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venerdì 9 dicembre 2016

Barbara Tramelli. Giovanni Paolo Lomazzo's 'Trattato dell'Arte della Pittura'. Color, Perspective and Anatomy. (2016) Parte Prima



Barbara Tramelli
Giovanni Paolo Lomazzo’s Trattato dell’Arte della Pittura.
Color, Perspective and Anatomy
Leiden-Boston, Brill, 2017 (ma 2016)

Recensione di Giovanni Mazzaferro
Parte Prima


Fig. 1) La copertina del volume con l'Autoritratto giovanile di Giovan Paolo Lomazzo

Avvertenza

Va chiarito subito che l’opera di Barbara Tramelli non è un’edizione critica in inglese del Trattato dell’Arte della Pittura (1584) di Giovan Paolo Lomazzo (1538-1592), ma muovendo dall’analisi dei materiali dedicati nel testo lomazziano a colore, prospettiva e rappresentazione del corpo umano, mira a ricreare un contesto intellettuale. L’autrice specifica che il suo non è il tradizionale approccio dello storico dell’arte al Trattato, ma un avvicinamento che abbina al lato artistico la storia dei libri e la storia della trasmissione della conoscenza. Si tratta di capire quanto degli argomenti illustrati dall’artista lombardo derivino da fonti precedenti, quanto da presumibili discussioni e scambi di opinioni (forzatamente orali) con personaggi della cultura milanese di quei tempi, quanto da apporti originali di Lomazzo. E di una cosa sono certo: il lavoro deve essere stato particolarmente impervio. Chiunque abbia qualche conoscenza della letteratura artistica sa che confrontarsi con i testi lomazziani è un compito ingrato. Personalmente, quando penso a Lomazzo e ai suoi scritti, ho sempre presente la sua Gloria angelica affrescata nella cappella Foppa della Chiesa di San Marco a Milano, un’opera che, vista dal vivo, procura un senso di vertigine e di inquietudine tipicamente manierista, come se gli angeli che ti stanno sulla testa minacciassero di cadere e di seppellirti assieme al materiale pittorico, una massa indistinta in cui nemmeno un centimetro della cupola sfugge al furore narrativo dell’artista.

Fig. 2) Giovan Paolo Lomazzo, Gloria degli angeli nel catino absidale della Cappella Foppa,
nella Chiesa di S. Marco a Milano
Fonte: Giovanni Dall'Orto tramite Wikimedia Commons

I paragoni possono essere ovviamente tanti, dalla cupola del Duomo di Parma del Correggio a quella del Concerto degli Angeli di Gaudenzio Ferrari a Saronno, ma personalmente non riesco a togliermi di mente la suggestione che nella cupola di Lomazzo ci sia qualcosa di medievale, di quelle affollatissime incoronazioni della Vergine in cui gli angeli si affollano simmetricamente ai lati della tavola, secondo un ordine gerarchico ben prestabilito.

Fig. 3) Gaudenzio Ferrari, Concerto degli angeli, 1534-1536, Santuario della Madonna dei Miracoli, Saronno
Fonte: Wikimedia Commons

Ecco, nelle opere letterarie di Lomazzo esiste lo stesso affollamento, lo stesso horror vacui, ma l’ordine non c’è; o, meglio, è solo formalmente dichiarato, mentre in concreto è sopraffatto dalle incongruenze, dalle ripetizioni e dalle contraddizioni. Sono convinto che Barbara Tramelli abbia passato anni a saltare da una pagina all’altra degli scritti lomazziani, in cerca di indizi, di conferme, di illogicità; e che altrettanto tempo abbia dovuto impiegare per decidere cosa scartare e cosa no, cosa fosse essenziale o meno. Ne è nata un’opera tipicamente anglosassone, non solo (troppo ovvio) perché scritta in inglese, ma perché sinonimo di chiarezza e lucidità espositiva. Un’opera (lo dico subito) che non sempre mi convince (e spiegherò i perché), ma che dimostra onestà intellettuale nel fornire una linea interpretativa essenziale e coerente. Un libro che si legge con piacere, insomma, senza mai scoraggiare il lettore e farlo sentire inadeguato: le difficoltà del lettore sono le stesse dell’autrice, che espone i suoi dubbi col massimo della sincerità.


