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mercoledì 8 febbraio 2017

Francesco Mazzaferro. Il 'mito' di Emil Nolde nel romanzo 'Lezione di tedesco' di Siegfried Lenz. Parte Terza


English Version

Francesco Mazzaferro
Il ‘mito’ di Emil Nolde nel romanzo ‘Lezione di tedesco’ di Siegfried Lenz


Parte Terza

[Versione originale: gennaio 2017 - nuova versione: april 2019]

Fig. 19) L'edizione italiana del romanzo di Lenz (traduzione di Luisa Coeta) (2006)


Continuiamo a citare i passi del romanzo ‘Lezione di tedesco’, pubblicato nel 1968, in cui Siegfried Lenz parla – attraverso descrizioni letterarie – delle pitture di Emil Nolde, sia pur modificate dal romanziere in modo che esse possano adattarsi appieno alla narrazione del romanzo. Questi passi sono messi a confronto con la descrizione dei medesimi da parte dello storico dell’arte Werner Haftmann, che ‘riscoprì’ Nolde in una famosa monografia del 1958. Le similitudini tra narrazione romanzata, critica letteraria e dipinti rivelano i meccanismi che hanno contribuito a ‘rivoluzionare’ l’immagine di Nolde in quei decenni, in Germania ed in Europa.


