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Francesco Mazzaferro
Il ‘mito’ di Emil Nolde nel romanzo ‘Lezione di tedesco’ di Siegfried Lenz
Parte Terza
[Versione originale: gennaio 2017 - nuova versione: april 2019]
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Fig. 19) L'edizione italiana del romanzo di Lenz (traduzione di Luisa Coeta) (2006) |
Continuiamo a citare i passi del romanzo ‘Lezione di tedesco’, pubblicato nel 1968, in cui Siegfried Lenz parla – attraverso descrizioni letterarie – delle pitture di Emil Nolde, sia pur modificate dal romanziere in modo che esse possano adattarsi appieno alla narrazione del romanzo. Questi passi sono messi a confronto con la descrizione dei medesimi da parte dello storico dell’arte Werner Haftmann, che ‘riscoprì’ Nolde in una famosa monografia del 1958. Le similitudini tra narrazione romanzata, critica letteraria e dipinti rivelano i meccanismi che hanno contribuito a ‘rivoluzionare’ l’immagine di Nolde in quei decenni, in Germania ed in Europa.
Klaas Jepsen, soldato e figlio maggiore del poliziotto,
vive nascosto nella casa del pittore Nansen, dopo aver disertato dalla
Wehrmacht. Il poliziotto è stato informato della diserzione ed ha deciso di
ripudiare il figlio. È pronto a denunciarlo, non appena rientri a casa. Il
poliziotto pensa che il pittore violi clandestinamente il divieto sulla
pittura, ma ignora che egli commetta un crimine molto più serio, dando rifugio
proprio a suo figlio disertore. Il pittore sta dipingendo clandestinamente un
nuovo quadro durante la notte. Completamente concentrato sulla sua ultima
opera, chiamata “Improvvisamente sulla spiaggia” (Plötzlich am Strand), Nansen si dimentica di oscurare la finestra
del suo atelier. Il poliziotto se ne accorge e lo coglie in flagrante mentre
viola il divieto di dipingere. Grazie al cielo, il poliziotto si accorge della
violazione sulla pittura, ma non scopre suo figlio, anch’egli nascosto nel
medesimo atelier. Il dipinto immaginario diffonde un senso di paura per tutta
la scena, che potrebbe portare alla rovina del pittore e del suo rifugiato. La
pittura corrispondente di Nolde, secondo la Petersen, si chiama “Trio” e risale al 1929.
Il ritratto letterario è proprio all’inizio dell’ottavo
capitolo, intitolato ‘Il ritratto’. La frase iniziale “Mann im roten Mantel, jetzt muß ich von dir erzählen“ suona
metricamente come il verso virgiliano Arma
virumque cano, Troiae qui primus ab oris che apre l’Eneide di Virgilio. Non può essere una pura coincidenza.
“Uomo con il
mantello rosso, ora devo parlare di te. Finalmente è arrivato il tuo turno. Su
una spiaggia desolata puoi camminare sulle mani, o addirittura danzare con la
testa all’ingiù davanti a mio fratello Klaas che casualmente, e tuttavia non
casualmente, ti è vicino. Permettici di chiederti un’altra volta perché non sia
la serenità a dominare il quadro, ma la paura, la verde e bianca fiamma della
paura. Con il tuo volto antico, con la tua astuzia antica, a te ora salire
sulla scena: a causa tua, suppongo, lo studio non era oscurato come voleva il
regolamento. Perché non era soddisfatto di te e ti doveva continuamente
cambiare con esasperati colpi di pennello, perché con decisione precipitosa –
il mattino come la sera – ti aiutava a divenire te stesso, Max Ludwig Nansen
non aveva fatto in tempo a compiere un giro di accertamento intorno alla casa,
a sincerarsi che tutte le tende avvolgibili, usate per l’oscuramento, fossero
ben calate! In ogni caso era impegnato con te, ti migliorava, ti correggeva, e
non si accorse che uno degli avvolgibili era rimasto alzato come una vela
incagliata e lasciava uscire la luce, la cosiddetta luce da lavoro.
All’improvviso una luce tremolante solcò la pianura buia (…). Per quel che so,
era la prima luce che dopo anni compariva nella pianura. Sottile, giocava sui
fossati e i canali, e chiunque l’avesse vista, si sarebbe chiesto terrorizzato;
ma chi vuole attirare? Chi, in un angolo di centosettanta gradi, la scoprirà
per primo, la valuterà e ne trarrà le conseguenze? Le navi che avanzano a luci
smorzate sul Mare del Nord? Le spie? O i Blenheim? Prima delle navi, delle spie
e dei cacciabombardieri Blenheim si era accorto di quella luce illegale il
poliziotto della stazione di polizia di Rigbüll: lui, che aveva il dovere di
controllare che al calar della sera ci fosse buio perfetto, era già per strada.
(…) Tutte le finestre della casa erano oscurate come voleva il regolamento,
solo dallo studio usciva un raggio di luce che illuminava il giardino. La
guardia della stazione di polizia di Rugbüll si diresse verso il quadrangolo
illuminato, non si curò affatto di dove metteva i piedi, guadò semplicemente
un’aiuola di astri e si aprì un varco tra gli arbusti e i cespugli inumiditi.
Tanto vicino ormai da poter tuffare una mano nella luce, notò che un
avvolgibile si era incastrato. (…) Vide un uomo con un mantello rosso, e Klaas,
o uno che lo ricordava; davanti a loro, quasi nascondendoli, lavorava il
pittore, con il cappello in testa. Lavorava all’uomo in mantello rosso
apponendo pennellate corte, parlando, litigando. Accorciò i suoi piedi da
coboldo che spuntavano dal mantello. Rafforzò il fondo azzurro per rompere il
rosso della veste. E il mantello splendeva sulla spiaggia desolata davanti a un
Mare del Nord nero, invernale: splendeva e contravveniva a ogni legge di
gravità perché il mantello a campana non si afflosciava, non ricadeva, sebbene
l’uomo camminasse, o addirittura ballasse sulle mani. Il mantello non
scivolava, non ricopriva quel viso antico, arrovesciato, come sorretto dalle
mani puntate a terra, sul quale, nonostante tutto, un’astuzia antica accampava
le proprie pretese. Com’erano magre le sue membra e fragile il corpo inarcato,
ma in perfetto equilibrio! Gongolava, rideva, e tentava di contagiare Klaas con
il suo riso, chiaramente desideroso di piacere a mio fratello, di corteggiarlo,
rasserenarlo, e per far questo camminava, o meglio danzava sulle mani, e con
una certa facilità, bisogna dire.