Gli scritti di Lomazzo

Nella storiografia artistica odierna Giovan Paolo Lomazzo viene citato essenzialmente per la sua teoria dell’ “Idea” (ovvero del bello ideale, mutuato da una realtà ultraterrena, secondo una logica fondamentalmente neoplatonica). In questo senso va detto che a ‘riscoprire’ Lomazzo fu Erwin Panofsky nella sua celeberrima Idea. Contributo alla storia dell’estetica del 1924 [1]. Non è mancato poi chi abbia messo in evidenza la “relatività culturale” patrimonio dell’approccio lomazziano, secondo il quale esistono diversi modi di dipingere (diversi stili, diremmo oggi), tutti perfettamente degni di attenzione e di merito se frutto di artisti che lavorano rispettando la propria inclinazione. In realtà la produzione letteraria di Lomazzo è molto ampia ed oggi quasi completamente pubblicata. Il suo primo testo a noi noto è l'unico che rimase manoscritto ed incompleto. Si tratta del Libro dei sogni, del 1563. Vent’anni dopo, in una condizione personale del tutto differente (Lomazzo era diventato improvvisamente cieco nel 1572) usciva il Trattato della Pittura (1584), a quanto pare con tre edizioni nello stesso anno ed una l’anno successiva [2]. Poi, in rapida successione è la volta delle Rime (1587), dei Rabisch (1589), dell’Idea del Tempio della Pittura (1590) e Della Forma delle Muse (1591). Non necessariamente la cronologia della pubblicazione delle opere coincide con quella con cui Lomazzo le scrisse; né le opere con maggiori ambizioni letterarie (i Rabisch e le Rime) vanno separate dall’analisi rispetto alle altre. Nella sua edizione del 1973 Roberto Paolo Ciardi (cfr. nota 6) mette in evidenza la strettissima relazione fra Libro dei Sogni (che come si è detto fu scritto nel 1563) e Rime. Il Libro dei Sogni doveva essere composto di sedici ‘ragionamenti’. Al termine di ciascuno dei sette arrivati sino a noi l’autore indica una serie di componimenti poetici che dovevano essere letti a mo’ di intermezzo. Tutti questi componimenti fanno parte, in realtà, delle Rime. Appare quindi evidente come le due opere siano partite in sostanza di pari passo; la redazione delle Rime, peraltro, durò decenni, posto che vi si rintracciano testi poetici ampiamente successivi. Sempre Ciardi sostiene, in maniera molto più dubitativa, che il Libro dei Sogni rappresentava, in sostanza, una versione in nuce (e in forma dialogica) del Trattato della Pittura. Comunque sia stato, pur in assenza di informazioni documentarie, tutti gli interpreti concordano sul fatto che la lavorazione di Trattato e Idea dovette cominciare molti anni prima. È impossibile, a questo punto, non notare lo scarto temporale fra Libro dei Sogni (1563), l’unico datato e di cui ci sia giunto il manoscritto autografo, e tutto il pubblicato, che comincia – come detto – nel 1584. La domanda è: cosa fece Lomazzo nel frattempo? Perché pubblicò solo in vecchiaia? La prima spiegazione fornita sin dall’Ottocento, ovvero che Lomazzo cominciò a scrivere solo dopo essere divenuto cieco e aver abbandonato la pittura, nel 1572, si dimostra del tutto inconsistente alla luce di quanto sopra detto (all’epoca il manoscritto del Libro dei Sogni non era noto). Del tutto improbabile, poi, che Lomazzo abbia lavorato al Trattato per tredici anni dopo aver perso la vista, e dal 1584 in poi abbia scoperto un’ispirazione che lo abbia portato a divenire grafomane. La spiegazione va probabilmente cercata nelle frequentazioni dell’artista e nella contingenza storica della Milano di quegli anni.