5. Improvvisamente sulla spiaggia (Lenz) – Trio (Nolde)

Klaas Jepsen, soldato e figlio maggiore del poliziotto, vive nascosto nella casa del pittore Nansen, dopo aver disertato dalla Wehrmacht. Il poliziotto è stato informato della diserzione ed ha deciso di ripudiare il figlio. È pronto a denunciarlo, non appena rientri a casa. Il poliziotto pensa che il pittore violi clandestinamente il divieto sulla pittura, ma ignora che egli commetta un crimine molto più serio, dando rifugio proprio a suo figlio disertore. Il pittore sta dipingendo clandestinamente un nuovo quadro durante la notte. Completamente concentrato sulla sua ultima opera, chiamata “Improvvisamente sulla spiaggia” (Plötzlich am Strand), Nansen si dimentica di oscurare la finestra del suo atelier. Il poliziotto se ne accorge e lo coglie in flagrante mentre viola il divieto di dipingere. Grazie al cielo, il poliziotto si accorge della violazione sulla pittura, ma non scopre suo figlio, anch’egli nascosto nel medesimo atelier. Il dipinto immaginario diffonde un senso di paura per tutta la scena, che potrebbe portare alla rovina del pittore e del suo rifugiato. La pittura corrispondente di Nolde, secondo la Petersen, si chiama “Trio” e risale al 1929.
Il ritratto letterario è proprio all’inizio dell’ottavo capitolo, intitolato ‘Il ritratto’. La frase iniziale “Mann im roten Mantel, jetzt muß ich von dir erzählen“ suona metricamente come il verso virgiliano Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris che apre l’Eneide di Virgilio. Non può essere una pura coincidenza.
Uomo con il mantello rosso, ora devo parlare di te. Finalmente è arrivato il tuo turno. Su una spiaggia desolata puoi camminare sulle mani, o addirittura danzare con la testa all’ingiù davanti a mio fratello Klaas che casualmente, e tuttavia non casualmente, ti è vicino. Permettici di chiederti un’altra volta perché non sia la serenità a dominare il quadro, ma la paura, la verde e bianca fiamma della paura. Con il tuo volto antico, con la tua astuzia antica, a te ora salire sulla scena: a causa tua, suppongo, lo studio non era oscurato come voleva il regolamento. Perché non era soddisfatto di te e ti doveva continuamente cambiare con esasperati colpi di pennello, perché con decisione precipitosa – il mattino come la sera – ti aiutava a divenire te stesso, Max Ludwig Nansen non aveva fatto in tempo a compiere un giro di accertamento intorno alla casa, a sincerarsi che tutte le tende avvolgibili, usate per l’oscuramento, fossero ben calate! In ogni caso era impegnato con te, ti migliorava, ti correggeva, e non si accorse che uno degli avvolgibili era rimasto alzato come una vela incagliata e lasciava uscire la luce, la cosiddetta luce da lavoro. All’improvviso una luce tremolante solcò la pianura buia (…). Per quel che so, era la prima luce che dopo anni compariva nella pianura. Sottile, giocava sui fossati e i canali, e chiunque l’avesse vista, si sarebbe chiesto terrorizzato; ma chi vuole attirare? Chi, in un angolo di centosettanta gradi, la scoprirà per primo, la valuterà e ne trarrà le conseguenze? Le navi che avanzano a luci smorzate sul Mare del Nord? Le spie? O i Blenheim? Prima delle navi, delle spie e dei cacciabombardieri Blenheim si era accorto di quella luce illegale il poliziotto della stazione di polizia di Rigbüll: lui, che aveva il dovere di controllare che al calar della sera ci fosse buio perfetto, era già per strada. (…) Tutte le finestre della casa erano oscurate come voleva il regolamento, solo dallo studio usciva un raggio di luce che illuminava il giardino. La guardia della stazione di polizia di Rugbüll si diresse verso il quadrangolo illuminato, non si curò affatto di dove metteva i piedi, guadò semplicemente un’aiuola di astri e si aprì un varco tra gli arbusti e i cespugli inumiditi. Tanto vicino ormai da poter tuffare una mano nella luce, notò che un avvolgibile si era incastrato. (…) Vide un uomo con un mantello rosso, e Klaas, o uno che lo ricordava; davanti a loro, quasi nascondendoli, lavorava il pittore, con il cappello in testa. Lavorava all’uomo in mantello rosso apponendo pennellate corte, parlando, litigando. Accorciò i suoi piedi da coboldo che spuntavano dal mantello. Rafforzò il fondo azzurro per rompere il rosso della veste. E il mantello splendeva sulla spiaggia desolata davanti a un Mare del Nord nero, invernale: splendeva e contravveniva a ogni legge di gravità perché il mantello a campana non si afflosciava, non ricadeva, sebbene l’uomo camminasse, o addirittura ballasse sulle mani. Il mantello non scivolava, non ricopriva quel viso antico, arrovesciato, come sorretto dalle mani puntate a terra, sul quale, nonostante tutto, un’astuzia antica accampava le proprie pretese. Com’erano magre le sue membra e fragile il corpo inarcato, ma in perfetto equilibrio! Gongolava, rideva, e tentava di contagiare Klaas con il suo riso, chiaramente desideroso di piacere a mio fratello, di corteggiarlo, rasserenarlo, e per far questo camminava, o meglio danzava sulle mani, e con una certa facilità, bisogna dire.  Tuttavia, benché quella posizione gli riuscisse facile, non poteva conquistare Klaas e, tanto meno, indurlo a rimanere: la paura che lui stesso aveva involontariamente provocato in mio fratello, una bianca ed una verde fiamma di paura, spingeva Klaas ad abbandonare la scena: aveva le dita allargate, la testa riversa all’indietro, e l’ombra sotto la bocca aperta faceva pensare a uno grido soffocato. Altri due, tre passi stentati. Si vedeva benissimo che poi si sarebbe messo a correre, che la paura l’avrebbe spinto sul litorale, incontro all’orizzonte, a un orizzonte indifferente, pur di sfuggire dall’uomo in rosso, con la testa rivolta all’ingiù. Il quadro era intitolato Improvvisamente sulla spiaggia, o per lo meno così lo chiamava il pittore, ma in realtà nel suo diario lo definiva anche Paura. (…) Soddisfazione mista a ripugnanza: questo deve aver provato mio padre dall’improvvisato osservatorio, e questo spiega  perché restasse nel suo appostamento più a lungo di quanto potesse in realtà permettersi; va ricordato infatti che quel raggio luminoso era visibile nella pianura buia a grande distanza (…) Ma quelle infrazioni a ordini precisi, che si compivano sotto i suoi occhi, gli procuravano una gioia aspra, e chi sa fino a quando avrebbe resistito in quella posizione se non avesse creduto di udire le parole di Ditte [nota di redazione: la moglie del pittore]: allora scese dal tavolo, lo riportò al proprio posto, sfilò i lembi della mantella dal cinturone, gettò un ultimo sguardo alla finestra illuminata, e bussò alla porta d’ingresso dello studio [29].
Il pittore – nel tentativo di evitare la denuncia – fa a pezzi il dipinto; tuttavia il figlio minore del poliziotto (il narratore) recupera in segreto i pezzi del quadro, cerca di ripararlo e lo tiene per sé; per la prima volta nasconde segretamente un quadro di sua iniziativa, senza neppur avvisare il pittore. In realtà non ha ancora rubato, ha semplicemente recuperato i frammenti di un quadro fatto a pezzi, ma questo è forse il primo passo verso la cleptomania futura.
Sia Grothmann sia la Petersen identificano la pittura corrispondente di Nolde con “Trio” del 1929. Questo è un brano di Haftmann su quel quadro: “La tendenza al grottesco, magico e burlesco è sempre stata molto viva in Nolde. (…) ‘Trio’ appartiene a questa serie. Il suo titolo musicale non è casuale. L’interazione musicale tra i tre colori blu, giallo e rosso è abbastanza ovvia; la combinazione genera da se stessa questa società burlesca – in forma di terzetto – di spiriti delle nuvole. La pittura è abbastanza fluida, stesa in una tecnica simile all’acquarello, che da ogni libertà al colore di allargarsi in ogni direzione. La combinazione dei colori è semplice. L’immagine, originariamente colorata in arancione, è basata sul contrasto complementare blu-arancione. Il blu riempie lo sfondo della superficie. L’arancione si trasforma in giallo e giallo verde sul lato destro, e in rosso sul lato sinistro. Questa semplice tonalità complementare e i suoi passaggi creano una decorazione brillante di colori. Alcuni punti speciali – il verde smeraldo della cravatta nel mezzo, il viola della pedana sulla nuvola, gli elementi rossi qua e là – rendono la tonalità ricca e preziosa. Dallo sfondo blu appaiono - in una luce giallo oro brillante da favola – i tre attori: due passeggiano e discutono su una pedana violetta sulle nuvole, ed il terzo si getta nello spazio con un bel salto” [30].
