Barbara Tramelli
Giovanni Paolo Lomazzo’s Trattato dell’Arte della Pittura.
Color, Perspective and Anatomy
Color, Perspective and Anatomy
Leiden-Boston, Brill, 2017 (ma 2016)
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Parte Prima
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Fig. 1) La copertina del volume con l'Autoritratto giovanile di Giovan Paolo Lomazzo |
Avvertenza
Va chiarito subito che l’opera di
Barbara Tramelli non è un’edizione critica in inglese del Trattato dell’Arte della Pittura (1584) di Giovan Paolo Lomazzo (1538-1592),
ma muovendo dall’analisi dei materiali dedicati nel testo lomazziano a colore,
prospettiva e rappresentazione del corpo umano, mira a ricreare un contesto
intellettuale. L’autrice specifica che il suo non è il tradizionale approccio
dello storico dell’arte al Trattato,
ma un avvicinamento che abbina al lato artistico la storia dei libri e la
storia della trasmissione della conoscenza. Si tratta di capire quanto degli
argomenti illustrati dall’artista lombardo derivino da fonti precedenti, quanto
da presumibili discussioni e scambi di opinioni (forzatamente orali) con
personaggi della cultura milanese di quei tempi, quanto da apporti originali di
Lomazzo. E di una cosa sono certo: il lavoro deve essere stato particolarmente
impervio. Chiunque abbia qualche conoscenza della letteratura artistica sa che
confrontarsi con i testi lomazziani è un compito ingrato. Personalmente, quando
penso a Lomazzo e ai suoi scritti, ho sempre presente la sua Gloria angelica affrescata nella
cappella Foppa della Chiesa di San Marco a Milano, un’opera che, vista dal vivo, procura
un senso di vertigine e di inquietudine tipicamente manierista, come se gli
angeli che ti stanno sulla testa minacciassero di cadere e di seppellirti
assieme al materiale pittorico, una massa indistinta in cui nemmeno un
centimetro della cupola sfugge al furore narrativo dell’artista.
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Fig. 2) Giovan Paolo Lomazzo, Gloria degli angeli nel catino absidale della Cappella Foppa, nella Chiesa di S. Marco a Milano Fonte: Giovanni Dall'Orto tramite Wikimedia Commons |
I paragoni possono essere
ovviamente tanti, dalla cupola del Duomo di Parma del Correggio a quella del
Concerto degli Angeli di Gaudenzio Ferrari a Saronno, ma personalmente non
riesco a togliermi di mente la suggestione che nella cupola di Lomazzo ci sia
qualcosa di medievale, di quelle affollatissime incoronazioni della Vergine in
cui gli angeli si affollano simmetricamente ai lati della tavola, secondo un
ordine gerarchico ben prestabilito.
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Fig. 3) Gaudenzio Ferrari, Concerto degli angeli, 1534-1536, Santuario della Madonna dei Miracoli, Saronno Fonte: Wikimedia Commons |
Ecco, nelle opere letterarie di
Lomazzo esiste lo stesso affollamento, lo stesso horror vacui, ma l’ordine non c’è; o, meglio, è solo formalmente
dichiarato, mentre in concreto è sopraffatto dalle incongruenze, dalle
ripetizioni e dalle contraddizioni. Sono convinto che Barbara Tramelli abbia
passato anni a saltare da una pagina all’altra degli scritti lomazziani, in
cerca di indizi, di conferme, di illogicità; e che altrettanto tempo abbia
dovuto impiegare per decidere cosa scartare e cosa no, cosa fosse essenziale o
meno. Ne è nata un’opera tipicamente anglosassone, non solo (troppo ovvio)
perché scritta in inglese, ma perché sinonimo di chiarezza e lucidità
espositiva. Un’opera (lo dico subito) che non sempre mi convince (e spiegherò i
perché), ma che dimostra onestà intellettuale nel fornire una linea
interpretativa essenziale e coerente. Un libro che si legge con piacere,
insomma, senza mai scoraggiare il lettore e farlo sentire inadeguato: le
difficoltà del lettore sono le stesse dell’autrice, che espone i suoi dubbi col
massimo della sincerità.
