English Version
Tijana Žahula
Reforming Dutch Art:
Gerard de Lairesse on Beauty, Morals and Class
[Riformare l'arte olandese: Gerard de Lairesse su Bellezza, Morale e Classe]
Sta in
Simiolus
Netherland quarterly for the history of art
Volume 37 Special edition 2013-2014
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
Il paesaggio
Quando, nel sesto libro del primo
volume, de Lairesse si dedica al paesaggio comincia usando concetti noti sin
dall’antichità ed ampiamente condivisibili per un classicista: il paesaggio serve
a ‘sfondare’ le stanze delle case e a farci viaggiare nello spazio senza gli
incomodi e i pericoli degli spostamenti reali. La tradizione della pittura di
paesaggio in età moderna fa capo tradizionalmente al mondo fiammingo e poi a
quello olandese; nel corso del Seicento, però, la stessa trattatistica olandese
la guarda con fastidio: si tratta di un fenomeno minore che non deve sviare dal
compito finale dell’artista, che è la pittura di storia. L’autore si attesta su
queste posizioni, senza però rinunciare a dettare un percorso programmatico
volto a ‘nobilitare’ l’esercizio di questo particolare genere d’arte.
Il paesaggio di de Lairesse deve
essere innanzi tutto frutto di una scelta ponderata. L’artista non esita a
condannare senza nessuna remora paesaggi in cui la composizione sia
‘disordinata’ o che presentino aspetti tristi o spaventosi: alberi rotti,
rovine, paludi, serpenti. Il riferimento non sembra casuale, ma si rifà alla
moda del paesaggio impostasi internazionalmente con i quadri di Salvator Rosa e
recepita in Olanda, ad esempio, da Jacob de Heusch (1656-1701). A partire dalla
selezione del soggetto, il tutto diventa poi una questione di colore e disposizione;
una volta ‘scelti’ gli oggetti giusti, tutto sta nel rispettare l’immagine
della natura. La perfezione può essere raggiunta tramite l’aggiunta di diversi
tipo di adornamenti. Nel caso di un paesaggio ‘antico’, ovviamente, tali
‘adornamenti’ possono essere templi, tombe, l’inserimento di pastori, baccanali
e quant’altro, a seconda del soggetto; se il paesaggio è moderno potranno
esserci case, pescatori, carri a cavalli e così via. Fondamentale, come visto
nella pittura di genere, è non mescolare le due cose, ovvero non mettere
l’antico nel moderno, perché verrebbe a mancare il decoro. In questo senso –
scrive Žakula
– “i primi artisti a violare le sacre
regole del decoro furono Jan Breughel, Paul Bril e Hans Bol e la mancanza di
“distinzione fra la vita bassa e ciò che è meglio” nei loro dipinti era
comparabile allo stile del famoso Bamboccio e dei suoi seguaci” (p. 71).
Il paesaggio migliore, per de
Lairesse, è ovviamente quello di gusto arcadico. Un tipo di rappresentazione
che fa capo alla cosiddetta ‘terza generazione italianista di pittori di
paesaggio’, che si affermano in Olanda a partire da metà ‘600, intendendo come
paesaggio di gusto italianista “non
un’invenzione olandese, ma l’importazione di nozioni del paesaggio classico
idealizzato reso popolare a Roma dall’artista francese (cugino di Poussin)
Gaspard Dughet (1615-75)”.
Normalmente si ritiene che i principali
esponenti olandesi di questo momento storico (Johannes Glauber, Albert
Meyeringh (1645-1714) e Isaac de Moucheron (1667?-1744) siano stati influenzati
dall’arte francese di gusto poussinista mentre erano in Italia; va pur detto
che tutti ebbero modo di lavorare e conoscere de Lairesse, o quanto meno di
leggerne il trattato. Johannes Glauber, ad esempio, dipinse cinque grandi
paesaggi arcadici destinati ad essere esposti in un unico ambiente per Jacob de
Flines proprio a quattro mani con de Lairesse; quest’ultimo fu autore delle
figure classicheggianti in primo piano, e Glauber del resto delle tele.