Mentre Lenz offre una lettura dell’opera come se fosse ispirata al sentimento fondamentale di paura, per Haftmann l’originale è parte del burlesco. Da notare: i colori del quadro originale di Nolde sono diversi da quelli descritti nel romanzo per il quadro immaginario di Nansen. Lenz si riferisce a una combinazione di colori complementari bianco-verde, che segnalano un senso di paura, qui la combinazione complementare è blu-arancione, e ispira il fresco sentimento di una favola leggera.
6. Costruttori di nubi (Lenz) – Mare mosso e Fiori e nuvole (Nolde)
Il pittore è stato denunciato dal poliziotto, ma non vi è alcuna prova definitiva che abbia effettivamente violato il divieto di dipingere. Perciò due membri della Gestapo lo prelevano a casa sua per portarlo in città e interrogarlo.
Gli danno solamente trenta minuti prima di partire. Max Nansen cerca immediatamente di salvare le immagini che sono nascoste in casa sua, tra le quali la più importante è “Il costruttore di nuvole” (Wolkenmacher), una pittura dominata da un colore marrone bruno molto forte ed in continua espansione: bruno, stranamente il colore del potere nazista che opprime il pittore, cosa che qui accentua il senso di dramma della scena.
Il pittore si muoveva nella grande stanza. A un certo punto trascinò una cassa sul pavimento, la aprì e la richiuse. Girò il rubinetto dell’acqua e buttò una scatola di conserva vuota sul tavolo delle ceramiche. Sfruttando gli angoli e le nicchie, protetto da giacigli provvisori, riuscii ad arrivare quasi fino a lui: solo una stretta striscia ci divideva. Scostai la coperta tesa a mo’ di paravento: lui era davanti a me. Con circospezione aprì un largo armadio, rimase in ascolto, spalancò le due ante, rimase in ascolto, si chinò: là dentro – non posso dimenticare ciò che accadde all’interno dell’armadio – una distesa di marrone irresistibile nascondeva l’orizzonte; una distesa marrone, interrotta da strisce nere e orlate di grigio, avanzava, cresceva sempre più su un paesaggio crepuscolare. Il quadro era intitolato Il costruttore di nubi. Il pittore lo osservò guardandolo di lato, indietreggiò e mi venne così vicino che avrei potuto toccarlo. Non era soddisfatto, non gli piaceva la sua opera; rivedendo il quadro si sentiva deluso. Con aria preoccupata scosse la testa, si avvicinò al quadro, sollevò una mano, e premette il pugno chiuso sul punto da cui scaturiva il marrone. Qui, disse, qui ha inizio l’azione. Lasciò cadere nuovamente la mano, si strinse nelle spalle e parve colto dal freddo. Non seccare, Baldassarre, lo vedo anch’io che manca il presentimento, il presentimento della tempesta. Per questo il colore deve suggerire meglio l’idea della fuga e ci vuole maggiore attenzione, maggiore disponibilità, e qualcuno che esprima l’angoscia. La porta dello studio si aprì ma il pittore non se ne accorse. Io avvertii la corrente d’aria che entrava con violenza, attesi – lo ricordo esattamente – il rumore dell’uscio che si richiudeva. Ma il rumore non venne. Allora sollevai la coperta, uscii dal mio nascondiglio e premendo l’indice sulle labbra mi avvicinai al pittore in punta di piedi. Gli diedi dei piccoli colpi. Il pittore sobbalzò, sopraffatto dallo spavento non aprì bocca. E quando stava per dire qualcosa colse il significato della mia mano puntata verso la porta. Quasi fosse preparato a quell’imprevisto, comprese immediatamente il mio avvertimento: in fretta e furia staccò il foglio dall’anta anteriore dell’armadio, lo arrotolò, lo spinse sotto l’armadio e subito lo estrasse di nuovo. Si guardò in giro: c’erano centinaia di nascondigli e tuttavia nessuno che gli sembrasse adatto per il suo Costruttore di nubi. Angoli, recessi, fessure si offrirono al suo sguardo, e insieme a loro le disponibili bocche dei vasi, ma in quel momento tutto parve inadatto: perché mi aveva scoperto. Mi spinse contro il fianco dell’armadio, si chinò su di me e da vicino mi guardò con uno sguardo penetrante che non gli conoscevo. Sentii il profumo di sapone e l’odore di tabacco del suo respiro. Avvertii il freddo dei suoi occhi grigi. (…) Disse sussurrando, tese l’orecchio verso la porta e continuò a voce bassissima: Posso fidarmi di te? Siamo amici? Farai qualcosa per me? Sì, dissi, e annuii, sì, certo. Sapevo già quel che voleva. Sfilai il mio pullover verde sollevandolo fino alle spalle, scostai i pantaloni intorno ai fianchi, e il pittore fece aderire il quadro al mio corpo, tirò giù il pullover, lo infilò e lo pigiò dentro i pantaloni. Il golf era adesso molto teso. Cercai di allargarlo tirandolo qua e là. Feci dei movimenti per provare. Portalo via, al sicuro, mi disse piano, e dopo riportalo a zia Ditte. Ne ho bisogno” [31].
Non vi è dubbio alcuno che vi sia un numero assai alto di dipinti di Nolde su nuvole e tempeste. Grothmann propone una lista di titoli, la Petersen suggerisce come modelli “Mare mosso” (Hohe Wogen, 1940) e “Fiori e nuvole” (Blumen und Wolken, 1933), sulla base del marrone intenso lungo l’orizzonte. Questi sono alcuni brani di Haftmann sulle due opere.
Su “Mare mosso”: “I dipinti creati sin dal (…) 1930 ci avrebbero potuto spiegare che la sensibilità del pittore usa il dizionario della natura e tende d’ora in avanti a creare metafore del destino. Il colore diviene divampante, misterioso e cerca tonalità particolari.  Rilascia una luce che – strana e fantasmagorica – raccoglie oggetti figurati in un’atmosfera magica; in essa, le cose stesse – sconcertanti e ardue – diventano fatali per il destino. Flussi di colori luminosi si distribuiscono sulla superficie – ancora liquidi e scossi - con una trasparenza strana e indefinita. La definizione degli oggetti non avviene per mezzo del loro disegno, ma è determinata dai confini delle aree di colore, che si muovono e cozzano tra loro, e dalle gradazioni di una luce colorata, che dà forma alle cose. (…) Al di sopra del movimento trasparente e ritmato delle onde è sovraimposto un pesante marrone purpureo, che getta una luce monotona sulla scena. Un giallo brillante si oppone a quest’espansione monotona e inesorabile del marrone. Una drammatica battaglia di luce e oscurità si scatena nell’area del cielo. Al di sotto, il respiro ritmato del blu. (…) Dall’interazione tra colori evocativi sorge il tono fatale che riecheggia in tutti gli ultimi lavori di Nolde” [32].
Su “Fiori e nuvole”: “Fiori e nuvole – erano i due simboli in cui il dramma della natura si presentava per Nolde. Nuvole – erano le sedi degli dei e della paura, ciò che sempre cambia e mai perisce, la minaccia o la consolazione della regione celeste, la forma ed il vettore della luce che le attraversa, il fato della terra che viene da lontano. Fiori – erano le forme effimere che crescevano dall’utero della terra, piene di segreti, strane, interiormente ripiene di figura, organismi di una fragile bellezza che urla, che spesso potrebbe avere qualcosa di disperato e frenetico, per colpa della loro caducità effimera. Colori e nuvole sono i soli vettori che portino un’espressione oggettiva in questa pittura. (…) Il color arancio getta una luce sinistra sullo sfondo; ad esso si oppone un grigio scuro, che sopraffà la luce. Dal basso penetra un movimento verde verso l’alto, che dà un tono di terra al viola bruno e al grigio nero. Dal movimento astratto del colore e dalla memoria della natura – ormai sperimentata migliaia di volte – nasce nel pittore l’associazione a paradiso e terra. Lo sviluppo drammatico dell’arancio e grigio nero diviene una battaglia tra luce e oscurità sul palcoscenico del paradiso” [33].
Vanno colte le similitudini in merito all’espansione irreversibile del marrone e del grigio che lo costeggia, con un senso di colore che si diffonde violentemente attraverso il quadro, disegnando l’orizzonte come delimitazione tra aree di colore. 

