English Version
Francesco Mazzaferro
Il ‘mito’ di Emil Nolde nel romanzo ‘Lezione di tedesco’ di Siegfried Lenz
Parte Seconda
![]() |
Fig. 9) La copertina della prima edizione tedesca (1968) di Lezione di tedesco |
Siegfried Lenz, un ritrattista letterario
In una lettera del 4 luglio
1916, Emil Nolde scrive: “Personalmente,
trovo difficile scrivere alcunché sulla mia arte, darle un nuovo vestito di
parole” [19]. Nel 1934 Nolde ripete nel secondo libro delle Memorie,
intitolato “Gli anni delle battaglie” (Jahre
der Kämpfe): “Io non riesco a
descrivere questi quadri. Quel che voglio dire è detto in quel che ho dipinto. Posso
forse aggiungere qualcosa solamente in forma molto generale” [20]. La frase
del 1934 è confermata in tutte le edizioni successive delle memorie, segno che
si tratta di un’affermazione importante. Le ottocento pagine complessive delle memorie
di Nolde contengono infatti poche descrizioni complete delle sue opere d’arte.
In uno studio sulle “Corrispondenze tra letteratura e belle arti
nel XX secolo”, la studiosa Swantje Petersen commenta: “Nella descrizione letteraria dei dipinti di
Nansen, Lenz cerca di mettere in pratica quello che sembrò impossibile a Nolde
stesso” [21]. Subito dopo, la Petersen chiarisce che, nelle intenzioni di
Lenz “la descrizione delle pitture non
cerca di rappresentare una forma di critica d’arte oggettiva”, ma di
stabilire un legame generale con l’arte di Nolde.
Come spiegato in grande dettaglio
da Wilhelm Grothmann e l’appena citata Swentje Petersen, Siegfried
Lenz ha inserito più di trenta riferimenti a dipinti o ad altre opere di Emil
Nolde nel romanzo, quasi sempre cambiandone però il titolo. Nella maggioranza
dei casi, si tratta di semplici citazioni o riferimenti di qualche parola. In
nove casi, invece, Lenz non si limita a menzionare il titolo o il tema ma produce
egli stesso un ‘ritratto letterario’ di opere reali di Nolde (in alcuni casi mettendo
insieme fra loro due opere), e usa questi ‘ritratti’ come punto culminante per
accentuare determinati sentimenti in occasione di eventi speciali nel romanzo.
I dipinti inventati che Lenz
descrive corrispondono alle seguenti opere del catalogo di Nolde (spesso esposte
nelle mostre a lui dedicate): 1) “Diavolo e Studioso” (1919); 2) “Il Grande
Giardiniere”(1940) e “Il Mulino” (1924) in combinazione fra loro; 3) “Il Mare
della Luce” (1944 e 1946); 4) “Estranei” (1946); 5) “Trio” (1929); 6) “Mare
mosso” (1940) e “Fiori e Nuvole”(1933) in combinazione tra loro; 7) “Danzatrici
con Candele” (1912); 8) “Nolde” (1947) e 9) “Maschere e Dalie” (1919).
Chiaramente, Lenz si è
preparato in modo molto metodico. Cinque dei nove testi si riferiscono a opere
prodotte da Nolde negli anni Quaranta (in cui il romanzo è ambientato). Nessuno
ha inoltre mai notato che tutte le opere di Nolde appena citate sono tra le 46
commentate con note specifiche della lunghezza di una pagina intera che
compaiono in allegato all’influente monografia di riferimento di Werner
Haftmann, pubblicata nel 1958, la prima sulla pittura dell’artista nel
dopoguerra. Come ipotesi di lavoro, non è da escludere che Lenz abbia preparato
il romanzo con la monografia di Haftmann tra le mani.
Le modalità dell’ecfrasi in Lezione di tedesco
Non ho esperienza di critica
letteraria e sono ben cosciente che esiste una teoria dell’ecfrasi come
strumento di intermedialità tra parola ed immagine che si è andata
approfondendo soprattutto negli ultimi due decenni sulla base di studi che
si fondano sia sull’estetica sia sulla semiologia. E tuttavia, col massimo
dell’umiltà, mi sembra utile evidenziare alcune caratteristiche che mi sembra
di aver notato leggendo il romanzo.