Gli scritti di Lomazzo
Nella storiografia artistica
odierna Giovan Paolo Lomazzo viene citato essenzialmente per la sua teoria
dell’ “Idea” (ovvero del bello ideale, mutuato da una realtà ultraterrena,
secondo una logica fondamentalmente neoplatonica). In questo senso va detto che
a ‘riscoprire’ Lomazzo fu Erwin Panofsky nella sua celeberrima Idea. Contributo alla storia dell’estetica
del 1924 [1]. Non è mancato poi chi abbia messo in evidenza la “relatività
culturale” patrimonio dell’approccio lomazziano, secondo il quale esistono
diversi modi di dipingere (diversi stili, diremmo oggi), tutti perfettamente
degni di attenzione e di merito se frutto di artisti che lavorano rispettando
la propria inclinazione. In realtà la produzione letteraria di Lomazzo è molto
ampia ed oggi quasi completamente pubblicata. Il suo primo testo a noi noto è l'unico che rimase manoscritto ed incompleto. Si tratta del Libro dei sogni, del 1563. Vent’anni dopo, in una condizione
personale del tutto differente (Lomazzo era diventato improvvisamente cieco nel
1572) usciva il Trattato della Pittura
(1584), a quanto pare con tre edizioni nello stesso anno ed una l’anno
successiva [2]. Poi, in rapida successione è la volta delle Rime (1587), dei Rabisch
(1589), dell’Idea del Tempio della
Pittura (1590) e Della Forma delle
Muse (1591). Non necessariamente la cronologia della pubblicazione delle
opere coincide con quella con cui Lomazzo le scrisse; né le opere con maggiori
ambizioni letterarie (i Rabisch e le Rime) vanno separate dall’analisi
rispetto alle altre. Nella sua edizione del 1973 Roberto Paolo Ciardi (cfr.
nota 6) mette in evidenza la strettissima relazione fra Libro dei Sogni (che come si è detto fu scritto nel 1563) e Rime. Il Libro dei Sogni doveva essere composto di sedici ‘ragionamenti’. Al
termine di ciascuno dei sette arrivati sino a noi l’autore indica una serie di
componimenti poetici che dovevano essere letti a mo’ di intermezzo. Tutti
questi componimenti fanno parte, in realtà, delle Rime. Appare quindi evidente come le due opere siano partite in
sostanza di pari passo; la redazione delle Rime,
peraltro, durò decenni, posto che vi si rintracciano testi poetici ampiamente
successivi. Sempre Ciardi sostiene, in maniera molto più dubitativa, che il Libro dei Sogni rappresentava, in
sostanza, una versione in nuce (e in
forma dialogica) del Trattato della
Pittura. Comunque sia stato, pur in assenza di informazioni documentarie,
tutti gli interpreti concordano sul fatto che la lavorazione di Trattato e Idea dovette cominciare molti anni prima. È impossibile, a questo punto,
non notare lo scarto temporale fra Libro
dei Sogni (1563), l’unico datato e di cui ci sia giunto il manoscritto
autografo, e tutto il pubblicato, che comincia – come detto – nel 1584. La
domanda è: cosa fece Lomazzo nel frattempo? Perché pubblicò solo in vecchiaia?
La prima spiegazione fornita sin dall’Ottocento, ovvero che Lomazzo cominciò a
scrivere solo dopo essere divenuto cieco e aver abbandonato la pittura, nel
1572, si dimostra del tutto inconsistente alla luce di quanto sopra detto
(all’epoca il manoscritto del Libro dei
Sogni non era noto). Del tutto improbabile, poi, che Lomazzo abbia lavorato
al Trattato per tredici anni dopo
aver perso la vista, e dal 1584 in poi abbia scoperto un’ispirazione che lo
abbia portato a divenire grafomane. La spiegazione va probabilmente cercata
nelle frequentazioni dell’artista e nella contingenza storica della Milano di
quegli anni.
