Tijana Žahula
Reforming Dutch Art:
Gerard de Lairesse on Beauty, Morals and Class
Sta in
Simiolus
Netherland quarterly for the history of art
Volume 37 Special edition 2013-2014
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima
La fortuna degli scritti di Gerard de Lairesse
In Italia si ha scarsissima
consapevolezza del successo arriso agli scritti di Gerard de Lairesse
(1641-1711), artista vallone (era nato a Liegi) ben presto emigrato in Olanda,
prima a Utrecht e poi ad Amsterdam. Si tratta di due testi in particolare: un manuale
di disegno pubblicato nel 1701, col titolo Grondlegginge
ter Teekenkonst (Principi dell’Arte
del Disegno) e il trattato Groot
Schilderboeck (Il Grande Libro della Pittura),
edito in due volumi nel 1707. Come sempre Schlosser, nella sua Letteratura artistica (p. 641) liquida
le opere di questi artisti del Nord-Europa in due parole, affermando che non
dicono nulla di nuovo. Eppure basterebbe scorrere la bibliografia citata nella
medesima opera (a p. 645) per cominciare a sospettare che il giudizio espresso
sia riduttivo: dei Principi dell’Arte del
Disegno compaiono ben dieci edizioni, anche in francese, inglese e tedesco;
il Grande Libro della Pittura presenta nove
edizioni complete (anch’esse tradotte nelle medesime lingue) più un’infinità di
testi che ne ripropongono versioni ampie, ma non integrali. A livello di pura
curiosità si segnala che illustrazioni tratte dallo Schilderboeck compaiono anche nel libro giapponese Komo Zatsuwa di Moroshima Churyio del
1787 (p. 732). Manca, invece, una qualsiasi traduzione italiana. Le edizioni di
entrambe le opere hanno un elemento in comune: sono state tutte pubblicate nel
XVIII secolo; soltanto due si spingono fino al 1817 e al 1836. La cosa,
ovviamente, si spiega facilmente: de Lairesse è il campione di un classicismo
che si afferma presso le classi agiate dei repubblicani olandesi e raccoglie
consensi nelle corti di mezza Europa, contemporaneamente al trionfo del Re Sole.
Il manuale di disegno dell’artista vallone, ad esempio, si afferma come
strumento di studio nelle accademie europee, e quindi viene ristampato con
estrema frequenza. Il tutto finisce coi primi dell’Ottocento, quando il neoclassico
viene spazzato via dalla ventata romantica e de Lairesse va incontro a un
inglorioso e repentino tramonto. Un tramonto da cui l’autore sembra uscire
proprio in questi anni, addirittura con due volumi in lingua inglese: il primo
si intitola How to create beauty. De
Lairesse on the theory and practice of making art (Come creare la bellezza. De Lairesse sulla teoria e sulla pratica della
critica artistica), è scritto da Lyckle de Vries che, assieme al libro,
fornisce anche un Cd-Rom contenente la traduzione inglese del primo dei due
volumi dello Schilderboeck (nella seconda
edizione olandese del 1740) [1], il secondo è invece un numero speciale della
rivista Simiolus, intitolato Reforming Dutch Art: Gerard de Lairesse on
Beauty, Morals and Class (Riformare
l’arte olandese. Gerard de Lairesse sulla bellezza, la morale e la classe),
scritto da Tijana Žakula [2]. Di quest’ultimo si occupa la presente
recensione, fermo restando che a breve comparirà anche quella del primo.