Confrontando il contenuto dei quattro quadri (su cinque) che ci sono rimasti,
appare evidente come ci si attenga scrupolosamente al programma del teorico
olandese. Ne rispetta le disposizioni già il fatto che il lavoro sia suddiviso
fra autori diversi: se il paesaggista si sente pronto a dipingere solo dal
vero, non vi è nulla di male che ricorra all’aiuto di chi invece è in grado di
produrre figure ‘più belle della natura’. Le tele contengono architetture
classiche i cui pinnacoli – come indicato da de Lairesse – spezzano la
superficie del cielo per renderla meno uniforme e quindi meno noiosa; tutte le
opere destinate ad essere collocate sulla stessa parete hanno la luce che
proviene dallo stesso lato e addirittura appaiono come segmenti di un’unica sequenza,
in cui il fogliame di una si riallaccia a quello dell’altra; la descrizione
della vegetazione è analitica, a restituire l’esatta specie delle piante che
stiamo vedendo; il paesaggio è disposto su cinque piani differenti. Tutte
indicazioni contenute nello Schilderboeck
e riprese poi anche da Meyeringh e Moucheron.
Il ritratto
Quando de Lairesse scrive il suo
trattato, la ritrattistica olandese è all’apice della sua fama. Eppure il
ritratto, nella scala dei generi non solo del nostro teorico, ma di tutti
quelli del classicismo europeo, gode di fama relativa. Per Gerard viene prima
solo delle nature morte, perché si occupa di rendere con fedeltà fotografica le
fattezze dei modelli. Secondo una tradizione che affonda anch’essa
nell’antichità classica, a essere ritratti devono essere gli dei, i re, gli
imperatori, i grandi condottieri, ovvero coloro che meritano di essere
ricordati dalle generazioni successive. E invece l’esplosione della ricca
borghesia ha fatto sì che la ritrattistica stia dilagando, portando con sé
un’immagine servile e artigianale del mestiere: “grandi maestri come van Dyck, Lely, Van Loo, il vecchio e il giovane Bakker,
pur possedendo grande talento per l’arte, hanno messo prima ciò che è ordinario
e comune rispetto alla nobiltà e al bello” (p. 88). La posizione del
ritrattista, poi, è particolarmente delicata perché la sua fama dipende
direttamente dal livello di soddisfazione del modello o della modella. Chi è
oggetto del ritratto ha il potere di determinarne le future fortune dell’artista
parlandone bene o male ad amici o conoscenti di pari lignaggio e quindi
influenzandone il successo economico. Da
qui ne consegue anche il potere che ha sul pittore in merito alle modalità con
cui deve essere ritratto. De Lairesse rinnega questo modo di operare e comincia
col dire che, nel limite del possibile, l’artista non deve riprodurre i difetti
del modello, specie quando questi possono essere perturbanti. Il tipico esempio
è quello di un uomo a cui manchi un occhio. La rappresentazione dal vero deve
trovare un limite nell’astuzia del pittore, che può limitarsi, ad esempio, a
ritrarre il suo modello di profilo, in maniera tale da non far notare la sua
menomazione. Se il caso dell’occhio è una situazione limite, diverso (ma più
pericoloso) è quello delle signore o delle ragazze che devono essere ritratte
più carine di quanto effettivamente esse non siano. Il pittore in questo caso
dovrà giocare con la luce in maniera tale da mettere in evidenza i pregi e
nascondere i difetti.
In generale il ritratto non è un
tipo di dipinto che possa essere eseguito all’impronta. Il pittore dovrà far
venire il modello nel suo studio e discorrere con lui di cose amene, che lo
rasserenino e che gli permettano di lasciare emergere con naturalezza la sua
personalità. Per questo motivo (specie nel caso delle donne) lo studio dovrà
essere privo di oggetti che possano turbare o quadri che possano indurre a
pensieri meno che casti. Il vero e proprio ritratto va eseguito dopo tre o
quattro sedute passate a conoscere il proprio interlocutore. L’esecuzione
tecnica deve rifuggere l’utilizzo di stereotipi. De Lairesse ne parla in merito
all’esecuzione delle mani, che (dopo il viso) sono l’elemento fondamentale che
caratterizza l’oggetto del ritratto. Nella realtà dei fatti non erano rare le
situazioni in cui l’artista si limitava a dipingere il volto del modello
utilizzando una base precostituita e uguale per tutti: ovviamente il risultato
erano figure in cui i volti sembravano ritagliati e applicati successivamente
rispetto al resto dell’opera. Tutto ciò, ovviamente, non è compatibile con il
programma proposto dall’artista vallone per il ritratto.
