milano in stile “moderno”, o
classico o romano che dir si voglia. Proprio Rovetta segnala che probabilmente
il passo necessario, a questo punto, è la ricognizione sistematica delle carte
del Cardinale, e la pubblicazione integrale dei suoi scritti d’arte.
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Progetto della facciata del Duomo di Milano di Pellegrino Tibaldi (1593-1596 circa) Fonte: http://blog.urbanfile.org/2016/02/27/milano-duomo-quanti-progetti-per-la-facciata-del-duomo/ |
Della pittura sacra – edizione italiana
L’occasione per la redazione di
questa recensione è stata la lettura di una pregevolissima edizione sia del De pictura sacra sia del Museum (indicato senza dittongo) in un
volume della celebre collana I Tatti
Renaissance Library (cfr. nota 1). Mi è sembrato più semplice, tuttavia,
fare ricorso alle edizioni italiane delle due opere. Il De pictura sacra nella versione curata da Barbara Agosti nel 1994 è
oggetto di questo post, mentre nel successivo si parlerà del Musaeum nell’edizione del 1997
commentata da Mons. Gianfranco Ravasi.
La prima cosa da chiarire, riguardo
al De pictura sacra, è che la
traduzione inglese è condotta sui due esemplari a stampa, mentre quella
italiana curata dalla Agosti è esemplata dal manoscritto G 25 inf. già citato, in italiano e
diverso rispetto al testo latino. La curatrice (cfr. p. 7) ritiene che la
versione italiana sia più completa della latina, quanto meno tenendo conto di
una serie di note manoscritte ad essa riferite che rifletterebbero una
revisione immediatamente successiva rispetto alla stampa. Oltre al testo italiano
infatti, sono riprodotti:
- le postille apposte lateralmente rispetto al testo (fra parentesi graffe direttamente all’interno dell’opera);
- i fogli finali dello stesso manoscritto ms G 25 inf. in cui compaiono dei passi numerati da Federico con l’indicazione del posto in cui bisognava collocarli in una eventuale ristampa;
- alcune pagine sparse, anch’esse intitolate De pictura sacra, del ms F 11 sempre all’Ambrosiana comprendenti anch’esse parti di testo supplementare (assenti nella versione latina).
Lo scopo dell’opera è quello che
Federico espone subito: rifarsi a quanto indicato dal Concilio di Trento
secondo cui i vescovi dovevano insegnare i misteri della fede non solo con le
parole, ma anche con le pitture (p. 18). Si torna al concetto di pittura (anzi,
di pittura e scultura, perché per Federico, esattamente come per Paleotti, non
esiste una gerarchia fra le due) di natura intimamente etica e catechistica, il
cui scopo fondamentale è muovere alla fede. Le due parti del De pictura sacra
(la prima contenente principi generali sul decoro, la verosimiglianza delle
storie, il nudo, le vesti etc.. e la seconda relativa ad esempi specifici (la
raffigurazione della Trinità, della crocifissione e così via) sono rivolte a
evitare gli abusi nella raffigurazione di immagini sacre. La questione
dell’iconoclastia protestante non è minimamente affrontata perché già oggetto
dei chiarimenti teologici forniti nel Concilio. Ad essere sinceri a me sembra
che Federico, nel suo De pictura sacra,
si riveli più severo rispetto al Paleotti del Discorso sulle immagini sacre, il quale si collocava su un piano di
dialogo con le parti interessate (il clero, da un lato e pittori e committenti
dall’altro), e si uniformi semmai al successivo scritto paleottiano De tollendis imaginum abusibus novissima consideratio
(1596). Di circolazione molto ristretta, mi stupirei che Borromeo non avesse
letto quest’ultimo testo.
