Francesco Mazzaferro
Gino Severini e l’arte religiosa in un contesto europeo:
l’influenza del Libro dell’Arte di Cennino Cennini
Parte Seconda
[Versione originale: maggio 2016. Nuova versione: aprile 2019]
Fig. 14) La seconda edizione di La décadence de l'art sacré di Alexandre Cingria (1930)
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Gino Severini e la Società di San
Luca
Seguono anni in cui Severini
decide di dedicarsi quasi esclusivamente alla pittura religiosa e di cooperare
con la Società di San Luca, un gruppo
di artisti svizzeri francofoni guidato dal pittore Alexandre Cingria
(1879-1945) e da lui creato nel 1919, con il compito di rinnovare l’iconografia
religiosa della Svizzera francofona. Severini si dedica ad un’arte decorativa e
monumentale per le nuove chiese moderne dalla Svizzera Romanda (Severini ne
affrescherà cinque). Cingria ha orientamenti estetici certamente assai diversi
da quelli di Severini (la sua è un’arte di chiara impronta simbolista e
probabilmente neo-barocca), ma il suo interessamento (insieme a quello di
Maritain) consente per un decennio a Severini di ottenere importanti
commissioni. L’ospitalità che Severini riceve è in gran
parte dovuta alla lungimiranza del clero locale, ed in particolare del vescovo
di Friburgo e Ginevra, Marius Besson (1876-1945). Forse è anche il riflesso
delle difficoltà che il suo nuovo corso religioso e classicista incontrano a
Parigi. È in questa fase che Severini mette in pratica le tecniche di Cennino,
provando contemporaneamente ad aggiornarle ai nuovi materiali con cui vengono
edificate le chiese [37].
Anche qui il legame tra gli
eventi locali e la dimensione europea è profondo, ed ancora una volta è Maurice
Denis [38] ad essere il comun denominatore della rinascita dell’affresco (e più in generale della pittura murale) nell’arte religiosa in Europa, dal momento
che nel 1916 lavora insieme a Alexandre Cingria alla chiesa di Saint-Paul à
Grange-Canal di Ginevra. Un anno dopo, nel 1917 Cingria pubblica La
Décadence de l'art sacré [39], con introduzione (anche questa in
forma di lettera) del poeta francese Paul Claudel. Nonostante sia breve (e pubblicato con tiratura assai limitata) è un altro testo programmatico
importante, scritto per contrastare il ritorno al neogotico, ma anche per
denunciare l’influsso ‘protestante’ sull’arte religiosa di matrice cattolica (e
in chiara opposizione al mondo calvinista ginevrino). La seconda edizione del
testo (1930) contiene, in un capitolo intitolato “La rinascita dell’arte religiosa nella Svizzera romanda”, un elogio
a Severini, ormai considerato il campione di una nuova arte al tempo stesso
raffinata ed operaia. In particolare, commentando il suo operato nella chiesa
di Semsales, Cingria scrive: “La
creazione di Severini consiste nell’aver fuso in uno stile applicato su
un’architettura a mio parere non ancora abbastanza moderna tutte le tendenze
dell’arte contemporanea. Sì, dell’arte europea del dopoguerra, il cui spirito –
con tutte le sue ricerche – si trova riassunto in queste figure e questi
ornamenti in un connubio inaspettato e veramente moderno. Che si tratti del pezzo prodigioso della Santa Trinità che
troneggia in fondo all’abside con la maestà e potenza di un mosaico bizantino,
che si tratti di questa Ultima Cena così toccante, posta sul muro del coro come una grande immagine, che si tratti
dei simboli composti come trofeo o in natura morta (pesci, pecore, cervi,
grappoli d’uva o calici), disposti con tanta scienza tra gli archi o sotto le
volte, che si tratti addirittura di una modanatura, di un gioco di fondo, di una
combinazione di semplici tinte unite che si diffondono con tanta precisione tra
i diversi piani dei muri, tutto è composto in un effetto unitario. E l’opera
intera ne trae beneficio, con l’aiuto di mezzi infinitamente variati, ma sempre
basati su alcuni principi essenzialmente moderni: l’impiego della geometria
descrittiva per la composizione, invece della linea; l’introduzione del chiaro
scuro ottenuto da piccoli superfici in tinta unita, interrotte da linee (e non
da tratteggi) o da punti regolari che modificano i volumi illuminandoli, mestiere
arguto e nuovo, ispirato al tempo stesso al cubismo ed al futurismo ed anche
alle tradizioni operaie del pittore che usa la squadra, del disegnatore della
carta da parati, di tutti coloro il cui lavoro è giunto direttamente al disegno
di utensili senza passare per l’arte decorativa.” [40]
La cooperazione con Cingria ed il
suo gruppo è una pagina importante della vita artistica di Severini: tra il
1924 ed il 1934 egli si dedica quasi esclusivamente alla produzione di
affreschi, vetrate e mosaici nella Svizzera francofona. In quel periodo la sua
cooperazione con Jacques Maritain è intensissima, al punto che Severini diviene
il veicolo principale della notevole diffusione dell’estetica del filosofo
francese in Italia, grazie ai suoi contatti con artisti, letterati e filosofi
italiani [41].