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Fig. 4) Frontespizio del Trattato dell'arte della pittura (1584) Fonte: https://raccoltavinciana.milanocastello.it/it/content/giovan-paolo-lomazzo-trattato-dell%E2%80%99arte-della-pittura |
Lomazzo e le sue frequentazioni
Fig. 5) Giovan Paolo Lomazzo, Autoritratto come abate dell'Accademia della Val di Blenio, 1568-1571 circa, Milano, Pinacoteca di Brera Fonte: Wikimedia Commons |
Uno degli elementi biografici più noti, nella
vita del Lomazzo è la sua partecipazione all’Accademia della Val di Blenio, di
cui fu anche “abate” (in sostanza, direttore) dal 1568 fino alla morte. Tramelli
dedica ampio spazio a parlare dell’Accademia e di chi ne fece parte,
cogliendone appieno il significato di “luogo” informale per la trasmissione
delle idee. Fondata nel 1560, l’Accademia fu quello che oggi definiremmo un
circolo culturale. Era aperta a tutti (non solo ai nobili) purché sapessero
leggere e scrivere. Si trattava, dunque, di un’accademia di eruditi con una
forte connotazione identitaria milanese. La Val di Blenio è una valle fra Como e la
Svizzera da cui, tradizionalmente, provenivano i facchini che erano impegnati
nei lavori di trasporto più pesanti a Milano. Scegliendo di chiamarsi fra di
loro ‘facchini’ o, ancora più amichevolmente, ‘Compà’, i componenti accettavano
di aderire a un’accademia sostanzialmente egualitaria (in cui si parlava un dialetto particolare
(la ‘lingua facchinesca’). Tale lingua aveva sue regole grammaticali e un lessico che si
richiamava – ovviamente – al dialetto orale dei facchini di Blenio, ma in
realtà, nel momento stesso in cui veniva trasposta su carta, diventava una lingua in
qualche modo ‘artificiale’, comprensibile ai soli membri appartenenti
all’associazione. Che si trattasse di una sofisticata operazione colta è del
resto confermato dal fatto che, passando in rassegna i nomi dei membri dell’Accademia,
pubblicati alla fine dei Rabisch (in
lingua facchinesca gli ‘arabeschi’), si trovano nobili, pittori, poeti,
artigiani, scrittori, uomini di legge, ingegneri, astrologi e medici, con
l’unico intento dichiarato di passar tempo in compagnia e di abbandonarsi a
gran bevute di vino. In realtà, come sostiene Tramelli ed è assolutamente
logico credere, si può pensare che in questo circolo di gaudenti si
svolgessero anche discussioni colte, sugli argomenti più disparati: la pittura,
e la sua appartenenza alle arti liberali non poteva che essere uno di questi.
Quanto la presenza di un’Accademia così potenzialmente eversiva, dedita a ben
vedere a riti di sapore neo-pagano, fosse gradita nella Milano spagnola in cui
era arcivescovo dal 1564 al 1584 Carlo Borromeo, ovvero uno dei più accaniti
promotori del nuovo credo controriformato [7] non è noto con esattezza, ma è
facile immaginare. Il punto sta qui: c’è chi ritiene che Lomazzo non abbia
pubblicato nulla fino al 1584 semplicemente perché i suoi scritti non potevano
essere resi pubblici. Questo discorso è assolutamente vero, ad esempio, per il Libro dei Sogni del 1563, che contiene
pagine di contenuto erotico esplicito ispirate a quelle ben note dell’Aretino.
Più in generale, secondo interpreti come, ad esempio, Ciardi, Lomazzo, al di là
dei contenuti erotici, non aveva certo abbracciato in maniera fervida la
Controriforma ed aveva tutti i requisiti giusti per essere sospettato di
simpatie protestanti. Barbara Tramelli non si occupa in maniera particolarmente
approfondita della questione, semplicemente perché la cosa non riguarda il suo
campo d’indagine (a lei, sostanzialmente, interessa trovare tracce trasfuse nel
Trattato dei possibili contributi
degli altri ‘facchini’ dell’Accademia). Tuttavia credo che una cosa vada detta:
non può sfuggire che da un certo momento in poi le cose, per Lomazzo e per
l’Accademia cambino e diventino più agevoli. Succede grosso modo fra il 1580 e
il 1585. Prima l’Accademia trova un protettore, che ne diventa membro, in Pirro
Visconti Borromeo (1560-1604), ricco nobile esponente di un ramo secondario
della stessa famiglia dell’arcivescovo (a dimostrazione che non tutti possono
pensarla allo stesso modo) e, soprattutto, nel 1584 Carlo Borromeo muore. Può
darsi che si tratti di pura coincidenza, ma dal 1584 Lomazzo comincia a
pubblicare. Non è affatto detto, con questo, che Carlo Borromeo fosse l’unica
causa del mancato sbocco editoriale: una spiegazione semplicissima è che a
Lomazzo mancassero i fondi, e che possa averli trovati proprio grazie a Pirro
Visconti Borromeo. Va aggiunto che fra il 1585 e il 1589 Pirro promuove i
lavori di ristrutturazione nella sua ‘villa di delizie’ di Lainate, affidando
il progetto all’architetto Martino Bassi, che conosceva Lomazzo, e la
decorazione pittorica al parmense Camillo Procaccini. La villa di Lainate
diventerà sede di un prestigiosa wunderkammer
frutto della passione collezionistica del nobile, con giochi d’acqua,
grottesche e ogni altro genere di decorazioni di moda in quei tempi; Lomazzo
era cieco e non poté dipingere, ma è scontato che abbia svolto un ruolo di
consulente ai lavori. E nel 1587 pubblica proprio le Rime, il cui titolo completo è Rime ad imitazione dei grotteschi
usati dai pittori: quelle grottesche che Procaccini sta dipingendo a Lainate e
che Giovan Paolo conosce bene, essendo stato da giovane a Roma e avendo visitato
i resti della Domus Aurea. Molto più di una coincidenza.