7. L’ultimo autoritratto (Lenz) – Autoritratto (Nolde)

La guerra è finita; il destino di Max Ludwig Nansen dovrebbe (almeno in teoria) essere libero di preoccupazioni maggiori, se non per il fatto che è rimasto vedovo. Ufficiali inglesi lo visitano per annunciare non solamente che critici d’arte e gallerie nel loro paese mostrano vivo interesse per la sua arte, ma che è stato nominato membro dell’Accademia Reale a Londra; esperti d’arte da ogni parte della Germania (ed in particolare quelli che gli avevano rifiutato ogni aiuto o semplicemente solidarietà sotto il regime precedente) improvvisamente fanno a gara per visitarlo nel paesino più a nord della Germania, per proporgli mostre e vendite di quadri al pubblico. Egli accetta con piacere la nomina inglese, ma spiega anche rispettosamente che intende rimanere un pittore della propria regione in Germania: “La mia metropoli si trova qui” [34]. Un alto ufficiale dell’esercito inglese e uno storico dell’arte di Londra gli chiedono del divieto e di come sia stato messo in pratica. In quel momento sarebbe stato facile per lui denunciare il poliziotto Jens Jepsen alle autorità inglesi e far sì che perdesse il posto, ma egli non spende una sola parola contro di lui. Per lui, il poliziotto è soprattutto un compaesano, parte della stessa comunità. Al contrario, rifiuta sdegnosamente ogni offerta da quegli esperti d’arte tedeschi che una volta lo avevano messo al bando (piuttosto che collaborare con loro, preferirebbe rimanere nella ‘camera degli orrori’ a cui loro stessi lo avevano condannato) [35]. 
Finalmente Nansen può dipingere liberamente e decide di lavorare al proprio ultimo Autoritratto (Selbstbildnis). È un’occasione per rifletter su una vita intera, su quel che è stato raggiunto e quel che non lo è stato, ma anche sul suo rapporto con l’arte. Non è necessariamente una riflessione facile. Come sempre, il figlio del poliziotto è l’io narrante:
Dunque, nuove difficoltà. Noie con il colore, sguardi insoddisfatti. Ritraeva se stesso, e più il tempo passava e più capitava che il volto del quadro non corrispondeva al modello. Semplicemente non mi vedo, disse, niente si ferma, tutto si muove troppo alla svelta e io non riesco a eliminare la contraddizione. All’improvviso il colore non era più amicizia, ma uno stato temporaneo. Ha la maledetta tendenza a emanciparsi, disse, diventa energia incontrollabile. Guarda, Siggi, e cerca di descriverlo, solo perché tu capisca come sia insufficiente la descrizione quando il colore si trasforma in energia. In movimento. Movimento nello spazio. Sedevo dietro di lui su una cassetta ricoperta da un pezzo di tela grezza e seguivo il suo tentativo di “trattenere” se stesso in un luogo preciso, in un paesaggio sul quale, avvolto nella sua pelliccia rosso fuoco, si muoveva anche Baldassarre, un Baldassarre piuttosto scoraggiato o, forse, reso innocuo dalla prospettiva. La carta giapponese imbevuta di colore ricordava un tessuto, il volto diviso in zone di luce eterogenea ricordava invece una maschera leggera che lasciava trasparire il mondo. La parte sinistra della faccia era di un grigio debole mescolato con il rosso mentre la destra d’un gialloverde; lo sfondo era a macchie rossastre: ecco come si vedeva. Due diverse metà del viso. E gli occhi grigi, che sembravano guardare da molto lontano attraverso veli azzurrognoli, rivelavano in parte lo sforzo di recepire se stesse. Se ora dico: la bocca leggermente aperta in atto di parlare, allora la fronte scintillante di un bagliore biancastro contraddice la precedente affermazione. Se dico: l’azzurra ombra sul dorso del naso è la comunicazione tra le due metà del viso, allora devo anche ammettere che la divisione esiste. Tutto era equivoco: la bocca, gli occhi e persino le orecchie che mi parevano artificiali, come di metallo.
Che cosa ti dà? Chiese con impazienza. Su che cosa ti dà questo quadro? Devi pure saperlo dire. Se rifletti: parlando. Se guardi: spiegando con parole. Ebbene, che cosa? Non sapevo che cosa volesse da me. Ebbene, che cosa? Non capivo come mai non potesse o non volesse abituarsi alle due differenti metà del volto, grigio rosso e giallo verde. Niente contenuto, disse, un quadro non deve darti nessun contenuto, ma che cosa allora? No, Baldassarre, il colore non può trasformarsi in una superficie piana. Pensa all’inverno quando sulla carta i colori ad acqua improvvisamente si congelavano, la neve li cancellava, i colori sciogliendosi si mescolavano: che cosa succedeva? Diventavano energia? Energia simile a quella che fa crescere i cristalli e le alghe? I muschi? Che ne pensi (…)? Per quale ragione noi non riusciamo più a mettere niente al sicuro? È perché non siamo capaci di sottometterci o è perché non sappiamo vedere? Baldassarre pensa che noi dovremmo cominciare a imparare a vedere. Vedere: mio Dio, come se tutto non dipendesse da questo. Mise sul cavalletto due schizzi del suo autoritratto e li accostò. Poi fece qualche passo all’indietro, e l’obliquità, la tensione del busto esprimevano la sua insoddisfazione: qualcosa mancava, Qui puoi già vederlo, Siggi: troppo povero, troppo perfetto. Questo azzurro che emana luce dall’interno, su tutta la faccia… non c’è più posto per il movimento. Sai che cosa significa vedere? Moltiplicare significa. Vedere è penetrare e moltiplicare, o anche inventare. Per assomigliare a te stesso devi inventarti di continuo, a ogni sguardo. Solo se inventi concretizzi. Qui in questo azzurro nel quale niente oscilla, nel quale non c’è inquietudine, non si concretizza niente. Niente si moltiplica. Se vedi, nello stesso momento anche tu sarai visto. Lo sguardo ti torna indietro. Vedere, eh già! Può significare anche rischiare il tutto per tutto o attendere il mutamento. Tu hai davanti a te tutto, gli oggetti, il vecchio, ma queste cose non sono niente se non fai intervenire te stesso. Vedere: ma non è solo registrare. Bisogna essere pronti a ritrarre. Te ne vai e poi torni e intanto qualcosa è mutato. E non parlarmi di verbali. La forma deve fluttuare, tutto deve fluttuare. La luce non è poi saggia come la si immagina.
O qui, [Siggi], questa piccola figura calda di sole: Baldassarre mi porge sul palmo della mano un mulino di minuscole dimensioni, ma io non gli bado. Tu vedi il punto dove si trova un altro, qualcosa d’altro: ci deve essere un movimento che congiunga questo punto. Vedere è scambio, reciprocità. Un fatto nuovo significa mutamento reciproco. Prendi il fiordo, prendi l’orizzonte, il fossato, la seronella: appena li recepisci, a tua volta vieni recepito da loro. Vi conoscete reciprocamente. Vedere vuol dire anche vedersi incontro, accorciare le distanze. Oppure? Baldassarre sostiene che questo è troppo poco. Insiste perché vedere sia anche smascherare. Viene messo a nudo qualcosa, che nessuno al mondo sospetta. Non so perché ma io sono contrario a questo smascheramento. Si possono sfogliare tutte le tuniche della cipolla ma alla fine non ti resta nulla. Ti dirò: si comincia a vedere quando si smette di recitare la parte dello spettatore e ci si inventa ciò di cui si ha bisogno: quest’albero, quest’onda, questa pioggia. E adesso torniamo al quadro: ti dà qualcosa? Ho dovuto suddividere la faccia, qui rosso grigio, là giallo verde. Veramente non so come spiegarlo, ma le parti non armonizzano. Di questo autoritratto potrei dire: non mi riguarda affatto perché manca troppo. Gli mancano le sue stesse possibilità. Mi spiego: quando fai una cosa, una faccia, un oggetto, devi fornire le possibilità che questa cosa, faccia o oggetto, ha in sé. Taluni sono riusciti a fare il proprio “autoritratto”: guardi la loro faccia e riconosci le malattie che hanno superato, forse scopri addirittura la loro situazione finanziaria. Qui, semplicemente, manca troppo. Non è stato visto fino in fondo, dunque non è stato dominato. Vedere significa anche questo: dominio, presa di possesso. Lo rifarò in un altro modo. Che ne pensi?” [36]