“Di un’arte per la Chiesa”
Nel 1927 Severini pubblica due
articoli sulla rivista “Nova et vetera”,
fondata a Friburgo un anno prima dal teologo Charles Journet, uno dei
riformisti della chiesa cattolica di quei tempi (sarà uno dei padri del
Concilio Vaticano II). Sono D'un Art pour
l'Eglise [42] e Peinture Murale. Son
esthétique et ses moyens [43]. I testi sono tradotti in italiano ed inclusi
nei Ragionamenti sulle arti figurative
[44] del 1936 e sono una prova dell’influenza di Arte e scolastica di Jacques Maritain sul pensiero del pittore. Ci
offrono una lettura autentica del pensiero del pittore italiano in quegli anni
sui temi fondamentali di questo post: rispettivamente, l’arte sacra ed il ruolo
della pittura murale.
“Cominciamo, in primo luogo, col risolvere questa importante questione:
c’è differenza fondamentale fra l’arte in generale e l’arte destinata alla
Chiesa?” [45] La risposta di Severini riflette il pensiero di Jacques
Maritain, e dunque l’idea che, in termini formali, gli stessi schemi possano
essere utilizzati per la creazione di arte sacra e arte in generale, come la
chiama Severini: “Io penso di no. Queste
non sono due attività differenti, ma una sola e stessa attività; le due forme
appartengono alla stessa ‘virtù’. Non c’è dunque che una differenza di
intensità, di qualità, ma sulla stessa linea. E c’è ancora una differenza
relativa alla destinazione dell’opera in quanto oggetto, l’arte in generale avendo un’indipendenza che l’arte religiosa non
può avere.” [46]. E qui Severini introduce il linguaggio di Maritain che
parla di religione e poesia come “sorelle”, e spiega che in entrambi i
casi l’artista “deve intraprendere in
ogni momento una lotta per arrivare alla sua perfezione di uomo e alla sua
perfezione d’artista” [47].
E tuttavia l’artista religioso ha
obblighi superiori. “A colui che
intraprende un’opera destinata a suscitare la preghiera, a esaltare i santi, a
onorare il Signore, non ci si può contentare di domandare soltanto di essere
artista, ma anche di possedere delle qualità umane e naturali di prim’ordine.
Bisogna ancora ch’esso sia ‘credente’, e che tutta la sua vita interna sia
appoggiata alla Chiesa materna della quale deve comprendere il significato in
confronto a Dio, all’individuo e alla società. Si può fabbricare un capolavoro
dipingendo una ‘Maternità’, e questo capolavoro, pel fatto della sua
autenticità, salirà spontaneamente verso Dio; ma potrebbe darsi il caso che
questa maternità non fosse mai una Madonna: fra la maternità e la Madonna
sembra che vi sia un capello, ma in realtà v’è un abisso, e l’artista non potrà
mai superarlo se non crede alla Madonna come vi crede un bambino.” [48]
Due osservazioni s’impongono. In
primo luogo: “Maternità” è uno dei quadri dipinti da Severini nel 1916, oggi considerato uno dei suoi capolavori per il
recupero della classicità, qualche anno in anticipo rispetto ai movimenti di
ritorno all’ordine Valori Plastici
(1918) e Novecento italiano (1922).
Ma “Mater dolorosa” è anche un
affresco (molto meno conosciuto) di Severini nella Chiesa di Semsales del 1926.