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San Carlo Borromeo e i santi Filippo Neri e Francesco di Sales, Milano, Chiesa di Santa Maria Incoronata Fonte: Giovanni Dall'Orto tramite Wikimedia Commons |
L’arte della prima cristianità
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Affresco del Buon Pastore, Roma, Catacombe di San Callisto Fonte: Wikimedia Commons |
Ci sono almeno due aspetti che,
parlando del De pictura sacra, vanno
sottolineati. Il primo è la presenza assai informata di segnalazioni sull’uso
delle immagini da parte della prima cristianità. Più che una rivendicazione di
‘primogenitura cronologica’ da sbandierare nei confronti dei protestanti, mi
sembra che si tratti della volontà di richiamare i lettori del tempo sul fatto che
l’uso delle immagini era anticamente più semplice e genuino, e senz’altro più
decoroso. Le antiche pitture, peraltro, assumono valore di fonte proprio nel
fissare i canoni di rappresentazione di santi e vicende evangeliche. Non vi è
il minimo dubbio che l’attenzione di Borromeo per il mondo delle catacombe (o
‘sacri cimiteri’ come si chiamavano all’epoca) riveli un dato biografico. È
importante ricordare che Federico, prima di insediarsi definitivamente a
Milano, visse per più di dieci anni a Roma sul finire del 1500. Gli studi
antiquari sulla cristianità furono una delle sue grandi passioni, tanto da
progettare, in vecchiaia, la stesura di un De
antiquis christianorum picturis. Sotto questo punto di vista – sostiene
Barbara Agosti – le informazioni fornite nel De pictura sacra possono essere viste come una sorta di
anticipazione degli studi di Antonio Bosio, riconosciuto come massimo esperto
in materia, che da decenni stava lavorando a una pubblicazione sul tema;
pubblicazione che si faceva attendere, tanto da far divenire impazienti gli
ambienti eruditi che condividevano la passione per l’antiquaria paleocristiana
(la Roma sotterranea del Bosio fu
pubblicata infatti postuma soltanto nel 1632). Sempre secondo Agosti al periodo
del soggiorno romano andrebbe ricondotta una prima stesura del De pictura sacra, proprio per il suo
carattere pedante e dottrinale, che confliggerebbe coi gusti del cardinale poi
esposti nel Musaeum. Nella sostanza,
il De pictura sacra è privo di una
qualsiasi visione storicizzata dell’arte (una visione che Borromeo sembra
invece avere nel Musaeum) e vi è
assente una qualsiasi analisi stilistica. I giudizi sono espressi in termini di
liceità delle immagini in base alla loro corrispondenza col testo biblico, con
la funzione educativa dell’arte cristiana e col decoro.
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La traduzione latina di Paolo Aringhi della Roma sotterranea di Antonio Bosio, pubblicata a Parigi nel 1658 ed esposta alla fiera del libro antiquario a Madrid nel maggio di quest’anno |
Contro il manierismo o contro Michelangelo?
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Michelangelo, Il Giudizio Universale. Particolare: Caronte traghetta i dannati, Città del Vaticano, Cappella Sistina Fonte: Wikimedia Commons |
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Michelangelo, Il Giudizio Universale. Particolare: Caronte, Città del Vaticano, Cappella Sistina Fonte: Wikimedia Commons |
Il tema ci porta direttamente al
secondo aspetto da mettere in evidenza, ovvero la polemica anti-manierista o
anti-michelangiolesca. Credo che occorra essere estremamente cauti anche solo
nell’utilizzare determinati termini. Parlare di un Borromeo anti-manierista
vorrebbe dire immaginarsi il cardinale in grado di concepire il ‘manierismo’ come
‘movimento artistico’ complessivo. Esattamente come nel caso di Paleotti con
Prospero Fontana, bisognerebbe poi capire perché Borromeo ebbe grande stima di
un manierista come Federico Zuccari, citandolo sempre in connotazione positiva.
La verità è che le parole di Borromeo sembrano rivolte soprattutto contro
Michelangelo. Se teniamo conto del fatto che nell’ultimo decennio del
Cinquecento il cardinale era a Roma, che fu il primo protettore dell’Accademia
romana diretta proprio dallo Zuccari, e infine che in quegli anni a Roma
montava una polemica feroce nei confronti del Vasari e del suo mondo
toscano-centrico, tutto retto sull’esaltazione di Michelangelo (si pensi anche
solo alle postille alle Vite scritte
da Annibale Carracci e da Zuccari stesso) mi sembra più probabile che le
critiche a Michelangelo vadano inscritte in un clima più ampio di risentimento
verso il mondo toscano e naturalmente si nutrano di validissimi argomenti dal
punto di vista della Controriforma. Borromeo (non solo in quest’opera) lamenta
dunque il fatto che Michelangelo pensasse solo a rappresentare le sue figure
nude, in un eccesso di atletismo e in pose sforzate, con pastori e santi che
sembrano più dei culturisti che altro; polemizza col Buonarroti per aver
raffigurato nella Pietà di San Pietro un Cristo morente nelle braccia di una
Maria giovane; per aver mescolato nel Giudizio universale l’aspetto sacro con
le ‘favole dei gentili’, dipingendo Caronte che traghetta i dannati
nell’Inferno (una critica che potrebbe adattarsi benissimo a Dante); o, ancora,
per aver rappresentato San Paolo canuto e con una gran barba nella Cappella
Paolina, quando è noto che, all’epoca della conversione, non era anziano.
