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Vicente Carducho and Baroque Spain
[Sull'Arte e la Pittura: Vicente Carducho e la Spagna barocca]
A cura di Jean Andrews, Jeremy Roe e Oliver Noble Wood
Cardiff, University of Wales Press, 2016
Recensione di Giovanni Mazzaferro
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Vicente Carducho, Autoritratto, 1633-1638, Glasgow, Pollok House Fonte: Wikimedia Commons |
Riporto il testo della quarta di
copertina;
“Questo libro è una raccolta di
tredici saggi sui Diálogos de la Pintura, pubblicati
nel 1633 dal pittore spagnolo di origini fiorentine Vicente Carducho
(1568-1638). Primo trattato di rilievo sulla pittura in spagnolo, fu scritto
come parte integrante di una campagna condotta da Carducho assieme ad altri
importanti pittori iberici che lavoravano a Madrid con l’idea di elevare lo
status dell’artista dal livello di artigiano a quello di membro delle arti
liberali. Il trattato fornisce un quadro generale della fusione di istanze
della teoria dell’arte del Rinascimento italiano con quelle che nascevano dalla
pratica della medesima a Madrid in età barocca. Offre inoltre una visione di
prima mano in merito al collezionismo madrileno durante un periodo così
cruciale per via della rapida espansione della capitale spagnola. La presente
raccolta di saggi (scritti da storici dell’arte e studiosi della Spagna
provenienti dalla Gran Bretagna, dalla Spagna, dalla Germania e dagli Stati
Uniti) passa dettagliatamente in esame ognuno dei dialoghi, rendendo conto
degli sforzi di Carducho volti alla creazione di un’accademia di pittura e a
professionalizzare il lavoro del pittore; analizza la storia della
pubblicazione del trattato e le relazioni reciproche fra pittura e poesia ed
infine l’operato pittorico dello stesso Carducho in relazione alle tradizioni
italiane e spagnole in cui si trovò ad operare”.
Per la precisione i saggi in
questione sono i seguenti:
- Jeremy Roe, Prefazione;
- Jeremy Lawrance, Carducho e il barocco letterario spagnolo;
- Javier Portús Pérez, Pittura e poesia nei Diálogos de la Pintura;
- Colin Thompson, Carducho, il conceptista;
- Marta Cacho Casal, Osservazioni sui lettori e la circolazione [del trattato];
- José Juan Pérez Preciado, Dilettanti d’arte a Corte;
- Juan Luis González García, Carducho e l’oratoria sacra;
- Marta Bustillo, Carducho e le idee sull’arte religiosa;
- Jean Andrews, Le ultime ‘Sacre Famiglie’ di Carducho e il decoro;
- Macarena Moralejo Ortega, Zuccari e i Carducci;
- Rebecca J. Long, Formazione di stampo italiano alla Corte di Spagna;
- Zahira Velíz, Carducho e l’eloquenza del disegno;
- Karin Hellwig, Il Paragone tra Pittura e Scultura;
- Jeremy Roe, Carducho e la pintura de borrones.
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Il frontespizio dei Diálogos de la Pintura Fonte: Wikimedia Commons |
Carducho e il problema del Barocco
Scopo del libro (che, va pur
detto, è uno dei pochissimi testi in lingua inglese a proporre un’analisi
approfondita della trattatistica spagnola) è quello di proseguire una
“riabilitazione” della figura di Vicente Carducho cominciata sin dall’edizione
critica dei suoi Diálogos (oggi purtroppo introvabile)
ad opera di Francisco Calvo Serraller nel 1979 e proseguita con l’antologia Teoría de la Pintura del Siglo de Oro, pubblicata anch’essa da Calvo Serraller nel
1981. Si tratta di controbattere all’idea secondo cui quello di Carducho
sarebbe stato il trattato di un tardo-manierista fiorentino trapiantato in
Spagna, e come tale un “testo fuori dal contesto”, sia in termini geografici
sia (e soprattutto) in termini cronologici. Non vi è dubbio che quest’ultimo
modo di intendere lo scritto di Carducho sia oggi nettamente minoritario. È
senz’altro vero che molte delle istanze presenti nei Diálogos sono mutuate dalla
realtà fiorentina: Vincenzo Carducci era nato a Firenze, e si era trasferito in
Spagna a nove anni, assieme al fratello Bartolomeo, assistente di Federico
Zuccari. Mentre lo Zuccari era tornato dopo qualche tempo in Italia,
Bartolomeo, assai più anziano di Vincenzo, era rimasto a Madrid e aveva
condotto una brillante carriera, interrottasi a causa della morte prematura.
