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venerdì 3 febbraio 2017

Francesco Mazzaferro. Il 'mito' di Emil Nolde nel romanzo 'Lezione di tedesco' di Siegfried Lenz. Parte Seconda


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Francesco Mazzaferro
Il ‘mito’ di Emil Nolde nel romanzo ‘Lezione di tedesco’ di Siegfried Lenz 


Parte Seconda

Fig. 9) La copertina della prima edizione tedesca (1968) di Lezione di tedesco
Siegfried Lenz, un ritrattista letterario

In una lettera del 4 luglio 1916, Emil Nolde scrive: “Personalmente, trovo difficile scrivere alcunché sulla mia arte, darle un nuovo vestito di parole” [19]. Nel 1934 Nolde ripete nel secondo libro delle Memorie, intitolato “Gli anni delle battaglie” (Jahre der Kämpfe): “Io non riesco a descrivere questi quadri. Quel che voglio dire è detto in quel che ho dipinto. Posso forse aggiungere qualcosa solamente in forma molto generale” [20]. La frase del 1934 è confermata in tutte le edizioni successive delle memorie, segno che si tratta di un’affermazione importante. Le ottocento pagine complessive delle memorie di Nolde contengono infatti poche descrizioni complete delle sue opere d’arte.

In uno studio sulle “Corrispondenze tra letteratura e belle arti nel XX secolo”, la studiosa Swantje Petersen commenta: “Nella descrizione letteraria dei dipinti di Nansen, Lenz cerca di mettere in pratica quello che sembrò impossibile a Nolde stesso” [21]. Subito dopo, la Petersen chiarisce che, nelle intenzioni di Lenz “la descrizione delle pitture non cerca di rappresentare una forma di critica d’arte oggettiva”, ma di stabilire un legame generale con l’arte di Nolde.

Come spiegato in grande dettaglio da Wilhelm Grothmann e l’appena citata Swentje Petersen, Siegfried Lenz ha inserito più di trenta riferimenti a dipinti o ad altre opere di Emil Nolde nel romanzo, quasi sempre cambiandone però il titolo. Nella maggioranza dei casi, si tratta di semplici citazioni o riferimenti di qualche parola. In nove casi, invece, Lenz non si limita a menzionare il titolo o il tema ma produce egli stesso un ‘ritratto letterario’ di opere reali di Nolde (in alcuni casi mettendo insieme fra loro due opere), e usa questi ‘ritratti’ come punto culminante per accentuare determinati sentimenti in occasione di eventi speciali nel romanzo.

I dipinti inventati che Lenz descrive corrispondono alle seguenti opere del catalogo di Nolde (spesso esposte nelle mostre a lui dedicate): 1) “Diavolo e Studioso” (1919); 2) “Il Grande Giardiniere”(1940) e “Il Mulino” (1924) in combinazione fra loro; 3) “Il Mare della Luce” (1944 e 1946); 4) “Estranei” (1946); 5) “Trio” (1929); 6) “Mare mosso” (1940) e “Fiori e Nuvole”(1933) in combinazione tra loro; 7) “Danzatrici con Candele” (1912); 8) “Nolde” (1947) e 9) “Maschere e Dalie” (1919).

Chiaramente, Lenz si è preparato in modo molto metodico. Cinque dei nove testi si riferiscono a opere prodotte da Nolde negli anni Quaranta (in cui il romanzo è ambientato). Nessuno ha inoltre mai notato che tutte le opere di Nolde appena citate sono tra le 46 commentate con note specifiche della lunghezza di una pagina intera che compaiono in allegato all’influente monografia di riferimento di Werner Haftmann, pubblicata nel 1958, la prima sulla pittura dell’artista nel dopoguerra. Come ipotesi di lavoro, non è da escludere che Lenz abbia preparato il romanzo con la monografia di Haftmann tra le mani. 



Le modalità dell’ecfrasi in Lezione di tedesco

Non ho esperienza di critica letteraria e sono ben cosciente che esiste una teoria dell’ecfrasi come strumento di intermedialità tra parola ed immagine che si è andata approfondendo soprattutto negli ultimi due decenni sulla base di studi che si fondano sia sull’estetica sia sulla semiologia. E tuttavia, col massimo dell’umiltà, mi sembra utile evidenziare alcune caratteristiche che mi sembra di aver notato leggendo il romanzo.