Primo: le
descrizioni dei dipinti sono parte integrante della prosa di Lenz. Le
opere non sono dunque descritte come oggetti statici, messe in mostra in un
museo o in una casa. Riferimenti a temi, forme, colori, tecniche appartengono tutti
a un’invenzione letteraria dinamica. Questa è la ragione per cui ho deciso di
non riprodurre solamente la semplice descrizione delle opere immaginarie, ma di
descrivere anche il contesto attorno ad esse, per spiegare il ruolo dei nove testi
nel romanzo.
Secondo: non sono
affatto alla ricerca di uniformità totale nell’uso del linguaggio tra il
romanzo di Lenz e le memorie di Nolde. Al contrario, la tesi principale di
questa nota è che Lenz abbia volontariamente messo in moto uno spostamento
della percezione di Nolde (come persona e come artista) da parte del pubblico.
Da un lato, le pitture immaginarie descritte sono simili, ma anche ovviamente
differenti rispetto agli originali di Nolde. Dall’altro lato, Lenz spesso usa
intenzionalmente accenti diversi.
Terzo: mentre descrive
i dipinti, Lenz usa spesso un tipo di linguaggio e concetti estetici che sono
simili a quelli usati da critici d’arte che hanno scritto su Nolde negli anni
Sessanta. Egli lo fa per ricreare nel suo romanzo il clima culturale prevalente
in quegli anni, accrescendo la probabilità che i lettori abbiano davvero
l’impressione di confrontarsi con l’opera di Nolde. È per questo motivo che per
ognuno dei nove ‘ritratti letterari’ propongo un confronto anche con alcuni
passaggi chiave della già citata monografia di Haftmann, che davvero rilanciò
la fama del pittore nel mondo tedesco ed al di fuori di esso.
Quarto, l’io
narrante dell’intero romanzo è Siggi, il figlio adolescente del poliziotto, che
scrive il componimento sulle “Gioie del dovere” durante la reclusione in riformatorio
a 19 anni. I ritratti delle pitture sono perciò sempre parte della sua
narrazione. Tuttavia non è neppure immaginabile che un giovane della sua età
possa produrre una descrizione così articolata dei dipinti. Io credo dunque
che, più che essere i racconti delle impressioni di un adolescente sulle opere
d’arte di Max Ludwig Nansen, i ritratti letterari abbiano il ruolo dei cori
della letteratura della Grecia antica, come una terza figura impersonale che
entra improvvisamente in scena, per rendere la storia più densa e ricca.
1. Baldassarre (Lenz) – Diavolo e Studioso (Nolde)
Il primo ‘ritratto’ si
riferisce al cane immaginario del pittore, Baldassarre. Quando dipinge, Max
Ludwig Nansen ha molto spesso un finto dialogo con il suo cane fantasma, come
se discutessero il merito dei quadri in fase di realizzazione. Il cane
Balthasar è, insomma, l’alter ego di Nansen.
Queste sono le prime pagine
nel romanzo in cui si parla del pittore. Come sempre, è Siggi Jepsen a ricordare:
“Il pittore lavorava. Ritraeva il mulino diroccato, che immobile e
mutilo si ergeva nella luce d’aprile.
