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Giulio Mancini
Considerazioni sulla pittura
Pubblicate per la prima volta da Adriana Marucchi con il commento di Luigi Salerno
Due volumi, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956-1957
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
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Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601, Londra, National Gallery Fonte: Wikimedia Commons |
Generi di pittura
Nella suddivisione per generi,
Mancini presenta una gerarchia non nuova, che vede in cima ad ogni cosa la
pittura di storia, poi il ritratto e infine il paesaggio. Con qualche sorpresa
e qualche complicazione. Ci sono, ad esempio, due tipi di ritratti: quello
semplice, ‘senza azione e et espressione d’affetto’, e quello invece con ‘espressione
d’affetto’. Il compito del primo è puramente mimetico: “et questo non esprime altro che la grandezza, proportione e
similitudine della cosa che inmita, con colore et altro che costituisce quel
tal essere” (vol. I, p. 115): la natura, dunque, che va colta, capita e
migliorata, non ha ragione d’essere nel caso del ritratto ‘semplice’ dove non
conta l’aspetto ideale, ma quello meramente reale. È, in qualche modo (come scrive
Salerno nel suo commento) la rivincita del ‘brutto’ (Mancini vuole che un
individuo sfregiato sia rappresentato con il suo sfregio), che esce dalla porta
del bello ideale e rientra dalla finestra del ritratto ‘senza espressione
d’affetto’. Con un’avvertenza subito successiva: per capire se un ritratto
‘semplice’ sia fatto bene o fatto male, a contare è il giudizio degli ‘ignoranti’:
se lo apprezzano, allora va benissimo. La gente che non si intende di disegno
non può che esprimere giudizi su aspetti puramente realistici, ed è incapace di
intendere la nobiltà della pittura.
Credo sia importante rileggere le
righe che Mancini dedica al paesaggio di storia. Scusandomi coi lettori più
esigenti, lo farò parafrasando l’originale ed aggiornandolo a un linguaggio più
moderno. Il paesaggio di storia costituisce il nucleo fondante dell’estetica
manciniana (pp. 117): “Segue ora la storia, che è una rappresentazione di
un’azione fatta da più persone; tutte le figure, o in un modo o in un altro
concorrono e servono alla storia […]. Nella storia prima si considera il sito o
luogo dove si svolse, il periodo in cui fu fatta, la luce, la figura principale
(una o più che esse siano), con quelle ad essa subordinate, nelle quali si
devono considerare la verosimiglianza, l’affetto, il costume, il decoro e la
grazia, il tutto espresso tramite l’azione, la postura e l’espressione,
mettendo insieme tutte queste cose per esprimere e rappresentare l’azione di
qualsivoglia figura facente parte della storia, in maniera tale che, prendendo
in considerazione la figura principale (una o più che esse siano), questa deve
essere tale che (quanto al sito e luogo), vista immediatamente, sia
riconosciuta come essere appunto a capo dell’azione espressa e dipinta”.
Mancini non inventa nulla. Afferma che il quadro di storia (che – lo ricordo
per chi potesse essere in dubbio – ai suoi tempi è fondamentalmente un quadro
d’arte sacra) dev’essere chiaro, immediatamente riconoscibile nell’azione
rappresentata a chi lo vede. E in base all’appropriatezza delle figure (la loro
espressione, i loro costumi, il loro essere funzionali all’azione principale)
definisce successivamente la bellezza, la grazia, il decoro, la proporzione e
così via.
Insisto su questo punto perché,
in tutta onestà, quando si parla di Mancini si tende a dire che è un
precursore, il primo a codificare il collezionismo, un uomo che sotto molti
punti di vista ha superato il manierismo (si pensi alla linea serpentinata) e
ha posto le basi per la teoria del bello ideale che impregnerà il classicismo
barocco del Seicento. Tutto vero. Preferisco tuttavia stare con Luigi Salerno e
parlare di uomo di transizione, di un uomo che non si inventa niente e non
tanto perché sia di gusto manierista, ma perché mi sembra evidente che molti
dei concetti che esprime nel suo libro derivano direttamente da precetti
controriformati. Cercherò di esaminarne alcuni.
