English Version
Chiara Marin
L’arte delle donne.
Per una Kunstliteratur al femminile nell’Italia dell’Ottocento
Limena, Libreriauniversitaria.it, 2013
![]() |
Elisabeth Vigée Le Brun, Ritratto di Isabella Teotochi Albrizzi, 1792 Fonte: Wikimedia Commons |
Non ho nessuna difficoltà ad
ammettere che ho iniziato a leggere questo libro con grande scetticismo. Mi
pareva francamente poco utile operare un’analisi di genere nell’ambito della
letteratura artistica; e, pure, la curiosità era tanta, specie tenendo conto
che gli studi di questo tipo (anche nell’ambito dell’arte) hanno ormai
acquisito una loro dignità all’interno della disciplina, specialmente nei paesi
anglosassoni.
Forse è per questo motivo che ne
sono rimasto felicemente stupito. A partire dalle dichiarazioni iniziali, in
cui l’autrice chiarisce il suo scopo, ovvero quello di indagare se esiste (o,
meglio, se è esistito) un modo diverso di vedere le cose legate al fare
artistico proprio degli occhi femminili; e, nel caso specifico, un modo
“differente” nel comunicarlo, posto che qui abbiamo appunto a che fare con la
letteratura artistica, ovvero con gli scritti di autrici che, a vario titolo,
si occuparono di opere d’arte, di artisti e di mondo dell’arte. L’analisi
temporale è “limitata” all’Ottocento. Le virgolette sono d’obbligo, perché si
tratta di un arco cronologico – ancor oggi ampiamente sottovalutato dalla
critica – straordinariamente lungo, in cui si passa dal trionfo del
neoclassicismo di inizio secolo alle istanze positiviste, simboliste e
protonazionaliste di fine Ottocento. Se c’è un rimpianto che rimane, a fine
lettura, è che i brani antologizzati siano stati compressi in appena 180
pagine, quando, per avere un termine di confronto, le principali antologie
italiane dedicate all’Ottocento si articolano su migliaia di pagine [1].
Dispiace quindi, che in molte situazioni, ci si debba accontentare di leggere
poche righe, due o tre facciate se va bene, di ciascuna autrice. Si tratta
peraltro di una precisa scelta editoriale dell’autrice, che definisce l’opera
come “primo dissodamento del terreno” (e del resto la destinazione
universitaria dell’opera è evidente sin dal nome dell'editore). A ciò si aggiunga che,
ancora una volta per scelta della curatrice, Chiara Marin preferisce
privilegiare la polifonia della sua antologia, dando spazio a quante più voci
possibile e limitando (salvo casi eccezionali) a un solo brano a testa la
testimonianza di ogni autrice. Ne consegue un’opera che, inevitabilmente,
appare in qualche modo discontinua nella qualità degli scritti e in cui di alcune
figure, come ad esempio quelle di Maria Alinda Bonacci Brunamonti, di Evelyn, di
Luigia Codemo, di Neera, si vorrebbe sapere molto di più. Specie se – e non ho
alcuna difficoltà ad ammettere la cosa – le si viene a conoscere per la prima
volta proprio in questa occasione.
![]() |
Anna Zuccari Radius, detta "Neera" Fonte: Wikimedia Commons |
Ma – come detto – l’idea della
Marin è diversa, e più stimolante. Si tratta di capire se esistono linee di
fondo che possono in qualche modo rappresentare un minimo comun denominatore
per tutte le autrici prese in considerazione. In quest’ambito vengono segnalate
delle situazioni di indubbio interesse che si abbinano ad altre sulle quali io
personalmente non mi trovo d’accordo, fermo restando che la proposta è sempre
fatta in maniera dubitativa e garbata, a partire dai testi, senza idee
preconcette che piovano dall’alto. Cito, a puro titolo di esempio, una
considerazione che mi convince poco: “L’invito a sostenere l’analisi storica
attraverso una costante verifica in rapporto diretto con le opere d’arte è un
tema ricorrente negli interventi femminili che si susseguirono nel corso del
secolo, ovviamente diversamente cadenzato secondo la diversa preparazione della
singola autrice e i termini di riferimento, e può forse essere indicato come
una caratteristica legata al gender”
(p. 45).