Alto sopra la ruota girevole, pareva un fiore informe appoggiato su uno stelo
troppo corto, un tetro vegetale in timorosa attesa dei suoi ultimi giorni. Max
Ludwig Nansen lo asportava, lo trasferiva in un altro giorno, in un altro
ambiente, in un altro tramonto, che aveva già preparato sul foglio. E come
sempre quando era al lavoro, il pittore parlava. Non parlava con se stesso: si
rivolgeva a un certo Baldassarre che gli stava accanto, il suo Baldassarre che
lui solo vedeva e udiva; con lui conversava e litigava e, ogni tanto, gli
sferrava addirittura una gomitata. E noi, che pure non potevamo vedere nessun
Baldassarre, a un certo momento sentivamo gemere l’invisibile esperto o, se non
proprio gemere, di certo lo sentivamo bestemmiare. In piedi alle sue spalle,
con il passare del tempo finimmo col credere anche noi a Baldassarre. In un
certo senso vi fummo costretti perché lui si faceva notare con il suo respiro
affannoso e con i suoi sibili di delusione e anche perché il pittore continuava
a rivorgergli la parola e voleva ottenerne la parola, per poi subito
deplorarla. Anche quella volta, mentre mio padre lo osservava, il pittore stava
litigando con Baldassarre, che nei quadri in cui veniva catturato indossava una
scarruffata pelliccia di volpe viola, aveva gli occhi storti e una folle barba
di un arancione scrosciante, dalla quale scendevano gocce incandescenti.”
(pp. 29-30)
La descrizione di Baldassarre
è identificata dalla Petersen come la pittura ‘Diavolo e Studioso’ (Teufel und Gelehrter) di Nolde, sulla
quale Haftmann scrive:
“L’immagine burlesca ‘Diavolo e Studioso’ deve la sua origine ad una
particolare situazione personale. Nell’estate del 1919 Nolde si era trasferito,
da solo, nella località isolata di Hallig Hooge, sul Mare del Nord. In quel
periodo era davvero solo con se stesso, e ciò rinforzò – in un modo che
sorprese persino lui – le sue capacità allucinogene, con eventi che si
ripetevano regolarmente in attacchi distinti. Un gruppo di piccole creature
naturali, argute e spassose, fece ingresso nella sua immaginazione e prese una presenza tale che egli supponeva realmente di vedere, tutto intorno a sé,
questi balenanti esseri misti e le loro scene da burla, nella sua stanza e
nelle sue passeggiate. (…) Il colore evocava sia un soggetto sia la scena, e quest’ultima
assumeva la presenza di questi esseri, della cui esistenza fisica Nolde era del
tutto convinto. Egli ha sempre avuto un forte senso della presenza reale di
queste figure dipinte. (…) Ora, [Nolde] stesso si fa guidare dalla chiamata
allettante dei colori e segue volontariamente il colore che gli bisbiglia
all’orecchio. Là un violetto con sottolineature rosso fuoco diviene un diavolo
divertente, che aspetta con un sorriso di essere finalmente notato dallo
studioso (…)” (p. 90).
Quello che è comune ai due
testi è sia il riferimento alle stesse combinazioni di colore (viola e rosso) sia
la nozione che Emil Nolde nella vita reale come pure Max Ludwing Nansen nella
finzione letteraria credettero davvero all’esistenza fisica di questi folletti,
che avevano origine nel mondo nordico delle saghe e favole. Vi sono molti
riferimenti a tali saghe nelle Memorie di Nolde.
2. Il Grande Amico del Mulino (Lenz) - Il Mulino e il Grande Giardiniere (Nolde)
Il pittore dipinge, il
poliziotto conosce il contenuto dell’ingiunzione, il pittore ancora no; il
poliziotto deve fare in modo che il pittore la legga e la controfirmi.
Questo è il testo di Lenz: ”[Mio padre] tenne dunque la lettera in
mano. Esitò. Guardò il quadro e nuovamente il mulino e poi ancora il quadro.
Senza volerlo si avvicinò di qualche passo e subito spostò lo sguardo dal
quadro al mulino, dal mulino al quadro e di nuovo al mulino senza pale. Non
riusciva a ritrovare ciò che cercava e chiese: Cosa vuole rappresentare, Max?
