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mercoledì 1 febbraio 2017

Giulio Mancini. Considerazioni sulla pittura. A cura di Adriana Marucchi e Luigi Salerno. Parte Seconda


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Giulio Mancini
Considerazioni sulla pittura

Pubblicate per la prima volta da Adriana Marucchi con il commento di Luigi Salerno

Due volumi, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956-1957

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda


Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601, Londra, National Gallery
Fonte: Wikimedia Commons
Generi di pittura

Nella suddivisione per generi, Mancini presenta una gerarchia non nuova, che vede in cima ad ogni cosa la pittura di storia, poi il ritratto e infine il paesaggio. Con qualche sorpresa e qualche complicazione. Ci sono, ad esempio, due tipi di ritratti: quello semplice, ‘senza azione e et espressione d’affetto’, e quello invece con ‘espressione d’affetto’. Il compito del primo è puramente mimetico: “et questo non esprime altro che la grandezza, proportione e similitudine della cosa che inmita, con colore et altro che costituisce quel tal essere” (vol. I, p. 115): la natura, dunque, che va colta, capita e migliorata, non ha ragione d’essere nel caso del ritratto ‘semplice’ dove non conta l’aspetto ideale, ma quello meramente reale. È, in qualche modo (come scrive Salerno nel suo commento) la rivincita del ‘brutto’ (Mancini vuole che un individuo sfregiato sia rappresentato con il suo sfregio), che esce dalla porta del bello ideale e rientra dalla finestra del ritratto ‘senza espressione d’affetto’. Con un’avvertenza subito successiva: per capire se un ritratto ‘semplice’ sia fatto bene o fatto male, a contare è il giudizio degli ‘ignoranti’: se lo apprezzano, allora va benissimo. La gente che non si intende di disegno non può che esprimere giudizi su aspetti puramente realistici, ed è incapace di intendere la nobiltà della pittura.

Credo sia importante rileggere le righe che Mancini dedica al paesaggio di storia. Scusandomi coi lettori più esigenti, lo farò parafrasando l’originale ed aggiornandolo a un linguaggio più moderno. Il paesaggio di storia costituisce il nucleo fondante dell’estetica manciniana (pp. 117): “Segue ora la storia, che è una rappresentazione di un’azione fatta da più persone; tutte le figure, o in un modo o in un altro concorrono e servono alla storia […]. Nella storia prima si considera il sito o luogo dove si svolse, il periodo in cui fu fatta, la luce, la figura principale (una o più che esse siano), con quelle ad essa subordinate, nelle quali si devono considerare la verosimiglianza, l’affetto, il costume, il decoro e la grazia, il tutto espresso tramite l’azione, la postura e l’espressione, mettendo insieme tutte queste cose per esprimere e rappresentare l’azione di qualsivoglia figura facente parte della storia, in maniera tale che, prendendo in considerazione la figura principale (una o più che esse siano), questa deve essere tale che (quanto al sito e luogo), vista immediatamente, sia riconosciuta come essere appunto a capo dell’azione espressa e dipinta”. Mancini non inventa nulla. Afferma che il quadro di storia (che – lo ricordo per chi potesse essere in dubbio – ai suoi tempi è fondamentalmente un quadro d’arte sacra) dev’essere chiaro, immediatamente riconoscibile nell’azione rappresentata a chi lo vede. E in base all’appropriatezza delle figure (la loro espressione, i loro costumi, il loro essere funzionali all’azione principale) definisce successivamente la bellezza, la grazia, il decoro, la proporzione e così via.

Insisto su questo punto perché, in tutta onestà, quando si parla di Mancini si tende a dire che è un precursore, il primo a codificare il collezionismo, un uomo che sotto molti punti di vista ha superato il manierismo (si pensi alla linea serpentinata) e ha posto le basi per la teoria del bello ideale che impregnerà il classicismo barocco del Seicento. Tutto vero. Preferisco tuttavia stare con Luigi Salerno e parlare di uomo di transizione, di un uomo che non si inventa niente e non tanto perché sia di gusto manierista, ma perché mi sembra evidente che molti dei concetti che esprime nel suo libro derivano direttamente da precetti controriformati. Cercherò di esaminarne alcuni.