Tuttavia, benché quella posizione gli riuscisse facile, non poteva
conquistare Klaas e, tanto meno, indurlo a rimanere: la paura che lui stesso
aveva involontariamente provocato in mio fratello, una bianca ed una verde
fiamma di paura, spingeva Klaas ad abbandonare la scena: aveva le dita allargate,
la testa riversa all’indietro, e l’ombra sotto la bocca aperta faceva pensare a
uno grido soffocato. Altri due, tre passi stentati. Si vedeva benissimo che poi
si sarebbe messo a correre, che la paura l’avrebbe spinto sul litorale,
incontro all’orizzonte, a un orizzonte indifferente, pur di sfuggire dall’uomo
in rosso, con la testa rivolta all’ingiù. Il quadro era intitolato Improvvisamente
sulla spiaggia, o per lo meno così lo
chiamava il pittore, ma in realtà nel suo diario lo definiva anche Paura. (…) Soddisfazione mista a ripugnanza:
questo deve aver provato mio padre dall’improvvisato osservatorio, e questo
spiega perché restasse nel suo
appostamento più a lungo di quanto potesse in realtà permettersi; va ricordato
infatti che quel raggio luminoso era visibile nella pianura buia a grande
distanza (…) Ma quelle infrazioni a ordini precisi, che si compivano sotto i
suoi occhi, gli procuravano una gioia aspra, e chi sa fino a quando avrebbe
resistito in quella posizione se non avesse creduto di udire le parole di Ditte
[nota di redazione: la moglie del pittore]: allora scese dal tavolo, lo riportò al proprio posto, sfilò i lembi
della mantella dal cinturone, gettò un ultimo sguardo alla finestra illuminata,
e bussò alla porta d’ingresso dello studio [29].
Il pittore – nel tentativo di evitare la denuncia – fa
a pezzi il dipinto; tuttavia il figlio minore del poliziotto (il narratore) recupera
in segreto i pezzi del quadro, cerca di ripararlo e lo tiene per sé; per la
prima volta nasconde segretamente un quadro di sua iniziativa, senza neppur
avvisare il pittore. In realtà non
ha ancora rubato, ha semplicemente recuperato i frammenti di un quadro fatto a
pezzi, ma questo è forse il primo passo verso la cleptomania futura.
Sia Grothmann sia la Petersen identificano la pittura
corrispondente di Nolde con “Trio”
del 1929. Questo è un brano di Haftmann su quel quadro: “La tendenza al grottesco, magico e burlesco è sempre stata molto viva
in Nolde. (…) ‘Trio’ appartiene a questa serie. Il suo titolo musicale non è
casuale. L’interazione musicale tra i tre colori blu, giallo e rosso è
abbastanza ovvia; la combinazione genera da se stessa questa società burlesca –
in forma di terzetto – di spiriti delle nuvole. La pittura è abbastanza fluida,
stesa in una tecnica simile all’acquarello, che da ogni libertà al colore di
allargarsi in ogni direzione. La combinazione dei colori è semplice.
L’immagine, originariamente colorata in arancione, è basata sul contrasto
complementare blu-arancione. Il blu riempie lo sfondo della superficie.
L’arancione si trasforma in giallo e giallo verde sul lato destro, e in rosso
sul lato sinistro. Questa semplice tonalità complementare e i suoi passaggi
creano una decorazione brillante di colori. Alcuni punti speciali – il verde
smeraldo della cravatta nel mezzo, il viola della pedana sulla nuvola, gli
elementi rossi qua e là – rendono la tonalità ricca e preziosa. Dallo sfondo
blu appaiono - in una luce giallo oro brillante da favola – i tre attori: due
passeggiano e discutono su una pedana violetta sulle nuvole, ed il terzo si
getta nello spazio con un bel salto” [30].
Mentre Lenz offre una lettura dell’opera come se fosse
ispirata al sentimento fondamentale di paura, per Haftmann l’originale è parte
del burlesco. Da notare: i colori del quadro originale di Nolde sono diversi da
quelli descritti nel romanzo per il quadro immaginario di Nansen. Lenz si
riferisce a una combinazione di colori complementari bianco-verde, che
segnalano un senso di paura, qui la combinazione complementare è blu-arancione,
e ispira il fresco sentimento di una favola leggera.
6. Costruttori di nubi (Lenz) – Mare mosso e Fiori e nuvole (Nolde)
Il pittore è stato
denunciato dal poliziotto, ma non vi è alcuna prova definitiva che abbia
effettivamente violato il divieto di dipingere. Perciò due membri della Gestapo
lo prelevano a casa sua per portarlo in città e interrogarlo.
Gli danno solamente trenta
minuti prima di partire. Max Nansen cerca
immediatamente di salvare le immagini che sono nascoste in casa sua, tra le
quali la più importante è “Il costruttore
di nuvole” (Wolkenmacher), una
pittura dominata da un colore marrone bruno molto forte ed in continua
espansione: bruno, stranamente il colore del potere nazista che opprime il pittore,
cosa che qui accentua il senso di dramma della scena.