Il pittore si scostò, additò il grande amico del mulino, disse: Il grande amico
del mulino, e aggiunse nuove ombre grumose alla collina verde terra. È da
supporre che in quel momento anche mio padre lo notasse. Silenzioso e bruno
spiccava sull’orizzonte un vecchio con la barba, mite, forse un taumaturgo, un
essere di una gentile spensieratezza, una figura enorme che sconfinava nel
gigantesco. Il mulino era in basso ai suoi piedi e affondava in un grigio
morente. Le sue dita marroni venate di rosso fuoco erano tese, ma stavano per
schioccare contro una delle pale che evidentemente aveva appena risistemato.
Quel vecchio le avrebbe fatte girare veloci, sempre più veloci, finché
avrebbero lacerato l’oscurità, macinato – almeno così mi sembrava – un chiaro
giorno e una luce migliore. Le pale del mulino si sarebbero mosse, era
pacifico. I lineamenti del vegliardo, infatti, anticipavano un’ingenua soddisfazione
e facevano intuire che, alla sua maniera assonnata, era abituato al successo.
Veramente l’acqua nello stagno annunciava un dubbio violaceo, ma questo dubbio
non avrebbe trionfato: l’effetto dell’amico del mulino gli toglieva ogni forza.
È finita, disse mio padre, non girerà mai più. E il pittore: domani si muove,
Jens, aspetta. Domani macineremo tanto papavero che perderà la testa. Smise di
dipingere, accese la pipa e osservò il quadro muovendo la testa. Senza guardare, tese la borsa del tabacco a mio padre, non si assicurò che avesse caricato la
pipa, ma la rificcò subito nell’inesauribile tasca del cappotto. Disse: Ci
manca ancora un po’ di rabbia, no, Jens? Manca ancora il verde scuro, la
rabbia. Allora sì che il mulino potrebbe mettersi a girare. Mio padre teneva in
mano la lettera, la teneva stretta contro il corpo, la nascondeva
istintivamente. L’avrebbe tolta dal nascondiglio quando si sarebbe presentata
l’occasione favorevole: non osava essere lui a scegliere il momento. Disse: Non
c’è vento che possa farla muovere, e tanto meno la rabbia ci riuscirà. E il
pittore: si muoverà ancora per noi, aspettate. Domani le pale gireranno.
Forse
mio padre avrebbe atteso altro tempo se l’ultima frase non avesse contenuto un
programma. In ogni caso allungò il braccio, e mentre gli tendeva la lettera
disse queste parole: Ecco, Max, c’è qualcosa per te, da Berlino. Devi leggere
subito” [22].
Di seguito ecco alcuni passi della descrizione delle due
pitture nella monografia di Werner Haftmann.
Su “Il Mulino”: “I
molti mulini si stagliavano sulla terra – piatta e battuta dal vento – di
Nolde come creature gigantesche. Su ampi orizzonti guadagnavano una personalità del tutto particolare. Le loro
pale rotanti salutavano la forza e la direzione del vento sulle terre, segnali
di una minaccia cosmica che sorgeva dal mare e si addentrava fino ai
bassipiani. (…) Nel [suo] lavoro Nolde riesce – combinando osservazione e
sentimento – ad estrarre la leggenda che sta sotto di esso e a renderla visibile come
immagine. La mancanza di realtà della
larga superficie pittorica ed il calare della combinazione tonale del nero,
verde scuro, viola e blu – in cui solamente arancione e bianco abbagliano –
rendono, con espressione evocativa, la sostanza leggendaria del paesaggio.
L’immagine è di un vecchio racconto epico su un mulino che guarda nell’acqua
all’ora in cui muore la luce – come una rabbia contenuta, sotto un alto cielo
blu e viola scuro – che ancora una volta intende abbagliare con il bengala di
una nuvola color arancia. Un paesaggio primario, lontano da qualsiasi
dettaglio, attraverso il quale diviene una ricorrenza eterna la leggenda –
estesa e piena di colore – della luce che viene e muore”
[23].
