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lunedì 20 febbraio 2017

Philips Angel. Praise of Painting [Elogio della pittura]. A cura di Michael Hoyle e Hessel Miedema



Philips Angel
Praise of Painting [Elogio della pittura]
Tradotto da Michael Hoyle, con introduzione e commento di Hessel Miedema


Sta in
Simiolus
Netherlands quarterly for the history of art
Volume 24 1996 pp. 227-258


Recensione di Giovanni Mazzaferro

Il frontespizio dell'Elogio della Pittura di Philips Angel
Fonte: http://www.johannesvermeer.info/verm/house/p-angel00intro1.htm

L'Elogio della Pittura di Philips Angel è considerato (a torto o a ragione) espressione della scuola degli artisti di Leida. Colgo l'occasione per segnalare che da qualche giorno sono disponibili grauitamente, e in alta definizione, le riproduzioni dei quadri della cosiddetta Collezione di Leida, appartenente al miliardario americano Thomas Kaplan. Le immagini sono imperdibili. Per vederle cliccate qui.

* * * 

Più volte ho scritto di quanto la Letteratura artistica di Schlosser si riveli inadeguata nel parlare delle fonti di storia dell’arte non italiane. Lo stesso autore, peraltro, precisava sin dall’inizio che proprio sui testi della nostra penisola si concentrava la sua attenzione: “anche di questo libro si può dire che esso ha per centro l’Italia, di cui soltanto volevo dapprima occuparmi” (p VII). La cosa è evidente quando, in poche righe, lo storico viennese liquida, nel capitolo dedicato a La teoria artistica del barocco nelle altre regioni, il caso dei Paesi Bassi e dell’Olanda: a parte veri e propri infortuni (l’Inleyding tot de hooge schoole der schilderkonst – Introduzione alla nobile arte della pittura, opera di Samuel van Hoogstraten è segnalata come pubblicata nel 1641, quando l’autore aveva quattrodici anni), il giudizio di Schlosser si affida a generalizzazioni prive di una loro solidità: “molto vivamente sentiamo la mancanza delle manifestazioni dirette degli artisti di questo ambiente, che nella loro estrema sobrietà, - si pensi alle poche lettere di Rembrandt, - si staccano così nettamente dall’abbondanza propria non solo dei meridionali, ma anche di un Rubens. Questi artisti dipingevano diligentemente nei loro studii, ma non parlavano ed erano mille miglia lontani dalle aspirazioni letterarie” (p. 641). In questo quadro, non stupisce che il grande storico viennese si limiti a citare l’Elogio della pittura (il titolo originale è Lof der Schilderkonst), pubblicato dall’artista Philips Angel nel 1642, come “poco significativo”.

Probabilmente avrà visto che l’Elogio cominciava con una serie di argomentazioni sulla nobiltà e antichità della pittura che lo avranno indotto a classificarlo come ripetizione non solo di opere italiane, ma anche di testi dell’Europa settentrionale ad esso precedenti.

Il problema è che il giudizio di Schlosser ha condizionato larga parte dello studio delle fonti olandesi in Italia. Non è affatto vero che gli artisti di quei luoghi non avessero ambizioni letterarie. Semplicemente, delle loro opere non sappiamo nulla. Non esistono (che io sappia) traduzioni italiane di fonti dell’Olanda se non le Vite dei pittori olandesi e tedeschi (quindi una parte soltanto del relativo Schilder-boeck) di Karel van Mander (1604 e 1618).