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Un'immagine del Grande Libro della Pittura di Gerard de Lairesse (1707) Fonte: https://www.abebooks.co.uk/Het-groot-schilderboek-Lairesse-Gerard-Willem/16662077751/bd |
Pareri diversi
Il motivo per proporre due
recensioni è banale. Raramente mi è capitato di leggere giudizi così diversi su
uno stesso testo. Il che – vorrei che fosse chiaro – è assolutamente legittimo
(il passato non è un dato oggettivo: lo si interpreta ognuno in maniera diversa),
ma, nel caso specifico, è davvero impressionante. Ovviamente lo scopo di questa
recensione non è stilare una classifica di merito, ma mettere in luce le
principali differenze. Alcuni esempi: per De Vries lo Schilderboeck non è un libro di teoria dell’arte: si distingue “come manuale su come dipingere, spiegando
come un artista potrebbe raggiungere risultati migliori lavorando nel suo
studio e come bisognerebbe giudicare le sue opere. L’autore sposta l’attenzione
dalla teoria dell’arte ad aspetti pratici come la coerenza tra elementi della
composizione, il miglior modo di applicare i colori per suggerire la profondità
pittorica” [3] etc… Per Žakula, invece, la stessa opera è, fra
quelle scritte in quegli anni, “il più
completo trattato di teoria dell’arte e il suo scopo è quello di insegnare a
tutti i rami della pittura il linguaggio argenteo dell’antico” (p. 8).
Secondo De Vries, in termini di teoria dell’arte, de Lairesse non dice nulla di
nuovo. Il dato importante, che caratterizza l’opera, è quello didattico basato
sull’esperienza e sulla ferma convinzione che, attraverso l’applicazione, si
possa migliorare e raggiungere l’arte perfetta: “Sono convinto che de Lairesse non abbia provato a riformulare la teoria
della pittura come la conosceva dalle recenti fonti delle pubblicazioni
francesi, o di stimolare il suo sviluppo. Si limita ad assimilare un numero
ridotto di idee centrali senza stare troppo a discutere” [4]. Per Žakula,
al contrario, de Lairesse è un pioniere, e il suo principale merito consiste
nell’aver cercato di riformulare i concetti fondamentali dell’arte ‘bassa’
(ovvero della pittura di genere, di paesaggio, della ritrattistica e delle
rappresentazioni di nature morte) secondo i principi del classicismo: “Mettendo a confronto e a fuoco il programma
proposto per i generi più bassi come presentato nel Groot Schilderboeck con
quello reperibile nella letteratura artistica precedente, nonché
contestualizzandolo nell’ambito della teoria e della pratica contemporanee,
questo libro presenta de Lairesse come un autentico pioniere nel dominio della
teoria artistica. Spiegheremo come egli abbia impiegato l’antico per trasferire le qualità della pittura di
storia nei generi ad essa apparentati, ma meno importanti in maniera tale da
valorizzarli e renderli degni dell’interesse di un mecenate illuminato” (p.
9). De Vries traduce i primi sei libri dell’opera (corrispondenti al primo
volume) e tralascia i restanti sette sostenendo che sono di interesse limitato;
Žakula,
invece, parla a lungo del ritratto e della natura morta, che sono trattati
specificamente nei libri non tradotti dal suo collega. Appare subito evidente
che le differenze sono tante. In realtà – se mi posso permettere un commento
personale – mi son fatto l’idea che se de Lairesse vivesse oggi ed avesse la
passione dei social media sarebbe un influencer,
ovvero un soggetto di riferimento per l’insieme di coloro che ne condividono
gli interessi e che, per l’appunto, sono indotti a modificare i propri
comportamenti in base ai suggerimenti da lui forniti. Ma guardiamo meglio il saggio
di Žakula,
facendo prima un’osservazione: il punto di forza dell’opera è che l’autrice
mostra sempre con esempi illuminanti come era lo stato dell’arte prima del
trattato di de Lairesse e come diventa dopo il medesimo, riuscendo così a
individuare brillantemente l’influenza svolta dal medesimo, sia in termini teorici
sia in termini pratici.
Bellezza e pittura di storia
De Lairesse fu pittore di storia
molto apprezzato per le sue realizzazioni sia negli ambienti orangisti sia in
quelli dell’aristocrazia repubblicana di Amsterdam. A partire dal 1670 circa si
sviluppa negli ambienti domestici di rappresentanza del grande patriziato
olandese l’abitudine di decorare le pareti con quadri che le coprano tutte, di
grandi dimensioni, spesso realizzati a formare una serie di opere legate fra
loro. L’artista vallone costruisce la sua fortuna su questo genere di pittura
storica. Ma quando scrive, la sua parabola si è già conclusa. Nel 1690 perde la
vista, e passa gli ultimi ventuno anni della sua esistenza nella cecità.