Su “Il Grande Giardiniere”:
“È la rappresentazione di una forza
benevola, che pervade la natura intera, personificata nella figura di una
Grande Giardiniere che si occupa delle creature della terra. Ogni cosa è del
tutto irreale: la luce serale – che brilla dall’interno e s’irradia
dall’arancio e dal rosso del calice dei fiori di fronte ad un color verde terra
che arretra; la forma particolare di queste piante, come da un altro mondo, che
rinunciano a ogni dettaglio botanico che si possa nominare, come se fossero
piante primitive dei primi giorni della creazione; le strane proporzioni di
questi fiori e piante, che sembrano divenire creature di dimensione gigantesca;
il vecchio giardiniere che, come un buono spirito della terra, produce le sue
creature” [24].
Mi si permetta di segnalare
qualche punto in comune tra la prosa di Lenz e la critica di Haftmann: (i) lo
stesso riferimento a qualche elemento di rabbia nascosta nel panorama; (ii)
l’idea delle dimensioni gigantesche; (iii) la descrizione del vecchio anziano
con la barba come gentile e benevolo; (iv) il riferimento agli stessi colori
dominanti (arancione, rosso, verde, viola); (v) la stessa impressione di una
favola fantastica; (vi) il riferimento al giorno ed alla notte come parte di
una mitologia ricorrente.
3. Vele che si dissolvono nella luce (Lenz) - Mare di luce (Nolde)
“Il quadro era visibile sul fondo del tavolo, appoggiato al muro. Al suo
fianco montavano la guardia le bottiglie, davanti erano ripiegate, servizievoli,
le calze, il copricaffettiere si pavoneggiava, la crostata di mele invitava
alla fiducia, la sciarpa si snodava tra candele di sego quasi intendesse
soffocarle con delicatezza: tutti quei doni erano compresi solo di sé, ma non
potevano impedire che il quadro li denigrasse rinfacciando il loro semplice
valore utilitario. Incontrai lo sguardo del dottor Busbeck. Lo vidi inserirsi
nella luce del quadro e avanzare la mano protesa, titubante, secondo me
incredulo. Poi lo vidi toccare leggermente la tela con i polpastrelli,
indietreggiare, socchiudere gli occhi e improvvisamente stringersi nelle spalle
quasi rabbrividisse. Il cielo e il mare si univano. Un morbido giallo limone
persuadeva l’azzurro tenue ad annullarsi. Vele fluttuanti facevano intuire
spazi lontani, facevano pensare a una storia conclusa e rinunciavano al loro
candore per consentire la sognata riunificazione. Le vele si dissolvevano e,
dissolvendosi, sprigionavano soltanto luce, luce che mi pareva un unico inno.
Con la mano tesa in avanti il dottore Busbeck si riavvicinò al quadro e allora
il pittore disse: Come vedi, Teo, devo ancora lavorarci. Ma è finito, lo
interruppe Busbeck, e il pittore: Il bianco, il bianco dice ancora troppo. E Theo
Busbeck aggiunse: È troppo, Max, non posso accettarlo. Ma il pittore gli
strizzò l’occhio e disse ‘Potrai dirlo quando sarà finito’ ” [25].
Vediamo come Werner Haftmann descrive la versione in olio su tela di Mare di luce nella sua monografia del
1958, dieci anni dopo che il dipinto era stato concluso. “Il mare era sempre stato per Nolde un ritratto della forza elementare
della natura. Lo aveva sperimentato attraverso tutti i suoi stati. Il mare era
per lui la personificazione di un elemento essenziale di tipo drammatico, e
Nolde lo dipingeva sempre in questo modo, come se fosse una persona. Nella sua
ultima fase, i dipinti marini mostrano però una leggera trasformazione
sensoriale. (…) È ora la luce a divenire il vero e proprio vettore dei
contenuti. Ma non la luce solamente: la luce e l’infinito. (…) Nolde sceglie
l’ora in cui il sole e l’acqua sembrano riflettersi reciprocamente e crea una
luce vibrante che cancella l’orizzonte e dà l’idea dell’assenza di ogni confine. Questo temperamento ondulante
si materializza nel colore. È basato sul contrasto tra giallo e blu. Questo
contrasto è l’interazione di un giallo limone modulato in modo soffice e di un
azzurro chiaro, dove il bianco delle vele è la tonalità più brillante e il
viola del pennacchio di fumo l’accento più scuro; il contrasto è perciò così
attenuato che non è più a lungo palpabile e crea di per sé una splendida luce
uniforme che pone l’intero soggetto in una dimensione irreale di poesia”
[26].