Uno degli elementi fondamentali
del quadro è poi il vestiario. Come vestire i propri modelli? Ovviamente la
tendenza era quella a sfoggiare vestiti particolarmente eleganti e costosi,
facendo sfoggio di una ricchezza inusitata. Questo tipo di atteggiamento è del
tutto stigmatizzato, sia perché poco morale sia perché troppo moderno: il vestito che va di moda nel
momento del ritratto potrebbe essere considerato ridicolo l’anno dopo. Un
assurdo. La correttezza sta nel giusto mezzo. Ma nel concreto una particolare
predilezione è attribuita agli abiti giapponesi e ai loro kimono. Essi
richiamano in qualche modo le tuniche degli antichi Greci e dei Romani e danno
comunque un’idea di morigeratezza che l’autore fra propria utilizzandone uno in
un proprio autoritratto eseguito attorno al 1670. Non si deve credere che il
kimono fosse in assoluto una stranezza. I rapporti commerciali fra Olanda e
Giappone erano strettissimi e i kimono avevano letteralmente invaso le case
degli olandesi. Si trattava di una soluzione ‘alla moda’, ma intelligente, e
come tale ammissibile nel codice di comportamento proposto da de Lairesse.
![]() |
Frans Hals, Ritratto di uomo, 1665 circa, Boston, Museum of Fine Arts Fonte: http://www.mfa.org/collections/object/portrait-of-a-man-33984 |
La natura morta
![]() |
Jan Davidsz de Heem, Natura morta con aragosta e nautilus, 1634, Stoccarda, Staatsgalerie Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
In tutti i trattati d’arte che
prevedano una suddivisione per generi la natura morta occupa il gradino più
basso. Il motivo è evidente: in termini teorici è considerata pura imitazione
della natura, senza la narrazione di una storia e quindi senza una valenza
morale. De Lairesse ancora una volta non fa eccezione. Tuttavia ben consapevole
dell’importanza del genere per la pittura olandese, prevede un programma che la
nobiliti e permetta anche a chi è specializzato in nature morte di vederle
esposte negli spazi prestigiosi dell’aristocrazia locale. Solo con questa
volontà si spiegano i due capitoli (l’XI e il XII) e le cento pagine che
l’autore dedica all’argomento; uno spazio ovviamente non comparabile con quello
molto più contenuto attribuito dalla trattatistica precedente.
L’innalzamento della natura morta
comincia, ovviamente, dalla selezione degli oggetti che vi sono rappresentati,
che devono ovviamente essere vari, ma che soprattutto devono essere belli e
ricercati. Le carote, le verdure, i cibi del mondo contadino devono essere
esclusi. È
auspicabile la rappresentazione di vasellame prezioso (meglio se con motivi
ornamentali che rimandano al mondo classico), di conchiglie rarissime,
strumenti musicali, mappamondi e così via. Ma una volta effettuata la scelta
degli oggetti – o, per meglio dire, una volta chiarito quali sono quelli da
escludere senza esitazione – la vera sfida è quella di attribuire un senso, un
valore etico alla rappresentazione. Perché un valore etico ci deve essere. La
lunghezza della sezione dedicata alla natura morta si spiega proprio in questo
modo: nella meticolosa rassegna degli oggetti, delle piante, dei fiori e dei
loro significati più intimi. Ad esempio, “De
Lairesse informa i suoi lettori che la rosa bianca, in quanto fiore più
importante, porta con sé il significato simbolico della purezza e dovrebbe
essere circondata da fiori “rosa, violetti, viola e di un bellissimo rosso””
(p. 121). Nel proporre un programma di riforma del genere l’autore dimostra di
conoscere perfettamente l’evoluzione del medesimo e chi ne furono i principali
attori: “si può dedurre dai nomi e dalle
opere elencate nel Groot schilderboek che [n.d.r l’analisi dell’artista] parte della tradizione iniziata negli anni
trenta del ‘600 da Jan Davidsz de Heem, proseguita da Kalf e perfezionata da
Willem van Aelst, le cui invenzioni proposero un’atmosfera di lusso e
raffinatezza che nessun pittore precedente aveva mai raggiunto. Nessuno di
questi pittori raggiunse mai la perfezione assoluta, dal momento che nelle loro
opere mancava “la scelta degli oggetti più belli” (e quindi latitava il
decoro), oppure erano carenti in termini di contenuto e quindi mancavano di
senso. Era solo nell’opera del pittore che aveva letto i consigli di de
Lairesse che le idee presentate nel Groot schilderboeck potevano avere il massimo della fioritura” (p. 128). Secondo Žakula,
pur non essendoci nessuna prova che effettivamente abbia letto il trattato di de Lairesse, è nelle
nature morte di Jan van Huysum che si può vedere una piena corrispondenza col
dettato dell’artista vallone.
![]() |
Jan van Huysum, Natura morta con fiori e una statua di Flora, 1723, Amsterdam, Rijksmuseum Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/search/objects?q=jan+van+huysum&p=1&ps=12&st=OBJECTS&ii=4#/SK-A-188,4 |
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