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martedì 13 dicembre 2016

Barbara Tramelli. Giovanni Paolo Lomazzo's 'Trattato dell'Arte della Pittura'. Color, Perspective and Anatomy. (2016) Parte Seconda



Barbara Tramelli
Giovanni Paolo Lomazzo’s Trattato dell’Arte della Pittura.
Color, Perspective and Anatomy
Leiden-Boston, Brill, 2017 (ma 2016)

Recensione di Giovanni Mazzaferro
Parte Seconda

Giovanni Paolo Lomazzo (attributo a), Allegoria della Pittura, Vienna, Albertina
Fonte: https://it.pinterest.com/dr_marceloguerr/painters-italian-varallo-tanzio-dalomazzo-gian-pao/

Leggi la Parte Prima


Struttura del Trattato

Il Trattato della Pittura si divide in sette libri. In essi Lomazzo cerca di delineare una sistematica generale delle arti figurative che prenda in considerazione tutti gli aspetti del fare artistico (con particolare riferimento alla pittura). I primi cinque libri, secondo le indicazioni dell’autore, sono costituiti dalla parte teorica e dedicati rispettivamente a proporzione, moto, colore, luce e prospettiva. Consapevole di aver trattato solo argomenti teorici, Lomazzo aggiunge di aver dedicato gli ultimi due libri ad aspetti pratici, convinto che la formazione dell’artista sia una combinazione di teoria e pratica: il sesto libro è quindi dedicato alla ‘pratica della pittura’ e il sesto alle ‘storie’ della medesima, ovvero a una serie di indicazioni su come rappresentare determinati personaggi o soggetti in pittura. Fin qui, sembrerebbe tutto chiaro. Se non che le cose non stanno affatto in questa maniera e determinati argomenti possono essere trattati in libri diversi, a volte ripetuti, a volte in manifesta contraddizione fra di loro; la pratica si mischia alla teoria (si vedano i ricettari per fare colori inseriti all’interno del libro III e non del VI, come ci si potrebbe attendere) tanto che gli stessi interpreti hanno cercato di capire meglio cosa fossero per l’artista pratica e teorica [9].

Le cose non sono affatto facili, dunque. A ciò si aggiunga che lo stesso Lomazzo si duole di non poter presentare (per via della sua cecità) l’impianto iconografico che aveva progettato a corredo e chiarimento dei suoi scritti (il disegno che vedete in alto, a lui attribuito e conservato oggi all’Albertina, potrebbe essere il frontespizio dell’opera e dimostrerebbe dunque che l’artista vi lavorava prima del 1572) e si avrà un’idea delle difficoltà di chiunque si confronti col testo.


Prospettiva


Giovanni Paolo Lomazzo, San Pietro e la caduta di Simon Mago. Chiesa di San Marco, Milano
Fonte: Giovanni dall'Orto tramite Wikimedia Commons

Barbara Tramelli – come detto – si pone di fronte all’opera col compito di individuare come e da dove viene recepito il patrimonio di conoscenze che Lomazzo veicola e in quale maniera esso sia “trasformato” nell’opera lomazziana. Per farlo si concentra in particolare su due dei cinque argomenti a cui è dedicata la parte teorica, ovvero prospettiva e colore, nonché sulla resa dell’anatomia del corpo umano, che non è oggetto di specifica trattazione, ma compare in vari luoghi all’interno del Trattato.

In particolare, per quanto concerne la prospettiva, nota che “la trattazione della prospettiva da parte di Lomazzo è un mix fra i discorsi precedenti dei più importanti scrittori d’arte (Serlio, Alberti, Leonardo) e teorie ottiche a lui contemporanee (Vignola, Barbaro, Benedetti)” (p. 172). Con riferimento a Benedetti, matematico autore di un Diversarum Speculationum Mathematicarum et Physicarum Liber pubblicato nel 1585 (l’anno dopo l’uscita del Trattato) in cui si propone di indagare le “vere e più recondite cause della prospettiva”, l’autrice fa notare che molto probabilmente Lomazzo e il matematico si conoscevano, posto che l’artista gli dedica un poemetto nelle Rime; e se non si conoscevano, sicuramente avevano in comune l’amicizia con l’architetto Giacomo Soldati, membro dell’Accademia della Valle di Blenio col nome Compà Soldarogn. L’Accademia si rivela dunque potenziale luogo di trasmissione della conoscenza.

