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mercoledì 10 maggio 2017

Federico Borromeo. Della pittura sacra - Libri due. A cura di Barbara Agosti


English Version

Federico Borromeo
Della pittura sacra – Libri due
A cura di Barbara Agosti


Scuola Normale Superiore di Pisa, 1994

Recensione di Giovanni Mazzaferro

Giulio Cesare Procaccini, Ritratto di Federico Borromeo, 1610. Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Fonte: it:Museo diocesano di Milano tramite Wikimedia Commons
Federico Borromeo (1564-1631) fu un grafomane. Le sue carte, custodite a Milano presso la Biblioteca Ambrosiana, una delle sue creature più note, contengono decine e decine di testi manoscritti, a cui, naturalmente, vanno aggiunti i libri dati a stampa, di argomenti vari, a partire dalla teologia arrivando all’arte. Mai come nel caso di Federico (arcivescovo di Milano dal 1595 in poi) la distinzione fra manoscritti e libri a stampa è così flebile. Appare evidente che la stampa era semplicemente una fase di produzione di un’opera, e nemmeno l’unica. Si trattava di una “messa in bella copia” che non impediva poi al Borromeo di tornare sul testo, modificandolo con postille e con appunti rintracciati nelle sue carte o aggiungendo rimandi ad altre opere, a loro volta manoscritte o a stampa. La tiratura era pressoché inesistente. Del  De pictura sacra, oggetto di questa recensione, sono note ad oggi due copie a stampa in latino [1] ed una manoscritta in italiano (ms. G. 25 inf. dell’Ambrosiana).

Ma prima di parlare di eventuale precedenza fra versione italiana e versione latina è forse il caso di fare il quadro sulle pubblicazioni artistiche del Cardinal Borromeo. Si tratta fondamentalmente di due opere, pubblicate a distanza di un anno l’una dall’altra: il De pictura sacra (1624) e il Musaeum (1625). Due testi che più diversi non potrebbero essere, l’uno impregnato di dottrina controriformata a ribadire concetti ormai datati di sessant’anni, già esposti dal cugino nonché predecessore San Carlo Borromeo nelle Instructionum Fabricae et Supellectilis ecclesiasticae (1577) e da Gabriele Paleotti nel Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582); il secondo inteso invece come una guida fra i quadri della collezione del cardinale, donati nel 1618 alla Pinacoteca Ambrosiana, un testo molto più libero e ricco di una cultura critica e collezionistica che personalmente mi viene da associare alle indicazioni fornite da Giulio Mancini nelle sue Considerazioni sulla pittura, sostanzialmente coeve. Scritti diversi, si diceva, quasi a rivelare una ‘schizofrenia’ di fondo, come se uno fosse destinato a un pubblico e l’altro a una differente platea, se non fosse che – come detto – gli scritti del cardinale non sono destinati alla diffusione se non fra una cerchia di amici, e che in una serie di note preparatorie al Musaeum, riscoperta e stampata di recente, è lo stesso cardinale a parlare delle due opere come finalizzate ad essere complementari fra loro [2].

In realtà molti appunti presenti su altri manoscritti (come i Rerum Memorabilium libri I e II pubblicati da Alessandro Rovetta [3]) sono di natura artistica, senza tener conto che il cardinale progettò la redazione (mai effettuata) di un De antiquis christanorum picturis e che due scritti pubblicati alla fine del secolo scorso da Scheiwiller con il titolo Le colonne per la facciata del Duomo riguardano la progettazione della facciata del Duomo di Milano in stile “moderno”, o classico o romano che dir si voglia. Proprio Rovetta segnala che probabilmente il passo necessario, a questo punto, è la ricognizione sistematica delle carte del Cardinale, e la pubblicazione integrale dei suoi scritti d’arte.

Progetto della facciata del Duomo di Milano di Pellegrino Tibaldi (1593-1596 circa)
Fonte: http://blog.urbanfile.org/2016/02/27/milano-duomo-quanti-progetti-per-la-facciata-del-duomo/


Della pittura sacra – edizione italiana

L’occasione per la redazione di questa recensione è stata la lettura di una pregevolissima edizione sia del De pictura sacra sia del Museum (indicato senza dittongo) in un volume della celebre collana I Tatti Renaissance Library (cfr. nota 1). Mi è sembrato più semplice, tuttavia, fare ricorso alle edizioni italiane delle due opere. Il De pictura sacra nella versione curata da Barbara Agosti nel 1994 è oggetto di questo post, mentre nel successivo si parlerà del Musaeum nell’edizione del 1997 commentata da Mons. Gianfranco Ravasi.