Naturalmente il pensiero corre immediatamente all’altro grande trattatista
cieco della storia dell’arte, ovvero al lombardo Lomazzo, anche in virtù di
oggettive somiglianze quanto meno nella struttura dell’opera. In realtà si
tratta di un paragone azzardato ed è molto più realistico dire che il
classicismo che in de Lairesse si respira a pieni polmoni è quello che si è
affermato in Francia dalla metà del Seicento, che vede l’Accademia Reale di
Belle Arti dettare le regole del gusto e che ha il suo campione in Félibien. Non
sono note le circostanze che lo portarono (già cieco) a scrivere prima il
manuale nel 1701 e poi il trattato nel 1707, ma, almeno nel secondo caso, pare
che si tratti del risultato di una serie di lezioni pubbliche sull’arte tenute
presso il municipio di Amsterdam e organizzate da quello che era stato uno dei
grandi patrocinatori della sua opera artistica, Jonas Witsen.
Fatto sta che il contenuto di
quasi tutto il primo volume costituisce il nocciolo duro della teorica
dell’artista, una teoria volta (naturalmente) alla creazione del bello nell’ambito
di una visione del mondo tutta rivolta al classicismo e all’antico. Il bello di
de Lairesse non è solo un valore formale, ma anche di contenuto dell’opera, che
deve raccontare una storia che proponga valori morali chiaramente intellegibili
al pubblico (e in particolare al committente) [5]. Interessarsi del bello vuol
dire affrontare un processo di crescita personale che non è solo professionale,
ma anche personale e porta alla nobiltà dell’anima (e, con essa, della pratica
dell’arte). L’artista effettua immediatamente una scelta di campo; il bello si
identifica nell’antico (intendendo come tale non solo le statue di greci e
romani, ma anche le opere di grandi artisti di riferimento come Raffaello e
Poussin) e si studia tramite l’esame delle statue e delle stampe che
riproducono i capolavori del passato. L’antico propone l’esempio di una natura
“corretta”, ossia di un’arte che riesce a superare la natura cogliendone gli
aspetti migliori e scartandone quelli imperfetti. In quest’ambito de Lairesse fornisce
una serie di regole che – in tutta sincerità – non si discostano molto da
quelle di altri trattati che furono scritti in Italia, in Francia o in Spagna
nel corso del Seicento. La scansione delle regole avviene per estrapolazione di
singoli argomenti, a partire dalle basi, ovvero dall’insegnamento del disegno,
e quindi dalla rappresentazione della figura umana secondo determinate
proporzioni, del moto e degli affetti (l’autrice nota – rispetto ad esempio a
un Félibien o a un Hoogstraten – che lo studio della fisiognomica assume un peso
maggiore, sicuramente per via della pubblicazione del Méthode pour apprendre à dessiner les passions di Charles Le Brun
(Presidente dell’Accademia di Francia) nel 1668). Grande importanza,
naturalmente viene assegnata al decoro, alla verosimiglianza del soggetto e
alla composizione del quadro di storia, tutti aspetti fondamentali del
classicismo. Da segnalare, invece, le indicazioni relative al colore, perché
sono del tutto imprevedibili: è nel colore che la natura supera l’arte (al
contrario del disegno), e quindi ciò che bisogna fare, è imitare i colori della
natura, come fecero i grandi coloristi veneziani. Ci troviamo dunque di fronte
a un classicista che, in qualche modo a sorpresa, riconosce il valore del
colore e lo riconduce a una scuola in cui il disegno – secondo la vulgata dell’epoca – veniva in posizione secondaria.
