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venerdì 17 marzo 2017

Tijana Žahula. [Riformare l'arte olandese: Gerard de Lairesse su Bellezza, Morale e Classe]. Parte Seconda


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Tijana Žahula
Reforming Dutch Art:
Gerard de Lairesse on Beauty, Morals and Class

[Riformare l'arte olandese: Gerard de Lairesse su Bellezza, Morale e Classe]

Sta in
Simiolus
Netherland quarterly for the history of art

Volume 37 Special edition 2013-2014

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda 

Gerard de Lairesse e Johannes Glauber, Paesaggio arcadico con due donne e un gentiluomo,
1658 circa, Amsterdam, Rijksmuseum
Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/search/objects?q=gerard+de+lairesse&s=objecttype&p=1&ps=12&st=OBJECTS&ii=2#/SK-A-4216,2

Il paesaggio

Quando, nel sesto libro del primo volume, de Lairesse si dedica al paesaggio comincia usando concetti noti sin dall’antichità ed ampiamente condivisibili per un classicista: il paesaggio serve a ‘sfondare’ le stanze delle case e a farci viaggiare nello spazio senza gli incomodi e i pericoli degli spostamenti reali. La tradizione della pittura di paesaggio in età moderna fa capo tradizionalmente al mondo fiammingo e poi a quello olandese; nel corso del Seicento, però, la stessa trattatistica olandese la guarda con fastidio: si tratta di un fenomeno minore che non deve sviare dal compito finale dell’artista, che è la pittura di storia. L’autore si attesta su queste posizioni, senza però rinunciare a dettare un percorso programmatico volto a ‘nobilitare’ l’esercizio di questo particolare genere d’arte.

Il paesaggio di de Lairesse deve essere innanzi tutto frutto di una scelta ponderata. L’artista non esita a condannare senza nessuna remora paesaggi in cui la composizione sia ‘disordinata’ o che presentino aspetti tristi o spaventosi: alberi rotti, rovine, paludi, serpenti. Il riferimento non sembra casuale, ma si rifà alla moda del paesaggio impostasi internazionalmente con i quadri di Salvator Rosa e recepita in Olanda, ad esempio, da Jacob de Heusch (1656-1701). A partire dalla selezione del soggetto, il tutto diventa poi una questione di colore e disposizione; una volta ‘scelti’ gli oggetti giusti, tutto sta nel rispettare l’immagine della natura. La perfezione può essere raggiunta tramite l’aggiunta di diversi tipo di adornamenti. Nel caso di un paesaggio ‘antico’, ovviamente, tali ‘adornamenti’ possono essere templi, tombe, l’inserimento di pastori, baccanali e quant’altro, a seconda del soggetto; se il paesaggio è moderno potranno esserci case, pescatori, carri a cavalli e così via. Fondamentale, come visto nella pittura di genere, è non mescolare le due cose, ovvero non mettere l’antico nel moderno, perché verrebbe a mancare il decoro. In questo senso – scrive Žakula – “i primi artisti a violare le sacre regole del decoro furono Jan Breughel, Paul Bril e Hans Bol e la mancanza di “distinzione fra la vita bassa e ciò che è meglio” nei loro dipinti era comparabile allo stile del famoso Bamboccio e dei suoi seguaci” (p. 71).

Il paesaggio migliore, per de Lairesse, è ovviamente quello di gusto arcadico. Un tipo di rappresentazione che fa capo alla cosiddetta ‘terza generazione italianista di pittori di paesaggio’, che si affermano in Olanda a partire da metà ‘600, intendendo come paesaggio di gusto italianista “non un’invenzione olandese, ma l’importazione di nozioni del paesaggio classico idealizzato reso popolare a Roma dall’artista francese (cugino di Poussin) Gaspard Dughet (1615-75)”. 

Normalmente si ritiene che i principali esponenti olandesi di questo momento storico (Johannes Glauber, Albert Meyeringh (1645-1714) e Isaac de Moucheron (1667?-1744) siano stati influenzati dall’arte francese di gusto poussinista mentre erano in Italia; va pur detto che tutti ebbero modo di lavorare e conoscere de Lairesse, o quanto meno di leggerne il trattato. Johannes Glauber, ad esempio, dipinse cinque grandi paesaggi arcadici destinati ad essere esposti in un unico ambiente per Jacob de Flines proprio a quattro mani con de Lairesse; quest’ultimo fu autore delle figure classicheggianti in primo piano, e Glauber del resto delle tele. Confrontando il contenuto dei quattro quadri (su cinque) che ci sono rimasti, appare evidente come ci si attenga scrupolosamente al programma del teorico olandese. Ne rispetta le disposizioni già il fatto che il lavoro sia suddiviso fra autori diversi: se il paesaggista si sente pronto a dipingere solo dal vero, non vi è nulla di male che ricorra all’aiuto di chi invece è in grado di produrre figure ‘più belle della natura’. Le tele contengono architetture classiche i cui pinnacoli – come indicato da de Lairesse – spezzano la superficie del cielo per renderla meno uniforme e quindi meno noiosa; tutte le opere destinate ad essere collocate sulla stessa parete hanno la luce che proviene dallo stesso lato e addirittura appaiono come segmenti di un’unica sequenza, in cui il fogliame di una si riallaccia a quello dell’altra; la descrizione della vegetazione è analitica, a restituire l’esatta specie delle piante che stiamo vedendo; il paesaggio è disposto su cinque piani differenti. Tutte indicazioni contenute nello Schilderboeck e riprese poi anche da Meyeringh e Moucheron.