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Caravaggio, Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, 1602, Roma, Palazzo Barberini Fonte: Wikimedia Commons |
Mancini e la Controriforma
A me, lo dico subito, le Considerazioni sulla Pittura ricordano
molto il Discorso intorno alle immagini sacre e profane del Cardinal Gabriele Paleotti (1582), che Mancini non cita
mai, e che probabilmente non ha letto. Ciò non toglie che il Discorso di Paleotti possa in molti casi
aver creato un humus che è quello su
cui poi Mancini si fonda (salvo svincolarsene quando gli fa comodo). Innanzi
tutto non vi è dubbio che il Discorso
di Paleotti (notoriamente rimasto incompleto) condivida con le Considerazioni la struttura tassonomica:
in questo caso si tratta di passare in rassegna le immagini sacre, additare
quelle che sono rappresentate in maniera non corretta e censurarle. Il primo
criterio a cui ci si attiene, in questo esame, è quello della rappresentazione
verosimile; Mancini non fa che ripeterlo nella sua definizione di pittura di
storia. Un altro elemento fondamentale è che la rappresentazione sacra deve
essere chiara e immediatamente comprensibile al fedele; ancora una volta un
concetto ampiamente ripreso dal senese. Il tutto perché l’immagine esercita un
immenso potere nei confronti di chi la guarda, può ‘dilettare, insegnare e
commuovere’, lo può spingere a commettere azioni giuste ed ingiuste, lo può
salvare o lo può dannare. Quando Mancini, a proposito del modo di collocare le
pitture, dice che vanno collocate in posti diversi “rispetto al costume et affetti che possono indurre nell’essere
riguardate” (vol. I, p. 142) sta sostenendo esattamente la stessa cosa. Né si può pensare che i riferimenti alla querelle se Cristo crocefisso vada
rappresentato con tre o quattro chiodi, alla Sindone torinese o alle immagini
miracolose non siano riflessi della dottrina controriformata. Sono gli stessi
riferimenti che troviamo anche nell’Armenini, nel Lomazzo, in Romano Alberti e
nelle Dicerie
sacre di Giovan Battista Marino (1614). Dio è inserito nel ‘ruolo’
(ovvero nell’elenco) dei pittori di Mancini esattamente come Giotto o
Raffaello.
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Annibale Carracci, Assunzione della Vergine, 1600, Roma, Santa Maria del Popolo, Cappella Cerasi Fonte: Wikimedia Commons |
Per fortuna, pur partendo da una
base teologica che è di fatto uguale per tutti i trattatisti di fine ‘500 e di
inizio ‘600 (e che di per sé non contiene alcuna bocciatura del manierismo a
favore del classicismo), Mancini è un vero ‘dilettante’ dell’arte, ed esprime
questa sua passione (che oggi sappiamo essere stata declinata anche in senso
commerciale) condannando la distruzione delle opere d’arte e trovando una loro
utilità anche alle più esecrabili in termini morali: “Pertanto santamente è stato vietato per editto che non si possa
publicar [n.d.r rendere pubblica] pittura
non considerata prima dai superiori, ma però in questo non mi piace quella gran
regidità del Savonarola che fece brusciare in Fiorenza tante pitture […] Che qui in Roma nelle Chiese per tai
rispetti si riservano delle gentilità [n.d.r. si conservano opere degli
antichi romani, ovvero dei Gentili]… oltre
che, se si abrugiassero le pitture antiche che sono perfette, i pittori moderni
non potrebbero imparar a far l’immagine
per la nostra religione … Onde che
Pio V [n.d.r. il Papa della Controriforma per eccellenza, eletto nel 1566]…
lasciò nel Palazzo Vaticano le deità
antiche, ancorchè con qualche lascivia” (p. 142). E quando si trova a
scontrarsi coi casi più spinosi (quelli delle immagini lascive) Mancini non
esita a tirare in ballo anche la sua esperienza di medico per giustificarne
l’utilità. Parlando infatti di tali immagini e della collocazione da attribuir
loro nella casa del collezionista, Mancini non esita a scrivere: “E simil pitture lascive in simil luoghi dove
si trattenga con sua consorte sono a proposito, perché simil veduta giova assai
all’eccitamento et al far figli belli, sani e gagliardi… perché l’uno e l’altro
parente, per simil veduta [n.d.r. ovvero, guardando l’immagine] imprimono nel lor seme, come in parte
propria, una simil costitution come s’è impressa per la veduta di quell’oggetto
e figura” (p. 143). Ancora una volta si torna alla potenza dell’immagine. L'argomento, in realtà, deriva addirittura da fonti greche, ma se con Paleotti era fondamentale per bocciare le immagini
lascive, qui addirittura si attribuisce a tali opere il potere terapeutico di far nascere
figli sani, e belli. Mancini usa argomenti controriformati manipolandoli per
giustificare proprio i quadri che erano oggetto degli strali delle
religione.