Primo: le descrizioni dei dipinti sono parte integrante della prosa di Lenz. Le opere non sono dunque descritte come oggetti statici, messe in mostra in un museo o in una casa. Riferimenti a temi, forme, colori, tecniche appartengono tutti a un’invenzione letteraria dinamica. Questa è la ragione per cui ho deciso di non riprodurre solamente la semplice descrizione delle opere immaginarie, ma di descrivere anche il contesto attorno ad esse, per spiegare il ruolo dei nove testi nel romanzo.

Secondo: non sono affatto alla ricerca di uniformità totale nell’uso del linguaggio tra il romanzo di Lenz e le memorie di Nolde. Al contrario, la tesi principale di questa nota è che Lenz abbia volontariamente messo in moto uno spostamento della percezione di Nolde (come persona e come artista) da parte del pubblico. Da un lato, le pitture immaginarie descritte sono simili, ma anche ovviamente differenti rispetto agli originali di Nolde. Dall’altro lato, Lenz spesso usa intenzionalmente accenti diversi.

Terzo: mentre descrive i dipinti, Lenz usa spesso un tipo di linguaggio e concetti estetici che sono simili a quelli usati da critici d’arte che hanno scritto su Nolde negli anni Sessanta. Egli lo fa per ricreare nel suo romanzo il clima culturale prevalente in quegli anni, accrescendo la probabilità che i lettori abbiano davvero l’impressione di confrontarsi con l’opera di Nolde. È per questo motivo che per ognuno dei nove ‘ritratti letterari’ propongo un confronto anche con alcuni passaggi chiave della già citata monografia di Haftmann, che davvero rilanciò la fama del pittore nel mondo tedesco ed al di fuori di esso.

Quarto, l’io narrante dell’intero romanzo è Siggi, il figlio adolescente del poliziotto, che scrive il componimento sulle “Gioie del dovere” durante la reclusione in riformatorio a 19 anni. I ritratti delle pitture sono perciò sempre parte della sua narrazione. Tuttavia non è neppure immaginabile che un giovane della sua età possa produrre una descrizione così articolata dei dipinti. Io credo dunque che, più che essere i racconti delle impressioni di un adolescente sulle opere d’arte di Max Ludwig Nansen, i ritratti letterari abbiano il ruolo dei cori della letteratura della Grecia antica, come una terza figura impersonale che entra improvvisamente in scena, per rendere la storia più densa e ricca.

Consideriamo ora i nove ‘ritratti’, nell’ordine in cui appaiono nel romanzo, spiegando come si inseriscono nella trama e facendo un paragone ogni volta tra il testo di Lenz e quello di Haftmann.


1.    Baldassarre (Lenz) – Diavolo e Studioso (Nolde)


Il primo ‘ritratto’ si riferisce al cane immaginario del pittore, Baldassarre. Quando dipinge, Max Ludwig Nansen ha molto spesso un finto dialogo con il suo cane fantasma, come se discutessero il merito dei quadri in fase di realizzazione. Il cane Balthasar è, insomma, l’alter ego di Nansen.

Queste sono le prime pagine nel romanzo in cui si parla del pittore. Come sempre, è Siggi Jepsen a ricordare:

Il pittore lavorava. Ritraeva il mulino diroccato, che immobile e mutilo si ergeva nella luce d’aprile. Alto sopra la ruota girevole, pareva un fiore informe appoggiato su uno stelo troppo corto, un tetro vegetale in timorosa attesa dei suoi ultimi giorni. Max Ludwig Nansen lo asportava, lo trasferiva in un altro giorno, in un altro ambiente, in un altro tramonto, che aveva già preparato sul foglio. E come sempre quando era al lavoro, il pittore parlava. Non parlava con se stesso: si rivolgeva a un certo Baldassarre che gli stava accanto, il suo Baldassarre che lui solo vedeva e udiva; con lui conversava e litigava e, ogni tanto, gli sferrava addirittura una gomitata. E noi, che pure non potevamo vedere nessun Baldassarre, a un certo momento sentivamo gemere l’invisibile esperto o, se non proprio gemere, di certo lo sentivamo bestemmiare. In piedi alle sue spalle, con il passare del tempo finimmo col credere anche noi a Baldassarre. In un certo senso vi fummo costretti perché lui si faceva notare con il suo respiro affannoso e con i suoi sibili di delusione e anche perché il pittore continuava a rivorgergli la parola e voleva ottenerne la parola, per poi subito deplorarla. Anche quella volta, mentre mio padre lo osservava, il pittore stava litigando con Baldassarre, che nei quadri in cui veniva catturato indossava una scarruffata pelliccia di volpe viola, aveva gli occhi storti e una folle barba di un arancione scrosciante, dalla quale scendevano gocce incandescenti.” (pp. 29-30)

La descrizione di Baldassarre è identificata dalla Petersen come la pittura ‘Diavolo e Studioso’ (Teufel und Gelehrter) di Nolde, sulla quale Haftmann scrive:

L’immagine burlesca ‘Diavolo e Studioso’ deve la sua origine ad una particolare situazione personale. Nell’estate del 1919 Nolde si era trasferito, da solo, nella località isolata di Hallig Hooge, sul Mare del Nord. In quel periodo era davvero solo con se stesso, e ciò rinforzò – in un modo che sorprese persino lui – le sue capacità allucinogene, con eventi che si ripetevano regolarmente in attacchi distinti. Un gruppo di piccole creature naturali, argute e spassose, fece ingresso nella sua immaginazione e prese una presenza tale che egli supponeva realmente di vedere, tutto intorno a sé, questi balenanti esseri misti e le loro scene da burla, nella sua stanza e nelle sue passeggiate. (…) Il colore evocava sia un soggetto sia la scena, e quest’ultima assumeva la presenza di questi esseri, della cui esistenza fisica Nolde era del tutto convinto. Egli ha sempre avuto un forte senso della presenza reale di queste figure dipinte. (…) Ora, [Nolde] stesso si fa guidare dalla chiamata allettante dei colori e segue volontariamente il colore che gli bisbiglia all’orecchio. Là un violetto con sottolineature rosso fuoco diviene un diavolo divertente, che aspetta con un sorriso di essere finalmente notato dallo studioso (…)” (p. 90).

Quello che è comune ai due testi è sia il riferimento alle stesse combinazioni di colore (viola e rosso) sia la nozione che Emil Nolde nella vita reale come pure Max Ludwing Nansen nella finzione letteraria credettero davvero all’esistenza fisica di questi folletti, che avevano origine nel mondo nordico delle saghe e favole. Vi sono molti riferimenti a tali saghe nelle Memorie di Nolde.


2. Il Grande Amico del Mulino (Lenz) - Il Mulino e il Grande Giardiniere (Nolde)

Quando il pittore Max Ludwig Nansen riceve dal poliziotto la notifica del divieto di dipingere, sta finendo un quadro che ha intitolato “Il Grande Amico del Mulino”. Sia Grothmann sia la Petersen riconoscono nel quadro la combinazione di due capolavori di Nolde: “Il Mulino” (Mühle) del 1924 e “Il GrandeGiardiniere” (Der große Gärtner) del 1940. Nel romanzo, descrivere il dipinto serve a creare l’atmosfera sospesa di un mondo magico e benigno, improvvisamente esposto a minacce esterne.

Il pittore dipinge, il poliziotto conosce il contenuto dell’ingiunzione, il pittore ancora no; il poliziotto deve fare in modo che il pittore la legga e la controfirmi.