La prima cosa da chiarire, riguardo al De pictura sacra, è che la traduzione inglese è condotta sui due esemplari a stampa, mentre quella italiana curata dalla Agosti è esemplata dal manoscritto G 25 inf. già citato, in italiano e diverso rispetto al testo latino. La curatrice (cfr. p. 7) ritiene che la versione italiana sia più completa della latina, quanto meno tenendo conto di una serie di note manoscritte ad essa riferite che rifletterebbero una revisione immediatamente successiva rispetto alla stampa. Oltre al testo italiano infatti, sono riprodotti:
  • le postille apposte lateralmente rispetto al testo (fra parentesi graffe direttamente all’interno dell’opera);
  • i fogli finali dello stesso manoscritto ms G 25 inf. in cui compaiono dei passi numerati da Federico con l’indicazione del posto in cui bisognava collocarli in una eventuale ristampa;
  • alcune pagine sparse, anch’esse intitolate De pictura sacra, del ms F 11 sempre all’Ambrosiana comprendenti anch’esse parti di testo supplementare (assenti nella versione latina).

Lo scopo dell’opera è quello che Federico espone subito: rifarsi a quanto indicato dal Concilio di Trento secondo cui i vescovi dovevano insegnare i misteri della fede non solo con le parole, ma anche con le pitture (p. 18). Si torna al concetto di pittura (anzi, di pittura e scultura, perché per Federico, esattamente come per Paleotti, non esiste una gerarchia fra le due) di natura intimamente etica e catechistica, il cui scopo fondamentale è muovere alla fede. Le due parti del De pictura sacra (la prima contenente principi generali sul decoro, la verosimiglianza delle storie, il nudo, le vesti etc.. e la seconda relativa ad esempi specifici (la raffigurazione della Trinità, della crocifissione e così via) sono rivolte a evitare gli abusi nella raffigurazione di immagini sacre. La questione dell’iconoclastia protestante non è minimamente affrontata perché già oggetto dei chiarimenti teologici forniti nel Concilio. Ad essere sinceri a me sembra che Federico, nel suo De pictura sacra, si riveli più severo rispetto al Paleotti del Discorso sulle immagini sacre, il quale si collocava su un piano di dialogo con le parti interessate (il clero, da un lato e pittori e committenti dall’altro), e si uniformi semmai al successivo scritto paleottiano De tollendis imaginum abusibus novissima consideratio (1596). Di circolazione molto ristretta, mi stupirei che Borromeo non avesse letto quest’ultimo testo.

San Carlo Borromeo e i santi Filippo Neri e Francesco di Sales, Milano, Chiesa di Santa Maria Incoronata
Fonte: Giovanni Dall'Orto tramite Wikimedia Commons

L’arte della prima cristianità

Affresco del Buon Pastore, Roma, Catacombe di San Callisto
Fonte: Wikimedia Commons

Ci sono almeno due aspetti che, parlando del De pictura sacra, vanno sottolineati. Il primo è la presenza assai informata di segnalazioni sull’uso delle immagini da parte della prima cristianità. Più che una rivendicazione di ‘primogenitura cronologica’ da sbandierare nei confronti dei protestanti, mi sembra che si tratti della volontà di richiamare i lettori del tempo sul fatto che l’uso delle immagini era anticamente più semplice e genuino, e senz’altro più decoroso. Le antiche pitture, peraltro, assumono valore di fonte proprio nel fissare i canoni di rappresentazione di santi e vicende evangeliche. Non vi è il minimo dubbio che l’attenzione di Borromeo per il mondo delle catacombe (o ‘sacri cimiteri’ come si chiamavano all’epoca) riveli un dato biografico. È importante ricordare che Federico, prima di insediarsi definitivamente a Milano, visse per più di dieci anni a Roma sul finire del 1500. Gli studi antiquari sulla cristianità furono una delle sue grandi passioni, tanto da progettare, in vecchiaia, la stesura di un De antiquis christianorum picturis. Sotto questo punto di vista – sostiene Barbara Agosti – le informazioni fornite nel De pictura sacra possono essere viste come una sorta di anticipazione degli studi di Antonio Bosio, riconosciuto come massimo esperto in materia, che da decenni stava lavorando a una pubblicazione sul tema; pubblicazione che si faceva attendere, tanto da far divenire impazienti gli ambienti eruditi che condividevano la passione per l’antiquaria paleocristiana (la Roma sotterranea del Bosio fu pubblicata infatti postuma soltanto nel 1632). Sempre secondo Agosti al periodo del soggiorno romano andrebbe ricondotta una prima stesura del De pictura sacra, proprio per il suo carattere pedante e dottrinale, che confliggerebbe coi gusti del cardinale poi esposti nel Musaeum. Nella sostanza, il De pictura sacra è privo di una qualsiasi visione storicizzata dell’arte (una visione che Borromeo sembra invece avere nel Musaeum) e vi è assente una qualsiasi analisi stilistica. I giudizi sono espressi in termini di liceità delle immagini in base alla loro corrispondenza col testo biblico, con la funzione educativa dell’arte cristiana e col decoro.