Caravaggio, Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, 1602, Roma, Palazzo Barberini
Fonte: Wikimedia Commons

Mancini e la Controriforma

A me, lo dico subito, le Considerazioni sulla Pittura ricordano molto il Discorso intorno alle immagini sacre e profane del Cardinal Gabriele Paleotti (1582), che Mancini non cita mai, e che probabilmente non ha letto. Ciò non toglie che il Discorso di Paleotti possa in molti casi aver creato un humus che è quello su cui poi Mancini si fonda (salvo svincolarsene quando gli fa comodo). Innanzi tutto non vi è dubbio che il Discorso di Paleotti (notoriamente rimasto incompleto) condivida con le Considerazioni la struttura tassonomica: in questo caso si tratta di passare in rassegna le immagini sacre, additare quelle che sono rappresentate in maniera non corretta e censurarle. Il primo criterio a cui ci si attiene, in questo esame, è quello della rappresentazione verosimile; Mancini non fa che ripeterlo nella sua definizione di pittura di storia. Un altro elemento fondamentale è che la rappresentazione sacra deve essere chiara e immediatamente comprensibile al fedele; ancora una volta un concetto ampiamente ripreso dal senese. Il tutto perché l’immagine esercita un immenso potere nei confronti di chi la guarda, può ‘dilettare, insegnare e commuovere’, lo può spingere a commettere azioni giuste ed ingiuste, lo può salvare o lo può dannare. Quando Mancini, a proposito del modo di collocare le pitture, dice che vanno collocate in posti diversi “rispetto al costume et affetti che possono indurre nell’essere riguardate” (vol. I, p. 142) sta sostenendo esattamente la stessa cosa.  Né si può pensare che i riferimenti alla querelle se Cristo crocefisso vada rappresentato con tre o quattro chiodi, alla Sindone torinese o alle immagini miracolose non siano riflessi della dottrina controriformata. Sono gli stessi riferimenti che troviamo anche nell’Armenini, nel Lomazzo, in Romano Alberti e nelle Dicerie sacre di Giovan Battista Marino (1614). Dio è inserito nel ‘ruolo’ (ovvero nell’elenco) dei pittori di Mancini esattamente come Giotto o Raffaello.

Annibale Carracci, Assunzione della Vergine, 1600, Roma, Santa Maria del Popolo, Cappella Cerasi
Fonte: Wikimedia Commons

Per fortuna, pur partendo da una base teologica che è di fatto uguale per tutti i trattatisti di fine ‘500 e di inizio ‘600 (e che di per sé non contiene alcuna bocciatura del manierismo a favore del classicismo), Mancini è un vero ‘dilettante’ dell’arte, ed esprime questa sua passione (che oggi sappiamo essere stata declinata anche in senso commerciale) condannando la distruzione delle opere d’arte e trovando una loro utilità anche alle più esecrabili in termini morali: “Pertanto santamente è stato vietato per editto che non si possa publicar [n.d.r rendere pubblica] pittura non considerata prima dai superiori, ma però in questo non mi piace quella gran regidità del Savonarola che fece brusciare in Fiorenza tante pitture […] Che qui in Roma nelle Chiese per tai rispetti si riservano delle gentilità [n.d.r. si conservano opere degli antichi romani, ovvero dei Gentili]… oltre che, se si abrugiassero le pitture antiche che sono perfette, i pittori moderni non potrebbero imparar  a far l’immagine per la nostra religioneOnde che Pio V [n.d.r. il Papa della Controriforma per eccellenza, eletto nel 1566]… lasciò nel Palazzo Vaticano le deità antiche, ancorchè con qualche lascivia” (p. 142). E quando si trova a scontrarsi coi casi più spinosi (quelli delle immagini lascive) Mancini non esita a tirare in ballo anche la sua esperienza di medico per giustificarne l’utilità. Parlando infatti di tali immagini e della collocazione da attribuir loro nella casa del collezionista, Mancini non esita a scrivere: “E simil pitture lascive in simil luoghi dove si trattenga con sua consorte sono a proposito, perché simil veduta giova assai all’eccitamento et al far figli belli, sani e gagliardi… perché l’uno e l’altro parente, per simil veduta [n.d.r. ovvero, guardando l’immagine] imprimono nel lor seme, come in parte propria, una simil costitution come s’è impressa per la veduta di quell’oggetto e figura” (p. 143). Ancora una volta si torna alla potenza dell’immagine. L'argomento, in realtà, deriva addirittura da fonti greche, ma se con Paleotti era fondamentale per bocciare le immagini lascive, qui addirittura si attribuisce a tali opere il potere terapeutico di far nascere figli sani, e belli. Mancini usa argomenti controriformati manipolandoli per giustificare proprio i quadri che erano oggetto degli strali delle religione.

Sta qui, credo, la reale importanza di leggere per intero le Considerazioni sulla pittura, e di non limitarsi a citarne gli estratti più celebri (gli aneddoti su Caravaggio, su Annibale e quant’altro); sta nella volontà di Mancini di accogliere e accettare tutti i generi di quadri, in quanto opere d’arte, e in quanto collezionista delle medesime. Da qui l’esigenza di procedere a una classificazione di tutti gli operatori che hanno operato od operano a Roma (cade l’antica consuetudine di limitare le biografie agli artefici morti, e compaiono anche i giovani Poussin e Pietro da Cortona) comprendendo anche gli artisti stranieri  (un compito improbo, tanto che l’autore finisce genericamente per indicare fra il ‘ruolo’ dei pittori “Molti franzesi e fiammenghi che vanno e vengono non li si puol dar regola” (vol. I, p. 97) [3].