Nel suo saggio “Dal cubismo al
classicismo” del 1921, il pittore si era servito del dipinto del 1916 per
spiegare il ruolo fondamentale della costruzione geometrica e della sezione
aurea in pittura, e aveva dunque fatto di quel quadro il centro della sua
riflessione intellettuale sull’arte. In quest’articolo del 1927, invece, invece
egli sembra ribaltare le priorità ed il tema della maternità religiosa diviene
più importante. Secondo, il tono generale del testo – ispirato ad un credo
religioso sincero e naturale – è davvero qui non molto diverso da quello con
cui Cennino apre i primi capitoli del Libro
dell’arte. Il tono diviene più elevato qualche pagina dopo, con il
riferimento al neo-tomismo di Maritain: “Tanto
è vero che per fare della religione l’animatrice dell’arte, per trasfonderne la
bellezza nell’opera, è necessario aver «Dio nell’anima»
(Jacques Maritain: Risposta a Jean Cocteau). L’arte non può esistere che
per mezzo di una comunione fra l’oggetto, l’artista e l’opera. E sempre dove
l’arte non si soddisfa di un puro irradiamento formale, il ‘soggetto’ riprende
i suoi diritti.” [49]
Severini si chiede poi se esista
un rapporto di sostituzione tra contenuto sostanziale (“il suo modo diretto e sicuro di salire verso Dio, senza perdersi in
complicazioni intellettuali” [50]) da un lato e requisiti formali (“la perfezione dei ‘mezzi’ e lo splendore
dell’arte considerata in se stessa” [51]) dell’arte religiosa dall’altro.
La risposta è che un rapporto inversamente proporzionale esiste, perché “più l’artista s’innamora della bellezza
della natura per se stessa, e meno pensa al suo Creatore; più si avvicina alla
perfezione formale della sua arte, e meno si preoccupa della propria perfezione
di uomo e di cristiano.” [52]
Egli spende alcune pagine per
documentare il difficile rapporto tra sostanza e forma. Miniatura, affresco e
mosaico “si sviluppano e si arricchiscono
continuamente mantenendosi puri, fino all’epoca di Giotto e più in là, fino
alla pre-rinascenza. Il primo colpo portato alla religiosità dell’arte, venne,
forse a sua insaputa e suo malgrado, da Giotto. Con la rivoluzione di Giotto la
pittura murale cessa di essere ornamentale, e diviene gradualmente pittura da
cavalletto, e si orienta così verso un altro fine che la distrae dallo scopo
principale” [53]. Inizia con lui quella che Severini (in linea con il
pensiero di Renoir) considera l’avvio della “decadenza dell’arte religiosa” [54] (lo stesso termine usato da
Cingria): “Tutti sanno che il
contraccolpo di questa rivoluzione artistica fu enorme. Naturalmente l’arte di
Giotto non cessa di appartenere a un piano spirituale fra i più elevati, ma non
è men vero, pertanto, che la sua passione di esprimere dei volumi in rilievo
secondo le leggi ottiche delle tre dimensioni, indusse i pittori a lui posteriori
a guardare la realtà più da vicino” [55].
Con l’eccezione del Beato
Angelico, lo sviluppo dell’arte da Giotto ai Carracci è dunque segnato da un
movimento involutivo (“l’eccesso d’arte e
la decadenza dell’arte religiosa”) [56] che ha fine solamente con l’epoca di Ingres e Delacroix.
A tale involuzione corrisponde la decadenza dell’affresco: “Del resto si lavora sempre meno sul muro,
poiché è difficile realizzare sulle grandi superfici, e sopra una materia
difficile da maneggiare, tutte le irradiazioni colorate sognate dal pittore. Il
mosaico diviene più pittorico che ornamentale, e il bel mestiere dell’affresco
si deforma ugualmente divenendo un dipingere all’acquarello.” [57] L’arte diviene puro virtuosismo: “Durante il periodo che va da Raffaello al
XVII secolo, l’arte si compiace del suo proprio splendore; tutto diviene
pretesto ai bei colori e alle belle forme, belli in sé; si dipingono
indifferentemente dei soggetti della mitologia, della Bibbia, o della vita di
Cristo. Il soggetto, nell’arte, diviene così un pretesto, e siccome siamo oggi
allo steso punto, sottolineo con forza questa constatazione” [58]. E per meglio spiegare fa un paragone
tra una Madonna nella Chiesa di Vicchio di Rimaggio (allora attribuita a Taddeo
Gaddi, ed oggi al Maestro di Vicchio di Rimaggio) e la Madonna della Seggiola di Raffaello: “Viene da questa Madonna (malgrado le trasformazioni che i ritocchi le
avranno fatto subire) una poesia veramente umana, eppure è una ‘Madonna’,
perché il contenuto religioso domina l’elemento realistico qui preso come
‘mezzo’. In Raffaello, invece, la Madonna può essere una graziosa bambinaia che
ha cura di un bel pupo. L’arte e l’elemento realistico dominano il contenuto”
[59].