Almeno tre saggi del volume (quelli di Macarena Moralejo Ortega, Rebecca J.
Long e Zahira Velíz) sono dedicati nello specifico alle influenze italiane
nella formazione e nel pensiero di Vicente. Ci sono aspetti, come l’importanza
del “disegno” come disciplina genitrice di pittura, scultura e architettura,
come la tensione alla creazione di un’Accademia (segnalo un piccolo refuso:
nella quarta di copertina si parla di Accademia di pittura, ma in realtà
Carducho vuole un’Accademia del Disegno, come quella fiorentina di cui si vanta
di esser membro), come la distinzione (sia pur con differenze) fra disegno
interno e disegno esterno già esposta da Federico Zuccari, che sono chiaramente
richiami alla realtà italiana di fine Cinquecento. Tuttavia, ciò che si vuole
confutare è l’idea che i Diálogos siano anacronistici perché
non riflettono in alcun modo il mondo dell’arte spagnolo, ed in particolare
quella “naturalezza” di cui fu campione Velázquez. In sostanza, non
sarebbero uno scritto barocco, ma manierista. E qui va affrontato un discorso
più ampio (che nel libro è assunto come implicito, ma che mi pare il caso di
richiamare). Quello che viene messo in discussione è un modello storico-critico
secondo cui il Barocco sarebbe un fenomeno piatto, monotematico e totalizzante.
Il Barocco, nella sostanza, si identificherebbe in Velázquez e negli altri grandi
pittori spagnoli del Secolo d’Oro. Mentre in realtà è evidente che il termine
Barocco, sia per Calvo Serraller sia per i curatori della presente edizione,
assume una notazione più che altro cronologica e diventa la manifestazione di
una civiltà assai più variegata e sfaccettata, in cui i modi di dipingere (e di
pensare) possono essere fra loro molto diversi. Non è un caso, del resto, che
oggi in Italia si parli con la stessa disinvoltura (e secondo me correttamente)
di Annibale Carracci, Caravaggio, Bernini e Carlo Maratti (sono alcuni
nomi a caso) come di artisti barocchi.
Se si assume il termine Barocco
con una connotazione cronologica (che, si badi bene, è tutto fuorché
diminutiva, ma anzi riconosce la complessità di un mondo) è evidente che il
problema del trattato di Carducho è capire se esso rifletta i tempi in cui
visse l’artista, quali siano gli scopi che si propose al momento di redigerlo,
e se si trattasse di un’opera estemporanea, isolata, oppure da calarsi in un
contesto più ampio e ricco. E la risposta è facilissima: ci sono poche opere
che riflettono la loro epoca in maniera così cristallina come i Diálogos
de la Pintura.