L’apertura ai generi ‘bassi’
Senonché de Lairesse è ben
consapevole che la realtà in cui vive è un’altra: è una realtà in cui, almeno
fino al 1650, ha dominato il moderno
e il riferimento all’antico è assente. L’Olanda e le Fiandre sono famosissime
per i loro pittori di paesaggio e per l’attenzione al dettaglio, per non
parlare poi delle classiche scene ambientate fra ubriaconi nelle taverne o nei
mercati; secondo de Lairesse si tratta di un modo di dipingere che rende
schiavi della natura e confina l’artista in un mondo di ordine puramente
artigianale. Il moderno è stato declinato
in maniere diverse, a partire dalla pittura di genere (e non di storia) per scendere
secondo una scala di valori (che non è identica a quella di Félibien, o – ad
esempio – di un Mancini) che comincia col paesaggio, prosegue col ritratto e
raggiunge il gradino più basso con la natura morta. Pur esprimendo chiaramente
l’idea che la bellezza si trova nell’antico, de Lairesse (ed è questa la grande
novità secondo l’autrice) non volta le spalle ai generi ‘bassi’, ma sviluppa un
programma che da un lato permetta all’artista di migliorare e di realizzare
prodotti che, pur non facendo parte della pittura di storia, si possano
considerare belli, e dall’altro che consenta l’esibizione di opere del genere
anche accanto ai grandi set di quadri di storia che popolano le case
dell’aristocrazia olandese.
Seguendo il ragionamento di Žakula,
possiamo dire che l’artista distingue fra ciò che è eccellente, ciò che (pur
non essendolo) è tollerabile e quanto invece è improponibile. E, per chiarire,
non colloca la pittura di genere (ovvero la pittura di soggetto moderno) nella
categoria dell’improponibile. Ciò che non tollera, semmai, è la commistione
priva di senso di antico e moderno (come un Marte dormiente vestito con una
corazza contemporanea o una Sofonisba che nulla ha della tragica eroina, ma
sembra una signora dell’alta società vestita perfettamente alla moda).
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Johannes Vermeer, La lattaia, 1660 circa, Amsterdam, Rijksmuseum Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/search/objects?q=vermeer&p=1&ps=12&st=OBJECTS&ii=1#/SK-A-2344,1 |
Esiste tuttavia una maniera per
dipingere ‘alla moderna’ in maniera elegante, non dimenticando la natura nobile
ed etica della pittura (che deve deliziare e istruire). Soprattutto Žakula
fa presente che “quando si viene al lato
pratico delle cose, l’ambizione dell’autore di dare alla pittura di genere una
forma classica era già visibile in alcune tendenze manifestatesi nella pittura
olandese della seconda parte del XVI secolo, particolarmente dal 1660 in poi. In
quel periodo, eleganza e sofisticatezza vanno per la maggiore. La pittura di
genere olandese è dominata da Gerard ter Borch, che influenzò Vermeer e Pieter
de Hooch a Delft, e un certo numero di artisti di Amsterdam, fra cui Gabriel
Metsu ed Eglon van der Neer. L’altro centro della pittura di genere elegante
era Leida, dove Frans van Mieris, allievo di Gerard Dou, aveva elevato il
grande livello di finitezza descrittiva del maestro con un repertorio dedicato
alle classi socialmente abbienti” (p. 38).
Il cambiamento deriva anche da mutamenti sociali e dall’emergere di una classe alto-borghese che domanda quadri di grande eleganza formale, quella stessa eleganza a cui si ispira nella propria condotta di vita. Scrive de Lairesse: “I continui cambiamenti nelle cose del mondo ci consentono una quantità di modi per dipingere alla maniera moderna, senza fare ricorso alla storia, alle favole o agli emblemi; così tanti da essere quasi infiniti; si possono mutuare dalle assemblee pubbliche di culto, dalle memorie di Corte, dalle rappresentazioni teatrali, da occasioni familiari e così via: tutte cose che percepiamo essere maestose, amorevoli, tristi o altro. Queste cose, per quanto differenti esse siano, possono essere rappresentate nella maniera antica come in quella moderna, a patto che ognuna sia rispondente alle proprie qualità” (p. 44). Sono molto belle le pagine in cui de Lairesse spiega come un soggetto apparentemente ‘frivolo’ come la scena di un bagno familiare, con padre, madre e figli, possa essere dipinto ‘all’antica’, il che, nella sostanza, vuol dire essere dipinto non dal reale, ma facendo assumere ad ogni personaggio un atteggiamento ‘virtuoso’ mutuato dalle pose delle statue greche. E l’autrice fa notare che, pur non essendo noto nessuno che abbia dipinto una simile scena, numerosi dipinti di Willem van Mieris mostrano figure di donne ‘moderne’ che riprendono ad esempio la posa di divinità greche come Venere. Sia Willem sia Jan (che pure morì giovane) vanno senz’altro annoverati fra gli artisti che “riuscirono ad aver successo nel padroneggiare una lingua pittorica che rispondeva all’appello di de Lairesse rivolto all’uso di forme più classiche e (al contrario di Frans van Mieris [n.d.r. che era loro padre] furono capaci di fare pitture di storia secondo le sue regole” (p. 55).