Questo è il testo di Lenz: ”[Mio padre] tenne dunque la lettera in mano. Esitò. Guardò il quadro e nuovamente il mulino e poi ancora il quadro. Senza volerlo si avvicinò di qualche passo e subito spostò lo sguardo dal quadro al mulino, dal mulino al quadro e di nuovo al mulino senza pale. Non riusciva a ritrovare ciò che cercava e chiese: Cosa vuole rappresentare, Max? Il pittore si scostò, additò il grande amico del mulino, disse: Il grande amico del mulino, e aggiunse nuove ombre grumose alla collina verde terra. È da supporre che in quel momento anche mio padre lo notasse. Silenzioso e bruno spiccava sull’orizzonte un vecchio con la barba, mite, forse un taumaturgo, un essere di una gentile spensieratezza, una figura enorme che sconfinava nel gigantesco. Il mulino era in basso ai suoi piedi e affondava in un grigio morente. Le sue dita marroni venate di rosso fuoco erano tese, ma stavano per schioccare contro una delle pale che evidentemente aveva appena risistemato. Quel vecchio le avrebbe fatte girare veloci, sempre più veloci, finché avrebbero lacerato l’oscurità, macinato – almeno così mi sembrava – un chiaro giorno e una luce migliore. Le pale del mulino si sarebbero mosse, era pacifico. I lineamenti del vegliardo, infatti, anticipavano un’ingenua soddisfazione e facevano intuire che, alla sua maniera assonnata, era abituato al successo. Veramente l’acqua nello stagno annunciava un dubbio violaceo, ma questo dubbio non avrebbe trionfato: l’effetto dell’amico del mulino gli toglieva ogni forza. È finita, disse mio padre, non girerà mai più. E il pittore: domani si muove, Jens, aspetta. Domani macineremo tanto papavero che perderà la testa. Smise di dipingere, accese la pipa e osservò il quadro muovendo la testa. Senza guardare, tese la borsa del tabacco a mio padre, non si assicurò che avesse caricato la pipa, ma la rificcò subito nell’inesauribile tasca del cappotto. Disse: Ci manca ancora un po’ di rabbia, no, Jens? Manca ancora il verde scuro, la rabbia. Allora sì che il mulino potrebbe mettersi a girare. Mio padre teneva in mano la lettera, la teneva stretta contro il corpo, la nascondeva istintivamente. L’avrebbe tolta dal nascondiglio quando si sarebbe presentata l’occasione favorevole: non osava essere lui a scegliere il momento. Disse: Non c’è vento che possa farla muovere, e tanto meno la rabbia ci riuscirà. E il pittore: si muoverà ancora per noi, aspettate. Domani le pale gireranno.

Forse mio padre avrebbe atteso altro tempo se l’ultima frase non avesse contenuto un programma. In ogni caso allungò il braccio, e mentre gli tendeva la lettera disse queste parole: Ecco, Max, c’è qualcosa per te, da Berlino. Devi leggere subito” [22].

La descrizione del dipinto (immaginario) diviene l’occasione per un confronto drammatico tra la volontà dell’artista di portare a compimento l’immagine quasi completa e l’intenzione del poliziotto di arrestare immediatamente qualsiasi attività artistica del pittore.

Di seguito ecco alcuni passi della descrizione delle due pitture nella monografia di Werner Haftmann.

Su “Il Mulino”: “I molti mulini si stagliavano sulla terra – piatta e battuta dal vento – di Nolde come creature gigantesche. Su ampi orizzonti guadagnavano una personalità del tutto particolare. Le loro pale rotanti salutavano la forza e la direzione del vento sulle terre, segnali di una minaccia cosmica che sorgeva dal mare e si addentrava fino ai bassipiani. (…) Nel [suo] lavoro Nolde riesce – combinando osservazione e sentimento – ad estrarre la leggenda che sta sotto di esso e a renderla visibile come immagine. La mancanza di realtà della larga superficie pittorica ed il calare della combinazione tonale del nero, verde scuro, viola e blu – in cui solamente arancione e bianco abbagliano – rendono, con espressione evocativa, la sostanza leggendaria del paesaggio. L’immagine è di un vecchio racconto epico su un mulino che guarda nell’acqua all’ora in cui muore la luce – come una rabbia contenuta, sotto un alto cielo blu e viola scuro – che ancora una volta intende abbagliare con il bengala di una nuvola color arancia. Un paesaggio primario, lontano da qualsiasi dettaglio, attraverso il quale diviene una ricorrenza eterna la leggenda – estesa e piena di colore – della luce che viene e muore” [23].