![]() |
Marianna Candidi Dionigi, Paesaggio, 1798 circa Fonte: Wikimedia Commons |
D’altra canto è innegabile che
esistano elementi comuni fra le varie autrici, a cominciare dalla loro
estrazione sociale; tutte o quasi tutte (specialmente a inizio secolo) di
estrazione aristocratica, tutte o quasi tutte istruite da precettori privati o
nell’ambito di collegi e con una formazione di natura letteraria, a cui ben si
sposano gli interessi di carattere artistico, che possiamo immaginare essere
oggetto di discussioni brillanti ad inizio secolo, ad esempio nel celebre
salotto di Isabella Teotochi Albrizzi. In determinate occasioni, l’estrazione
nobiliare è avvertita dalle stesse autrici come insufficiente a garantire la
qualità dello scritto e il tono del medesimo parte da professioni di modestia
che appaiono anche eccessive; oppure – ed è il caso di Marianna Candidi
coniugata Dionigi, nobildonna romana vissuta a cavallo fra Sette ed Ottocento –
si ricorre ad una sorta di “certificazione esterna”. È così, ad esempio, che i
suoi Precetti elementari sulla pittura
de’ paesi del 1816 (una di quelle opere per cui davvero vorremmo saperne di
più, in cui si parla di pittura di paesaggio proprio mentre a trionfare è
quella storica) sono preceduti da un Certificato
dell’insigne Accademia di S. Luca attestante che “il volume è scritto con
erudizione, chiarezza, e con possesso di Arte” (p. 127 n.11).
Esiste, ed è evidente, un
problema legato al riconoscimento del valore dei propri scritti e, più in
generale, di rappresentazione del ruolo femminile nella società. In merito
credo ci siano frasi rivelatrici. Una mi pare sia quella di Fulvia
(all’anagrafe Fulvia Rachele Saporiti) che in un articolo stampato sulla
rivista Vita intima a commento
dell’Esposizione Braidense del 1891, scrive (sta parlando del diritto del
pubblico di esprimere giudizi sulle opere d’arte): “E come pubblico, a costo
anche di mettere insieme innanzi qualche sproposito, abbiamo diritto e libertà
di voto… Usiamone” (p. 165). Può darsi che sbagli, ma detto da una donna che
chiaramente doveva avere buona conoscenza della lingua inglese (leggo che, fra
le altre cose, tradusse un’edizione della Capanna
dello zio Tom), mi sembra un’affermazione che lascia trasparire la
conoscenza (e direi anche la condivisione) dell’attività politica delle
suffragette inglesi.
![]() |
Domenico Morelli, Le tentazioni di Sant'Antonio, 1878, Roma, GNAM Vedi: Principessa Maria Della Rocca. L'arte moderna in Italia, p. 98 Fonte: Wikimedia Commons |
A volte il riconoscimento del
proprio ruolo viene ottenuto per meriti considerati evidentemente straordinari.
Si tratta di occasioni singole, che non vanno tuttavia sottovalutate. Mi pare
sia il caso di Maria Alinda Bonacci coniugata Brunamonti, poetessa, ma
soprattutto patriota (l’aspetto del patriottismo è un elemento che accomuna
molte delle autrici, ma si potrebbe facilmente ribattere che altrettanto
accadeva fra gli uomini). Al di là dei suoi interessi artistici, Bonacci
compose durante la seconda guerra d’indipendenza versi di fervente patriottismo
che “le valsero l’eccezionale ammissione al voto per il plebiscito di conferma
dell’annessione delle Marche e dell’Umbria al Piemonte” (p. 110 n. 40).
Più in generale credo di poter
dire, seguendo le indicazioni di Marin, che il ruolo delle donne risulti molto
accresciuto con lo sviluppo della stampa periodica, e in particolare di una
stampa periodica dedicata a un pubblico femminile. Si tratta di un tipo di
pubblicazioni che, germinate a inizio Ottocento, conoscono grande fioritura
nella seconda parte del secolo, quando si delinea un mercato (di natura
alto-borghese) sufficientemente consistente per giustificare investimenti
economici nel settore. Tutti gli scritti riportati nella quinta sezione della
presente antologia, ma in realtà anche molti altri presentati nelle prime
quattro, sono articoli apparsi sulla stampa periodica. Sono assolutamente
d’accordo con Marin quando dice che gli sviluppi futuri della disciplina sono
probabilmente legati allo spoglio di questo tipo di pubblicistica [2].