Tramelli fa inoltre presente che Lomazzo “inserisce suggerimenti pratici per artisti su “come fare la giusta prospettiva” all’interno di una trattazione teorica esaustiva sul ruolo e sulla funzione dell’occhio” (p. 172). Probabilmente è una mia suggestione, ma non riesco a togliermi di mente che quest’attenzione particolare nei confronti del funzionamento dell’occhio (che, ad esempio, nel De prospectiva pingendi di Piero della Francesca non c’è) abbia in qualche modo a che fare con la malattia di Giovan Paolo. Mi pare logico, cioè, che l’artista ragioni su ciò che ha perso e su quanto la cecità abbia compromesso la sua capacità sensoriale.

Va comunque detto che la prospettiva lomazziana è descritta a partire da un approccio teorico, senza l’utilizzo di strumenti pratici, come le griglie o le graticole. Tuttavia, rendendosi conto di essere probabilmente poco comprensibile al profano, all’interno del libro sulla pratica (ed è questa effettivamente una delle poche volte in cui le cose stanno dove realmente dovrebbero essere) affronta la questione, facendo riferimento, fra gli altri al “telaro e alla graticola di Alberto Durero e di Giovanni di Frisia di Graminge [n.d.r. Hans Vredeman de Vries], i quali istromenti li ho veduti, insieme con molte altre figure disegnate da molti, con la prospettiva di Gio. Lenclaer [n.d.r. Hans Lencker].” Il viaggio in Germania, Olanda e Paesi Bassi (la cui reale effettuazione è stata a volte messa in dubbio, ma che va collocato prima del 1572) lascia dunque una profonda impressione su Giovan Paolo e influisce sul suo patrimonio di conoscenze tecniche.

C’è un aspetto dei discorsi sulla prospettiva di Lomazzo che non va sottovalutato ed è la rivendicazione degli studi sulla medesima come patrimonio culturale lombardo. Scrive l’artista: “Sì come affermano gli antichi et i moderni prospettivi, massime lombardi de i quali è propria questa parte sì come il disegno è peculiare de’ romani, il colorire de veneziani e le bizzarre invenzioni de’ germani” (p. 135). La tradizione di studi prospettici è dunque vissuta da Lomazzo (e presumibilmente da tutti gli altri artisti della zona) come una caratteristica identitaria, che come tale li distingue dal ‘disegno’ dei Romani (si è compiuto, e in maniera molto precoce, l’assorbimento della tradizione fiorentina del disegno nel mondo artistico romano) e dal ‘colore’ dei veneziani. Nell’ambito di questa tradizione Lomazzo richiama gli scritti di Vincenzo Foppa, Andrea Mantegna, Leonardo e Bernardo Zenale, dicendo di aver visto i loro manoscritti. Il fatto che tali documenti (a parte Leonardo) non ci siano giunti ha portato a dubitare della loro esistenza: Lomazzo, si è detto, non è sempre affidabile e potrebbe quindi aver ‘lodato’ eccessivamente i meriti degli artisti locali. Nulla è impossibile, ma la citazione sembra troppo circostanziale per non tenerne conto e soprattutto esprime una coscienza collettiva, che nutre gli artefici lombardi sin dalla fine del XV secolo. Basterà qui ricordare che l’anonimo autore delle Antiquarie prospetiche romane, dedicate all’amico Leonardo da Vinci a fine Quattrocento, è un ‘prospectivo melanese depictore’. 