Frans van Mieris il Vecchio, Allegoria della Pittura, 1661, Los Angeles , Getty Center
Fonte: Google Art Project tramite Wikimedia Commons

Naturalmente un possibile approccio legato all’esame di queste fonti (oggi accessibili, almeno in parte, in lingua inglese o francese) è vedere cosa dicono di realmente nuovo. In fondo è quanto si è fatto con la letteratura artistica spagnola, concludendo che i trattati del secolo d’oro iberici erano ripetizioni di quelli italiani. Lo stesso risultato, utilizzando la medesima ottica, si avrebbe per i testi olandesi. Ma il metodo è sbagliato. Tutti (o quasi tutti) i trattati d’arte ripetono a ben vedere argomenti (come il paragone fra le arti, la nobiltà della pittura, l’antichità della sua pratica, la funzione della medesima) che sono già stati toccati da qualcun altro prima. Stupisce questo modo di fare. Quando ci poniamo di fronte a un’opera d’arte, una delle prime cose che si finisce per dire è che l’autore ha preso da un’altra opera che ha visto in un determinato posto e in un determinato viaggio. In assenza di dati d’archivio, il più delle volte, si finisce per procedere e attribuire per influenze e richiami: nessuno inventa nulla, semmai lo cambia in maniera caratteristica. Eppure, venendo alle fonti, vorremmo ‘argomenti’ sempre nuovi. Circostanza, ovviamente, impossibile.

Il vero parametro di giudizio nel valutare un testo di letteratura artistica – a mio parere – è capire in che misura esso contribuisce alla diffusione di determinate idee. Ciò che conta, insomma, è la trasmissione della conoscenza e della cultura. Contemporaneamente si tratta di capire se lo specifico testo presenta anche peculiarità proprie di chi l’ha composto e dell’ambiente in cui ha vissuto.

Gerrit Dou, Studioso che affila una penna, 1630-1635, Collezione privata
Fonte: http://www.museumkijker.nl/gerrit-dou-terug-uit-vs-leiden-rijker-dan-leermeester-rembrandt/ tramite Wikimedia Commons

L’Elogio della pittura

È ciò che cercheremo di fare con l’Elogio di Philips Angel (1618 – dopo 1664), pittore di Leida (la città natale di Rembrandt, per capirci), pittore di cui non ci rimangono quadri.  Di Angel non sappiamo moltissimo. La sua vita fu divisa in due: fu artista fino al 1643. In quella data (solo un anno dopo la redazione dell’operetta che è oggetto di questa recensione) decise di abbandonare la professione e iniziò a lavorare per la Compagnia olandese delle Indie orientali (sono noti suoi viaggi in Arabia e in Persia). In seguito ad alcuni scandali di ordine finanziario fu costretto a ritornare in patria attorno al 1656, ricoprì cariche amministrative, ricadde in accuse di peculato e nulla sappiamo di lui dopo il 1664.

Stando al testo, l’Elogio fu pronunciato di fronte ai colleghi pittori in occasione della festa di San Luca (patrono dei medesimi) il 31 ottobre 1641 e pubblicato rapidamente da Willem Christiaens a Leida (la lettera di presentazione dell’editore è del 26 febbraio 1462) “per prevenire le intenzioni malefiche di alcuni stampatori avidi di denaro, che […] hanno osato copiare, a mia insaputa e senza che ne fossi consapevole, ciò che io, col mio duro lavoro, avevo fatto per rendere noto il testo alla mia amata patria e agli appassionati” (p. 231). Lo stesso Angel afferma che l’Elogio non è altro che ‘il nucleo duro’ di un’opera più ampia a cui sta lavorando e che si ripromette di pubblicare in un prossimo futuro. Nulla sappiamo, in realtà, né di edizioni-pirata, né di un’opera successiva di Angel che, come detto, l’anno dopo si mise a lavorare per la Compagnia delle Indie.

Gerrit Dou, Donna che suona il clavicordo, 1665 circa, Londra, Dulwich Picture Gallery
Fonte: Google Art Project tramite Wikimedia Commons


Angel come espressione dei Fijnschilders?

Nell’ambito della letteratura artistica olandese, l’Elogio si è visto attribuire un ruolo importante. Si è detto, innanzi tutto, che rappresenta l’unico testo scritto da un artista non classicista: i riferimenti ripetuti a Gerrit Dou (allievo di Rembrandt) e alla necessità di imitare con attenzione la natura (senza nessun riferimento a una riproduzione selettiva della medesima), il bagaglio culturale sicuramente non elevatissimo, l’attenzione ad aspetti molto venali (l’elogio dei pittori che sanno deliziare gli occhi dei potenziali clienti, spuntando così prezzi assai elevati per i loro quadri), hanno fatto sì che Angels fosse inquadrato nei Leiden Fijnschilders, ovvero nella scuola dei pittori di Leida il cui principale esponente fu Gerrit Dou, dediti ai quadri di genere di piccolo formato e a una rappresentazione minuta della realtà. 