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Vicente Carducho, Allegoria del Santo Angelo Custode, Eremo del Santo Angelo Custode a Cigarral (Toledo) Fonte: David Blázquez tramite Wikimedia Commons |
L’Accademia del Disegno
Come primo argomento in proposito
non si può, ovviamente, non citare il fatto che i Diálogos propugnano la
creazione di un’Accademia del Disegno (si veda in particolare su questi aspetti
il saggio iniziale di Jeremy Lawrance). Quello dell’Accademia del Disegno (il
primato del disegno è ovviamente un topos
di derivazione fiorentina e vasariana) è un progetto che vede Carducho
coinvolto in prima linea, ma che esprime anche un’esigenza forte del mondo
artistico spagnolo, emersa solo nei primi anni del Seicento (al contrario di
quanto successo in Italia): la questione della nobiltà della pittura e la
conseguente rivendicazione dei pittori (in quanto artefici liberali e non
semplici artigiani) a non essere soggetti alla tassazione prevista dalla
macchina amministrativa del regno. È chiaro che ci sono due
aspetti che camminano di pari passo: da un lato la rivendicazione fiscale (che
porta ad una serie di liti giudiziarie a noi note solo in parte [1]), da un
lato la rivendicazione ‘etica’ (quella cioè di veder riconosciuto il ruolo
dell’artista come creatore di opere dell’ingegno), che passa appunto tramite la
richiesta dell’apertura di un’Accademia del Disegno. Sappiamo già che un
tentativo per l’apertura di una struttura fu fatto da alcuni pittori nel 1606
(e Carducho fu uno di coloro che si accollarono le spese di affitto degli
appositi locali); si ritiene che molto probabilmente Carducho fu l’estensore
(nel 1619) di un Memorial de los pintores
de la corte a Felipe III sobre la creación de una Academia o escuela de dibujo,
ma un dato è certo: nella parte finale dei Diálogos l’artista tosco-spagnolo
riporta gli scritti di alcuni esponenti del mondo letterario spagnolo a
sostegno delle tesi a favore dell’esenzione degli artisti dal pagamento delle
tasse in quanto operatori “liberali”. Tali pareri sono del 1629 e sono
raggruppati sotto il titolo di Memorial
informatorio por los pintores en el pleito… sobre la exempción del arte de la
pintura. Carducho dice di averli inseriti all’ultimo momento (alla fine del
1633) in seguito alla vittoria dei pittori nella relativa causa giudiziaria [2].
C’è una domanda a cui bisogna
rispondere: quella di avere un’Accademia è un’ispirazione di tutti gli artisti
spagnoli, o solo di una parte di essi? Jeremy Lawrance non manca di affrontare
il problema in alcune righe molto dense in cui richiama un passaggio del
dialogo fra il Maestro e il suo Discepolo (il trattato si presenta come una
serie di dialoghi appunto fra due soggetti, un docente e un discente, che però
non è certo un garzone di bottega, ma probabilmente un giovane esponente della nobiltà spagnola): “Dietro tutto ciò c’è il tentativo di Carducho e di un gruppo di suoi
colleghi di interessare Olivares [n.d.r il conte duca di Olivares
(1587-1645) era all’epoca il personaggio più importante della corte reale] a patrocinare un’Accademia reale del disegno
[…]. Carducho sembra essere stato il
primo a sottoporre un progetto simile a Filippo III e, più tardi, sotto Filippo
IV, a riproporlo all’attenzione delle Cortes del 1624-9, posto che Discepolo
cita quest’ultima iniziativa […]. Quando
[Discepolo] gli chiede: ‘Come è
andata a finire?’, Maestro risponde:
‘È
stato tutto rinviato, a causa di alcuni problemi, non tanto da parte […] dei
sostenitori dell’iniziativa, ma in seguito ad opinioni private e decisioni degli artigiani stessi’; ma esprime la speranza che ‘un giorno
quest’onorevole progetto possa essere ravvivato’. Ne possiamo dedurre che un motivo dietro la dedica del suo libro al re
fosse proprio quello di mantenere vivo il progetto […]. Ciò che tutto ciò sta a rappresentare,
osserva Brown […] è che vi fu un
tentativo ‘audace’ e ‘imperialistico’ da parte di una cerchia di artisti legati
alla corte (naturalizzati italiani, qualificati come pintores del rey) di monopolizzare il mercato lucroso delle
commissioni della Chiesa e del re, impedendo agli altri 75 pittori residenti a
Madrid […] di competere per questi tipi di lavoro senza aver prima ottenuto da
loro un’apposita licenza. Il ‘rinvio’ del progetto per mano ‘degli artigiani
medesimi (los mismos de la facultad) significa ‘ che la gilda aveva battuto
l’Accademia, che i pittori di livello basso si erano ribellati alle pretese di
una élite” (p. 30). La nobiltà della pittura è senz’altro una bella cosa –
certo -, ma, dietro la maschera, il trattato rivela anche il cinismo
(perfettamente comprensibile) di chi lo scrive; in ogni caso dimostra di essere
un testo di estrema attualità, perché testimonia la lotta per le commissioni
importanti fra fazioni diverse di artisti.