Fig. 6) Il frontespizio dei Rabisch (1589). Fonte: Wikimedia Commons |
Per chi scriveva Lomazzo?
Uno degli aspetti più discussi (e
a cui l’autrice riserva maggior attenzione) è capire quale fosse il pubblico a
cui si rivolgeva Lomazzo con le sue opere. Se nel caso dei Rabisch appare evidente (si tratta di un’opera scritta per essere
letta dagli altri ‘facchini’ dell’Accademia della Val di Blenio), in quello del
Trattato le cose appaiono più
sfumate. Il Trattato ha sicuramente una valenza di carattere didattico: Lomazzo
sostiene in più occasioni di scrivere per i giovani pittori e per la loro
formazione. Il percorso formativo proposto dell’artista si compone di aspetti
teorici e di aspetti pratici fra loro interconnessi. Tuttavia appare lecito
dire che i destinatari siano fondamentalmente di due tipi diversi: da un lato,
appunto, gli artisti e dall’altro i ‘dilettanti’, ovvero coloro che si
interessano di arte (e magari la collezionano), senza essere a loro volta
artefici. Ce ne sono molti anche nel novero dell’Accademia. E tuttavia, bisogna
tener conto che Lomazzo opera una distinzione ben precisa fra ‘artisti’ e
semplici mestieranti. “Il giudizio nei
confronti dei ‘pittori pratici’ che non prendono in considerazione le nozioni
tecniche necessarie per svolgere il loro lavoro è estremamente critico. Li
bolla come ignoranti, una massa così numerosa rispetto agli artisti eruditi
“che tutto il mondo ammorbano e soffocano con la vaghezza della pura prattica
loro” [8]. Sotto questo punto di
vista, l’Accademia di Blenio di cui egli fa parte […] può essere considerata
come un tentativo mascherato da parte dei pittori e degli artisti milanesi per
unire le loro forze con uomini di lettere locali per combattere contro il
predominio degli artisti ignoranti nelle “buone lettere” e per creare un nuovo
“tipo ideale” di pittore capace di parlare su vari argomenti e di esprimersi in
termini poetici” (pp. 30-31).
Si è supposto che questo tipo di
approccio non sia solo un generico richiamo alla nobiltà dell’arte (e del
pittore istruito) nei confronti di chi esercita la professione in maniera
becera; affermazioni del genere, in linea di massima, se ne sono viste molte
(non solo in Italia) ed hanno in qualche modo un sapore retorico, volto appunto a
celebrare il pittore istruito. A volte, con la dovuta cautela, si è proposto di
calarle nella realtà: è il caso ad esempio dei Diálogos de la Pintura di Vicente Carducho pubblicati a Madrid nel 1633, che sarebbero un tentativo degli
artisti di formazione italiana di prendere il sopravvento rispetto al resto dei
pittori della corporazione dando vita a un’Accademia del disegno. Nel caso di Lomazzo,
Tramelli suppone invece che oggetto degli strali dell’artista siano gli artisti
‘forestieri’, ovvero provenienti da fuori Milano, in particolare quel
Bernardino Campi che conosceva largo successo negli ambienti artistici
milanesi. Personalmente, non sono del tutto convinto (e non solo perché, oltre
a criticarlo, Lomazzo loda Campi per il suo libro sui colori oggi andato
perduto). Preferisco pensare che anche qui la controparte siano gli altri
artisti della locale corporazione (chiamata, manco a dirlo Scuola di San Luca).