Prima di considerare le parole di Werner Haftmann sul ritratto del 1947, consentitemi di dire che io non ricordo alcuna pagina di ugual forza sul ruolo della creazione artistica – su arte e natura, artista e oggetto artistico, riproduzione e invenzione – e sul rapporto tra arte e artista nelle memorie di Nolde. Nolde aveva sempre fatto riferimento alla creazione artistica come un processo puramente istintivo, che lo aveva sempre preso di sorpresa, come se lui producesse qualcosa che egli non aveva voluto creare, in verità.  Di conseguenza, Nolde non è mai riuscito a fissare una visione coerente della creazione artistica. Queste osservazioni di Siegfried Lenz – se pur ovviamente parte della finzione letteraria del romanzo – sono comunque assolutamente plausibili. Lenz offre idealmente al suo lettore la formulazione ‘espressionista’ secondo cui vedere significa moltiplicare, inventare e dominare. Nolde non aveva mai voluto, o non era mai stato capace di includere un’espressione di tal forza nei suoi scritti. Lenz vuol fare meglio.
Questi sono alcuni passaggi di Haftmann: “Nolde produsse nella sua vita quattro autoritratti (…). Adesso, nel 1947, lo dipingeva per l’ultima volta, celebrando il suo ottantesimo compleanno. L’immagine è estremamente simile e, secondo i giudizi delle persone che a lui erano vicine, esattamente la natura intima del vecchio pittore. È un’immagine molto calma e semplice e mostra il pittore nei suoi vestiti di ogni giorno, senza alcuna pretesa sostanziale: un volto silenzioso, un po’ assente, con occhi che guardano da lontano.  Da quel che è stato dipinto si può concludere che Nolde indugia in un suo proprio strato isolato dalla ‘vita’ e che è solo nel cerchio dei suoi sogni e visioni. È l’ultimo quadro anche in un altro senso speciale. È l’ultima volta che Nolde si confronta direttamente con la realtà, con il modello di ciò che è visibile. Per l’ultima volta egli abbandona il suo mondo di sogno – che aveva fatto suo a partire delle ‘immagini non dipinte’ – e si pone direttamente di fronte alla natura. Ora è davvero curioso scoprire che questo contatto diretto con l’immagine della natura – in un’attività puramente artistica – richiama ancora il tipo di pittura da cui si era avviato lo sviluppo indipendente di Nolde: il tardo impressionismo. Lo stile pittorico largo e impetuoso del suo periodo maturo espressionista è difficile da ritrovare” [37].
Il confronto tra Lenz e Haftmann rivela qui sia similarità sia chiare differenze. Per quel che riguarda le prime: il riferimento comune all’‘ultimo’ autoritratto ed al tema del rapporto con la natura. Quanto alle seconde, la teoria di un pittore espressionista in Lenz e lo stile di un tardo impressionista in Haftmann.
8. La danzatrice sulle onde (Lenz) – Danza tra le candele (Nolde)
La fine della guerra non ha portato ad una fine delle persecuzioni per il nostro pittore. Il poliziotto si crede ancora in diritto di assicurarsi che il divieto di dipingere sia rispettato. Trova vecchi disegni di Nansen e li distrugge. È ovvio che egli agisca d’iniziativa propria, senza alcuna base legale, infrangendo la legge perché ossessionato da un malinteso senso del dovere.
Un giorno, Jepsen riceve una lettera anonima, che contiene la foto, contenuta in una rivista, di un’opera di Max Ludwig Nansen, che riproduce la figlia del poliziotto (Hilke) come “Danzatrice sulle onde”. Non appena si rende conto che la figlia ha posato come modella per un quadro prodotto in violazione del divieto ch’egli stesso doveva attuare, il poliziotto ha un’esplosione di rabbia.  Tutto ciò diventa l’occasione per uno scontro finale tra il poliziotto e sua moglie da un lato e la figlia dall’altro. Quel che succede nella confusione totale delle ore seguenti non è immediatamente chiaro, ma il pittore si precipita alla stazione di polizia, anch’egli in uno stato di eccitazione, denunciando la scomparsa della “Danzatrice sulle onde” ed accusando il poliziotto di aver sottratto il quadro, senza aver alcuna autorità per farlo. Tornando al ritratto letterario del dipinto immaginario, il suo soggetto vibrante – la danza scatenata – è un tema perfetto per la violenta esplosione di rabbia tra tutti coloro che sono coinvolti.
C’è qualcosa per noi? (…) Solo una lettera di formato grande, busta marroncina, scrittura a scampatello, niente mittente. Non c’è il mittente, disse [n.d.r. il postino] annuendo con aria pensierosa; forse stava pensando di trattenerla, ma alla fine me la porse e indicando la casa disse: Sbrigati, portala dentro e di’ al tuo vecchio che in futuro deve accettare solo lettere con il nome del mittente. (…) Mio padre stava pulendo le scarpe. Una volta alla settimana puliva tutte le scarpe che riusciva a scovare. Le portava in cucina, le radunava su due file abbastanza regolari e le sottoponeva a tre procedimenti: spolverare, dare la crema, lustrare. Fui costretto a mettere la lettera sul tavolo. Il poliziotto la guardò continuando a lucidare uno stivale con uno straccio di lana, alzò le spalle e si voltò. Ma subito lanciò una seconda occhiata, più lunga della prima, come se qualcosa, tardivamente, lo avesse colpito. Stava per voltarsi di nuovo ma la curiosità – era interessante vedere come affiorasse sul volto di mio padre – era ormai troppo grande: cercò il mittente, depose lo stivale e il panno, strappò la busta, lesse rimanendo in piedi, diede l’impressione di non capire, si lasciò cadere sulla panca, continuò a leggere da seduto, confrontò, tenne qualcosa controluce, diede l’impressione di continuare a non capire, mi guardò costernato e gridò: La mamma, vai a chiamare la mamma. Che venga giù! Muoviti! Bussai alla camera di letto di Gudrun Jepsen pregandola di scendere. Lasciai che mi precedesse ma la superai sulla scala riuscendo a vedere il suo ingresso in cucina: visibilmente di malumore e tuttavia paziente, si fermò davanti al tavolo tremando di freddo nella vestaglia. Mio padre non si accorse di lei. O forse la notò, ma prima di passarle preferì procurarsi un’ultima conferma continuando a leggere. Mia madre aspettava, mio padre leggeva. Lei si rese conto che gli riusciva difficile venire a capo della lettera. Mio padre girò il foglio sul tavolo e proseguì nella lettura tenendo la testa di lato. A un tratto le passò la lettera e la busta, balzò in piedi e la afferrò per le spalle costringendola, con dolcezza ma con decisione, a sedersi. Rimase in piedi alle sue spalle mentre mia madre cominciò a leggere.