Il peggio dell’arte religiosa,
secondo Severini, si ha con la scuola dei Carracci: “I Bolognesi erano dei naturalisti e degli psicologi aventi sul naso gli
occhiali del ‘bello-ideale’. Il fatto importante da sottolineare è che questi
pittori i quali vollero fare prima di tutto della ‘pittura’ non credevano
all’al-di-là, e si figuravano Dio secondo la loro misura umana. Se si trattava
di dipingere un Cristo morente o la Santa Vergine ai piedi della Croce, o i
Santi martirizzati, era un’espressione umana che cercavano di raggiungere;
realmente Dio e i Santi dovevano soffrire come dei poveri mortali. Tutte le
smorfie umane, divinizzate après-coup, ma
risultanti da studi psicologici, amplificate ed esagerate, ci han dato tutti
quegli esseri contorti e grotteschi, con bocche di traverso e occhi stravolti
di epilettici. Tutte quelle attitudini forzate introdotte in virtù di una idea
esteriore all’arte, tutte quelle affettazioni, quei sentimentalismi e
manierismi, sono nocivi tanto all’arte quanto alla religiosità. La espressione
e il sentimento di Dio che muore, della Santa Vergine e dei Santi che soffrono,
non bisogna cercarli nelle idee posteriori, sempre nocive, né nello studio
psicologico della natura umana, bisogna prenderli nel proprio cuore,
simpatizzando profondamente con le sofferenze di Cristo e dei Santi” [60]. E
come esempio della peggior degenerazione cita la Testa del Crocefisso di Guido Reni: “Per Guido Reni il ‘soggetto’ del Cristo morente è un pretesto per far
valere un’abilità tutta esteriore messa a servizio di un concetto
naturalistico-letterario” [61].
Evidenziare i rischi di un
realismo eccessivo significa forse che l’artista religioso deve ignorare la
natura? Il tema è tutt’altro che teorico, perché Severini è fortemente avverso
(e lo resterà tutta la sua vita) all’arte astratta le cui prime manifestazioni
si stanno diffondendo in quegli anni (e non manca infatti di spiegare che né
futurismo né cubismo, movimenti cui egli ha partecipato, mai rinnegarono il
riferimento figurativo alla realtà). A tal fine egli cita Cennino: “Dalle considerazioni precedenti, non
bisognerebbe dedurre che gli artisti delle antiche epoche, presso le quali
troviamo incontestabilmente lo spirito religioso, abbiano fatto a meno di
consultare la natura, e che, per conseguenza, sia proibito agli artisti di oggi
di domandare alla natura certi elementi indispensabili all’arte. Sarebbero
questi dei gravi errori. Che si osservino i mosaici di Ravenna del VI secolo, o
che si legga il capitolo XXVIII del famoso libro di Cennino Cennini (attraverso
Agnolo e Taddeo Gaddi, discepolo di Giotto), da per tutto troveremo la conferma
di questa regola generale: l’artista deve estrarre dal mondo reale quella
bellezza d’ordine strettamente intrinseco che è la ragione dell’arte.” [62]
Pittura murale: sua estetica e suoi mezzi
La pittura murale deve vivere in
simbiosi con l’architettura, ed anzi sottomettersi ad essa. Su questo tema
Severini ha idee molto precise: “Si
tratta di pensare l’opera decorativa murale secondo le sue leggi, secondo le
esigenze del materiale da impiegarsi, e in assoluta dipendenza
dell’architettura” [63]. “È chiaro
che la decorazione [murale] ha nello stesso tempo un compito distruttivo e
costruttivo; per questo gli architetti hanno in parte ragione di diffidare dei
pittori. Se, tuttavia, il pittore conosce la sua arte come si conviene, nulla
vi è da temere dal suo intervento, perché egli possiede la scienza di
distruggere le superfici per ricostruirle più ricche, ornate, ma non
trasformate in ciò che hanno di essenziale e cioè nell’omogeneità del loro
piano” [64]. E dunque il peggiore degli errori è stato quello del Pozzo alla Chiesa di S. Ignazio a Roma, ovvero “sfondare
il muro e agire come se l’architettura non esistesse” [65]. E a riprova di
ciò, i Ragionamenti riproducono la
medesima Foto Alinari dell’Ingresso di S.