“Il pittore si muoveva nella grande stanza. A un certo punto trascinò
una cassa sul pavimento, la aprì e la richiuse. Girò il rubinetto dell’acqua e
buttò una scatola di conserva vuota sul tavolo delle ceramiche. Sfruttando gli
angoli e le nicchie, protetto da giacigli provvisori, riuscii ad arrivare quasi
fino a lui: solo una stretta striscia ci divideva. Scostai la coperta tesa a
mo’ di paravento: lui era davanti a me. Con circospezione aprì un largo
armadio, rimase in ascolto, spalancò le due ante, rimase in ascolto, si chinò:
là dentro – non posso dimenticare ciò che accadde all’interno dell’armadio –
una distesa di marrone irresistibile nascondeva l’orizzonte; una distesa
marrone, interrotta da strisce nere e orlate di grigio, avanzava, cresceva
sempre più su un paesaggio crepuscolare. Il quadro era intitolato Il
costruttore di nubi. Il pittore lo osservò guardandolo di lato, indietreggiò e
mi venne così vicino che avrei potuto toccarlo. Non era soddisfatto, non gli
piaceva la sua opera; rivedendo il quadro si sentiva deluso. Con aria
preoccupata scosse la testa, si avvicinò al quadro, sollevò una mano, e
premette il pugno chiuso sul punto da cui scaturiva il marrone. Qui, disse, qui
ha inizio l’azione. Lasciò cadere nuovamente la mano, si strinse nelle spalle e
parve colto dal freddo. Non seccare, Baldassarre, lo vedo anch’io che manca il
presentimento, il presentimento della tempesta. Per questo il colore deve
suggerire meglio l’idea della fuga e ci vuole maggiore attenzione, maggiore disponibilità,
e qualcuno che esprima l’angoscia. La porta dello studio si aprì ma il pittore
non se ne accorse. Io avvertii la corrente d’aria che entrava con violenza,
attesi – lo ricordo esattamente – il rumore dell’uscio che si richiudeva. Ma il
rumore non venne. Allora sollevai la coperta, uscii dal mio nascondiglio e
premendo l’indice sulle labbra mi avvicinai al pittore in punta di piedi. Gli
diedi dei piccoli colpi. Il pittore sobbalzò, sopraffatto dallo spavento non
aprì bocca. E quando stava per dire qualcosa colse il significato della mia
mano puntata verso la porta. Quasi fosse preparato a quell’imprevisto, comprese
immediatamente il mio avvertimento: in fretta e furia staccò il foglio
dall’anta anteriore dell’armadio, lo arrotolò, lo spinse sotto l’armadio e
subito lo estrasse di nuovo. Si guardò in giro: c’erano centinaia di
nascondigli e tuttavia nessuno che gli sembrasse adatto per il suo Costruttore
di nubi. Angoli, recessi, fessure si offrirono al suo sguardo, e insieme a loro
le disponibili bocche dei vasi, ma in quel momento tutto parve inadatto: perché
mi aveva scoperto. Mi spinse contro il fianco dell’armadio, si chinò su di me e
da vicino mi guardò con uno sguardo penetrante che non gli conoscevo. Sentii il
profumo di sapone e l’odore di tabacco del suo respiro. Avvertii il freddo dei
suoi occhi grigi. (…) Disse sussurrando, tese l’orecchio verso la porta e
continuò a voce bassissima: Posso fidarmi di te? Siamo amici? Farai qualcosa
per me? Sì, dissi, e annuii, sì, certo. Sapevo già quel che voleva. Sfilai il
mio pullover verde sollevandolo fino alle spalle, scostai i pantaloni intorno
ai fianchi, e il pittore fece aderire il quadro al mio corpo, tirò giù il
pullover, lo infilò e lo pigiò dentro i pantaloni. Il golf era adesso molto
teso. Cercai di allargarlo tirandolo qua e là. Feci dei movimenti per provare.
Portalo via, al sicuro, mi disse piano, e dopo riportalo a zia Ditte. Ne ho
bisogno” [31].
Non vi è dubbio alcuno che
vi sia un numero assai alto di dipinti di Nolde su nuvole e tempeste. Grothmann
propone una lista di titoli, la Petersen suggerisce come modelli “Mare mosso” (Hohe Wogen,
1940) e “Fiori e nuvole” (Blumen und Wolken, 1933), sulla base del
marrone intenso lungo l’orizzonte. Questi sono alcuni brani di Haftmann sulle
due opere.
Su “Mare mosso”: “I dipinti creati sin dal (…) 1930 ci
avrebbero potuto spiegare che la sensibilità del pittore usa il dizionario
della natura e tende d’ora in avanti a creare metafore del destino. Il colore
diviene divampante, misterioso e cerca tonalità particolari. Rilascia una luce che – strana e
fantasmagorica – raccoglie oggetti figurati in un’atmosfera magica; in essa, le
cose stesse – sconcertanti e ardue – diventano fatali per il destino. Flussi di
colori luminosi si distribuiscono sulla superficie – ancora liquidi e scossi -
con una trasparenza strana e indefinita. La definizione degli oggetti non
avviene per mezzo del loro disegno, ma è determinata dai confini delle aree di
colore, che si muovono e cozzano tra loro, e dalle gradazioni di una luce
colorata, che dà forma alle cose. (…) Al di sopra del movimento trasparente e
ritmato delle onde è sovraimposto un pesante marrone purpureo, che getta una
luce monotona sulla scena. Un giallo brillante si oppone a quest’espansione
monotona e inesorabile del marrone. Una drammatica battaglia di luce e oscurità
si scatena nell’area del cielo. Al di sotto, il respiro ritmato del blu. (…)
Dall’interazione tra colori evocativi sorge il tono fatale che riecheggia in tutti
gli ultimi lavori di Nolde” [32].
Su “Fiori e nuvole”: “Fiori e nuvole – erano i due simboli in cui il dramma della natura si presentava per Nolde. Nuvole – erano
le sedi degli dei e della paura, ciò che sempre cambia e mai perisce, la
minaccia o la consolazione della regione celeste, la forma ed il vettore della
luce che le attraversa, il fato della terra che viene da lontano. Fiori – erano
le forme effimere che crescevano dall’utero della terra, piene di segreti,
strane, interiormente ripiene di figura, organismi di una fragile bellezza che
urla, che spesso potrebbe avere qualcosa di disperato e frenetico, per colpa
della loro caducità effimera. Colori e nuvole sono i soli vettori che portino
un’espressione oggettiva in questa pittura. (…) Il color arancio getta una luce
sinistra sullo sfondo; ad esso si oppone un grigio scuro, che sopraffà la luce.
Dal basso penetra un movimento verde verso l’alto, che dà un tono di terra al
viola bruno e al grigio nero. Dal movimento astratto del colore e dalla memoria
della natura – ormai sperimentata migliaia di volte – nasce nel pittore
l’associazione a paradiso e terra. Lo sviluppo drammatico dell’arancio e grigio
nero diviene una battaglia tra luce e oscurità sul palcoscenico del paradiso”
[33].
Vanno colte le similitudini in merito all’espansione irreversibile del marrone e del grigio che lo costeggia, con un senso di colore che si diffonde violentemente attraverso il quadro, disegnando l’orizzonte come delimitazione tra aree di colore.
La guerra è finita; il destino di Max Ludwig Nansen dovrebbe (almeno in teoria)
essere libero di preoccupazioni maggiori, se non per il fatto che è rimasto
vedovo. Ufficiali inglesi lo visitano per annunciare non solamente che critici
d’arte e gallerie nel loro paese mostrano vivo interesse per la sua arte, ma
che è stato nominato membro dell’Accademia Reale a Londra; esperti d’arte da
ogni parte della Germania (ed in particolare quelli che gli avevano rifiutato
ogni aiuto o semplicemente solidarietà sotto il regime precedente)
improvvisamente fanno a gara per visitarlo nel paesino più a nord della
Germania, per proporgli mostre e vendite di quadri al pubblico. Egli accetta
con piacere la nomina inglese, ma spiega anche rispettosamente che intende
rimanere un pittore della propria regione in Germania: “La mia metropoli si trova qui” [34]. Un alto ufficiale
dell’esercito inglese e uno storico dell’arte di Londra gli chiedono del
divieto e di come sia stato messo in pratica. In quel momento sarebbe stato
facile per lui denunciare il poliziotto Jens Jepsen alle autorità inglesi e far
sì che perdesse il posto, ma egli non spende una sola parola contro di lui. Per
lui, il poliziotto è soprattutto un compaesano, parte della stessa comunità. Al
contrario, rifiuta sdegnosamente ogni offerta da quegli esperti d’arte tedeschi
che una volta lo avevano messo al bando (piuttosto che collaborare con loro, preferirebbe
rimanere nella ‘camera degli orrori’ a
cui loro stessi lo avevano condannato) [35].