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Vicente Carducho, Visione di San Francesco d'Assisi, Budapest. Museo di Belle Arti Fonte: Wikimedia Commons |
Il ‘vero’ secondo Carducho
Uno degli aspetti teorici più
importanti nei Diálogos
è costituito dalle sue affermazioni in merito al ‘vero’. In sostanza
l’artista sostiene che in natura non c’è nulla di più ingannevole della realtà
così come la cogliamo con la vista, “nulla
di più contrario al vero della verosimiglianza”. Qui entra in gioco
direttamente la questione dell’imitazione della natura. Secondo Carducho la
realtà può essere rappresentata correttamente solo se il pittore, adeguatamente
preparato in merito, riesce ad interpretarla con la “scienza”, laddove il
termine “scienza” – come scrive giustamente Lawrance a p. 21 – significa
esattamente l’opposto di quanto oggi riteniamo essere, e si identifica con la
fede. La realtà deve essere, insomma, reinterpretata idealmente, col decoro che
ad essa si addice. Ora, possiamo stare a discuterci ore, ma questo è, di fatto,
l’Idea della pittura di Bellori.
Nessuno qui vuol dire che Carducho anticipi Bellori di quasi quarant’anni
(ricordiamo che le Vite sono del 1672), ma semplicemente che esiste una comune istanza alla reinterpretazione del
dato naturale sulla base di spinte che sono di derivazione controriformata. Le
idee derivanti dal Concilio, esposte soprattutto da Paleotti nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane del 1582 sono ampiamente riprese e rivisitate in maniera ancora più
rigida nella cattolicissima Spagna. Anche sotto questo punto di vista Carducho
si dimostra perfettamente allineato a un mondo in cui la religione pervade
tutta la società (si vedano in merito i saggi di Juan Luis González
García,
di Marta Bustillo e di Jean Andrews). Diretta conseguenza di questo modo di
pensare è l’arte come strumento catechistico: siamo, di fatto ed ancora una
volta, alla pittura come Bibbia dei poveri. Da qui le esigenze di decoro, di
coinvolgimento dei fedeli, di semplicità ai fini della comprensione della
storia rappresentata che sono tipiche di quegli anni e non certo (o, almeno,
non ancora in questa misura) del tardo-manierismo cinquecentesco.
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Vicente Carducho, Incendio del convento dei Certosini di Praga e loro persecuzione, 1626-1632, Monastero di El Paular Fonte: http://www.gabitos.com/museodelpradomadrid/template.php?nm=1329328103 |
Caravaggio
Il discorso sul “decoro” (e
quindi sulla realtà reinterpretata alla luce della “scienza” o della fede che
dir si voglia) porta inevitabilmente ad affrontare la questione del giudizio
espresso da Carducho (nel VI dialogo) su Caravaggio. Si è detto spesso che tale
giudizio è totalmente negativo. È innegabile che Vicente definisca
Michelangelo Merisi come l’Anticristo e l’Antimichelangelo; questo aspetto è
stato messo in relazione con una presunta avversione di Carducho nei confronti
non solo del Caravaggio, ma, più in generale, di tutto il naturalismo, fino a
giungere a Velázquez. In realtà il discorso è molto più complesso: nelle
stesse righe, assieme alle parole sopra citate (che trovano una loro ragion
d’essere nel fatto che Caravaggio non disegna prima di dipingere e soprattutto
è troppo attento all’imitazione “esterna”, senza cioè ricorrere al “decoro”)
Carducho parla comunque dell’artista come di un “mostro di ingegno”, che
dipinge “senza precetti, senza dottrina, senza studio, ma solo con la forza del
suo genio”. Esiste, dunque, una forma di rispetto nei confronti di Caravaggio;
la consapevolezza che, pur essendo l’Anticristo, l’artista è riuscito ad
arrivare dove è arrivato per il suo incredibile genio. Semmai la sua critica è
rivolta nei confronti dei seguaci, che, pur essendo privi della stessa
solidità, ritengono di poter dipingere alla stessa maniera, senza studio e
dottrina, ma con risultati assai più miseri. C’è chi ha ritenuto che, parlando
in questi termini, Carducho avesse in mente quella parte degli artisti
madrileni che non appartengono al suo entourage
e che vorrebbe porre in posizione secondaria con la creazione dell’Accademia.