Insomma, le critiche sembrano ad personam,
e riprendono comunque una lunghissima serie di osservazioni moraleggianti che
investono Michelangelo sin dalla fine del suo lavoro nella Cappella Sistina. Se
poi si prende in considerazione l’aspetto teorico più caratteristico del
manierismo, ovvero quell’Idea che viene indicata prima da Lomazzo poi da
Zuccari come aspetto interno e mentale prima che esterno e concreto, è
lapalissiano che Borromeo non vi dedica nemmeno una parola, pur essendo
sicuramente a conoscenza di entrambi i testi. Semplicemente il cardinale non si
occupa di teoria dell’arte.
Va inoltre detto che il giudizio
su Michelangelo non è sempre negativo. Lo si addita ad esempio quando si dice
che l’artista deve essere erudito: “il
testimonio e l’autorità di Michelangelo potrebbe dimostrarlo, imperoché egli
divenne componitore e scrittore, poiché si vede ancor oggi un intiero volume di
versi danteschi composti da lui, i quali certo esso non gli poté fare senza
sentire l’amore delle buone lettere” (p. 39). Molte delle note apposte ai Rerum Memorabilium pubblicati da Rovetta
[5] sono dedicate a Michelangelo e hanno valore morale con connotazione
positiva. Addirittura in una di esse si definisce il Giudizio Universale della
Cappella Sistina come “maraviglioso”.
Insomma, i giudizi del cardinale
espressi nel De pictura sacra sono
stati probabilmente estremizzati. Sicuramente non riguardano tutto il
manierismo, e molto probabilmente si riferiscono solo ad alcuni aspetti del
lavoro di Michelangelo.
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Michelangelo, Conversione di San Paolo (Particolare). Città del Vaticano, Cappella Paolina Fonte: Sailko (Francesco Bini) tramite Wikimedia Commons |
Sull’architettura
Da segnalare infine che l’ultimo
capitolo del secondo libro dell’opera è dedicato alla “forma dei tempi sacri”. È
curioso perché così facendo Federico si discosta di fatto dal sentiero
paleottiano (dove di architettura non si parla) per recuperare invece alcuni
degli argomenti del defunto cugino San Carlo. Si tratta dunque del recupero di
alcuni temi cari al predecessore, in cui la “questione della forma” è intesa in
senso strettamente liturgico. In questo senso si depreca l’abbandono delle
divisioni operate nel primo Cristianesimo. Tali divisioni permettevano una
fruizione più ordinata della funzione religiosa separando il clero dai laici e
poi fra essi i maschi dalle femmine, quelle vergini dalle maritate e così via.
Senza tener conto (la visione è totalmente astorica) che le chiese di un tempo
assomigliavano molto di più al tempio di Salomone e quindi era assai
consigliato tornare ad imitarle. Ancora una volta, esattamente come per la
pittura, la discussione non riguarda lo ‘stile’ con cui è costruita una chiesa.
Potremmo pensare che per Federico la cosa non avesse importanza, e invece no,
come abbiamo benissimo modo di sapere dal bel volume di Francesco Repishti e
Richard Schofield sui dibattiti per la facciata del duomo di Milano fra 1582 e 1682. A ulteriore conferma che il De
pictura sacra ha valore sostanzialmente dottrinario e non è scritto per
esporre i gusti del cardinale.
NOTE
[1] Federico Borromeo, Sacred
Painting – Museum, Edited and translated by Kenneth S. Rothwell, jr.
Introduction and notes by Pamela M. Jones. The I Tatti Renaissance Library,
Harvard University Press, 44, 2010), p. 218.
[2] Alessandro Rovetta, Gli
appunti del cardinale. Note inedite di Federico Borromeo per il Musaeum in
Annali di critica d’arte n. 2, 2006, Torino, Nino Aragno, 2006, pp. 105-142 e
in particolare p. 108.
[3] Vedi nota 2.
[4] La citazione apre un problema
al momento senza risposta. Qual è il volume delle rime michelangiolesche citato
da Borromeo? E il termine ‘rime dantesche” indica genericamente il fatto che si
trattasse di poesie o connota alcuni componimenti in particolare? Barbara
Agosti segnala che nel suo Trattato sulla pittura Lomazzo ricorda un volume manoscritto di versi di Michelangelo.
Borromeo visitò la collezione e cercò di comprarla nel 1615. In precedenza, a
citare le Rime era stato nel 1547
Benedetto Varchi nella prima lezione all’Accademia Fiorentina. Secondo i
curatori della recentissima edizione critica delle Rime, la disinvoltura con cui Varchi cita i titoli di alcuni
componimenti indica che molto probabilmente era in possesso di una raccolta
(parziale) di versi michelangioleschi oggi perduta. Non va dimenticato infine
che nel 1623 Michelangelo il Giovane pubblicò a stampa la prima edizione delle
rime del suo antenato. Tuttavia nell’odierna Biblioteca Ambrosiana l’edizione
1623 delle Rime è assente.
[5] Vedi nota 2.
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