Finalmente Nansen può dipingere liberamente e decide di lavorare al proprio ultimo Autoritratto (Selbstbildnis).
È un’occasione per rifletter su una vita intera, su quel che è stato raggiunto
e quel che non lo è stato, ma anche sul suo rapporto con l’arte. Non è
necessariamente una riflessione facile. Come sempre, il figlio del poliziotto è
l’io narrante:
“Dunque, nuove difficoltà. Noie con il colore, sguardi insoddisfatti.
Ritraeva se stesso, e più il tempo passava e più capitava che il volto del
quadro non corrispondeva al modello. Semplicemente non mi vedo, disse, niente
si ferma, tutto si muove troppo alla svelta e io non riesco a eliminare la
contraddizione. All’improvviso il colore non era più amicizia, ma uno stato
temporaneo. Ha la maledetta tendenza a emanciparsi, disse, diventa energia
incontrollabile. Guarda, Siggi, e cerca di descriverlo, solo perché tu capisca
come sia insufficiente la descrizione quando il colore si trasforma in energia.
In movimento. Movimento nello spazio. Sedevo dietro di lui su una cassetta
ricoperta da un pezzo di tela grezza e seguivo il suo tentativo di “trattenere”
se stesso in un luogo preciso, in un paesaggio sul quale, avvolto nella sua
pelliccia rosso fuoco, si muoveva anche Baldassarre, un Baldassarre piuttosto
scoraggiato o, forse, reso innocuo dalla prospettiva. La carta giapponese
imbevuta di colore ricordava un tessuto, il volto diviso in zone di luce
eterogenea ricordava invece una maschera leggera che lasciava trasparire il
mondo. La parte sinistra della faccia era di un grigio debole mescolato con il
rosso mentre la destra d’un gialloverde; lo sfondo era a macchie rossastre:
ecco come si vedeva. Due diverse metà del viso. E gli occhi grigi, che
sembravano guardare da molto lontano attraverso veli azzurrognoli, rivelavano
in parte lo sforzo di recepire se stesse. Se ora dico: la bocca leggermente
aperta in atto di parlare, allora la fronte scintillante di un bagliore
biancastro contraddice la precedente affermazione. Se dico: l’azzurra ombra sul
dorso del naso è la comunicazione tra le due metà del viso, allora devo anche
ammettere che la divisione esiste. Tutto era equivoco: la bocca, gli occhi e
persino le orecchie che mi parevano artificiali, come di metallo.
Che cosa ti dà? Chiese con impazienza. Su che cosa ti dà
questo quadro? Devi pure saperlo dire. Se rifletti: parlando. Se guardi:
spiegando con parole. Ebbene, che cosa? Non sapevo che cosa volesse da me.
Ebbene, che cosa? Non capivo come mai non potesse o non volesse abituarsi alle
due differenti metà del volto, grigio rosso e giallo verde. Niente contenuto,
disse, un quadro non deve darti nessun contenuto, ma che cosa allora? No,
Baldassarre, il colore non può trasformarsi in una superficie piana. Pensa
all’inverno quando sulla carta i colori ad acqua improvvisamente si
congelavano, la neve li cancellava, i colori sciogliendosi si mescolavano: che
cosa succedeva? Diventavano energia? Energia simile a quella che fa crescere i
cristalli e le alghe? I muschi? Che ne pensi (…)? Per quale ragione noi non
riusciamo più a mettere niente al sicuro? È perché non siamo capaci di
sottometterci o è perché non sappiamo vedere? Baldassarre pensa che noi
dovremmo cominciare a imparare a vedere. Vedere: mio Dio, come se tutto non
dipendesse da questo. Mise sul cavalletto due schizzi del suo autoritratto e li
accostò. Poi fece qualche passo all’indietro, e l’obliquità, la tensione del busto
esprimevano la sua insoddisfazione: qualcosa mancava, Qui puoi già vederlo,
Siggi: troppo povero, troppo perfetto. Questo azzurro che emana luce dall’interno,
su tutta la faccia… non c’è più posto per il movimento. Sai che cosa significa
vedere? Moltiplicare significa. Vedere è penetrare e moltiplicare, o anche
inventare. Per assomigliare a te stesso devi inventarti di continuo, a ogni
sguardo. Solo se inventi concretizzi. Qui in questo azzurro nel quale niente
oscilla, nel quale non c’è inquietudine, non si concretizza niente. Niente si
moltiplica. Se vedi, nello stesso momento anche tu sarai visto. Lo sguardo ti
torna indietro. Vedere, eh già! Può significare anche rischiare il tutto per
tutto o attendere il mutamento. Tu hai davanti a te tutto, gli oggetti, il
vecchio, ma queste cose non sono niente se non fai intervenire te stesso.
Vedere: ma non è solo registrare. Bisogna essere pronti a ritrarre. Te ne vai
e poi torni e intanto qualcosa è mutato. E non parlarmi di verbali. La forma
deve fluttuare, tutto deve fluttuare. La luce non è poi saggia come la si
immagina.
O qui, [Siggi], questa piccola figura calda di sole:
Baldassarre mi porge sul palmo della mano un mulino di minuscole dimensioni, ma
io non gli bado. Tu vedi il punto dove si trova un altro, qualcosa d’altro: ci
deve essere un movimento che congiunga questo punto. Vedere è scambio,
reciprocità. Un fatto nuovo significa mutamento reciproco. Prendi il fiordo,
prendi l’orizzonte, il fossato, la seronella: appena li recepisci, a tua volta vieni
recepito da loro. Vi conoscete reciprocamente. Vedere vuol dire anche vedersi
incontro, accorciare le distanze. Oppure? Baldassarre sostiene che questo è
troppo poco. Insiste perché vedere sia anche smascherare. Viene messo a nudo
qualcosa, che nessuno al mondo sospetta. Non so perché ma io sono contrario a
questo smascheramento. Si possono sfogliare tutte le tuniche della cipolla ma
alla fine non ti resta nulla. Ti dirò: si comincia a vedere quando si smette di
recitare la parte dello spettatore e ci si inventa ciò di cui si ha bisogno:
quest’albero, quest’onda, questa pioggia. E adesso torniamo al quadro: ti dà
qualcosa? Ho dovuto suddividere la faccia, qui rosso grigio, là giallo verde.