Non so se sia così, ma come chiarisce Jeremy Roe sin dalla sua Premessa, è chiaro che il suo tentativo
è quello di ricondurre e riprodurre il genio di Caravaggio all’interno di un
sistema disciplinato. “In questo senso, i
dipinti di Carducho stanno a testimoniare la modernità della sua arte, con
saggi impressionanti di tenebrismo, nature morte e teatralismo” (p. 10).
Ancora una volta appare evidente un approccio molto simile a quello usato da
Bellori nelle sue Vite per parlare
del Merisi: un giudizio negativo che però fa chiaramente trasparire non solo la
comprensione della grandezza della sua arte, ma anche il tentativo di
depotenziarne la carica eversiva all’interno di un sistema di regole
accademiche.
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Vicente Carducho, Santa Caterina d'Alessandria, Madrid, Museo del Prado Fonte: Wikimedia Commons |
I Diálogos come opera letteraria collettiva
Ovviamente è impossibile
considerare tutti gli spunti offerti dall’opera. Credo valga la pena tuttavia
soffermarsi su due aspetti in genere molto sottovalutati. In primo luogo si
tratta di tenere a mente un dato quantitativo: se si prendono in considerazione
i poemi che concludono ogni dialogo, e se si considera che la parte finale
dell’opera è costituita dal Memorial, che riporta fedelmente scritti altrui
sulla nobiltà della pittura, si arriva a determinare che i Diálogos sono scritti da
quindici persone diverse e che per un terzo non sono frutto della penna di
Carducho (cfr. Lawrance p. 40). Siamo di fronte, quindi, ad un’opera
collettiva, all’espressione di una società che comprende letterati, artisti,
eruditi, collezionisti. Un fatto totalmente nuovo, almeno in questa misura.
Proprio la dimensione letteraria dell’opera è stata colpevolmente trascurata
dalla critica e ne rivela invece la cifra caratteristica. Come scrive Javier
Portús
Pérez, pur avendo uno scopo chiaramente didascalico. “in contrasto coi manuali
di disegno, coi trattati d’architettura o con le compilazioni iconografiche, i Diálogos
non sono un’opera che un artista possa utilizzare nella pratica, oltre ad
acquisire una conoscenza storica e teorica della propria disciplina e quindi a
sviluppare la propria consapevolezza creativa” (pp. 72-73). È
evidente che il pubblico a cui destinato il trattato era di livello alto; era
il pubblico degli eruditi e della nobiltà colta. Forse anche di quella un po’
meno colta, ma comunque dedita al collezionismo (a tale mondo è dedicato il
saggio di José Juan Pérez Preciado). Si trattava di un pubblico che doveva
rimanere impressionato dal livello qualitativo del trattato anche da un punto di
vista strettamente editoriale (va detto che, se queste erano le intenzioni di
Carducho, esse risultarono vincenti: nella realtà concreta, testimoniata
soprattutto dagli inventari, i Diálogos ebbero nel XVII secolo una diffusione molto superiore rispetto a l'Arte de la pintura di Francisco
Pacheco, come fa presente Marta Cacho Casal nel suo contributo). "Si può
sostenere" – sono ancora parole di Javier Portús Pérez – "che questa notevole impresa
editoriale fosse di per sé uno degli strumenti che servivano a dare prestigio
all’arte della pittura, dimostrando con che ampiezza di risultati il dibattito
sulla pittura poteva confrontarsi con strutture del discorso complesse e forme
letterarie prestigiose, come la poesia. Nel contesto dell’editoria spagnola
della metà del XVII secolo la scelta di integrare immagini, poemi e testi in
prosa in un discorso complessivo e complesso sottolinea la natura estremamente
sofisticata del lavoro di Carducho” (p. 73).