La traduzione latina di Paolo Aringhi della Roma sotterranea di Antonio Bosio, pubblicata a Parigi nel 1658
ed esposta alla fiera del libro antiquario a Madrid nel maggio di quest’anno


Contro il manierismo o contro Michelangelo?

Michelangelo, Il Giudizio Universale. Particolare: Caronte traghetta i dannati, Città del Vaticano, Cappella Sistina
Fonte: Wikimedia Commons
Michelangelo, Il Giudizio Universale. Particolare: Caronte, Città del Vaticano, Cappella Sistina
Fonte: Wikimedia Commons

Il tema ci porta direttamente al secondo aspetto da mettere in evidenza, ovvero la polemica anti-manierista o anti-michelangiolesca. Credo che occorra essere estremamente cauti anche solo nell’utilizzare determinati termini. Parlare di un Borromeo anti-manierista vorrebbe dire immaginarsi il cardinale in grado di concepire il ‘manierismo’ come ‘movimento artistico’ complessivo. Esattamente come nel caso di Paleotti con Prospero Fontana, bisognerebbe poi capire perché Borromeo ebbe grande stima di un manierista come Federico Zuccari, citandolo sempre in connotazione positiva. La verità è che le parole di Borromeo sembrano rivolte soprattutto contro Michelangelo. Se teniamo conto del fatto che nell’ultimo decennio del Cinquecento il cardinale era a Roma, che fu il primo protettore dell’Accademia romana diretta proprio dallo Zuccari, e infine che in quegli anni a Roma montava una polemica feroce nei confronti del Vasari e del suo mondo toscano-centrico, tutto retto sull’esaltazione di Michelangelo (si pensi anche solo alle postille alle Vite scritte da Annibale Carracci e da Zuccari stesso) mi sembra più probabile che le critiche a Michelangelo vadano inscritte in un clima più ampio di risentimento verso il mondo toscano e naturalmente si nutrano di validissimi argomenti dal punto di vista della Controriforma. Borromeo (non solo in quest’opera) lamenta dunque il fatto che Michelangelo pensasse solo a rappresentare le sue figure nude, in un eccesso di atletismo e in pose sforzate, con pastori e santi che sembrano più dei culturisti che altro; polemizza col Buonarroti per aver raffigurato nella Pietà di San Pietro un Cristo morente nelle braccia di una Maria giovane; per aver mescolato nel Giudizio universale l’aspetto sacro con le ‘favole dei gentili’, dipingendo Caronte che traghetta i dannati nell’Inferno (una critica che potrebbe adattarsi benissimo a Dante); o, ancora, per aver rappresentato San Paolo canuto e con una gran barba nella Cappella Paolina, quando è noto che, all’epoca della conversione, non era anziano. Insomma, le critiche sembrano ad personam, e riprendono comunque una lunghissima serie di osservazioni moraleggianti che investono Michelangelo sin dalla fine del suo lavoro nella Cappella Sistina. Se poi si prende in considerazione l’aspetto teorico più caratteristico del manierismo, ovvero quell’Idea che viene indicata prima da Lomazzo poi da Zuccari come aspetto interno e mentale prima che esterno e concreto, è lapalissiano che Borromeo non vi dedica nemmeno una parola, pur essendo sicuramente a conoscenza di entrambi i testi. Semplicemente il cardinale non si occupa di teoria dell’arte.