Su “Il Grande Giardiniere”: “È la rappresentazione di una forza benevola, che pervade la natura intera, personificata nella figura di una Grande Giardiniere che si occupa delle creature della terra. Ogni cosa è del tutto irreale: la luce serale – che brilla dall’interno e s’irradia dall’arancio e dal rosso del calice dei fiori di fronte ad un color verde terra che arretra; la forma particolare di queste piante, come da un altro mondo, che rinunciano a ogni dettaglio botanico che si possa nominare, come se fossero piante primitive dei primi giorni della creazione; le strane proporzioni di questi fiori e piante, che sembrano divenire creature di dimensione gigantesca; il vecchio giardiniere che, come un buono spirito della terra, produce le sue creature” [24].

Mi si permetta di segnalare qualche punto in comune tra la prosa di Lenz e la critica di Haftmann: (i) lo stesso riferimento a qualche elemento di rabbia nascosta nel panorama; (ii) l’idea delle dimensioni gigantesche; (iii) la descrizione del vecchio anziano con la barba come gentile e benevolo; (iv) il riferimento agli stessi colori dominanti (arancione, rosso, verde, viola); (v) la stessa impressione di una favola fantastica; (vi) il riferimento al giorno ed alla notte come parte di una mitologia ricorrente.


3.   Vele che si dissolvono nella luce (Lenz) - Mare di luce (Nolde)


Il dipinto “Vele che si dissolvono nella luce” (Segel lösen sich in Licht auf) – a cui potrebbe corrispondere, secondo la Petersen “Mare di luce” (Lichtes Meer), di cui esistono una versione in acquarello (1946) e una in olio su tela (1948) – è descritto nel romanzo in occasione del sessantesimo compleanno di Theo Busbeck. È il dono che egli riceve dal pittore Nansen, come ringraziamento per l’amicizia di una vita. L’io narrante è ovviamente Siggi Jepsen, il figlio del poliziotto. L’immagine del quadro suggerisce l’idea di una natura gioiosa, dove colori diversi si abbracciano e fondono in una luce che tutto raccoglie.

Il quadro era visibile sul fondo del tavolo, appoggiato al muro. Al suo fianco montavano la guardia le bottiglie, davanti erano ripiegate, servizievoli, le calze, il copricaffettiere si pavoneggiava, la crostata di mele invitava alla fiducia, la sciarpa si snodava tra candele di sego quasi intendesse soffocarle con delicatezza: tutti quei doni erano compresi solo di sé, ma non potevano impedire che il quadro li denigrasse rinfacciando il loro semplice valore utilitario. Incontrai lo sguardo del dottor Busbeck. Lo vidi inserirsi nella luce del quadro e avanzare la mano protesa, titubante, secondo me incredulo. Poi lo vidi toccare leggermente la tela con i polpastrelli, indietreggiare, socchiudere gli occhi e improvvisamente stringersi nelle spalle quasi rabbrividisse. Il cielo e il mare si univano. Un morbido giallo limone persuadeva l’azzurro tenue ad annullarsi. Vele fluttuanti facevano intuire spazi lontani, facevano pensare a una storia conclusa e rinunciavano al loro candore per consentire la sognata riunificazione. Le vele si dissolvevano e, dissolvendosi, sprigionavano soltanto luce, luce che mi pareva un unico inno. Con la mano tesa in avanti il dottore Busbeck si riavvicinò al quadro e allora il pittore disse: Come vedi, Teo, devo ancora lavorarci. Ma è finito, lo interruppe Busbeck, e il pittore: Il bianco, il bianco dice ancora troppo. E Theo Busbeck aggiunse: È troppo, Max, non posso accettarlo. Ma il pittore gli strizzò l’occhio e disse ‘Potrai dirlo quando sarà finito’ ” [25].