Sta qui, credo, la reale
importanza di leggere per intero le Considerazioni
sulla pittura, e di non limitarsi a citarne gli estratti più celebri (gli
aneddoti su Caravaggio, su Annibale e quant’altro); sta nella volontà di
Mancini di accogliere e accettare tutti i generi di quadri, in quanto opere
d’arte, e in quanto collezionista delle medesime. Da qui l’esigenza di
procedere a una classificazione di tutti gli operatori che hanno operato od
operano a Roma (cade l’antica consuetudine di limitare le biografie agli
artefici morti, e compaiono anche i giovani Poussin e Pietro da Cortona) comprendendo
anche gli artisti stranieri (un compito
improbo, tanto che l’autore finisce genericamente per indicare fra il ‘ruolo’
dei pittori “Molti franzesi e fiammenghi
che vanno e vengono non li si puol dar regola” (vol. I, p. 97) [3].
Dilettanti vs. pittori
Come noto, la prima
preoccupazione di Mancini (sin dall’introduzione) è di accreditare il
‘dilettante’ come l’unico in grado di giudicare correttamente sull’opera
d’arte, al contrario dell’artista. La sfiducia nei confronti dell’artefice è
espressa non solo riguardo ai giudizi che esprime sulla propria opera, ma anche
su quella dei colleghi. Il motivo per cui un artista non può essere buon
giudice è (a parte questioni di maggiore o minore coinvolgimento personale) la
sua ‘fantasia’. Il concetto di ‘fantasia’ non è ben delineato (e del resto
Mancini non è un filosofo), ma ha a che fare col ‘furor dell’operare’ che è
riconosciuto all’artista, a causa del quale “la fantasia è talmente vistita ed imbeverata… che dall’intelletto
d’esso non ne può esser spogliata né corretta, come avvien ancora d’altri
[sic] impressioni per le quali alle volte
sopravvengono delle pazzie”. Senza saperlo, Mancini ha dato una definizione
straordinariamente romantica dell’essere artisti, e straordinariamente moderna:
chi non potrebbe facilmente riferire una definizione di questo tipo, ad
esempio, a un Van Gogh? Ma la sua arte si nutre a tal punto di bello ‘ideale’,
di natura corretta e resa più bella, che finisce per svilire proprio
quest’elemento romantico. L’inadeguatezza del ‘furor dell’operare’ si rivela in
due fasi. La prima è quella della progettazione dell’opera, in cui il programma
iconografico deve essere concordato (se non progettato) da letterati: “onde il Caro insegnò la composition
dell’historia, decoro e costume per le pitture di Caprarola, a Taddeo
Zuccharo…, l’Aretino a Tiziano per la pittura della Fama da farsi per la Maestà
di Carlo V, et il Bembo a Raffaello per il Vatticano” (Vol. I, pp. 6-7). La
seconda fase è, appunto, quella del giudizio: “perché della pittura avviene come l’altre cose che altro è il farle
altro è l’usarle” (Vol. I, p. 6). E qui potremmo tornare all’esempio delle
pitture lascive di cui si parlava prima: una volta fatte, il giudizio comporta
il fatto che si sappia in che contesto proporle; occorre, insomma,
‘intelletto’. L’intelletto è proprio del ‘dilettante’, un uomo ‘che sappia
disegnare’ (a mio parere, semplificando, che sappia le cose del disegno) ma che
non necessariamente deve usare il pennello: “basta solo un buon giudizio ammaestrato con aver visto più pitture e da
per sé e col giuditio di più intendenti, e con la similitudine poi, equalità o
inequalità giudicar delle altre” (p. 7). Secondo Luigi Salerno (e non si
può che convenirne) una rivendicazione di questo tipo apre le porte a una
lettura contenutistica (all’interpretazione del decoro e della moralità del
contenuto) e non stilistica delle opere; apre le porte cioè a una tendenza che
impregnerà di sé i secoli successivi. Va pur detto che se queste sono le
affermazioni teoriche del Mancini, il prosieguo del trattato (ad esempio, con
l’individuazione degli stili imperanti a fine Cinquecento) sembra in qualche
smentirle o, comunque, ridimensionarle fortemente. Il medico senese pare
insomma semplicemente alla ricerca del maggior numero possibile di
argomentazioni che legittimino la sua figura di ‘dilettante’.
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Paul Brill, Vista del Foro Romano con le colonne del Tempio di Castore e Polluce e la Basilica Adriana , 1600, Dresda, Gemäldegalerie Fonte: Wikimedia Commons |
Regole per comprare, collocare e conservare le pitture
Quella che Adriana Marucchi isola
come decimo capitolo della prima parte dell’opera (ovvero le Regole per comprare, collocare e conservare
le pitture) è senza dubbio una delle sezioni che ha suscitato il maggior interesse
degli studiosi. Personalmente (essendo cose molto note) vorrei rammentare solo
gli aspetti dedicati alla collocazione delle opere. Il criterio ispiratore,
ancora una volta, è che le opere siano disposte “rispetto al costume et affetti che possono indurre nell’essere
riguardate” (Vol. I, p. 142). Ciò premesso, è ovvio che Mancini tenga a
riferimento la realtà dei grandi palazzi romani. La prima raccomandazione è relativa
ai disegni e alle stampe: “dei disegni a
mano ne farà libri destinti secondo le materie, tempi, grandezza di foglio,
nationi e modo di disegni, s’a a penna, lapis e carbone, acquerella, chiaro
scuro, tenta ad olio, così ancora nei disegni di taglio [n.d.r. le
incisioni], che così sarà padrone di
mostrarli e farli godere con gusto dei riguardanti” (p. 143). La Roma del
Seicento è la Roma che conosce il trionfo delle stampe e dei disegni; in tutta
onestà non posso leggere queste righe senza pensare al
cosiddetto ‘museo cartaceo’ di Cassiano dal Pozzo (sia pure per buona parte
successivo alle parole di Mancini) o all'attività di Padre Sebastiano Resta (altrettanto successiva).