Giovanni Paolo Lomazzo, Una sibilla, Chiesa di San Marco, Milano
Fonte: Wikimedia Commons

Lo studio del corpo umano

Come detto, allo studio del corpo umano non è dedicato specificamente un libro del Trattato. I materiali sono sparsi, anche se più facilmente reperibili nella prima sezione, quella riservata alla proporzione. Non aiuta peraltro il fatto che – come detto – l’opera lomazziana sia priva dei progettati disegni. All’interno del trattato, prendendo in esame singole parti del corpo, l’autore presenta lunghe liste di sinonimi, che Tramelli pone a confronto con il lessico presente in un altro prezioso e famosissimo documento, il Codice Huygens, un tempo attribuito a Leonardo ed oggi a Carlo Urbino. Ne emerge la volontà di Lomazzo di essere compreso da tutti, facendo ricorso anche a termini chiaramente dialettali, che ancora una volta rimandano all’Accademia di Blenio. Tramelli suppone inoltre che le conoscenze anatomiche dell’artista possano essere state arricchite dalla conoscenza personale con i fratelli Cardano e non esclude affatto che Lomazzo possa avere assistito in prima persona a qualcuna delle dissezioni notoriamente eseguite da Giovanni Battista Cardano presso l’ospedale militare di Milano. Per meglio contestualizzare l’interesse generale per lo studio del corpo umano presenta inoltre una serie di tavole eseguite (sulla scia degli esempi leonardeschi) da Annibale Fontana, scultore e gioielliere milanese, e dai suoi discepoli. Fontana era naturalmente anch’egli membro dell’Accademia della Valle di Blenio.

Giovanni Paolo Lomazzo, Madonna col Bambino e Santi, Chiesa di San Marco, Milano
Fonte: Wikimedia Commons

Colore

Il capitolo sul colore è quello su cui personalmente nutro perplessità maggiori. Nel libro ad esso dedicato (il terzo) Lomazzo fornisce innanzi tutto una definizione di colore di chiara derivazione aristotelica, ma contemporaneamente finisce per legarlo inestricabilmente alla luce (Tramelli è molto convincente nel confutare le tesi di Moshe Barasch [10] secondo cui colore e luce in Lomazzo sarebbero del tutto separati). Alla definizione teorica sul colore fa seguito l’indicazione delle ‘materie nelle quali si trovino i colori’. Si tratta, in sostanza, di una serie di ricette per colori che già Mary PhiladelphiaMerrifield aveva notato essere straordinariamente simili al cosiddetto Manoscritto padovano che pubblicò nel 1849 all’interno dei suoi Original Treatises [11]. L’inserimento del ricettario viene contestualizzato nell’ambito della trasmissione delle ricette per colori nei trattati d’arte del XVI secolo, secondo l’autrice più frequente di quanto non si possa credere. Ecco, su questa cosa non sono del tutto d’accordo. Non mi pare, in realtà, che la conoscenza della bottega transiti significativamente attraverso i trattati cinquecenteschi. È senz’altro vero, per fare un esempio citato da Tramelli, che Giorgio Vasari fornisce indicazioni tecniche nel proemio delle sue Vite, ma è altrettanto indiscutibile che, pur conoscendo il Libro dell’Arte di Cennino Cennini, quando viene a parlare dell’artista lo storico aretino si limiti a dire che quest’ultimo fornì “molti… avvertimenti, de’ quali non fa bisogno ragionare, essendo oggi notissime tutte quelle cose che costui ebbe per gran secreti e rarissime in que’ tempi” [12]. A proposito di Cennino si assume per scontata la conoscenza da parte di Lomazzo del Libro dell’Arte (si veda ad es. p. 97); a dire il vero si tratta di una convinzione già fatta propria da Ciardi [13]. Si tratta, a mio avviso, di un elemento ad oggi indimostrabile e che non si può fondare sulla coincidenza che sia in Cennino sia in Lomazzo i colori fondamentali siano sette (un retaggio medievale comune a tanti).