Fine Parte Prima
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NOTE
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Frans van Mieris, Donna che scrive una lettera, 1680 circa, Amsterdam, Rijksmuseum Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/search/objects?q=frans+van+mieris&p=1&ps=12&st=OBJECTS&ii=6#/SK-A-261,6 |
Il cambiamento deriva anche da mutamenti sociali e dall’emergere di una classe alto-borghese che domanda quadri di grande eleganza formale, quella stessa eleganza a cui si ispira nella propria condotta di vita. Scrive de Lairesse: “I continui cambiamenti nelle cose del mondo ci consentono una quantità di modi per dipingere alla maniera moderna, senza fare ricorso alla storia, alle favole o agli emblemi; così tanti da essere quasi infiniti; si possono mutuare dalle assemblee pubbliche di culto, dalle memorie di Corte, dalle rappresentazioni teatrali, da occasioni familiari e così via: tutte cose che percepiamo essere maestose, amorevoli, tristi o altro. Queste cose, per quanto differenti esse siano, possono essere rappresentate nella maniera antica come in quella moderna, a patto che ognuna sia rispondente alle proprie qualità” (p. 44). Sono molto belle le pagine in cui de Lairesse spiega come un soggetto apparentemente ‘frivolo’ come la scena di un bagno familiare, con padre, madre e figli, possa essere dipinto ‘all’antica’, il che, nella sostanza, vuol dire essere dipinto non dal reale, ma facendo assumere ad ogni personaggio un atteggiamento ‘virtuoso’ mutuato dalle pose delle statue greche. E l’autrice fa notare che, pur non essendo noto nessuno che abbia dipinto una simile scena, numerosi dipinti di Willem van Mieris mostrano figure di donne ‘moderne’ che riprendono ad esempio la posa di divinità greche come Venere. Sia Willem sia Jan (che pure morì giovane) vanno senz’altro annoverati fra gli artisti che “riuscirono ad aver successo nel padroneggiare una lingua pittorica che rispondeva all’appello di de Lairesse rivolto all’uso di forme più classiche e (al contrario di Frans van Mieris [n.d.r. che era loro padre] furono capaci di fare pitture di storia secondo le sue regole” (p. 55).
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NOTE
[1] Lyckle de Vries, How to create beauty. De Lairesse on the theory and practice of making
art, Leiden, Primavera Press, 2011.
[2] Tijana Žakula, Reforming Dutch Art. Gerard de Lairesse on Beauty, Morals and Class,
in «Simiolus»
vol. 37 (2103-2014) Special Edition, Amsterdam 2015
[3] Lycle de Vries, How to create beauty… cit., p. 13.
[4] Lycle de Vries, How to create beauty… cit., p. 20.
[5] A puro tutolo di curiosità, va detto che il pittore
era circondato da una nomea di libertinismo che certamente male si accosta a
questo approccio “etico” alla pittura. Tale nomea era anche frutto di ignoranza
(de Lairesse divenne cieco per via della sifilide congenita con cui era nato e
che nulla c’entrava con la sifilide in senso stretto) e fu abbondantemente
richiamata dai detrattori del suo operato nell’Ottocento, come ulteriore
conferma che l’artista proponeva modelli artistici decadenti e poco morali.
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