Va inoltre detto che il giudizio su Michelangelo non è sempre negativo. Lo si addita ad esempio quando si dice che l’artista deve essere erudito: “il testimonio e l’autorità di Michelangelo potrebbe dimostrarlo, imperoché egli divenne componitore e scrittore, poiché si vede ancor oggi un intiero volume di versi danteschi composti da lui, i quali certo esso non gli poté fare senza sentire l’amore delle buone lettere” (p. 39). Molte delle note apposte ai Rerum Memorabilium pubblicati da Rovetta [5] sono dedicate a Michelangelo e hanno valore morale con connotazione positiva. Addirittura in una di esse si definisce il Giudizio Universale della Cappella Sistina come “maraviglioso”.

Insomma, i giudizi del cardinale espressi nel De pictura sacra sono stati probabilmente estremizzati. Sicuramente non riguardano tutto il manierismo, e molto probabilmente si riferiscono solo ad alcuni aspetti del lavoro di Michelangelo.

Michelangelo, Conversione di San Paolo (Particolare). Città del Vaticano, Cappella Paolina
Fonte: Sailko (Francesco Bini) tramite Wikimedia Commons

Sull’architettura

Da segnalare infine che l’ultimo capitolo del secondo libro dell’opera è dedicato alla “forma dei tempi sacri”. È curioso perché così facendo Federico si discosta di fatto dal sentiero paleottiano (dove di architettura non si parla) per recuperare invece alcuni degli argomenti del defunto cugino San Carlo. Si tratta dunque del recupero di alcuni temi cari al predecessore, in cui la “questione della forma” è intesa in senso strettamente liturgico. In questo senso si depreca l’abbandono delle divisioni operate nel primo Cristianesimo. Tali divisioni permettevano una fruizione più ordinata della funzione religiosa separando il clero dai laici e poi fra essi i maschi dalle femmine, quelle vergini dalle maritate e così via. Senza tener conto (la visione è totalmente astorica) che le chiese di un tempo assomigliavano molto di più al tempio di Salomone e quindi era assai consigliato tornare ad imitarle. Ancora una volta, esattamente come per la pittura, la discussione non riguarda lo ‘stile’ con cui è costruita una chiesa. Potremmo pensare che per Federico la cosa non avesse importanza, e invece no, come abbiamo benissimo modo di sapere dal bel volume di Francesco Repishti e Richard Schofield sui dibattiti per la facciata del duomo di Milano fra 1582 e 1682. A ulteriore conferma che il De pictura sacra ha valore sostanzialmente dottrinario e non è scritto per esporre i gusti del cardinale.


NOTE

[1] Federico Borromeo, Sacred Painting – Museum, Edited and translated by Kenneth S. Rothwell, jr. Introduction and notes by Pamela M. Jones. The I Tatti Renaissance Library, Harvard University Press, 44, 2010), p. 218.

[2] Alessandro Rovetta, Gli appunti del cardinale. Note inedite di Federico Borromeo per il Musaeum in Annali di critica d’arte n. 2, 2006, Torino, Nino Aragno, 2006, pp. 105-142 e in particolare p. 108.

[3] Vedi nota 2.

[4] La citazione apre un problema al momento senza risposta. Qual è il volume delle rime michelangiolesche citato da Borromeo? E il termine ‘rime dantesche” indica genericamente il fatto che si trattasse di poesie o connota alcuni componimenti in particolare? Barbara Agosti segnala che nel suo Trattato sulla pittura Lomazzo ricorda un volume manoscritto di versi di Michelangelo. Borromeo visitò la collezione e cercò di comprarla nel 1615. In precedenza, a citare le Rime era stato nel 1547 Benedetto Varchi nella prima lezione all’Accademia Fiorentina. Secondo i curatori della recentissima edizione critica delle Rime, la disinvoltura con cui Varchi cita i titoli di alcuni componimenti indica che molto probabilmente era in possesso di una raccolta (parziale) di versi michelangioleschi oggi perduta. Non va dimenticato infine che nel 1623 Michelangelo il Giovane pubblicò a stampa la prima edizione delle rime del suo antenato. Tuttavia nell’odierna Biblioteca Ambrosiana l’edizione 1623 delle Rime è assente.

[5] Vedi nota 2.

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