La bella traduzione in inglese di Michel Hoyle, accompagnata dal commentario di Hessel Miedema (mi si permetta: l’equivalente olandese di Paola Barocchi; autore di una monumentale edizione critica dello Schilder-Boeck di van Mander, di cui è disponibile in inglese solo la parte relativa ai pittori olandesi e tedeschi) permettono anche al lettore straniero di provare a capirci di più. Miedema nutre più di un dubbio che l’Elogio possa essere considerato tout-court un documento che riflette le idee artistiche della scuola di Leida. Un dato di fatto, ad esempio, è evidente: il testo non svolge considerazioni sulla pittura di genere di piccolo formato come diversa o ‘separata’ rispetto a quella di storia; e sicuramente non nega l’utilità e la necessità di quest’ultima, a cui dà largo spazio.

Gerrit Dou, Il mercante di monete, 1664 circa, Parigi, Museo del Louvre
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

L’Elogio come opera letteraria

L’aspetto che più colpisce, nell’Elogio, è che cerca di presentare secondo canoni letterariamente classici i motivi per cui la pittura deve essere tenuta nella massima considerazione, e dunque appartiene ad un genere ben preciso, ma contemporaneamente tradisce un gusto che noi oggi potremmo definire bozzettistico. L’opera si apre con la dedica dell’autore a Johan Overbeck, figlio di un grande collezionista di Leida, e prosegue, come normale per l’epoca, con tre testi poetici. Ci aspetteremmo, naturalmente, discorsi sui massimi sistemi, mentre il terzo (siglato P.P.) è un invito ai pittori della città di smettere di celebrare la festa di San Luca passando la giornata in taverna e ubriacandosi di birra, ma dando ascolto, invece, alle parole di Angel [1]. Certamente, il pubblico a cui era destinato l’Elogio non era un insieme di fini dicitori, né un’élite nobiliare di collezionisti e mecenati. Quando consiglia ai pittori di non commettere l’errore di aggiungere qualcosa di improprio ad opere altrui, praticando così un tipo di imitazione che è di danno generale per la pittura, Angel ci racconta che il caso è un po’ come quello di una scimmietta che nasconde il sedere spelacchiato sedendosi sulla mensola di un camino, ma che lo rende ben visibile non appena incomincia ad arrampicarvisi. Dubito che Bellori si sarebbe espresso in questi termini. Molto spesso, analogamente, Angel tende a esemplificare raccomandazioni sulle qualità di cui deve essere dotato il pittore dimostrando di non aver colto in pieno lo spirito delle opere da cui sta mutuando. Un caso evidente è quello di Jacob Cats (1577-1660; citato come “il nostro Omero”, fu poeta olandese di gran fama a quei tempi). Angel tende a inserire componimenti poetici di Cats all’interno del suo Elogio. Anche qui non si inventa nulla. Tuttavia, per sostenere l’idea che la pittura sia superiore alla poesia perché assicura guadagni assai più sostanziosi a chi la pratica (di per sé un argomento piuttosto strano nell’ambito di un Elogio) cita un componimento poetico di Cats in cui la bella Rodope ha sette spasimanti, ognuno dei quali pratica un mestiere diverso, e ognuno dei quali magnifica i vantaggi della propria attività per convincere la corteggiata a sceglierlo. È evidente, appena si legge il testo, che il poema ha un significato assolutamente ironico (il pittore è di fatto un pallone gonfiato) che Angel non coglie affatto e che ripropone con la massima serietà.