Tramelli offre in appendice sia il testo del Manoscritto Padovano sia quello del Trattato di Lomazzo (pp. 231-232). Correttamente sottolinea che vi sono differenze e che la versione dell’artista lombardo appare più elaborata, con l’introduzione di un lessico che (anche qui come nel corpo umano) rifletterebbe l’influenza della società milanese. Conclude quindi dicendo che probabilmente i due testi sono stati copiati e rielaborati da uno comune. Io andrei oltre. Le differenze fra le due versioni sono tali che non è affatto detto (anzi, per me è da escludere) che siano copie da un originale comune (e quindi non è detto che gli inserimenti lessicali siano di Lomazzo). Si deve più correttamente dire che i due testi appartengono a una medesima tradizione, ossia a una famiglia di ricettari che ne testimonia uno originario (probabilmente molto precedente) a noi ignoto. A ben guardare il ricettario di Lomazzo poi, e tenendo presente la più recente ricerca filologica in campo di trasmissione della conoscenze delle tecniche artistiche [14], credo di poter dire che nel caso specifico siamo di fronte a delle Tabulae, ovvero ad elenchi di pigmenti le cui voci erano presentate col chiaro intento di essere imparate a memoria. Più che a una tradizione reale di bottega, Lomazzo sta quindi recuperando un sapere proverbiale, e lo fa a mio avviso con funzioni mnemoniche. È infatti noto che, fra i tanti interessi dell’artista, compariva anche la mnemotecnica. Lomazzo ne è assolutamente affascinato. Non è certo un caso che il titolo dell’Idea del Tempio della Pittura richiami in maniera così evidente l’Idea del Theatro di Giulio Camillo Delminio (1550), opera cardine della mnemotecnica e che ebbe successo enorme nel secondo Cinquecento [15].

Non si può, ad ogni modo, esaurire il discorso sui colori non affrontando uno degli aspetti più ostici (cosa che Tramelli fa benissimo) ovvero il rapporto con l’astrologia. Nel sesto volume del Trattato (quello della Pratica della pittura) Lomazzo espone la corrispondenza tra colori, pianeti ed elementi. Abbiamo ovviamente a che fare con gli interessi astrologici dell’artista. Senza addentrarmi in argomenti complicati (e che peraltro conosco poco) va chiarito che per Lomazzo (e non solo per lui, a quei tempi) arte e astrologia sono entrambi strumenti di conoscenza di una realtà ultraterrena a cui l’artista può e deve aspirare sviluppando le proprie doti secondo una corretta “ispirazione”. Tale ispirazione non è semplicemente ciò verso cui ci si sente propensi, ma è determinata in maniera assai più ‘scientifica’, attraverso lo studio degli astri e la loro interpretazione. Il fatto che noi si sappia che Lomazzo nacque il 26 aprile 1538, alle cinque del pomeriggio, non è il classico colpo di fortuna, ma un’esternazione dello stesso artista, che ci tiene ad aggiungere che quel giorno era astrologicamente dedicato a Venere. Abbiamo detto poco fa che Lomazzo conobbe i fratelli Cardano: Girolamo fu medico e matematico, ma, stando al componimento poetico che l’artista gli dedica nelle Rime, fu anche in grado di predirgli la cecità. Ed i rapporti con l’astrologo Girolamo Vicenza, facente parte dell’Accademia della Val di Blenio, furono tali per cui Lomazzo gli chiese di elaborargli l’oroscopo.

Giovanni Paolo Lomazzo, Disegno per la Cena Quadragesimale,
eseguita nel convento di Sant'Agostino  Piacenza e oggi distrutta, Windsor, Royal Collection
Fonte: Wikimedia Commons

Chi lesse il Trattato?