Adam Elsheimer, Fuga in Egitto, 1609, Monaco, Alte Pinakothek
Fonte: Wikimedia Commons

Dilettanti vs. pittori

Come noto, la prima preoccupazione di Mancini (sin dall’introduzione) è di accreditare il ‘dilettante’ come l’unico in grado di giudicare correttamente sull’opera d’arte, al contrario dell’artista. La sfiducia nei confronti dell’artefice è espressa non solo riguardo ai giudizi che esprime sulla propria opera, ma anche su quella dei colleghi. Il motivo per cui un artista non può essere buon giudice è (a parte questioni di maggiore o minore coinvolgimento personale) la sua ‘fantasia’. Il concetto di ‘fantasia’ non è ben delineato (e del resto Mancini non è un filosofo), ma ha a che fare col ‘furor dell’operare’ che è riconosciuto all’artista, a causa del quale “la fantasia è talmente vistita ed imbeverata… che dall’intelletto d’esso non ne può esser spogliata né corretta, come avvien ancora d’altri [sic] impressioni per le quali alle volte sopravvengono delle pazzie”. Senza saperlo, Mancini ha dato una definizione straordinariamente romantica dell’essere artisti, e straordinariamente moderna: chi non potrebbe facilmente riferire una definizione di questo tipo, ad esempio, a un Van Gogh? Ma la sua arte si nutre a tal punto di bello ‘ideale’, di natura corretta e resa più bella, che finisce per svilire proprio quest’elemento romantico. L’inadeguatezza del ‘furor dell’operare’ si rivela in due fasi. La prima è quella della progettazione dell’opera, in cui il programma iconografico deve essere concordato (se non progettato) da letterati: “onde il Caro insegnò la composition dell’historia, decoro e costume per le pitture di Caprarola, a Taddeo Zuccharo…, l’Aretino a Tiziano per la pittura della Fama da farsi per la Maestà di Carlo V, et il Bembo a Raffaello per il Vatticano” (Vol. I, pp. 6-7). La seconda fase è, appunto, quella del giudizio: “perché della pittura avviene come l’altre cose che altro è il farle altro è l’usarle” (Vol. I, p. 6). E qui potremmo tornare all’esempio delle pitture lascive di cui si parlava prima: una volta fatte, il giudizio comporta il fatto che si sappia in che contesto proporle; occorre, insomma, ‘intelletto’. L’intelletto è proprio del ‘dilettante’, un uomo ‘che sappia disegnare’ (a mio parere, semplificando, che sappia le cose del disegno) ma che non necessariamente deve usare il pennello: “basta solo un buon giudizio ammaestrato con aver visto più pitture e da per sé e col giuditio di più intendenti, e con la similitudine poi, equalità o inequalità giudicar delle altre” (p. 7). Secondo Luigi Salerno (e non si può che convenirne) una rivendicazione di questo tipo apre le porte a una lettura contenutistica (all’interpretazione del decoro e della moralità del contenuto) e non stilistica delle opere; apre le porte cioè a una tendenza che impregnerà di sé i secoli successivi. Va pur detto che se queste sono le affermazioni teoriche del Mancini, il prosieguo del trattato (ad esempio, con l’individuazione degli stili imperanti a fine Cinquecento) sembra in qualche smentirle o, comunque, ridimensionarle fortemente. Il medico senese pare insomma semplicemente alla ricerca del maggior numero possibile di argomentazioni che legittimino la sua figura di ‘dilettante’.

Paul Brill, Vista del Foro Romano con le colonne del Tempio di Castore e Polluce e la Basilica Adriana
, 1600, Dresda, Gemäldegalerie
Fonte: Wikimedia Commons