Gerard de Lairesse e Johannes Glauber, Paesaggio arcadico con due soldati romani, 1685 circa, Amsterdam, Rijkmuseum
Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/search/objects?q=gerard+de+lairesse&s=objecttype&p=1&ps=12&st=OBJECTS&ii=0#/SK-A-4215,0


Il ritratto

Anthony van Dyck, Guglielmo II, principe d'Orange, e sua moglie Maria Stuarda, 1641, Amsterdam, Rijksmuseum
Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/rijksstudio/artists/anthony-van-dyck/objects#/SK-A-102,0

Quando de Lairesse scrive il suo trattato, la ritrattistica olandese è all’apice della sua fama. Eppure il ritratto, nella scala dei generi non solo del nostro teorico, ma di tutti quelli del classicismo europeo, gode di fama relativa. Per Gerard viene prima solo delle nature morte, perché si occupa di rendere con fedeltà fotografica le fattezze dei modelli. Secondo una tradizione che affonda anch’essa nell’antichità classica, a essere ritratti devono essere gli dei, i re, gli imperatori, i grandi condottieri, ovvero coloro che meritano di essere ricordati dalle generazioni successive. E invece l’esplosione della ricca borghesia ha fatto sì che la ritrattistica stia dilagando, portando con sé un’immagine servile e artigianale del mestiere: “grandi maestri come van Dyck, Lely, Van Loo, il vecchio e il giovane Bakker, pur possedendo grande talento per l’arte, hanno messo prima ciò che è ordinario e comune rispetto alla nobiltà e al bello” (p. 88). La posizione del ritrattista, poi, è particolarmente delicata perché la sua fama dipende direttamente dal livello di soddisfazione del modello o della modella. Chi è oggetto del ritratto ha il potere di determinarne le future fortune dell’artista parlandone bene o male ad amici o conoscenti di pari lignaggio e quindi influenzandone il successo economico.  Da qui ne consegue anche il potere che ha sul pittore in merito alle modalità con cui deve essere ritratto. De Lairesse rinnega questo modo di operare e comincia col dire che, nel limite del possibile, l’artista non deve riprodurre i difetti del modello, specie quando questi possono essere perturbanti. Il tipico esempio è quello di un uomo a cui manchi un occhio. La rappresentazione dal vero deve trovare un limite nell’astuzia del pittore, che può limitarsi, ad esempio, a ritrarre il suo modello di profilo, in maniera tale da non far notare la sua menomazione. Se il caso dell’occhio è una situazione limite, diverso (ma più pericoloso) è quello delle signore o delle ragazze che devono essere ritratte più carine di quanto effettivamente esse non siano. Il pittore in questo caso dovrà giocare con la luce in maniera tale da mettere in evidenza i pregi e nascondere i difetti.

Bartholomeus van der Helst, Ritratto di Gerard Andriesz Bicker, 1642 circa, Amsterdam, Riijksmuseum
Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/rijksstudio/artists/bartholomeus-van-der-helst/objects#/SK-A-147,1

In generale il ritratto non è un tipo di dipinto che possa essere eseguito all’impronta. Il pittore dovrà far venire il modello nel suo studio e discorrere con lui di cose amene, che lo rasserenino e che gli permettano di lasciare emergere con naturalezza la sua personalità. Per questo motivo (specie nel caso delle donne) lo studio dovrà essere privo di oggetti che possano turbare o quadri che possano indurre a pensieri meno che casti. Il vero e proprio ritratto va eseguito dopo tre o quattro sedute passate a conoscere il proprio interlocutore. L’esecuzione tecnica deve rifuggere l’utilizzo di stereotipi. De Lairesse ne parla in merito all’esecuzione delle mani, che (dopo il viso) sono l’elemento fondamentale che caratterizza l’oggetto del ritratto. Nella realtà dei fatti non erano rare le situazioni in cui l’artista si limitava a dipingere il volto del modello utilizzando una base precostituita e uguale per tutti: ovviamente il risultato erano figure in cui i volti sembravano ritagliati e applicati successivamente rispetto al resto dell’opera. Tutto ciò, ovviamente, non è compatibile con il programma proposto dall’artista vallone per il ritratto.