Vediamo come Werner Haftmann descrive la versione in olio su tela di Mare di luce nella sua monografia del 1958, dieci anni dopo che il dipinto era stato concluso. “Il mare era sempre stato per Nolde un ritratto della forza elementare della natura. Lo aveva sperimentato attraverso tutti i suoi stati. Il mare era per lui la personificazione di un elemento essenziale di tipo drammatico, e Nolde lo dipingeva sempre in questo modo, come se fosse una persona. Nella sua ultima fase, i dipinti marini mostrano però una leggera trasformazione sensoriale. (…) È ora la luce a divenire il vero e proprio vettore dei contenuti. Ma non la luce solamente: la luce e l’infinito. (…) Nolde sceglie l’ora in cui il sole e l’acqua sembrano riflettersi reciprocamente e crea una luce vibrante che cancella l’orizzonte e dà l’idea dell’assenza di  ogni confine. Questo temperamento ondulante si materializza nel colore. È basato sul contrasto tra giallo e blu. Questo contrasto è l’interazione di un giallo limone modulato in modo soffice e di un azzurro chiaro, dove il bianco delle vele è la tonalità più brillante e il viola del pennacchio di fumo l’accento più scuro; il contrasto è perciò così attenuato che non è più a lungo palpabile e crea di per sé una splendida luce uniforme che pone l’intero soggetto in una dimensione irreale di poesia” [26].

Anche in questo caso, colpisce l’uso simile del linguaggio tra Lenz e Haftmann: (i) l’unità tra cielo e mare; (ii) la combinazione tra giallo limone tenue e blu chiaro; (iii) il concetto di distanza infinita e (iv) la luce accesa, omogenea e unificante.


4.  Paesaggio con sconociuti (Lenz) – Sconosciuti (Nolde)

Il dipinto immaginario di Nansen ‘Paesaggio con sconosciuti’ (Landschaft mit unbekannten Leuten), appare in una fase particolarmente drammatica del romanzo, quando Siggi Jepsen sta cercando un rifugio per il fratello maggiore, che ha disertato dalla Wermacht ed è tornato nel suo paese natale di nascosto. Siggi cerca l’aiuto del pittore, entra perciò di nascosto nel suo atelier e lo trova al lavoro, mentre litiga con Baldassarre, il suo cane immaginario. La scelta dei colori e delle caratteristiche delle figure aumenta la tensione, ispirando un senso di ansietà e dramma.

Non dire stupidaggini, Baldassarre, in ogni quadro c’è un’azione sola, la luce. A piedi nudi, camminando sulle solide tavole del pavimento, mi avvicinai, e ancora oggi mi rivedo avanzare in punta di piedi. Il pittore non si accorse di nulla. Sedetti su uno dei tanti giacigli provvisori, scostai una coperta appesa che serviva da paravento e me lo vidi davanti con il suo vecchio cappotto azzurro e il cappello in testa. Stava dipingendo. Litigava con il suo Baldassarre e lavorava al Paesaggio con sconosciuti. Il quadro era fissato sul retro dell’anta destra dell’armadio, mentre a sinistra, nei cassetti aperti, c’erano i suoi strumenti, come lui chiamava i colori: era sufficiente un duplice movimento laterale per chiudere l’armadio e far scomparire quadro e colori. Non so se anche in quel momento, all’udire un passo, una voce o un rumore sospetto, avrebbe chiuso le ante dell’armadio, perché quel giorno la sua lite con Baldassarre mi parve molto seria. Era impegnato a dimostrare al suo interlocutore in pelliccia di volpe color lilla che il paesaggio – sul quale accampavano le gigantesche figure degli sconosciuti disposte in gruppo secondo un’intenzione chiara – poteva suggerire l’idea dell’approssimarsi della violenza e della fine, non certo affondando in una luce morente o in colori acquosi, ma unicamente se investito da uno spaventoso chiarore, da un arancione terrificante interrotto da pennellate bianche sovrapposte. Un grido acuto lanciato nel grigio nero: giallo, marrone, bianco. Solo così cessa immediatamente il mutismo, il ritegno, la rassegnazione, e ha inizio il dramma. E il verde marcio: in basso, come sempre, stese del verde terroso. Gli bastava quella tonalità: il color verde terra sapeva evocare tutto, e il suo Baldassare non voleva o non riusciva a capirlo. Guardai il pittore, guardai gli sconosciuti e poi nuovamente il pittore: ora tendeva l’orecchio e rifaceva l’espressione dei suoi personaggi, l’espressione di chi si sente minacciato, come dovevano sentirsi loro, stranieri e allo scoperto in paesaggio che non pareva raggiungibile casualmente al termine di una passeggiata, ma dove si poteva solo venire gettati, costretti, dove il terrore è comprensibile. Mi disturbavano – e mi disturbano tuttora – i copricapi degli sconosciuti: un miscuglio tra il fez e il turbante che pareva imitare la foggia in non so quale guerra turca. Ma il loro stupore, la loro paura, il loro abbandono, trovavano perfetta risonanza nella particolare atmosfera del paesaggio. Ora vorrei lasciar ricadere cautamente la coperta che serviva da paravento per il giaciglio provvisorio, vorrei tornare inosservato alla porta ed entrare un’altra volta, ufficialmente per così dire e rumorosamente. Come in realtà feci: sempre in punta di piedi, raggiunsi l’ingresso, bussai, aprii e richiusi la porta. Poi gridai: Zio Nansen? Sei qui, zio Nansen?” [27]