A conclusione di questa recensione resta da chiedersi chi, alla fine, lesse il trattato. Se consideriamo l’opera come veicolo di conoscenza possiamo senz’altro cercare di capire quali furono le fonti a cui attinse l’autore, ma dovremmo anche chiederci come questa conoscenza venne recepita e da chi. Barbara Tramelli è perfettamente cosciente della cosa, ma chiarisce di non essere in grado, allo stato attuale dell’arte, di fornire un resoconto organico. Il mio augurio è che possa farlo ben presto. Le pagine conclusive dell’opera contengono però alcune indicazioni in merito, come il nome di alcuni artisti che possedettero il Trattato: Daniele Crespi, Giulio Cesare Procaccini, Pellegrino Tibaldi e Jacopo Ligozzi (sono dati che emergono dall’esame degli inventari). Per quanto riguarda eventuali ricadute all’estero l’autrice segnala il caso dell’erudito Richard Haydocke che nel 1598 (quattordici anni dopo la pubblicazione del volume) ne pubblicò una traduzione in inglese col titolo A Tracte Containing the Art of Curiose Painting. Mi permetto solo di aggiungere due altri episodi. Uno è quello del pittore francese Hilaire Pader, che dopo essere stato in Italia, pubblicò a Tolosa nel 1649 la traduzione del primo libro del Trattato, col titolo Traicté de la proportion naturelle et artificielle des choses par Jean-Pol Lomazzo [16]. Per pura coincidenza lo stesso anno usciva a Siviglia l’Arte de la Pintura di Francisco Pacheco. Che Pacheco conoscesse Lomazzo e lo avesse letto è testimoniato da un elemento molto semplice e clamorosamente sottovalutato: il primo capitolo dell’opera (che spiega cosa sia la pittura e perché sia arte liberale) è in larga parte la traduzione letterale dell’inizio del Trattato della Pittura di Lomazzo [17]. La circolazione del trattato di Lomazzo in Spagna è, peraltro, un elemento del tutto logico, che si spiega col fatto che Milano, ai tempi in cui visse l’artista, era sotto il controllo spagnolo.

In Italia – e concludo – col passare degli anni lo studio di Lomazzo fu sempre più mirato alle informazioni di carattere storico che forniva sugli artisti. A questo proposito mi permetto di segnalare che l’anonimo postillatore di una copia delle Vite vasariane oggi custodita all’Archiginnasio di Bologna (ms. B. 4223) cita nel secondo volume il Lomazzo a proposito di Rosso Fiorentino e scrive: “Il Lomazzo chiama il Rosso mirabile e prontissimo”. Si tratta dello stesso esemplare che nel terzo volume presenta le celeberrime postille di Annibale Carracci. È certo, tuttavia, che secondo e terzo volume in origine facevano parte di esemplari diversi, né la calligrafia (chiaramente della seconda metà del Seicento) lascia dubbi sul fatto che a scrivere non sia Carracci. L’autore delle postille per ora resta anonimo, ma l’impressione che il testo lomazziano fosse ben noto a chi stava scrivendo è evidentissima.


NOTE

[9] Come riferito da Tramelli, Moshe Barasch afferma nel suo Theories of Art che la “pratica si rivela non meno teorica della teoria” (p. 7), mentre Roberto Paolo Ciardi nota: “Nel cap. VIII dell’Idea (e nel Proemio del Trattato) sembra addirittura che il Lomazzo voglia intendere con questi due termini piuttosto due diverse maniere di dipingere che due momenti dell’attività artistica. Per «pratica» intenderebbe lo schematismo, la routine, l’imitazione meccanica di un solo artista modello; per «teoria» la capacità di realizzare artifizi tecnici, gli scorci, le composizioni chiasmatiche, il conoscere le ragioni ideali del proprio operare” (Lomazzo, Scritti sulle arti, vol. I, p. LXIV n. 193).

[10] Moshe Barasch, Theories of Art... cit.

[11] Mary P. Merrifield, Original Treatises on the Arts of Painting…: “Some parts of the early section of the work, from No. 1 to No. 13 inclusive, bear such strong resemblance to parts of the 3rd book of Lomazzo’s Treatise on Painting, that it can scarcely be supposed that one was not copied from the other.”

[12] Mi permetto di rinviare a Giovanni Mazzaferro, ‘Il Libro dell'Arte di Cennino Cennini (1821-1950): un esempio di diffusione della cultura italiana nel mondo’ in Zibaldone. Estudios italianos de la Torre del Virrey vol III, numero 1, gennaio 2015.

[13] Gian Paolo Lomazzo, Scritti sulle arti, vol. I, p. XXV, n. 64.

[15] Per una discussione sull’Idea del Theatro e sulla sua influenza si veda in questo blog la recensione a The First Treatise on Museums. Samuel Quiccheberg’s Inscriptiones 1565.

[17] Francisco Pacheco, Arte de la Pintura, a cura di Bonaventura Bassegoda i Hugas, Madrid, Ediciones Cátedra, 3° ed, 2009, p. 73.



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