Uno degli elementi fondamentali del quadro è poi il vestiario. Come vestire i propri modelli? Ovviamente la tendenza era quella a sfoggiare vestiti particolarmente eleganti e costosi, facendo sfoggio di una ricchezza inusitata. Questo tipo di atteggiamento è del tutto stigmatizzato, sia perché poco morale sia perché troppo moderno: il vestito che va di moda nel momento del ritratto potrebbe essere considerato ridicolo l’anno dopo. Un assurdo. La correttezza sta nel giusto mezzo. Ma nel concreto una particolare predilezione è attribuita agli abiti giapponesi e ai loro kimono. Essi richiamano in qualche modo le tuniche degli antichi Greci e dei Romani e danno comunque un’idea di morigeratezza che l’autore fra propria utilizzandone uno in un proprio autoritratto eseguito attorno al 1670. Non si deve credere che il kimono fosse in assoluto una stranezza. I rapporti commerciali fra Olanda e Giappone erano strettissimi e i kimono avevano letteralmente invaso le case degli olandesi. Si trattava di una soluzione ‘alla moda’, ma intelligente, e come tale ammissibile nel codice di comportamento proposto da de Lairesse.

Frans Hals, Ritratto di uomo, 1665 circa, Boston, Museum of Fine Arts
Fonte: http://www.mfa.org/collections/object/portrait-of-a-man-33984


La natura morta

Jan Davidsz de Heem, Natura morta con aragosta e nautilus, 1634, Stoccarda, Staatsgalerie
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

In tutti i trattati d’arte che prevedano una suddivisione per generi la natura morta occupa il gradino più basso. Il motivo è evidente: in termini teorici è considerata pura imitazione della natura, senza la narrazione di una storia e quindi senza una valenza morale. De Lairesse ancora una volta non fa eccezione. Tuttavia ben consapevole dell’importanza del genere per la pittura olandese, prevede un programma che la nobiliti e permetta anche a chi è specializzato in nature morte di vederle esposte negli spazi prestigiosi dell’aristocrazia locale. Solo con questa volontà si spiegano i due capitoli (l’XI e il XII) e le cento pagine che l’autore dedica all’argomento; uno spazio ovviamente non comparabile con quello molto più contenuto attribuito dalla trattatistica precedente.

L’innalzamento della natura morta comincia, ovviamente, dalla selezione degli oggetti che vi sono rappresentati, che devono ovviamente essere vari, ma che soprattutto devono essere belli e ricercati. Le carote, le verdure, i cibi del mondo contadino devono essere esclusi. È auspicabile la rappresentazione di vasellame prezioso (meglio se con motivi ornamentali che rimandano al mondo classico), di conchiglie rarissime, strumenti musicali, mappamondi e così via. Ma una volta effettuata la scelta degli oggetti – o, per meglio dire, una volta chiarito quali sono quelli da escludere senza esitazione – la vera sfida è quella di attribuire un senso, un valore etico alla rappresentazione. Perché un valore etico ci deve essere. La lunghezza della sezione dedicata alla natura morta si spiega proprio in questo modo: nella meticolosa rassegna degli oggetti, delle piante, dei fiori e dei loro significati più intimi. Ad esempio, “De Lairesse informa i suoi lettori che la rosa bianca, in quanto fiore più importante, porta con sé il significato simbolico della purezza e dovrebbe essere circondata da fiori “rosa, violetti, viola e di un bellissimo rosso”” (p. 121). Nel proporre un programma di riforma del genere l’autore dimostra di conoscere perfettamente l’evoluzione del medesimo e chi ne furono i principali attori: “si può dedurre dai nomi e dalle opere elencate nel Groot schilderboek che [n.d.r l’analisi dell’artista] parte della tradizione iniziata negli anni trenta del ‘600 da Jan Davidsz de Heem, proseguita da Kalf e perfezionata da Willem van Aelst, le cui invenzioni proposero un’atmosfera di lusso e raffinatezza che nessun pittore precedente aveva mai raggiunto. Nessuno di questi pittori raggiunse mai la perfezione assoluta, dal momento che nelle loro opere mancava “la scelta degli oggetti più belli” (e quindi latitava il decoro), oppure erano carenti in termini di contenuto e quindi mancavano di senso. Era solo nell’opera del pittore che aveva letto i consigli di de Lairesse che le idee presentate nel Groot schilderboeck potevano avere il massimo della fioritura” (p. 128). Secondo Žakula, pur non essendoci nessuna prova che effettivamente abbia letto il trattato di de Lairesse, è nelle nature morte di Jan van Huysum che si può vedere una piena corrispondenza col dettato dell’artista vallone.

Jan van Huysum, Natura morta con fiori e una statua di Flora, 1723, Amsterdam, Rijksmuseum
Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/search/objects?q=jan+van+huysum&p=1&ps=12&st=OBJECTS&ii=4#/SK-A-188,4




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