Era tranquillo? Non poteva stare tranquillo. Ripeteva: Leggi,o: Guarda, o: Noti qualcosa? Oppure: Ti si riempono gli occhi di lacrime. Lei non lo ascoltava, non si lasciava spronare. Anche lei girò il foglio sul tavolo, alzò la testa, guardò davanti a sé verso i fornelli, tentò di dire qualcosa ma non riuscì a parlare. Per un istante preferirei lasciarli soli nel loro sbalordimento e, mentre annaspano per trovare l’aria e le parole, vorrei finalmente spiegare che cosa aveva scatenato quella lettera in casa nostra. La lettera, come ho detto, era senza mittente. La busta grande conteneva una pagina strappata da una rivista. Una riproduzione di un quadro ricopriva quasi interamente la pagina: La danzatrice sulle onde. Sullo stretto margine del foglio era stato scritto in stampatello: Badate alla somiglianza, ne vale la pena. Era un quadro di Max Ludwig Nansen. Chi danzava era Hilke. Danzava tra onde piatte che si rovesciavano contro una spiaggia accecante, sotto un cielo rosso. Danzava con i capelli sciolti e una gonna corta a righe; pareva che i seni le dessero fastidio ballando, e lei abbassava un braccio per premerlo contro i seni: sul suo viso buttato all’indietro si era diffusa un’espressione di sdegno e di grande stanchezza. Danzava con le onde, contro le onde, e tuttavia il ritmo delle onde determinava il ritmo della sua danza che la allontanava sempre più dalla spiaggia, la spingeva sul mare, al largo, dove avrebbe avuto termine. Dunque la danzatrice sulle onde era Hilke, mia sorella. (…)
Mi assomiglia, disse Hilke, la danzatrice sulle onde mi assomiglia, è vero. E mio padre: Sei riconoscibile e non solo ai nostri occhi. Questo ce l’ha spedito non so chi. Non c’è mittente. E come è capitato a quella persona, potrebbe succedere a chiunque guardando la riproduzione. Non hai bisogno di chiederti che cosa uno pensi riconoscendoti. Se almeno fosse stato un altro a fare questo quadro, ma è stato lui. Lui con la sua legge. Con la sua presunzione. Lui con il suo disprezzo per chiunque compia il proprio dovere. Allora non hai mai sentito che cosa dicono in giro su lui e me. (…) Pensa al male che ci hai fatto. Istintivamente guardai mia madre. Mia madre si mosse, si risvegliò dal suo indolente torpore, si rizzò e a bassa voce disse: Terribile, a che gradino sei scesa! Quella morbosità straniera. L’ossessione. L’ebbrezza. E che cosa ha fatto del tuo corpo! Il fianco fiammeggiante. Le cosce inarcate. E la tua faccia: non puoi certamente essere d’accordo con la faccia che ti ha dato. Un’offesa, disse mio padre, e mia madre: Finora non aveva mai offeso nessuno che avesse dipinto, nemmeno te [Nota di redazione: la frase “Bisher hat er noch jeden beleidigt, den er gemalt hat, und auch dich” significa “Finora ha insultato ognuno che egli abbia dipinto, ed anche te” p. 397 della versione tedesca]. Una zingara forse balla così. Sì, disse mio padre, una zingara. Ha fatto di te una zingara. È una vergogna, disse mia madre, e il poliziotto: Sai almeno quel che dovrai fare? C’è una cosa sola da fare: questo quadro, questo quadro non deve più esistere né per volere tuo né nostro. Tu hai contribuito perché venisse fatto, disse mio padre, e adesso puoi solo contribuire a farlo scomparire, non deve essere poi tanto difficile” [38].
In effetti, il dipinto scompare dall’atelier del pittore. È la prima volta che il figlio ha rubato un dipinto, per salvarlo. Il pittore ha un’intuizione, perquisisce la stanza di Siggi, ma non lo trova. Il figlio continua con la narrazione: “Rimossi la mimetizzazione e tolsi parecchi fogli di carta oleata. Sollevai il coperchio e mi sedetti. Rivedendo la mia nuova collezione e trovandola intatta, la tensione cedette e la pressione contro le tempie diminuì. Tolsi la danzatrice sulle onde e la appoggiai sul bordo della cassetta. La luce filtrava dall’alto e Hilke ballava per me tra le piccole onde increspate: insospettatamente, sotto quel cielo rosso, con i capelli sciolti, cominciò ad avere importanza, inaspettatatamente mi parve importante conoscerla con la sua gonna a righe e i seni a punta, quella Hilke che continuava a danzare nonostante la stanchezza, a danzare da sola davanti a una spiaggia accecante. Nessuno, nessuno avrebbe mai visto quel quadro, era deciso ormai, e anche gli altri quadri li avrei visti solo io: avevo imparato la lezione, l’avevo sperimentata su me stesso e sapevo di che cosa avessi bisogno per sopravvivere” [39].
La Petersen indica “Danza tra le candele” (Kerzentänzerinnen) come pittura di riferimento di Nolde, una delle più famose negli anni in cui si stava affermando come pittore di punta tra gli artisti innovatori prima della I guerra mondiale. Haftmann ne parla come un ‘tableau manifeste’, un quadro programmatico.
Non sappiamo che cosa il tema – fuoco tremolante e corpi che ballano – in realtà significasse per il pittore; per commentare una litografia corrispondente, una volta egli scrisse solamente: ‘Dovrebbe dimostrare passione e la mia gioia.’ Vediamo in quest’immagine che cosa egli realizzò: il venire in essere di una passione completamente scatenata nella decorazione di una danza dionisiaca, l’evocazione del mondo dionisiaco e primitivo-orfico, che si realizza nella danza e qui è divenuto immagine. L’immagine origina da queste profondità misteriose. ‘Senza pensare e conoscere’ come Nolde racconta ‘passai ad immagini grandi e libere che furono prodotte allora, completamente al di fuori di ogni orizzonte temporale.’ Questa possibilità di un’evocazione spontanea ha però la sua base in una nuova concezione degli strumenti tecnici. (…) Ora, Nolde abbandona completamente il carattere dello sfondo del dipinto, come area di riproduzione ed illusione spaziale. Egli rappresenta la superficie come uno sfondo evocativo e il luogo dove viene ad apparire un mondo di immagini; assegna allo sfondo il compito di vestire una gamma cromatica espressiva di un rosso e giallo ardenti e lampeggianti, che determina l’umore e le opzioni sostanziali già prima che ogni tema possa materializzarsi in modo intenso. L’elemento figurativo adesso prende forma ‘da un’idea vaga fatta solamente d’ardore e colore’. Semplificate in forma di geroglifici espressivi, allargate in spazio, le figure danzanti si annunciano simbolicamente sulla superficie. Queste figure si riferiscono l’una all’altra in una relazione di proporzione euritmica, e disegnano sulla superficie una decorazione dionisiaca che sostiene la loro intera direzione espressiva. In cooperazione con il movimento dei colori sulla superficie, quest’ornamento origina pulsazioni indipendenti (per esempio, il sovraimposto ornamento delle gonne) che muovono ritmicamente la decorazione della superficie e portano anche vibrazioni spaziali (le candele disposte come fossero battute della notazione musicale). Ogni cosa è disegnata in modo da applicare gli strumenti visivi - colore, sfondo, disegno degli oggetti, decorazione e ritmo – come materiali di un disegno con potere evocativo. L’immagine proviene dall’interno all’esterno; e un’idea che a lungo era stata messa in un angolo dell’inconscio improvvisamente vede la luce sulla superficie, irreale, ritmica, decorativa” [40].