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Lavinia Fontana, Autoritratto al clavicordo con domestica, 1577, Roma, Accademia di San Luca Fonte: Wikimedia Commons |
Per quanto riguarda le pitture, la
distinzione fondamentale è fra quelle da esporre in luoghi ‘pubblici’, ovvero a
cui abbiano accesso gli ospiti, e negli appartamenti privati. Si è già detto
delle pitture lascive, che trovano la loro perfetta sistemazione nei luoghi in
cui il ‘principe’ si intrattiene con la moglie; luoghi diversi – sia chiaro –
dalle vere e proprie camere da letto, destinate a contenere le immagini di
Cristo, della Vergine e dei santi. Vasi antichi, frammenti di affreschi, tarsie
sono consigliabili negli studioli. Quadri ‘d’attion civili, o di pace o di
guerra’ (ovvero quadri storici, ma di soggetto profano) nelle sale e nelle
anticamere degli spazi ove si ricevono ospiti, alla stessa maniera dei ritratti
di papi, cardinali, re e imperatori. In questi stessi ambienti possono trovare
la loro collocazione opere a soggetto simbolico in genere destinate a
consacrare la grandezza della famiglia, come imprese ed emblemi. Nelle gallerie
(intendendo come tali i luoghi di passaggio) i paesaggi e le cosmografie
(impossibile che Mancini non conoscesse la galleria delle carte geografiche in
Vaticano). Per tutto il resto, se vi fosse abbastanza spazio, “si potrà fare una galleria in luogo commodo…
et in quella si porran tutte le pitture che saranno avanzate alle sale e
camere, e collocarle secondo le materie, il modo del colorito, il tempo nel
quale sono state fatte e della schuola secondo la quale sono state condotte”
(p. 144). Qui Mancini sembra proporre una doppia soluzione espositiva: una
prima rispetta l’ordinamento cronologico delle opere, e nell’ambito di tale
ordinamento, una gerarchia per scuole e per generi: “Et perché nelle pitture sono stati notati i secoli rinascente, buono,
perfetto, declinante, pertanto, supposti i siti dove si devon collocare le
pitture particolari, si dovranno collocare prima le più antiche, osservando al
possibile i lumi convenienti e li spatj per le grandezze delle pitture, e fra
queste prima le tramontane [n.d.r. le straniere], poi le lombarde, poi le toscane e romane, perché in questo modo lo
spettatore con più facilità potrà vedere e godere e, doppo haver visto e
goduto, reservare nella memoria le pitture viste”. Poi cambia idea, o,
meglio, propone una soluzione alternativa, che sembra gradire di più: “Ma non vorrei […] che fosse messa insieme la medessima schuola e maniera […], ma vorrei che si tramezzassero [n.d.r.
che si alternassero] con altre maniere e
schuole del medesimo secolo, perché in questo modo, per la varietà,
deletteranno più” (p. 145).
Entrambe le soluzioni, in ultima
istanza, sembrano avere in mente più la fruizione delle opere da parte del
pubblico dei visitatori che quella del proprietario; entrambe si sviluppano in
senso cronologico. La prima, suddivisa per scuole, sembra preferire lo scopo
didattico dell’esposizione (offrendo a chi osservi maggior capacità di
ricordare le opere viste), la seconda, invece, è volta a suscitare ‘diletto’
tramite la ‘varietà’ assicurata dall’alternarsi delle scuole, ma sempre
nell’ambito di uno stesso secolo. Si è discusso e si discuterà sempre su quanto
queste proposte fossero ‘realistiche’: i dati vanno incrociati non solo con gli
inventari, ma coi pochissimi documenti che permettono di ricostruire la
dislocazione dei quadri nelle antiche gallerie del Cinque e Seicento romano.
Quello che è certo è che Mancini avanza proposte tarate sullo spettatore e, in
questo senso, anticipa aspetti legati alla storia dei musei.
NOTE
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