Ignazio in Paradiso, oggi presente nell’archivio fotografico della
Fondazione Zeri.
![]() |
Fig. 15) Andrea Pozzo, L’ingresso di S. Ignazio in Paradiso (particolare presso l’Arcone), 1691-1694. Fonte: http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/scheda.jsp?id=99956&apply=true&titolo=-+particolare&tipo_scheda=F&decorator=layout_S2 |
Le conseguenze stilistiche del
quadro teorico entro il quale Severini si muove creano un altro legame sia con
l’arte religiosa medievale sia con l’arte contemporanea, perché la pittura
murale non deve creare senso di profondità, ma anzi presentarsi su un unico
piano, così come facevano l’arte bizantina e, ai tempi di Severini, gli artisti della scuola di Beuron, ma anche i cubisti: “Io considero come un errore fondamentale servirsi della prospettiva e
dipingere degli scorci, quando si tratta di pittura murale, perché ciò,
senza dubbio porta allo sfondamento del muro e distrugge l’architettura, e appartiene inoltre,
in quanto attitudine spirituale, a quel realismo ottico che abbiamo constatato
nel periodo della decadenza dell’arte religiosa.” [66]. Il pittore era
molto orgoglioso di essere riuscito, nell’affresco absidale della Basilica di
Notre-Dame du Valentin di Losanna, a rappresentare diversi piani
(l’incoronazione della Vergine e l’annunciazione; le vedute di San Pietro e
della città di Losanna, i fedeli) senza aver creato una falsa impressione di
profondità, ed anzi “portando nel dominio
dell’arte murale certe esperienze conclusive dell’arte moderna” [67] e ne
riproduce una foto nei Ragionamenti. Fabio
Benzi scrive, a proposito dell’affresco absidale di Losanna: “L’affresco è una summa delle esperienze
dell’artista: angeli dalle fattezze meccaniche echeggianti Léger e il cubismo
si sposano a forme ritagliate e appuntite memori dell’arte tardo-bizantina,
altri elementi derivano da soluzioni sperimentate da Severini negli anni Venti
a La Roche, ma già compare il particolare modo di risolvere sinteticamente le
superfici con campiture piatte risegate, indipendenti dal disegno di base,
semplificazioni dell’esperienza futurista e cubista. È l’inizio di un nuovo
stile, messo a punto da Severini negli anni Trenta, che compone esperienze
dell’avanguardia a istanze classiciste, semplicità tomistica e neo-medievale a
monumentalismo ‘sociale’, risolvendo ogni cosa in una geometrizzazione
astrattiva” [68].
Al pittore murale è dunque
richiesto un esercizio di autocontrollo: “Lo
spirito di sacrifizio è dunque una delle virtù che deve possedere il decoratore
perché non si deve, beninteso, dipingere un muro in modo che in tutto un
monumento, non si veda che quel muro (questo sarebbe soddisfare l’interesse del
pittore a danno dell’opera intera); e, inoltre, tutte le superfici, tutti i
volumi, non richiedono di essere decorati; alcune di queste superfici, alcuni
di questi volumi essendo belli in se stessi, come le figure e i ‘solidi’ della
geometria (in special modo la sfera) non debbono essere distrutti senza forti
ragioni. Se vi è necessità assoluta di farlo, bisogna che l’ornamento li
ricostruisca sempre nelle loro tonalità. Il bell’insieme di un monumento
dipende molto spesso dalla sobrietà e dalla giustificazione dei suoi ornamenti,
il che non esclude la ricchezza” [69].