Forse è il caso di fare un passo
indietro. Si è detto che il trattato è composto da dialoghi, ma la sua
struttura è in realtà assai più complessa. Al termine di ogni dialogo è infatti
presentato un poema, ognuno opera di letterati particolarmente noti a corte, e
un’incisione all’acquaforte (un’unica eccezione: manca il poema alla fine del
primo dialogo). Sia il poema sia l’acquaforte illustrano un aspetto saliente
degli argomenti trattati nel dialogo. Portús Pérez passa in rassegna i
precedenti che possono aver indotto Carducho a strutturare l’opera in questa
maniera; premesso che non sono molti, e che nessuno di questi rivela una
complessità simile, l’esempio più calzante è probabilmente quello della
letteratura degli emblemi (a partire da Alciato in poi). E tuttavia va chiarito
che “il trattato di Carducho non è un libro di emblemi, e ci sono diverse
importanti differenze fra i due generi. Le principali hanno a che fare con la
gerarchia degli elementi e con l’ordine in cui sono letti. Mentre per Alciato
[…] il punto di partenza principale è l’immagine, che fornisce una base per
organizzare […] gli elementi testuali, nel caso di Carducho, poemi e immagini
sono confinati in fondo ad ogni dialogo, e hanno una funzione secondaria
rispetto alla prosa. […] Immagini, massime e poemi quasi sempre hanno una
qualche relazione con parte del contenuto del capitolo in cui sono comprese, ma
c’è un enorme volume di informazioni che è fornito nel testo in prosa e che non
è rispecchiato nelle altre due sezioni. Non di meno, se poemi e stampe sono
raggruppati insieme, in maniera isolata rispetto al resto del trattato, formano
un discorso autonomo e pienamente coerente che non necessariamente è legato al
discorso principale articolato in prosa” (pp. 75-76).
Si può parlare di “virtuosismo
della penna”, così come parleremmo di un barocco “virtuosismo del pennello”?
Credo davvero di sì. E questo virtuosismo – come sottolineato in più punti nel
corso del libro – ha lo scopo di dimostrare la nobiltà della pittura legandola
indissolubilmente a quella della letteratura, in un binomio che si integra ed
arricchisce vicendevolmente.
Come si vede, i Diálogos
sono tutto tranne che un’opera banale, o casuale. Non raccolgono le
testimonianze nostalgiche di un vecchio pittore fiorentino che si ricorda le
gioie della giovinezza (giovinezza che peraltro passò in Spagna, avendo
abbandonato la città natale a nove anni), ma, riletti con attenzione, ce lo
fanno ritrovare ancora in prima fila, a combattere con le armi dell’erudizione,
del decoro e dell’eloquenza una battaglia per il riconoscimento della nobiltà
della propria professione da un lato e per l’ottenimento di commissioni
artistiche di maggior prestigio dall’altro.
NOTE
NOTE
[1] Si veda in questo blog Giovanni Mazzaferro,
Trattati d’arte spagnoli del XVII secolo.
[2] I pittori vinsero davvero quella causa? In realtà
già il fatto che successivamente ne siano state aperte altre col medesimo
contenuto induce ad essere scettici. Per una trattazione dell’argomento da un
punto di vista giuridico si veda José Manuel Cruz Valdovinos, La liberalidad de la pintura: textos y
pleitos in Sacar de la sombra lumbre.
La teoría de la pintura en el Siglo de
Oro (1560-1724), a cura di José Riello, Madrid, 2012, pp. 173-202. In
generale l’opera curata da Riello è fonte di molte sollecitazioni culturali a
volte anche in contrasto con alcune idee esposte nel volume ora oggetto di
analisi e sarà recensita prossimamente.
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