Veramente non so come spiegarlo, ma le parti non armonizzano. Di questo
autoritratto potrei dire: non mi riguarda affatto perché manca troppo. Gli
mancano le sue stesse possibilità. Mi spiego: quando fai una cosa, una faccia,
un oggetto, devi fornire le possibilità che questa cosa, faccia o oggetto, ha
in sé. Taluni sono riusciti a fare il proprio “autoritratto”: guardi la loro
faccia e riconosci le malattie che hanno superato, forse scopri addirittura la
loro situazione finanziaria. Qui, semplicemente, manca troppo. Non è stato
visto fino in fondo, dunque non è stato dominato. Vedere significa anche
questo: dominio, presa di possesso. Lo rifarò in un altro modo. Che ne pensi?” [36]
Prima di considerare le parole di Werner Haftmann sul ritratto del 1947, consentitemi di dire che io
non ricordo alcuna pagina di ugual forza sul ruolo della creazione artistica –
su arte e natura, artista e oggetto artistico, riproduzione e invenzione – e
sul rapporto tra arte e artista nelle memorie di Nolde. Nolde aveva sempre
fatto riferimento alla creazione artistica come un processo puramente
istintivo, che lo aveva sempre preso di sorpresa, come se lui producesse
qualcosa che egli non aveva voluto creare, in verità. Di conseguenza, Nolde non è mai riuscito a
fissare una visione coerente della creazione artistica. Queste osservazioni di
Siegfried Lenz – se pur ovviamente parte della finzione letteraria del romanzo
– sono comunque assolutamente plausibili. Lenz offre idealmente al suo lettore
la formulazione ‘espressionista’ secondo cui vedere significa moltiplicare,
inventare e dominare. Nolde non aveva mai voluto, o non era mai stato capace di
includere un’espressione di tal forza nei suoi scritti. Lenz vuol fare meglio.
Questi sono alcuni passaggi
di Haftmann: “Nolde produsse nella sua
vita quattro autoritratti (…). Adesso, nel 1947, lo dipingeva per l’ultima
volta, celebrando il suo ottantesimo compleanno. L’immagine è estremamente
simile e, secondo i giudizi delle persone che a lui erano vicine, esattamente
la natura intima del vecchio pittore. È un’immagine molto calma e semplice e
mostra il pittore nei suoi vestiti di ogni giorno, senza alcuna pretesa
sostanziale: un volto silenzioso, un po’ assente, con occhi che guardano da
lontano. Da quel che è stato dipinto si
può concludere che Nolde indugia in un suo proprio strato isolato dalla ‘vita’
e che è solo nel cerchio dei suoi sogni e visioni. È l’ultimo quadro anche in
un altro senso speciale. È l’ultima volta che Nolde si confronta direttamente
con la realtà, con il modello di ciò che è visibile. Per l’ultima volta egli
abbandona il suo mondo di sogno – che aveva fatto suo a partire delle ‘immagini
non dipinte’ – e si pone direttamente di fronte alla natura. Ora è davvero
curioso scoprire che questo contatto diretto con l’immagine della natura – in
un’attività puramente artistica – richiama ancora il tipo di pittura da cui si
era avviato lo sviluppo indipendente di Nolde: il tardo impressionismo. Lo
stile pittorico largo e impetuoso del suo periodo maturo espressionista è
difficile da ritrovare” [37].
Il confronto tra Lenz e
Haftmann rivela qui sia similarità sia chiare differenze. Per quel che riguarda
le prime: il riferimento comune all’‘ultimo’ autoritratto ed al tema del
rapporto con la natura. Quanto alle seconde, la teoria di un pittore
espressionista in Lenz e lo stile di un tardo impressionista in Haftmann.
8. La danzatrice sulle onde (Lenz) – Danza tra le candele (Nolde)
La fine della guerra non ha
portato ad una fine delle persecuzioni per il nostro pittore. Il poliziotto si
crede ancora in diritto di assicurarsi che il divieto di dipingere sia
rispettato. Trova vecchi disegni di Nansen e li distrugge. È ovvio che egli
agisca d’iniziativa propria, senza alcuna base legale, infrangendo la legge
perché ossessionato da un malinteso senso del dovere.
Un giorno, Jepsen riceve una
lettera anonima, che contiene la foto, contenuta in una rivista, di un’opera di
Max Ludwig Nansen, che riproduce la figlia del poliziotto (Hilke) come
“Danzatrice sulle onde”. Non appena si rende conto che la figlia ha posato come
modella per un quadro prodotto in violazione del divieto ch’egli stesso doveva
attuare, il poliziotto ha un’esplosione di rabbia. Tutto ciò diventa l’occasione per uno scontro
finale tra il poliziotto e sua moglie da un lato e la figlia dall’altro. Quel
che succede nella confusione totale delle ore seguenti non è immediatamente
chiaro, ma il pittore si precipita alla stazione di polizia, anch’egli in uno
stato di eccitazione, denunciando la scomparsa della “Danzatrice sulle onde” ed accusando il poliziotto di aver sottratto
il quadro, senza aver alcuna autorità per
farlo. Tornando al ritratto letterario del dipinto immaginario, il suo soggetto
vibrante – la danza scatenata – è un tema perfetto per la violenta esplosione
di rabbia tra tutti coloro che sono coinvolti.
“C’è qualcosa per
noi? (…) Solo una lettera di formato grande, busta marroncina, scrittura a
scampatello, niente mittente. Non c’è il mittente, disse [n.d.r. il
postino] annuendo con aria pensierosa;
forse stava pensando di trattenerla, ma alla fine me la porse e indicando la
casa disse: Sbrigati, portala dentro e di’ al tuo vecchio che in futuro deve
accettare solo lettere con il nome del mittente. (…) Mio padre stava pulendo le
scarpe. Una volta alla settimana puliva tutte le scarpe che riusciva a scovare.
Le portava in cucina, le radunava su due file abbastanza regolari e le
sottoponeva a tre procedimenti: spolverare, dare la crema, lustrare. Fui
costretto a mettere la lettera sul tavolo. Il poliziotto la guardò continuando a lucidare uno
stivale con uno straccio di lana, alzò le spalle e si voltò. Ma subito lanciò una seconda occhiata, più lunga della prima, come se qualcosa, tardivamente, lo avesse
colpito. Stava per voltarsi di nuovo ma la curiosità – era interessante vedere come
affiorasse sul volto di mio padre – era ormai troppo grande: cercò il mittente, depose lo stivale e
il panno, strappò la
busta, lesse rimanendo in piedi, diede l’impressione di non capire, si lasciò cadere sulla panca, continuò a leggere da seduto, confrontò, tenne qualcosa controluce, diede
l’impressione di continuare a non capire, mi guardò costernato e gridò: La mamma, vai a chiamare la
mamma. Che venga giù!