Fig. 4) Frontespizio del Trattato dell'arte della pittura (1584)
Fonte: https://raccoltavinciana.milanocastello.it/it/content/giovan-paolo-lomazzo-trattato-dell%E2%80%99arte-della-pittura


Lomazzo e le sue frequentazioni

Fig. 5) Giovan Paolo Lomazzo, Autoritratto come abate dell'Accademia della Val di Blenio,
1568-1571 circa, Milano, Pinacoteca di Brera
Fonte: Wikimedia Commons

Uno degli elementi biografici più noti, nella vita del Lomazzo è la sua partecipazione all’Accademia della Val di Blenio, di cui fu anche “abate” (in sostanza, direttore) dal 1568 fino alla morte. Tramelli dedica ampio spazio a parlare dell’Accademia e di chi ne fece parte, cogliendone appieno il significato di “luogo” informale per la trasmissione delle idee. Fondata nel 1560, l’Accademia fu quello che oggi definiremmo un circolo culturale. Era aperta a tutti (non solo ai nobili) purché sapessero leggere e scrivere. Si trattava, dunque, di un’accademia di eruditi con una forte connotazione identitaria milanese.  La Val di Blenio è una valle fra Como e la Svizzera da cui, tradizionalmente, provenivano i facchini che erano impegnati nei lavori di trasporto più pesanti a Milano. Scegliendo di chiamarsi fra di loro ‘facchini’ o, ancora più amichevolmente, ‘Compà’, i componenti accettavano di aderire a un’accademia sostanzialmente egualitaria (in cui si parlava un dialetto particolare (la ‘lingua facchinesca’). Tale lingua aveva sue regole grammaticali e un lessico che si richiamava – ovviamente – al dialetto orale dei facchini di Blenio, ma in realtà, nel momento stesso in cui veniva trasposta su carta, diventava una lingua in qualche modo ‘artificiale’, comprensibile ai soli membri appartenenti all’associazione. Che si trattasse di una sofisticata operazione colta è del resto confermato dal fatto che, passando in rassegna i nomi dei membri dell’Accademia, pubblicati alla fine dei Rabisch (in lingua facchinesca gli ‘arabeschi’), si trovano nobili, pittori, poeti, artigiani, scrittori, uomini di legge, ingegneri, astrologi e medici, con l’unico intento dichiarato di passar tempo in compagnia e di abbandonarsi a gran bevute di vino. In realtà, come sostiene Tramelli ed è assolutamente logico credere, si può pensare che in questo circolo di gaudenti si svolgessero anche discussioni colte, sugli argomenti più disparati: la pittura, e la sua appartenenza alle arti liberali non poteva che essere uno di questi. Quanto la presenza di un’Accademia così potenzialmente eversiva, dedita a ben vedere a riti di sapore neo-pagano, fosse gradita nella Milano spagnola in cui era arcivescovo dal 1564 al 1584 Carlo Borromeo, ovvero uno dei più accaniti promotori del nuovo credo controriformato [7] non è noto con esattezza, ma è facile immaginare. Il punto sta qui: c’è chi ritiene che Lomazzo non abbia pubblicato nulla fino al 1584 semplicemente perché i suoi scritti non potevano essere resi pubblici. Questo discorso è assolutamente vero, ad esempio, per il Libro dei Sogni del 1563, che contiene pagine di contenuto erotico esplicito ispirate a quelle ben note dell’Aretino. Più in generale, secondo interpreti come, ad esempio, Ciardi, Lomazzo, al di là dei contenuti erotici, non aveva certo abbracciato in maniera fervida la Controriforma ed aveva tutti i requisiti giusti per essere sospettato di simpatie protestanti. Barbara Tramelli non si occupa in maniera particolarmente approfondita della questione, semplicemente perché la cosa non riguarda il suo campo d’indagine (a lei, sostanzialmente, interessa trovare tracce trasfuse nel Trattato dei possibili contributi degli altri ‘facchini’ dell’Accademia). Tuttavia credo che una cosa vada detta: non può sfuggire che da un certo momento in poi le cose, per Lomazzo e per l’Accademia cambino e diventino più agevoli. Succede grosso modo fra il 1580 e il 1585. Prima l’Accademia trova un protettore, che ne diventa membro, in Pirro Visconti Borromeo (1560-1604), ricco nobile esponente di un ramo secondario della stessa famiglia dell’arcivescovo (a dimostrazione che non tutti possono pensarla allo stesso modo) e, soprattutto, nel 1584 Carlo Borromeo muore. Può darsi che si tratti di pura coincidenza, ma dal 1584 Lomazzo comincia a pubblicare. Non è affatto detto, con questo, che Carlo Borromeo fosse l’unica causa del mancato sbocco editoriale: una spiegazione semplicissima è che a Lomazzo mancassero i fondi, e che possa averli trovati proprio grazie a Pirro Visconti Borromeo. Va aggiunto che fra il 1585 e il 1589 Pirro promuove i lavori di ristrutturazione nella sua ‘villa di delizie’ di Lainate, affidando il progetto all’architetto Martino Bassi, che conosceva Lomazzo, e la decorazione pittorica al parmense Camillo Procaccini. La villa di Lainate diventerà sede di un prestigiosa wunderkammer frutto della passione collezionistica del nobile, con giochi d’acqua, grottesche e ogni altro genere di decorazioni di moda in quei tempi; Lomazzo era cieco e non poté dipingere, ma è scontato che abbia svolto un ruolo di consulente ai lavori. E nel 1587 pubblica proprio le Rime, il cui titolo completo è Rime ad imitazione dei grotteschi usati dai pittori: quelle grottesche che Procaccini sta dipingendo a Lainate e che Giovan Paolo conosce bene, essendo stato da giovane a Roma e avendo visitato i resti della Domus Aurea. Molto più di una coincidenza.