Frans vam Mieris il vecchio, Duetto, 1658, Staatliches Museum Schwerin
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

Radici classiche condivise in un’Europa divisa dalle religioni

Sicché, onestamente, la prima cosa che mi viene da pensare è che l’Elogio non sia un’opera sulla pittura di genere o sulla pittura ‘bassa’, a seconda di come vogliamo chiamarla, ma un’opera di livello letterario basso sulla pittura. Mi permetto di far presente subito che questa non è una stroncatura. Anzi, semmai ne moltiplica l’interesse, perché di fatto, nella letteratura artistica, non ne conosciamo di simili. Non conosciamo cioè pittori di cultura medio-bassa che si rivolgono a colleghi anch’essi privi di un bagaglio culturale adeguato. E però, se accettiamo quest’ipotesi, possiamo capire quanto sia importante l’Elogio per convogliare messaggi ‘alti’ (messaggi come la nobiltà della pittura, l’invenzione, la composizione) a un pubblico ‘popolare’. In questo senso vorrei soffermarmi sulla prima parte dell’opera. Vi troviamo argomenti che Angel trae dallo Schilder-boeck di van Mander o dal De Pictura Veterum di Junius. Quando si fa riferimento all’antichità, di fatto ad essere citati indirettamente sono aneddoti legati all’Historia naturalis di Plinio. Si dirà che noi li conosciamo bene; forse a un gruppo di pittori avvinazzati di Leida potevano essere sconosciuti. È anche tramite testi come questi che l’Europa dei pittori condivide messaggi di provenienza classica che, semmai, declina in maniera diversa. Vorrei fare un esempio parlando della potenza delle immagini. Vediamo tre scrittori che ne parlano fra 1582 e 1642:

  • il cardinal Paleotti, nel suo celebre Discorso sulle immagini sacre eprofane (1582) cita varie fonti (si dimentica di Aristotele, ma chiama in causa Plutarco e Plinio) secondo cui una donna poteva partorire un figlio di colore (“etiope”) semplicemente perché vicino al suo letto si trovava una statua del genere, o ancora, secondo cui il marito che voleva avere un bel figlio regalava alla moglie un ritratto di un bimbo piccolo e grazioso [2]. La potenza delle rappresentazioni artistiche è declinata in un ambito totalmente controriformato, non a caso all'interno di un capitolo che si intitola ‘Effetti diversi prodotti dalle immagini pie e devote’ e stigmatizza la capacità di quadri o statue di intervenire direttamente sulla generazione di un figlio; naturalmente Paleotti ammette solo immagini che siano assolutamente fedeli alla dottrina cattolica romana;
  • attorno al 1620 Giulio Mancini, medico del Papa, scrive le Considerazioni sulla pittura, che mai verranno stampate, ma che avranno – come noto – una vivace circolazione manoscritta in cui ricorre allo stesso principio fondativo (ovvero alla potenza sprigionata dell’immagine) per ammettere la tutela dei quadri a soggetto lascivo totalmente condannati da Paleotti. Mancini, da medico, sostiene che, se collocate nei luoghi in cui marito e moglie giacciono insieme, le immagini lascive giovano “all’eccitamento e a far figli belli, sani e gagliardi”;
  • nel 1642 a Leida, un uomo come Angel, che non ha certo le conoscenze teologiche di Paleotti o la raffinatezza del collezionista di un Mancini, e che per di più vive in un’area, quella olandese, in cui è vietato il culto delle immagini secondo i principi della riforma calvinista, espone ai suoi colleghi (forse anche di bevute) lo stesso concetto, citando un poema del solito Cats, in cui la castità di una donna è messa in dubbio fino a quando non si scopre che essa dorme accanto a una statua di un bambino bellissimo.

L’Europa è divisa, si combatte in nome di religioni diverse, ma le radici dell’arte sono comuni e risalgono al mondo della classicità. Non si deve trascurare il ruolo di opere ‘minori’ come quella di Angel nel diffondere questi concetti.