Muoviti! Bussai alla camera di letto di Gudrun Jepsen pregandola di scendere.
Lasciai che mi precedesse ma la superai sulla scala riuscendo a vedere il suo
ingresso in cucina: visibilmente di malumore e tuttavia paziente, si fermò davanti al tavolo tremando di
freddo nella vestaglia. Mio padre non si accorse di lei. O forse la notò, ma prima di passarle preferì procurarsi un’ultima conferma
continuando a leggere. Mia madre aspettava, mio padre leggeva. Lei si rese
conto che gli riusciva difficile venire a capo della lettera. Mio padre girò il foglio sul tavolo e proseguì nella lettura tenendo la testa di
lato. A un tratto le passò la
lettera e la busta, balzò in
piedi e la afferrò per
le spalle costringendola, con dolcezza ma con decisione, a sedersi. Rimase in
piedi alle sue spalle mentre mia madre cominciò a leggere.
Era
tranquillo? Non poteva stare tranquillo. Ripeteva: Leggi,o: Guarda, o: Noti
qualcosa? Oppure: Ti si riempono gli occhi di lacrime. Lei non lo ascoltava,
non si lasciava spronare. Anche lei girò il foglio sul tavolo, alzò la testa, guardò davanti a sé verso i fornelli, tentò di dire qualcosa ma non riuscì a parlare. Per un istante
preferirei lasciarli soli nel loro sbalordimento e, mentre annaspano per
trovare l’aria e le parole, vorrei finalmente spiegare che cosa aveva scatenato
quella lettera in casa nostra. La lettera, come ho detto, era senza mittente.
La busta grande conteneva una pagina strappata da una rivista. Una riproduzione
di un quadro ricopriva quasi interamente la pagina: La danzatrice sulle onde.
Sullo stretto margine del foglio era stato scritto in stampatello: Badate alla
somiglianza, ne vale la pena. Era un quadro di Max Ludwig Nansen. Chi danzava era
Hilke. Danzava tra onde piatte che si rovesciavano contro una spiaggia
accecante, sotto un cielo rosso. Danzava con i capelli sciolti e una gonna
corta a righe; pareva che i seni le dessero fastidio ballando, e lei abbassava
un braccio per premerlo contro i seni: sul suo viso buttato all’indietro si era
diffusa un’espressione di sdegno e di grande stanchezza. Danzava con le onde,
contro le onde, e tuttavia il ritmo delle onde determinava il ritmo della sua
danza che la allontanava sempre più dalla spiaggia, la spingeva sul mare, al largo, dove avrebbe
avuto termine. Dunque la danzatrice sulle onde era Hilke, mia sorella. (…)
Mi
assomiglia, disse Hilke, la danzatrice sulle onde mi assomiglia, è vero. E mio
padre: Sei riconoscibile e non solo ai nostri occhi. Questo ce l’ha spedito non
so chi. Non c’è mittente. E come è capitato a quella persona, potrebbe
succedere a chiunque guardando la riproduzione. Non hai bisogno di chiederti
che cosa uno pensi riconoscendoti. Se almeno fosse stato un altro a fare questo
quadro, ma è stato lui. Lui con la sua legge. Con la sua presunzione. Lui con
il suo disprezzo per chiunque compia il proprio dovere. Allora non hai mai
sentito che cosa dicono in giro su lui e me. (…) Pensa al male che ci hai
fatto. Istintivamente guardai mia madre. Mia madre si mosse, si risvegliò dal suo indolente torpore, si
rizzò e a bassa voce disse: Terribile,
a che gradino sei scesa! Quella morbosità straniera. L’ossessione. L’ebbrezza. E che cosa ha fatto del
tuo corpo! Il fianco fiammeggiante. Le cosce inarcate. E la tua faccia: non puoi
certamente essere d’accordo con la faccia che ti ha dato. Un’offesa, disse mio
padre, e mia madre: Finora non aveva mai offeso nessuno che avesse dipinto,
nemmeno te [Nota di redazione: la frase “Bisher hat er noch jeden
beleidigt, den er gemalt hat, und auch dich” significa “Finora ha insultato
ognuno che egli abbia dipinto, ed anche te” p. 397 della versione tedesca]. Una zingara forse balla così. Sì, disse mio padre, una zingara. Ha fatto di te una zingara. È
una vergogna, disse mia madre, e il poliziotto: Sai almeno quel che dovrai
fare? C’è una cosa sola da fare: questo quadro, questo quadro non deve più
esistere né per volere tuo né nostro. Tu hai contribuito perché venisse fatto,
disse mio padre, e adesso puoi solo contribuire a farlo scomparire, non deve
essere poi tanto difficile” [38].
In
effetti, il dipinto scompare dall’atelier del pittore. È la prima volta che il
figlio ha rubato un dipinto, per salvarlo. Il pittore ha un’intuizione, perquisisce
la stanza di Siggi, ma non lo trova. Il figlio continua con la narrazione: “Rimossi la mimetizzazione e tolsi parecchi fogli
di carta oleata. Sollevai il coperchio e mi sedetti. Rivedendo la mia nuova
collezione e trovandola intatta, la tensione cedette e la pressione contro le
tempie diminuì.
Tolsi la danzatrice sulle onde e la appoggiai sul bordo della cassetta. La luce
filtrava dall’alto e Hilke ballava per me tra le piccole onde increspate:
insospettatamente, sotto quel cielo rosso, con i capelli sciolti, cominciò ad avere importanza, inaspettatatamente
mi parve importante conoscerla con la sua gonna a righe e i seni a punta,
quella Hilke che continuava a danzare nonostante la stanchezza, a danzare da
sola davanti a una spiaggia accecante. Nessuno, nessuno avrebbe mai visto quel
quadro, era deciso ormai, e anche gli altri quadri li avrei visti solo io:
avevo imparato la lezione, l’avevo sperimentata su me stesso e sapevo di che
cosa avessi bisogno per sopravvivere” [39].
La Petersen indica “Danza tra le candele” (Kerzentänzerinnen) come pittura di
riferimento di Nolde, una delle più
famose negli anni in cui si stava affermando come pittore di punta tra gli
artisti innovatori prima della I guerra mondiale. Haftmann ne parla come un ‘tableau
manifeste’, un quadro programmatico.