Fig. 6) Il frontespizio dei Rabisch (1589).
Fonte: Wikimedia Commons


Per chi scriveva Lomazzo?

Uno degli aspetti più discussi (e a cui l’autrice riserva maggior attenzione) è capire quale fosse il pubblico a cui si rivolgeva Lomazzo con le sue opere. Se nel caso dei Rabisch appare evidente (si tratta di un’opera scritta per essere letta dagli altri ‘facchini’ dell’Accademia della Val di Blenio), in quello del Trattato le cose appaiono più sfumate. Il Trattato ha sicuramente una valenza di carattere didattico: Lomazzo sostiene in più occasioni di scrivere per i giovani pittori e per la loro formazione. Il percorso formativo proposto dell’artista si compone di aspetti teorici e di aspetti pratici fra loro interconnessi. Tuttavia appare lecito dire che i destinatari siano fondamentalmente di due tipi diversi: da un lato, appunto, gli artisti e dall’altro i ‘dilettanti’, ovvero coloro che si interessano di arte (e magari la collezionano), senza essere a loro volta artefici. Ce ne sono molti anche nel novero dell’Accademia. E tuttavia, bisogna tener conto che Lomazzo opera una distinzione ben precisa fra ‘artisti’ e semplici mestieranti. “Il giudizio nei confronti dei ‘pittori pratici’ che non prendono in considerazione le nozioni tecniche necessarie per svolgere il loro lavoro è estremamente critico. Li bolla come ignoranti, una massa così numerosa rispetto agli artisti eruditi “che tutto il mondo ammorbano e soffocano con la vaghezza della pura prattica loro” [8]. Sotto questo punto di vista, l’Accademia di Blenio di cui egli fa parte […] può essere considerata come un tentativo mascherato da parte dei pittori e degli artisti milanesi per unire le loro forze con uomini di lettere locali per combattere contro il predominio degli artisti ignoranti nelle “buone lettere” e per creare un nuovo “tipo ideale” di pittore capace di parlare su vari argomenti e di esprimersi in termini poetici” (pp. 30-31).

Si è supposto che questo tipo di approccio non sia solo un generico richiamo alla nobiltà dell’arte (e del pittore istruito) nei confronti di chi esercita la professione in maniera becera; affermazioni del genere, in linea di massima, se ne sono viste molte (non solo in Italia) ed hanno in qualche modo un sapore retorico, volto appunto a celebrare il pittore istruito. A volte, con la dovuta cautela, si è proposto di calarle nella realtà: è il caso ad esempio dei Diálogos de la Pintura di Vicente Carducho pubblicati a Madrid nel 1633, che sarebbero un tentativo degli artisti di formazione italiana di prendere il sopravvento rispetto al resto dei pittori della corporazione dando vita a un’Accademia del disegno. Nel caso di Lomazzo, Tramelli suppone invece che oggetto degli strali dell’artista siano gli artisti ‘forestieri’, ovvero provenienti da fuori Milano, in particolare quel Bernardino Campi che conosceva largo successo negli ambienti artistici milanesi. Personalmente, non sono del tutto convinto (e non solo perché, oltre a criticarlo, Lomazzo loda Campi per il suo libro sui colori oggi andato perduto). Preferisco pensare che anche qui la controparte siano gli altri artisti della locale corporazione (chiamata, manco a dirlo Scuola di San Luca). Tramelli ne parla alle pp. 41-46 ed evidenzia peraltro come l’insediamento urbano della città fosse tale per cui tutti gli artisti di fatto avevano le loro botteghe in un’area cittadina molto limitata, si conoscevano benissimo e probabilmente, vivevano in un clima estremamente competitivo. Molto probabile che Lomazzo, uomo di cultura, mirasse a distinguersi dalla massa di coloro che non considerava artisti (pur facendo parte della corporazione), ma “pittori pratici”.