Regole per comprare, collocare e conservare le pitture

Quella che Adriana Marucchi isola come decimo capitolo della prima parte dell’opera (ovvero le Regole per comprare, collocare e conservare le pitture) è senza dubbio una delle sezioni che ha suscitato il maggior interesse degli studiosi. Personalmente (essendo cose molto note) vorrei rammentare solo gli aspetti dedicati alla collocazione delle opere. Il criterio ispiratore, ancora una volta, è che le opere siano disposte “rispetto al costume et affetti che possono indurre nell’essere riguardate” (Vol. I, p. 142). Ciò premesso, è ovvio che Mancini tenga a riferimento la realtà dei grandi palazzi romani. La prima raccomandazione è relativa ai disegni e alle stampe: “dei disegni a mano ne farà libri destinti secondo le materie, tempi, grandezza di foglio, nationi e modo di disegni, s’a a penna, lapis e carbone, acquerella, chiaro scuro, tenta ad olio, così ancora nei disegni di taglio [n.d.r. le incisioni], che così sarà padrone di mostrarli e farli godere con gusto dei riguardanti” (p. 143). La Roma del Seicento è la Roma che conosce il trionfo delle stampe e dei disegni; in tutta onestà non posso leggere queste righe senza pensare al cosiddetto ‘museo cartaceo’ di Cassiano dal Pozzo (sia pure per buona parte successivo alle parole di Mancini) o all'attività di Padre Sebastiano Resta (altrettanto successiva).


Lavinia Fontana, Autoritratto al clavicordo con domestica, 1577, Roma, Accademia di San Luca
Fonte: Wikimedia Commons


Per quanto riguarda le pitture, la distinzione fondamentale è fra quelle da esporre in luoghi ‘pubblici’, ovvero a cui abbiano accesso gli ospiti, e negli appartamenti privati. Si è già detto delle pitture lascive, che trovano la loro perfetta sistemazione nei luoghi in cui il ‘principe’ si intrattiene con la moglie; luoghi diversi – sia chiaro – dalle vere e proprie camere da letto, destinate a contenere le immagini di Cristo, della Vergine e dei santi. Vasi antichi, frammenti di affreschi, tarsie sono consigliabili negli studioli. Quadri ‘d’attion civili, o di pace o di guerra’ (ovvero quadri storici, ma di soggetto profano) nelle sale e nelle anticamere degli spazi ove si ricevono ospiti, alla stessa maniera dei ritratti di papi, cardinali, re e imperatori. In questi stessi ambienti possono trovare la loro collocazione opere a soggetto simbolico in genere destinate a consacrare la grandezza della famiglia, come imprese ed emblemi. Nelle gallerie (intendendo come tali i luoghi di passaggio) i paesaggi e le cosmografie (impossibile che Mancini non conoscesse la galleria delle carte geografiche in Vaticano). Per tutto il resto, se vi fosse abbastanza spazio, “si potrà fare una galleria in luogo commodo… et in quella si porran tutte le pitture che saranno avanzate alle sale e camere, e collocarle secondo le materie, il modo del colorito, il tempo nel quale sono state fatte e della schuola secondo la quale sono state condotte” (p. 144). Qui Mancini sembra proporre una doppia soluzione espositiva: una prima rispetta l’ordinamento cronologico delle opere, e nell’ambito di tale ordinamento, una gerarchia per scuole e per generi: “Et perché nelle pitture sono stati notati i secoli rinascente, buono, perfetto, declinante, pertanto, supposti i siti dove si devon collocare le pitture particolari, si dovranno collocare prima le più antiche, osservando al possibile i lumi convenienti e li spatj per le grandezze delle pitture, e fra queste prima le tramontane [n.d.r. le straniere], poi le lombarde, poi le toscane e romane, perché in questo modo lo spettatore con più facilità potrà vedere e godere e, doppo haver visto e goduto, reservare nella memoria le pitture viste”. Poi cambia idea, o, meglio, propone una soluzione alternativa, che sembra gradire di più: “Ma non vorrei […] che fosse messa insieme la medessima schuola e maniera […], ma vorrei che si tramezzassero [n.d.r. che si alternassero] con altre maniere e schuole del medesimo secolo, perché in questo modo, per la varietà, deletteranno più” (p. 145).

Entrambe le soluzioni, in ultima istanza, sembrano avere in mente più la fruizione delle opere da parte del pubblico dei visitatori che quella del proprietario; entrambe si sviluppano in senso cronologico. La prima, suddivisa per scuole, sembra preferire lo scopo didattico dell’esposizione (offrendo a chi osservi maggior capacità di ricordare le opere viste), la seconda, invece, è volta a suscitare ‘diletto’ tramite la ‘varietà’ assicurata dall’alternarsi delle scuole, ma sempre nell’ambito di uno stesso secolo. Si è discusso e si discuterà sempre su quanto queste proposte fossero ‘realistiche’: i dati vanno incrociati non solo con gli inventari, ma coi pochissimi documenti che permettono di ricostruire la dislocazione dei quadri nelle antiche gallerie del Cinque e Seicento romano. Quello che è certo è che Mancini avanza proposte tarate sullo spettatore e, in questo senso, anticipa aspetti legati alla storia dei musei.


NOTE

[3] Sul tema della presenza di artisti stranieri a Roma (sia pur in tempi precedenti rispetto a Mancini) si veda Nicole Dacos, Viaggio a Roma. I pittori europei nel ‘500. Milano, Jaca Book, 2012.

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