“Non sappiamo che cosa il tema – fuoco
tremolante e corpi che ballano – in realtà
significasse per il pittore; per commentare una litografia corrispondente, una
volta egli scrisse solamente: ‘Dovrebbe dimostrare passione e la mia gioia.’
Vediamo in quest’immagine che cosa egli realizzò: il venire in essere
di una passione completamente scatenata nella decorazione di una danza
dionisiaca, l’evocazione del mondo dionisiaco e primitivo-orfico, che si
realizza nella danza e qui è divenuto immagine. L’immagine origina da queste
profondità misteriose. ‘Senza pensare e conoscere’ come Nolde racconta ‘passai
ad immagini grandi e libere che furono prodotte allora, completamente al di
fuori di ogni orizzonte temporale.’ Questa possibilità di un’evocazione
spontanea ha però la sua base in una nuova concezione degli strumenti tecnici.
(…) Ora, Nolde abbandona completamente il carattere dello sfondo del dipinto,
come area di riproduzione ed illusione spaziale. Egli rappresenta la superficie
come uno sfondo evocativo e il luogo dove viene ad apparire un mondo di
immagini; assegna allo sfondo il compito di vestire una gamma cromatica espressiva
di un rosso e giallo ardenti e lampeggianti, che determina l’umore e le opzioni
sostanziali già prima che ogni tema possa materializzarsi in modo intenso.
L’elemento figurativo adesso prende forma ‘da un’idea vaga fatta solamente
d’ardore e colore’. Semplificate in forma di geroglifici espressivi, allargate
in spazio, le figure danzanti si annunciano simbolicamente sulla superficie.
Queste figure si riferiscono l’una all’altra in una relazione di proporzione
euritmica, e disegnano sulla superficie una decorazione dionisiaca che sostiene
la loro intera direzione espressiva. In cooperazione con il movimento dei
colori sulla superficie, quest’ornamento origina pulsazioni indipendenti (per
esempio, il sovraimposto ornamento delle gonne) che muovono ritmicamente la
decorazione della superficie e portano anche vibrazioni spaziali (le candele
disposte come fossero battute della notazione musicale). Ogni cosa è disegnata
in modo da applicare gli strumenti visivi - colore, sfondo, disegno degli
oggetti, decorazione e ritmo – come materiali di un disegno con potere
evocativo. L’immagine proviene dall’interno all’esterno; e un’idea che a lungo
era stata messa in un angolo dell’inconscio improvvisamente vede la luce sulla
superficie, irreale, ritmica, decorativa” [40].
Come si può
vedere, le parole cruciali sulle labbra della madre risuonano molto simili a
quelle di Haftmann: “Quella morbosità
straniera. L’ossessione. L’ebbrezza” [41]. C’è tuttavia una differenza
importante: Haftmann considera ciò come l’implicazione dello stato mentale del
pittore – puramente istintivo, primordiale, come nei miti ancestrali di Orfeo e
Pan – qualcosa che non si può controllare, come se il pittore fosse in trance. Il linguaggio nel romanzo di
Lenz è molto più diretto: “Ha sempre
insultato chiunque abbia dipinto” [42]. Vi è una diretta responsabilità,
una chiara capacità ed intenzione di deformare la realtà.
9. Giardino con maschere (Lenz) e Maschere e dalie (Nolde)
Di Siggi, il figlio del poliziotto
che ora soffre di una forma specifica di cleptomania, non ci si può più fidare.
Il pittore lo caccia dal suo atelier. Qualche anno dopo, anche il poliziotto
caccia il figlio di casa. In questa situazione di assoluta mancanza di punti di
riferimento, Siggi visita l’inaugurazione di un’importante mostra retrospettiva
su Max Ludwig Nansen ad Amburgo, dove riconosce molti partecipanti, mentre,
fra i presenti, solamente Theo Busbeck lo individua, anche se non è più un
bambino di dieci anni. Siggi riferisce una serie di discorsi d’apertura di alcuni
critici d’arte (uno di questi, come già detto, è appunto ispirato a Werner
Haftmann). Poi concentra l’attenzione su un nuovo quadro, che sarà profezia di
problemi nell’immediato futuro:
10. Il decimo ritratto letterario di Lenz – l’arte che verrà
“Preferisco evitare di ripetere ogni commento anche perché è tempo ormai
che io mi avvicini al grande quadro che non conoscevo. Era appeso da solo al
centro di una parete. All’improvviso mi trovai davanti la tela intitolata
Giardino con maschere e non riuscii a proseguire. Il giardino splendeva come
un’officina di colori: era un’unica disperata fioritura, un’unica offerta di
forme e fatti, ma ogni elemento era distinto, esisteva anche in sé e per sé. A
un albero, a un ramo che bisogna immaginare, pendevano tre maschere sostenute
da cordicelle verdi: due maschere maschili e una femminile. Il sole le
investiva di lato e le illuminava per metà. Una terrificante sicurezza emanava
da quelle maschere, una enigmatica certezza. I fori degli occhi erano d’un
bruno terroso benché sul fondo il cielo fosse chiaro e senza nuvole. Le maschere
minacciavano il giardino? Mi immaginai folate di vento, all’inizio un vento
debole che le muovesse leggermente e poi un vento più forte che le facesse
sbattere l’una contro l’altra e ruotare velocemente su se stesse. Ma a chi
somigliavano? Mi pareva avessero espressioni familiari, mi sembravano il calco
di visi che avevo conosciuto; ma alla memoria non si presentò nemmeno un nome.
Immaginai che di notte crescessero di numero, pendessero da tutti i rami e dai
cespugli, si sollevassero dalle aiuole su steli stecchi. Mi avvicinai al
quadro, al giardino delle maschere. Ricordo che rimpiansi di non avere un
bastone sottile e resistente per colpirle e staccarle dagli steli, dagli
arbusti e dai rami. Desideravo spiccarle come si spicca la testa a un fiore,
quindi caricarle su una carriola e rovesciarle in mezzo all’aiuola colorata.
Si misero al mio fianco. Mi sollevarono infilandomi le
braccia sotto le ascelle. Io continuavo a guardare il giardino delle maschere e
intanto riconobbi il tessuto chiaro, impermeabilizzato, dei loro spolverini. Il
giardino si mimetizzò, e solo allora vidi come qualunque cosa si offuscasse
davanti alle maschere che oscillavano. Non con violenza, non a scatti, ma con
una pressione regolare mi spinsero di lato, mi allontanarono dal quadro. La
presenza delle maschere in giardino pareva bastasse a mutare ogni cosa: fece
esplodere o nascose la fioritura, rinforzò o attenuò l’incendio dei colori.