La natura della pittura murale
non è narrativa, ma decorativa. “Senza
cadere nell’eccesso di non vedere nella natura che forme e colori, bisogna
tuttavia risolvere i problemi plastici pensandoli in quanto linee e colori; e
non come oggetti o corpi, ciò che, secondo me, non impedisce per nulla di
trarre dall’oggetto o corpo rappresentato la più autentica poesia. Diciamo anzi
che il solo mezzo di creare questa poesia pittorica è quello di sapere quanto si può ricavare dalle linee, dai toni e dai
colori” [70]. “Trovo più grandezza e
purezza nell’affrontare nettamente il problema di ornare, con arabeschi,
combinazioni di linee e colori che lascino la superficie intatta pur rendendola
più ricca. Penso dunque che tra la cappella Sistina o le chiese italiane del
XVI e XVII secolo (di cui le false prospettive innalzano il soffitto), e le
chiese di Ravenna, sia assolutamente necessario preferire, come esempio e come
base, lo spirito di queste ultime. Quest’arte ornamentale, è veramente la più
pura e la più grandiosa che io conosca” [71]. È interessante che la
medesima predilezione verso l’arte ornamentale ed il mosaico dell’arte
paleocristiana e bizantina, preferita al Rinascimento e soprattutto al Barocco,
si trovi nelle memorie di Paul Klee (che Severini comunque non poteva aver
letto in quegli anni, perché uscirono nel 1957).
Sperimentazioni sulla tecnica
Ai temi spirituali ed
iconografici si affiancano anche nuovi problemi tecnici, come sopra detto. Da
un lato arrivano sul mercato in quegli anni nuovi colori per la pittura a muro
(molti dei quali di fabbricazione industriale ad opera di grandi complessi
chimici), che facilitano la vita dei pittori e permettono loro di dipingere a
secco, e dunque in modo molto più semplice dell’affresco, ma pongono il
problema di come far assumere alle scene d’arte sacra un effetto “antico”.
Dall’altro le chiese e gli edifici pubblici da affrescare sono sempre più
realizzati con nuovi materiali (il cemento), ponendo la necessità di
sperimentare tecniche che assicurino la stabilità delle opere. È su questo che
Severini collabora per molti anni con l’architetto Fernand Dumas (1892-1956),
costruttore di quindici chiese nella Svizzera romanda, tutte decorate dai
pittori della Società di San Luca.
Su questi aspetti Severini è
all’assoluta avanguardia nelle sue pitture murali a Montegufoni ed in Svizzera,
dove introduce negli anni Venti sperimentazioni e temi che diverranno cruciali
negli anni Trenta anche in Italia. Egli può infatti avvalersi di almeno tre
filoni che ne guidano l’operato: l’esperienza di pittore, arricchita dalla
consulenza di artigiani di fiducia; la conoscenza quasi universale della
letteratura artistica in tema (e certamente non solo di Cennino); la
sperimentazione in Svizzera dei nuovi colori e delle nuove tecniche ingegneristiche.
Ecco quello che scrive Ornella
Casazza: “Severini sarà l’autentico punto
di partenza di una nuova concezione italiana della pittura murale. Nei suoi
scritti esprime le sue idee sull’unione tra pittura e architettura da collegare
in un rapporto armonico ottenuto per rispondenze «auree»
studiate sui trattati antichi e riflettendo su ambiti più impegnati in
razionalismi geometrici e su Le Corbusier. Pur conoscendo la tecnica antica
meditata sul Cennini e sul Vasari, studiando gli scritti di Signac e i testi
scientifici sul colore di Helmholtz, Chevreul, Blanc, adotterà ed elaborerà
sistemi diversi come negli affreschi di Montegufoni del 1921-1922. Qui,
infatti, pur seguendo la regola del riporto del disegno a spolvero,
dell’impiego di porzioni di intonaco ben condotte e mascherate nelle «attaccature»
lungo i profili delle figure, nel corretto uso dei colori stabili
all’azione della calce nell’arriccio, su consiglio di un esperto muratore
aggiunge una piccola quantità di cemento per rallentare l’essiccamento della
calce. Subito dopo, nel 1925-1926, per l’affresco di Friburgo (chiesa di
Semsales), Severini adopera tecniche «moderne» al silicato, che lui
stesso descrive : «Sul cemento si può dipingere al silicato e
all’affresco, dopo averlo ricoperto di un intonaco di calce idraulica»”
[74].