Come si può vedere, le parole cruciali sulle labbra della madre risuonano molto simili a quelle di Haftmann: “Quella morbosità straniera. L’ossessione. L’ebbrezza” [41]. C’è tuttavia una differenza importante: Haftmann considera ciò come l’implicazione dello stato mentale del pittore – puramente istintivo, primordiale, come nei miti ancestrali di Orfeo e Pan – qualcosa che non si può controllare, come se il pittore fosse in trance. Il linguaggio nel romanzo di Lenz è molto più diretto: “Ha sempre insultato chiunque abbia dipinto” [42]. Vi è una diretta responsabilità, una chiara capacità ed intenzione di deformare la realtà.
9. Giardino con maschere (Lenz) e Maschere e dalie (Nolde)
Di Siggi, il figlio del poliziotto che ora soffre di una forma specifica di cleptomania, non ci si può più fidare. Il pittore lo caccia dal suo atelier. Qualche anno dopo, anche il poliziotto caccia il figlio di casa. In questa situazione di assoluta mancanza di punti di riferimento, Siggi visita l’inaugurazione di un’importante mostra retrospettiva su Max Ludwig Nansen ad Amburgo, dove riconosce molti partecipanti, mentre, fra i presenti, solamente Theo Busbeck lo individua, anche se non è più un bambino di dieci anni. Siggi riferisce una serie di discorsi d’apertura di alcuni critici d’arte (uno di questi, come già detto, è appunto ispirato a Werner Haftmann). Poi concentra l’attenzione su un nuovo quadro, che sarà profezia di problemi nell’immediato futuro:
Preferisco evitare di ripetere ogni commento anche perché è tempo ormai che io mi avvicini al grande quadro che non conoscevo. Era appeso da solo al centro di una parete. All’improvviso mi trovai davanti la tela intitolata Giardino con maschere e non riuscii a proseguire. Il giardino splendeva come un’officina di colori: era un’unica disperata fioritura, un’unica offerta di forme e fatti, ma ogni elemento era distinto, esisteva anche in sé e per sé. A un albero, a un ramo che bisogna immaginare, pendevano tre maschere sostenute da cordicelle verdi: due maschere maschili e una femminile. Il sole le investiva di lato e le illuminava per metà. Una terrificante sicurezza emanava da quelle maschere, una enigmatica certezza. I fori degli occhi erano d’un bruno terroso benché sul fondo il cielo fosse chiaro e senza nuvole. Le maschere minacciavano il giardino? Mi immaginai folate di vento, all’inizio un vento debole che le muovesse leggermente e poi un vento più forte che le facesse sbattere l’una contro l’altra e ruotare velocemente su se stesse. Ma a chi somigliavano? Mi pareva avessero espressioni familiari, mi sembravano il calco di visi che avevo conosciuto; ma alla memoria non si presentò nemmeno un nome. Immaginai che di notte crescessero di numero, pendessero da tutti i rami e dai cespugli, si sollevassero dalle aiuole su steli stecchi. Mi avvicinai al quadro, al giardino delle maschere. Ricordo che rimpiansi di non avere un bastone sottile e resistente per colpirle e staccarle dagli steli, dagli arbusti e dai rami. Desideravo spiccarle come si spicca la testa a un fiore, quindi caricarle su una carriola e rovesciarle in mezzo all’aiuola colorata.
Si misero al mio fianco. Mi sollevarono infilandomi le braccia sotto le ascelle. Io continuavo a guardare il giardino delle maschere e intanto riconobbi il tessuto chiaro, impermeabilizzato, dei loro spolverini. Il giardino si mimetizzò, e solo allora vidi come qualunque cosa si offuscasse davanti alle maschere che oscillavano. Non con violenza, non a scatti, ma con una pressione regolare mi spinsero di lato, mi allontanarono dal quadro. La presenza delle maschere in giardino pareva bastasse a mutare ogni cosa: fece esplodere o nascose la fioritura, rinforzò o attenuò l’incendio dei colori. Avvertii alla mia destra e alla mia sinistra due facce che avevo conosciuto di sfuggita, facce che esprimevano rispettabilità e diffidenza professionale.  Un gomito e un morbido pugno mi tastarono le costole, sempre senza causarmi dolore. Mi girai: nascosti in mezzo ai fiori vidi due occhi che come ammaliati osservavano le maschere. Perché avrei dovuto voltarmi, alzare la voce, protestare quando sapevo chi mi aveva attanagliato e per quale ragione? Mi lasciarono, ma il fruscio degli impermeabili non smise, continuò a restarmi vicinissimo. Non abbiamo bisogno di dire che il tutto deve svolgersi con estrema naturalezza. Evitiamo scalpore eccetera eccetera, evitiamo discussioni. Io mi comportai come al cinematografo avevo visto comportarsi altri nella stessa situazione: docilmente, tranquillamente, con rassegnazione. Il mio comportamento li soddisfece” [43].
La Petersen suggerisce “Maschere e dalie” come pittura corrispondente di Nolde. Questi sono alcuni brani che Werner Haftmann scrisse sul dipinto.
‘Maschere e dalie’ è un’opera del tutto compiuta,  deliberatamente equilibrata e realizzata con un’elevata cultura pittorica. Si può capire quanto il pittore – avendo dimenticato se stesso – si sia dedicato alla propria realizzazione: egli ha scordato per un istante la lotta appassionata per creare immagini poetiche e metafore espressive, una lotta che di solito lo assorbe completamente, e si è perso in pieno nel compito di creare un oggetto che sia bello in sé. Questo senso di silenzio, riunione, intimità è raro nel suo lavoro. (…) La bella intimità della nostra pittura deriva anche dagli oggetti del pittore. Tutti gli oggetti sono intimamente connessi con la vita quieta e introversa del pittore. (…) Le maschere provengono dalla sua piccola collezione dal suo viaggio in Asia orientale. Quest’aura d’intimità riempie l’intera immagine e il suo prezioso tono di colore. Al sobrio verde scuro e denso dello sfondo corrisponde il rosso diminuito dei fiori; il giallo del vaso e delle maschere è sfumato in un silenzioso giallo napoletano. La forma dell’ombra – disegnata in una maniera completamente libera in blu smeraldo – avvolge i contorni degli oggetti in un’astratta cantilena e unisce il verde e il rosso. Nonostante la densità d’impressione di una sensazione reale, l’immagine è molto lontana da ogni riproduzione naturalistica. La gestione indefinita della luce (che, solamente per scopi decorativi, crea accenti di luminosità come una pura ‘luce d’immagine interiore’), la superficie senz’ombra, il fatto che gli oggetti espandano le loro forme entro il contorno della superficie, la forma blu smeraldo dello sfondo (che cresce liberamente senza giustificazione) – tutto ciò mostra chiaramente la distanza da ogni intenzione naturalistica” [44].
Anche in questo caso, due interpretazioni differenti: un senso di suspense e tensione in Lenz, un senso di controllo e bellezza artefatta in Haftmann.
10. Il decimo ritratto letterario di Lenz – l’arte che verrà