La Petersen identifica questo dipinto fittizio nel quadro ‘Sconosciuti’ (Fremde Menschen) che Nolde completò nel 1946. Anche questo lavoro è commentato da Werner Haftmann nella sua monografia del 1958. Di seguito, uno stralcio di quel che egli scrive:

Nolde si sta avvicinando agli 80 anni. La sua compagna Ada è molto malata e muore nel novembre 1946. Il dipinto ‘Sconosciuti’ di certo esprime molta dell’afflizione e della solitudine della vecchiaia. Il contrasto fisiognomico tra i vecchi senza tempo da un lato e le fisionomie prettamente moderne dei giovani dall’altro lato può anche rivelare il conflitto tra generazioni, la greve rassegnazione dell’età e la scettica curiosità dei giovani (…). I vestiti arcaici e fuori dal tempo dei vecchi, (…) le fisionomie primitive con barba e il gigantismo delle loro figure indicano (…) habitat distanti, mitici; i due strani escursionisti sono calati da quelle regioni mitiche e sono entrati nel presente, in modo anacronistico e fuori dal tempo. (…) Un tempo descrizione aneddotica dell’immagine di concezioni mistiche, il dipinto è divenuta un’immagine fatale del destino, una pittura che trasforma la concezione vitale del vecchio pittore in un’immagine mitica che può essere vista immediatamente” [28].

In questo caso la terminologia di Lenz e Haftmann divergono. Il testo di Lenz pone l’accento sulla combinazione di colori e sul loro impatto emotivo (paura); Hartmann si concentra più sugli aspetti simbolici (vecchiaia, senso di estraneità e distanza dal mondo reale). Il senso generale di un’immagine simbolica e fatale sul destino (Schicksalsbild), che esprime il senso di una paura arcaica e mitica, è però lo stesso.

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NOTE

[19] Nolde, Emil – Briefe aus den Jahren 1894-1926 (Lettere dagli anni 1894-1926), Berlino, Furche Verlag, 183 pagine. Citazione a pagina 120.

[20] Nolde, Emil – Jahre der Kämpfe, Berlin, Rembrandt Verlag, 1934, 262 pagine. Citazione a pagina 181.

[21] Petersen, Swantje - Korrespondenzen zwischen Literatur und bildender Kunst im 20. Jahrhundert. Studien am Beispiel von S. Lenz - E. Nolde - A. Andersch - E. Barlach - P. Klee, H. Janssen - E. Jünger und G. Bekker (Corrispondenze tra letteratura e belle arti. Studi sui casi di S. Lenz, E. Nolde, A. Andersch, E. Barlach, P. Klee, H. Janssen, E. Jünger e G. Bekker), Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1995, 314 pagine. Citazione a pagina 39.

[22] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, Vicenza, Neri Pozza, 2006, 506 pagine. Citazione alle pagine 32-33.

[23] Haftmann, Werner - Emil Nolde, Colonia, DuMont, 1958, 140 pagine. Citazione a pagina 110.

[24] Haftmann, Werner - Emil Nolde,  (citato), p. 128.

[25] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 75-76.

[26] Haftmann, Werner - Emil Nolde,  (citato), p. 136. 

[27] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 123-125.

[28] Haftmann, Werner - Emil Nolde,  (citato), p. 132.



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