Anche in questo caso, colpisce
l’uso simile del linguaggio tra Lenz e Haftmann: (i) l’unità tra cielo e mare;
(ii) la combinazione tra giallo limone tenue e blu chiaro; (iii) il concetto di
distanza infinita e (iv) la luce accesa, omogenea e unificante.
4. Paesaggio con sconociuti (Lenz) – Sconosciuti (Nolde)
Il dipinto immaginario di
Nansen ‘Paesaggio con sconosciuti’ (Landschaft mit unbekannten Leuten),
appare in una fase particolarmente drammatica del romanzo, quando Siggi Jepsen
sta cercando un rifugio per il fratello maggiore, che ha disertato dalla
Wermacht ed è tornato nel suo paese natale di nascosto. Siggi cerca l’aiuto del
pittore, entra perciò di nascosto nel suo atelier e lo trova al lavoro, mentre
litiga con Baldassarre, il suo cane immaginario. La scelta dei colori e delle
caratteristiche delle figure aumenta la tensione, ispirando un senso di ansietà
e dramma.
“Non dire stupidaggini, Baldassarre, in ogni quadro c’è un’azione sola,
la luce. A piedi nudi, camminando sulle solide tavole del pavimento, mi
avvicinai, e ancora oggi mi rivedo avanzare in punta di piedi. Il pittore non
si accorse di nulla. Sedetti su uno dei tanti giacigli provvisori, scostai una
coperta appesa che serviva da paravento e me lo vidi davanti con il suo vecchio
cappotto azzurro e il cappello in testa. Stava dipingendo. Litigava con il suo
Baldassarre e lavorava al Paesaggio con sconosciuti. Il quadro era fissato sul retro dell’anta destra dell’armadio, mentre
a sinistra, nei cassetti aperti, c’erano i suoi strumenti, come lui chiamava i
colori: era sufficiente un duplice movimento laterale per chiudere l’armadio e
far scomparire quadro e colori. Non so se anche in quel momento, all’udire un
passo, una voce o un rumore sospetto, avrebbe chiuso le ante dell’armadio,
perché quel giorno la sua lite con Baldassarre mi parve molto seria. Era
impegnato a dimostrare al suo interlocutore in pelliccia di volpe color lilla
che il paesaggio – sul quale accampavano le gigantesche figure degli
sconosciuti disposte in gruppo secondo un’intenzione chiara – poteva suggerire
l’idea dell’approssimarsi della violenza e della fine, non certo affondando in
una luce morente o in colori acquosi, ma unicamente se investito da uno
spaventoso chiarore, da un arancione terrificante interrotto da pennellate
bianche sovrapposte. Un grido acuto lanciato nel grigio nero: giallo, marrone,
bianco. Solo così cessa immediatamente il mutismo, il ritegno, la
rassegnazione, e ha inizio il dramma. E il verde marcio: in basso, come sempre,
stese del verde terroso. Gli bastava quella tonalità: il color verde terra
sapeva evocare tutto, e il suo Baldassare non voleva o non riusciva a capirlo.