Altrettanto importante il suo
lavoro per far sì che l’artista recuperi la manualità del mosaicista, come
strumento necessario per il rinnovo dell’arte del mosaico. Egli ritiene infatti
che “da questo divorzio fra arte e
mestiere, da questa impossibilità di pensare l’opera in accordo con i ‘mezzi’,
è venuta fuori la decadenza del mosaico. Come si vede tale decadenza o crisi
non concerne soltanto il mestiere, non è soltanto un problema di tecnica, ma
concerne anche l’arte: è dunque un problema tecnico ed estetico” [75]. E
che Severini sia considerato l’artista che più ha contribuito alla rinascita
del mosaico contemporaneo è testimoniato dal fatto che gli è intitolato l’Istituto Statale d'Arte per il Mosaico
di Ravenna.
[Purtroppo, per ragioni legate a diritti d'autore, questa nuova versione dell'articolo non include più immagini delle opere di Gino Severini.]
Fine della Parte Seconda[Purtroppo, per ragioni legate a diritti d'autore, questa nuova versione dell'articolo non include più immagini delle opere di Gino Severini.]
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NOTE
[37] Si veda: Greff, Jean-Pierre – Art sacré en Europe 1919-1939: les tentatives d’un «renouveau», in: Monnier, Gérard e Vovelle, José, Un art sans frontières, Paris, Publications de la Sorbonne, 1995, p. 157-174. Il testo è disponibile su internet : http://books.openedition.org/psorbonne/450#ftn18
[38] Anche in Italia si sente l’influenza di Denis. Egli partecipa, per esempio, al convegno alla Reale Accademia d'Italia su Rapporti dell’architettura con le arti figurative, tenutosi a Roma nel 1936 ed organizzato da Marcello Piacentini. Tra gli artisti italiani si segnala la presenza di Carlo Carrà, Giò Ponti, Gino Severini e Mario Sironi. Si veda anche: Zappia, Caterina - Maurice Denis e l’Italia: journal, carteggi, carnets, Università degli studi di Perugia, 2001.
[39] Cingria, Alexandre - La Décadence de l'art sacré. Préface de Paul Claudel. Nouvelle édition corrigée et augmentée de notes, Paris, A l'Art catholique, 1930, pagine 126.
[40] Cingria, Alexandre - La Décadence... (citato), pp. 116-117.
[41] Viotto Piero, Grandi amicizie: i Maritain e i loro contemporanei, Roma, Città Nuova, 2008, 479 pagine.
[42] Severini, Gino - D'un art pour l'église, in Nova et Vetera, 1926, n.3, pp. 319-330.
[43] Severini, Gino - Peinture murale. Son esthétique et ses moyens, in Nova et Vetera, 1927, n. 2, pp. 119-132.
[44] Severini, Gino – Ragionamenti sulle arti figurative, Milano, Editore Ulrico Hoepli, 1936, p. 270.
[45] Severini, Gino – Ragionamenti sulle arti figurative, Milano, Editore Ulrico Hoepli, 1942, p. 299. Citazione a pagina 45.
[46] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 45.
[47] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 46.
[48] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 47.
[49] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 57.
[50] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 48
[51] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 48
[52] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 52
[53] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 49
[54] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 48
[55] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, pp.49-50
[56] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 50
[57] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 50
[58] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 51
[59] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, Tav.XIII e Tav.XIV
[60] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 58
[61] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, Tav. XII
[62] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, pp.52-53
[63] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 78
[64] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 77
[65] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, Tav. XV
[66] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 77
[67] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, Tav. XXVIII
[68] Benzi, Fabio – Gino Severini. Affreschi, mosaici, decorazioni monumentali, 1921-1941, Roma, Galleria Arco Farnese, 12 maggio-30 giugno 1992, Roma, Leonardo-De Luca Editori, pagine 119. Citazione a p. 65.
[69] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, pp.78-79
[70] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 81
[71] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, pp. 83-84
[72] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, p. 90
[73] Severini, Gino – Ragionamenti… (citato) 1942, 88-90
[74] Memorie dell’Antico nell’arte del Novecento, a cura di Ornella Casazza e Riccardo Gennaioli. Catalogo della mostra a Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, 14 marzo – 12 luglio 2009, 288 pagine. Citazione alle pagine 37-38.
[75] Severini, Gino – Ragionamenti sulle arti figurative, (citato), 1942, p. 96
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