Un uomo dalle mille contraddizioni

Se la polemica nei confronti degli artisti di livello infimo non è certo una novità, mi pare invece una sorpresa le parole che egli spende nei confronti dei pittori che si comportano come cortigiani, “sdegnando in un certo modo d’esser chiamati pittori, e seguitando le pratiche di signori e cavaglieri, attenti solamente a gentilezze, garbi e costumi. Onde altro non s’acquistano che esser mostrati a ditto e scherniti” (p. 31). In queste affermazioni sembra implicito un giudizio molto severo nei confronti della vita di corte e la cosa potrebbe avere anche un senso, posto che Giovan Paolo fu per più vent’anni abate di un’Accademia che faceva dell’egualitarismo uno dei suoi principi fondanti. Se non che non si può dimenticare che il Trattato della Pittura è dedicato a Carlo Emanuele di Savoia, duca di Torino e l’Idea del Tempio della Pittura a Filippo II di Spagna. La contraddizione è manifesta. Non dobbiamo stupircene. Non è certo la prima, ne l’ultima nel trattato lomazziano, dei cui contenuti parleremo meglio nella seconda parte di questo post.

Fine della Parte Prima


NOTE

[1] Credo si possa tranquillamente dire che Schlosser, in questo senso, manca l’appuntamento con Lomazzo nella sua Letteratura artistica, in cui dimostra anche di avere difficoltà a collocarlo, dicendo prima che “a lui è dovuto il più grande e più ampio trattato del manierismo, la sua vera Bibbia, il Trattato dell’Arte della Pittura” (p. 395) e poi aggiungendo: “Il Lomazzo ci ha dato una specie di compendio di questa sua opera maggiore in uno scritto più breve, che porta il titolo L’Idea del Tempio della Pittura, e che apparve nel 1590. Il titolo stesso ne annuncia la veste prodigiosamente barocca” (p. 396).

[2] Si trattava probabilmente di edizioni mirate a cancellare errori precedenti. Va peraltro detto che fra prima e seconda edizione il titolo dell’opera cambia e passa da Trattato dell’Arte della Pittura a Trattato dell’Arte della Pittura, Scoltura et Architettura.

[3] Gian Paolo Lomazzo, Scritti sulle arti, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Firenze, Marchi e Bertolli, 1973.

[4] Giovan Paolo Lomazzo, Rabisch,  a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1993.

[5] Giovan Paolo Lomazzo, Rime ad imitazione dei grotteschi usati da’ pittori, a cura di Alessandra Ruffino, Manziana (Roma), Vecchiarelli editore, 2006.

[6] Il lettore italiano può oggi accedere a moderne edizioni di tutti i titoli grazie all’eccellente edizione commentata delle medesime (tranne Rabisch e Rime) pubblicata in due volumi nel 1973 da Roberto Paolo Ciardi [3]. I Rabisch sono stati pubblicati nel 1993 a cura di Dante Isella [4] e le Rime ad imitazione dei grotteschi usati da’ pittori nel 2006, per merito di Alessandra Ruffino [5]. Per il pubblico straniero la possibilità di leggere i testi è molto più limitata, e riferita di fatto alla sola Idea del Tempio della Pittura. Non è certo un caso, posto che si tratta dell’opera a cui fece riferimento Panofsky nel 1924. Ecco allora l’edizione critica di Robert Klein (1974), pubblicata a Firenze “nella sede dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento a Palazzo Strozzi”, ma con traduzione e commento in francese; nonché la recentissima traduzione in inglese (Giovan Paolo Lomazzo, Idea of the Temple of Painting, a cura di Jean Julia Chai, Pennsylvania State University Press, 2013).

[7] Si veda in questo blog la recensione alle sue Instructionum Fabricae et Supellectlis ecclesiasticae del 1577.

[8] Incidentalmente, va qui segnalata la connotazione negativa data al termine ‘vaghezza’.


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