Avvertii alla mia destra e alla mia sinistra due facce che avevo conosciuto di
sfuggita, facce che esprimevano rispettabilità e diffidenza professionale. Un gomito e un morbido pugno mi tastarono le
costole, sempre senza causarmi dolore. Mi girai: nascosti in mezzo ai fiori
vidi due occhi che come ammaliati osservavano le maschere. Perché avrei dovuto
voltarmi, alzare la voce, protestare quando sapevo chi mi aveva attanagliato e
per quale ragione? Mi lasciarono, ma il fruscio degli impermeabili non smise,
continuò a restarmi vicinissimo. Non abbiamo bisogno di dire che il tutto deve
svolgersi con estrema naturalezza. Evitiamo scalpore eccetera eccetera,
evitiamo discussioni. Io mi comportai come al cinematografo avevo visto
comportarsi altri nella stessa situazione: docilmente, tranquillamente, con
rassegnazione. Il mio comportamento li soddisfece” [43].
La Petersen suggerisce “Maschere e dalie” come pittura
corrispondente di Nolde. Questi sono alcuni brani che Werner Haftmann scrisse
sul dipinto.
“ ‘Maschere e dalie’ è un’opera del tutto compiuta, deliberatamente equilibrata e realizzata con
un’elevata cultura pittorica. Si può capire quanto il pittore – avendo
dimenticato se stesso – si sia dedicato alla propria realizzazione: egli ha
scordato per un istante la lotta appassionata per creare immagini poetiche e
metafore espressive, una lotta che di solito lo assorbe completamente, e si è
perso in pieno nel compito di creare un oggetto che sia bello in sé. Questo
senso di silenzio, riunione, intimità è raro nel suo lavoro. (…) La bella
intimità della nostra pittura deriva anche dagli oggetti del pittore. Tutti gli
oggetti sono intimamente connessi con la vita quieta e introversa del pittore.
(…) Le maschere provengono dalla sua piccola collezione dal suo viaggio in Asia
orientale. Quest’aura d’intimità riempie l’intera immagine e il suo prezioso tono
di colore. Al sobrio verde scuro e denso dello sfondo corrisponde il rosso
diminuito dei fiori; il giallo del vaso e delle maschere è sfumato in un
silenzioso giallo napoletano. La forma dell’ombra – disegnata in una maniera
completamente libera in blu smeraldo – avvolge i contorni degli oggetti in
un’astratta cantilena e unisce il verde e il rosso. Nonostante la densità
d’impressione di una sensazione reale, l’immagine è molto lontana da ogni
riproduzione naturalistica. La gestione indefinita della luce (che, solamente
per scopi decorativi, crea accenti di luminosità come una pura ‘luce d’immagine
interiore’), la superficie senz’ombra, il fatto che gli oggetti espandano le
loro forme entro il contorno della superficie, la forma blu smeraldo dello
sfondo (che cresce liberamente senza giustificazione) – tutto ciò mostra
chiaramente la distanza da ogni intenzione naturalistica” [44].
Anche in questo caso, due
interpretazioni differenti: un senso di suspense e tensione in Lenz, un senso
di controllo e bellezza artefatta in Haftmann.
Non ne ho parlato sino ad
ora, ma vi è un decimo ‘ritratto’ nel romanzo: riguarda un pezzo
(immaginario) di avanguardia di un altro artista, e non più un’opera di Max
Ludwig Nansen. Siggi è ormai ricercato dalla polizia, ma riesce a sottrarsi
all’arresto, almeno per qualche giorno; è ospitato per qualche ora dal fratello
(l’ex soldato disertore), che vive in una casa insieme a altri giovani ad
Amburgo. Là incontra un giovane artista, un certo Hansi Wolken (un altro nome
fittizio) che dà un giudizio moto duro contro Nansen. “Ascoltami bene, ragazzo, disse Hansi. Il tuo Nansen è proprio il tipo
che io considero una disgrazia: legato al suolo natale, visionario, politicizzato”
[45].
E qui è il ritratto della
pittura d’avanguardia: “Come descrivere
la stanza di Hansi? (…) Sotto la finestra, applicata a un cartone grigio, la
confessione pittorica di Hansi, il ciclo intitolato La sommossa delle bambole,
a carboncino, punta d’argento ma anche ad acquarello” [46]. “Non dissi niente, e in silenzio passai
davanti a Hansi. Tutti mi seguirono attentamente mentre mi inginocchiavo
davanti alla Sommossa delle bambole e con tutta calma osservavo i lavori uno
per uno. Dunque il popolo delle bambole di pezza: visi triangolari, visi
appiattiti, visi a punto-punto-virgola-lineetta. Braccia pieghevoli. Gambe in
cui si potevano fare due nodi, corpi elastici, chiazzati, ma soprattutto
immortali. Le bambole si arrampicavano sul comignolo di una fabbrica, e lo
occupavano. Facevano saltare un acquedotto, crollare un ponte, deragliare un
treno. Toglievano una bandiera dall’alto di un edificio e scoprivano una tomba,
per K.A. [Nota dell’editore: forse Konrad Adenauer]. Bambole con il vento contrario, bambole sul poligono di tiro di
Munster. Incatenavano una ragazza addormentata (…). Fuggivano alla vista di una
trottola, cavalcavano un gallo, con dodici forbici sezionavano una poltrona
imbottita” [47].
Insomma, quello che è chiaro
è che – con il decimo ritratto – il mondo di Max Ludwig Nansen (e con lui,
quello di Emil Nolde) appartiene irreversibilmente al passato.
NOTE
[29] Lenz,
Siegfried – Lezione di tedesco, Vicenza, Neri Pozza, 2006, 506 pagine.
Citazione alle pagine 183-187.
[30] Haftmann, Werner - Emil Nolde, Colonia, DuMont, 1958, 140 pagine. Citazione
a pagina 92.
[31] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 248-249.
[32] Haftmann,
Werner - Emil Nolde, (citato), p. 124.
[33] Haftmann,
Werner - Emil Nolde, (citato), p. 118.
[34] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 407.
[35] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 366.
[36] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 361-364.
[37] Haftmann,
Werner - Emil Nolde, (citato), p. 134.
[38] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 431-436.
[39] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 446.
[40] Haftmann,
Werner - Emil Nolde, (citato), p. 68.
[41] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 436.
[42] Si confronti la p. 397 della versione tedesca e la p. 404 di quella
inglese,
[43] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 463-465.
[44] Haftmann,
Werner - Emil Nolde, (citato), p. 104.
[45] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 475.
[46] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 470.
[47] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), p. 474.
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