Guardai il pittore, guardai gli sconosciuti e poi nuovamente il pittore: ora
tendeva l’orecchio e rifaceva l’espressione dei suoi personaggi, l’espressione
di chi si sente minacciato, come dovevano sentirsi loro, stranieri e allo
scoperto in paesaggio che non pareva raggiungibile casualmente al termine di
una passeggiata, ma dove si poteva solo venire gettati, costretti, dove il
terrore è comprensibile. Mi disturbavano – e mi disturbano tuttora – i copricapi
degli sconosciuti: un miscuglio tra il fez e il turbante che pareva imitare la
foggia in non so quale guerra turca. Ma il loro stupore, la loro paura, il loro
abbandono, trovavano perfetta risonanza nella particolare atmosfera del
paesaggio. Ora vorrei lasciar ricadere cautamente la coperta che serviva da
paravento per il giaciglio provvisorio, vorrei tornare inosservato alla porta
ed entrare un’altra volta, ufficialmente per così dire e rumorosamente. Come in
realtà feci: sempre in punta di piedi, raggiunsi l’ingresso, bussai, aprii e
richiusi la porta. Poi gridai: Zio Nansen? Sei qui, zio Nansen?” [27]
La Petersen identifica
questo dipinto fittizio nel quadro ‘Sconosciuti’
(Fremde Menschen) che Nolde completò
nel 1946. Anche questo lavoro è commentato da Werner Haftmann nella sua
monografia del 1958. Di seguito, uno stralcio di quel che egli scrive:
“Nolde si sta avvicinando agli 80 anni. La sua compagna Ada è molto
malata e muore nel novembre 1946. Il dipinto ‘Sconosciuti’ di certo esprime
molta dell’afflizione e della solitudine della vecchiaia. Il contrasto
fisiognomico tra i vecchi senza tempo da un lato e le fisionomie prettamente
moderne dei giovani dall’altro lato può anche rivelare il conflitto tra
generazioni, la greve rassegnazione dell’età e la scettica curiosità dei
giovani (…). I vestiti arcaici e fuori dal tempo dei vecchi, (…) le fisionomie
primitive con barba e il gigantismo delle loro figure indicano (…) habitat
distanti, mitici; i due strani escursionisti sono calati da quelle regioni
mitiche e sono entrati nel presente, in modo anacronistico e fuori dal tempo.
(…) Un tempo descrizione aneddotica dell’immagine di concezioni mistiche, il
dipinto è divenuta un’immagine fatale del destino, una pittura che trasforma la
concezione vitale del vecchio pittore in un’immagine mitica che può essere
vista immediatamente” [28].
In questo caso la
terminologia di Lenz e Haftmann divergono. Il testo di Lenz pone l’accento sulla
combinazione di colori e sul loro impatto emotivo (paura); Hartmann si
concentra più sugli aspetti simbolici (vecchiaia, senso di estraneità e
distanza dal mondo reale). Il senso generale di un’immagine simbolica e fatale
sul destino (Schicksalsbild), che
esprime il senso di una paura arcaica e mitica, è però lo stesso.
NOTE
[19] Nolde, Emil – Briefe aus den Jahren 1894-1926 (Lettere
dagli anni 1894-1926), Berlino,
Furche Verlag, 183 pagine. Citazione
a pagina 120.
[20] Nolde, Emil – Jahre der Kämpfe, Berlin, Rembrandt Verlag, 1934, 262 pagine.
Citazione a pagina 181.
[21] Petersen, Swantje - Korrespondenzen zwischen
Literatur und bildender Kunst im 20. Jahrhundert. Studien am Beispiel von S.
Lenz - E. Nolde - A. Andersch - E. Barlach - P. Klee, H. Janssen - E. Jünger
und G. Bekker (Corrispondenze tra letteratura e belle arti. Studi sui casi di
S. Lenz, E. Nolde, A. Andersch, E. Barlach, P. Klee, H. Janssen, E. Jünger e G.
Bekker), Francoforte sul Meno, Peter Lang, 1995, 314 pagine. Citazione a pagina 39.
[22] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, Vicenza, Neri Pozza, 2006, 506 pagine.
Citazione alle pagine 32-33.
[23] Haftmann, Werner - Emil Nolde, Colonia, DuMont, 1958, 140 pagine. Citazione
a pagina 110.
[24] Haftmann, Werner - Emil Nolde, (citato), p. 128.
[25] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 75-76.
[26] Haftmann, Werner - Emil Nolde, (citato), p. 136.
[27] Lenz, Siegfried – Lezione di tedesco, (citato), pp. 123-125.
[28] Haftmann, Werner - Emil Nolde, (citato), p. 132.
Nessun commento:
Posta un commento