Tramelli ne parla alle pp. 41-46 ed evidenzia peraltro come l’insediamento
urbano della città fosse tale per cui tutti gli artisti di fatto avevano le
loro botteghe in un’area cittadina molto limitata, si conoscevano benissimo e probabilmente,
vivevano in un clima estremamente competitivo. Molto probabile che Lomazzo,
uomo di cultura, mirasse a distinguersi dalla massa di coloro che non
considerava artisti (pur facendo parte della corporazione), ma “pittori
pratici”.
Un uomo dalle mille contraddizioni
Se la polemica nei confronti degli
artisti di livello infimo non è certo una novità, mi pare invece una sorpresa
le parole che egli spende nei confronti dei pittori che si comportano come
cortigiani, “sdegnando in un certo modo
d’esser chiamati pittori, e seguitando le pratiche di signori e cavaglieri,
attenti solamente a gentilezze, garbi e costumi. Onde altro non s’acquistano
che esser mostrati a ditto e scherniti” (p. 31). In queste affermazioni
sembra implicito un giudizio molto severo nei confronti della vita di corte e
la cosa potrebbe avere anche un senso, posto che Giovan Paolo fu per più
vent’anni abate di un’Accademia che faceva dell’egualitarismo uno dei suoi
principi fondanti. Se non che non si può dimenticare che il Trattato della Pittura è dedicato a
Carlo Emanuele di Savoia, duca di Torino e l’Idea del Tempio della Pittura a
Filippo II di Spagna. La contraddizione è manifesta. Non dobbiamo stupircene.
Non è certo la prima, ne l’ultima nel trattato lomazziano, dei cui contenuti
parleremo meglio nella seconda parte di questo post.
Fine della Parte Prima
NOTE
[1] Credo si possa
tranquillamente dire che Schlosser, in questo senso, manca l’appuntamento con
Lomazzo nella sua Letteratura artistica,
in cui dimostra anche di avere difficoltà a collocarlo, dicendo prima che “a
lui è dovuto il più grande e più ampio trattato del manierismo, la sua vera
Bibbia, il Trattato dell’Arte della
Pittura” (p. 395) e poi aggiungendo: “Il Lomazzo ci ha dato una specie di
compendio di questa sua opera maggiore in uno scritto più breve, che porta il
titolo L’Idea del Tempio della Pittura,
e che apparve nel 1590. Il titolo stesso ne annuncia la veste prodigiosamente
barocca” (p. 396).
[2] Si trattava probabilmente di
edizioni mirate a cancellare errori precedenti. Va peraltro detto che fra prima
e seconda edizione il titolo dell’opera cambia e passa da Trattato dell’Arte della Pittura a Trattato dell’Arte della Pittura, Scoltura et Architettura.
[3] Gian Paolo Lomazzo, Scritti
sulle arti, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Firenze, Marchi e Bertolli, 1973.
[4] Giovan Paolo Lomazzo,
Rabisch, a cura di Dante Isella, Torino,
Einaudi, 1993.
[5] Giovan Paolo Lomazzo, Rime ad
imitazione dei grotteschi usati da’ pittori, a cura di Alessandra Ruffino,
Manziana (Roma), Vecchiarelli editore, 2006.
[6] Il lettore italiano può oggi
accedere a moderne edizioni di tutti i titoli grazie all’eccellente edizione
commentata delle medesime (tranne Rabisch
e Rime) pubblicata in due volumi nel
1973 da Roberto Paolo Ciardi [3]. I Rabisch
sono stati pubblicati nel 1993 a cura di Dante Isella [4] e le Rime ad imitazione dei grotteschi usati da’
pittori nel 2006, per merito di Alessandra Ruffino [5]. Per il pubblico
straniero la possibilità di leggere i testi è molto più limitata, e riferita di
fatto alla sola Idea del Tempio della
Pittura. Non è certo un caso, posto che si tratta dell’opera a cui fece
riferimento Panofsky nel 1924. Ecco allora l’edizione critica di Robert Klein
(1974), pubblicata a Firenze “nella sede dell’Istituto Nazionale di Studi sul
Rinascimento a Palazzo Strozzi”, ma con traduzione e commento in francese;
nonché la recentissima traduzione in inglese (Giovan Paolo Lomazzo, Idea of the Temple of Painting, a cura
di Jean Julia Chai, Pennsylvania State University Press, 2013).
[7] Si veda in questo blog la
recensione alle sue Instructionum
Fabricae et Supellectlis ecclesiasticae del 1577.
[8] Incidentalmente, va qui
segnalata la connotazione negativa data al termine ‘vaghezza’.
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