Frans van Mieris il vecchio, Scena di bordello, 1658, L'Aja, Royal Picture Gallery Mauritshuis
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

Aspetti specifici dell’Elogio

Nella seconda parte della sua operetta Angel prova a delineare le qualità di cui deve godere il pittore ideale. Trascrivo traducendo dall’edizione inglese di Hoyle: “deve avere una saggia capacità di giudizio, mano sicura e affidabile nel disegno, gran talento nel mettere insieme fra loro gli oggetti in modo naturale, capacità di invenzione, capacità di collegare luci e ombre, buona osservazione delle peculiarità della natura, buona comprensione della prospettiva, eguale esperienza nella conoscenza delle storie, accompagnata da capacità di riflessione profonda basata su ampie letture e sullo studio. Deve avere anche alcune conoscenze dei principi matematici. Questo pittore dovrebbe avere una comprensione completa dell’anatomia, cercare di imitare la natura invece della maniera di un altro maestro, sapere come dipingere con colori corposi, distinguere fra le lane, i vestiti di lino e quelli di seta, e infine avere una pennellata fluente, ma delicata” (p. 242). Di per sé, nessuno di questi requisiti è una novità. In alcuni casi le successive spiegazioni sono talmente elementari (è il caso, ad esempio, della prospettiva) da rasentare la natura di informazioni date a persone del tutto profane della pittura. In altri sembrano configurare, effettivamente, alcune delle prerogative tipiche della scuola di Leida. È il caso, partendo proprio dalla fine, della pennellata fluente, ma delicata, propria di Dou e dei suoi discepoli; e, ancora, della particolare attenzione con cui il pittore deve rendere la preziosità e le differenze fra i tessuti. Quest’ultimo aspetto sembra richiamare la resa mimetica e analitica della realtà. E, in effetti, parlando di ‘buona osservazione delle peculiarità della natura’  Angel scrive “molti potrebbero trovare strano che io inserisca un legame all’osservazione delle cose naturali e reali nella catena dell’arte della pittura [n.d.r. per Angel la pittura è una catena composta da tanti anelli che si tengono tutti insieme], ma non dubito che la spiegazione che fornirò per chiarire le mie ragioni vi farà soddisfatti e vi farà essere d’accordo con me. Ho notato spesso […] un errore molto grave commesso sia (lo dico col massimo rispetto) dai maestri più grandi e riveriti sia dai meno famosi. Il semplice motivo che sta alla base di ciò sta nel fatto che essi non osservano il reale, gli oggetti naturali da vicino” (p. 244). La premessa lascerebbe presagire chissà che, ma in sostanza porta all’osservazione che i pittori dipingono cavalli al galoppo che trainano carri in cui le ruote sono ferme. Esaurito questo specifico esempio, ne viene affrontato un secondo, rivolto a coloro che dipingono i posti di guarda dei soldati. La raccomandazione è di includere nei loro dipinti una figura che fumi il tabacco, qualcuno che si stia infilando l’armatura, e ancora persone sedute, che lanciano i dadi o giocano a carte. Cosa vuol dire tutto ciò? È sufficiente per dire che Angel si schiera per la pittura di genere di piccolo formato, per una natura imitata senza ritocchi o idealizzazioni? Condivido le perplessità di Miedema in proposito, anche se è chiaro che alcuni aspetti, alcune parole, sembrano portare in quella direzione. Più che una scelta ‘ideologica’ sembra tuttavia una maggiore dimestichezza con una tipologia di quadri più rapidi da realizzare e più facili da vendere, specie quando il pittore riesca a suscitare nel compratore quella specie di incantamento che, di fatto, ha segnato l’enorme rivalutazione del genere in tutta Europa a partire dal XIX secolo.


NOTE

[1] Miedema fa notare (p. 251) che la festa doveva essere ormai una celebrazione ‘laica’. La Gilda di San Luca aveva probabilmente perso la sua vitalità in seguito alla riforma calvinista. Ai pittori non restava che rispettare una tradizione concedendosi bevute più abbondanti del solito. A me non è personalmente chiaro se Miedema intenda dire che la Gilda fu chiusa perché non era il caso che fosse intitolata a un santo, o se invece a giocare un ruolo era la scelta iconoclasta del calvinismo.  

[2] Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre eprofane (1582), Libreria Editrice Vaticana, p. 81.

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