Non ne ho parlato sino ad ora, ma vi è un decimo ‘ritratto’ nel romanzo: riguarda un pezzo (immaginario) di avanguardia di un altro artista, e non più un’opera di Max Ludwig Nansen. Siggi è ormai ricercato dalla polizia, ma riesce a sottrarsi all’arresto, almeno per qualche giorno; è ospitato per qualche ora dal fratello (l’ex soldato disertore), che vive in una casa insieme a altri giovani ad Amburgo. Là incontra un giovane artista, un certo Hansi Wolken (un altro nome fittizio) che dà un giudizio moto duro contro Nansen. “Ascoltami bene, ragazzo, disse Hansi. Il tuo Nansen è proprio il tipo che io considero una disgrazia: legato al suolo natale, visionario, politicizzato” [45].
E qui è il ritratto della pittura d’avanguardia: “Come descrivere la stanza di Hansi? (…) Sotto la finestra, applicata a un cartone grigio, la confessione pittorica di Hansi, il ciclo intitolato La sommossa delle bambole, a carboncino, punta d’argento ma anche ad acquarello” [46]. “Non dissi niente, e in silenzio passai davanti a Hansi. Tutti mi seguirono attentamente mentre mi inginocchiavo davanti alla Sommossa delle bambole e con tutta calma osservavo i lavori uno per uno. Dunque il popolo delle bambole di pezza: visi triangolari, visi appiattiti, visi a punto-punto-virgola-lineetta. Braccia pieghevoli. Gambe in cui si potevano fare due nodi, corpi elastici, chiazzati, ma soprattutto immortali. Le bambole si arrampicavano sul comignolo di una fabbrica, e lo occupavano. Facevano saltare un acquedotto, crollare un ponte, deragliare un treno. Toglievano una bandiera dall’alto di un edificio e scoprivano una tomba, per K.A. [Nota dell’editore: forse Konrad Adenauer]. Bambole con il vento contrario, bambole sul poligono di tiro di Munster. Incatenavano una ragazza addormentata (…). Fuggivano alla vista di una trottola, cavalcavano un gallo, con dodici forbici sezionavano una poltrona imbottita” [47].
Insomma, quello che è chiaro è che – con il decimo ritratto – il mondo di Max Ludwig Nansen (e con lui, quello di Emil Nolde) appartiene irreversibilmente al passato.

NOTE
[29] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, Vicenza, Neri Pozza, 2006, 506 pagine. Citazione alle pagine 183-187.

[30] Haftmann, Werner - Emil Nolde, Colonia, DuMont, 1958, 140 pagine. Citazione a pagina 92.

[31] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 248-249.

[32] Haftmann, Werner - Emil Nolde,  (citato), p. 124.

[33] Haftmann, Werner - Emil Nolde,  (citato), p. 118.

[34] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 407.

[35] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 366.

[36] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 361-364.

[37] Haftmann, Werner - Emil Nolde,  (citato), p. 134.

[38] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 431-436.

[39] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 446.

[40] Haftmann, Werner - Emil Nolde,  (citato), p. 68.

[41] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 436.

[42] Si confronti la p. 397 della versione tedesca e la p. 404 di quella inglese,

[43] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 463-465.

[44] Haftmann, Werner - Emil Nolde,  (citato), p. 104.

[45] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 475.

[46] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 470.

[47] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 474.



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