![]() |
Lorenzo Delleani, Autunno dorato o Tramonto a novembre, 1904 Vedi: Mara Antelling, Artisti contemporanei, p. 113 Fonte: http://www.artgate-cariplo.it/it/index.html |
In questo ambito (ma, a dire il
vero, anche nelle monografie) emerge la vocazione pedagogico-didattica degli
scritti, che davvero accomuna le varie esperienze femminili. Basta leggere le
brevi note biografiche che accompagnano ciascun brano per rendersi conto di
come tantissime delle autrici siano anche state autrici di opere destinate ai
giovani o ad altre donne; di come abbiano diretto scuole spesso da esse stesse
fondate volte a promuovere la cultura di base di altre ragazze; per capire
insomma, che gli scopi pedagogici, prima di tutto, sono un’esperienza
biografica vissuta in prima persona. Un’esperienza che, peraltro, la società
nel suo complesso è ben disposta ad accettare e in cui quindi si trova uno
spazio di azione e di gratificazione personale.
Tutti questi aspetti, calandosi
poi nel concreto della letteratura artistica, si traducono spesso
nell’abbandono (o nel rigetto implicito) dei toni eruditi di molti conoscitori
sette-ottocenteschi, le cui guide o i cui scritti sono spesso aride elencazioni
di nomi, di opere, di date. Per carità, escluderei che questi scritti non
fossero noti. Semplicemente “l’arte delle donne” si rivolge a un pubblico
diverso, per il quale conta molto di più l’elemento soggettivo della critica o,
più in generale, dell’informazione fornita. Meno teoria dell’arte, meno
discorsi sul bello ideale (che, pure - sia chiaro - ci sono) e un’accresciuta
importanza del ruolo di chi scrive come intermediario fra il lettore e
l’interpretazione dell’opera d’arte in chiave soggettiva. Un tono generale più
narrativo, che riflette la duplice dimensione della critica da un lato e del
romanzo o della novella dall’altro. Naturalmente, col passare dei decenni,
siamo perfettamente in grado di cogliere i cambiamenti del gusto: a inizio
secolo Isabella Teotochi Albrizzi tesse le lodi di Antonio Canova e della sua
interpretazione “sentimentale” del neoclassicismo, mentre nei resoconti dalle
esposizioni di fine Ottocento i riferimenti sono il simbolismo di Ferdinand
Hodler e di Arnold Böcklin. Si coglie inoltre l’aspirazione alla rinascita di
un’arte veramente nazionale, ben descritta nel resoconto di Madonnina Malaspina
sulle ragioni che portano all’esposizione internazionale di Roma del 1883 (p.
156).
![]() |
Jan Mateiko, L'omaggio prussiano, 1882, Museo Nazionale di Cracovia Vedi: Madonnina Malaspina, La mostra internazionale di belle arti, p. 156 Fonte: Wikimedia Commons |
Non mancano, ovviamente, le
peculiarità: una di queste (in realtà l’abbiamo già introdotta in questa
recensione sin dalle prime righe) è l’uso degli pseudonimi, particolarmente
diffuso con l’inoltrarsi del secolo: si va dalla Principessa Maria Della Rocca,
che in realtà è Maria Embden-Heine (1835-1908), nipote del poeta tedesco, a
Neera (Anna Radius Zuccari (1846-1918)), fra le fondatrici della rivista Vita intima (1890), autrice di novelle,
ma anche amica di Segantini, Pelizza da Volpedo e Gaetano Previati (p. 107); e
poi ancora Mara Antelling (Anna Piccoli Menegazzi, 1854-1904); Evelyn (ovvero
la francese Evelyn de la Touche (1855-1920), che sposa Pietro dei Franceschi
Marini, discendente di Piero della Francesca, e scrive un’informata biografia
sul pittore di Sansepolcro); un’Arrighetta a oggi ancora anonima che scrive
sulla Rivista della moda del 1898 un
articolo sulle scene della Natività attraverso i secoli esaltando quelle
medievali per la loro spiritualità e bocciando le rinascimentali perché hanno
perso la loro intimità religiosa; Aidea (ossia Ida Finzi, 1867-1946); Fulvia
(Fulvia Rachele Saporiti, 1870-1944); Junior (e davvero credo che Matilde Serao
(1856-1927), che vi si celò dietro, non abbia bisogno di presentazioni);
Contessa Lara (Evelina Cattermole, 1849-1896); e infine Jolanda (Maria Majocchi
Plattis, 1864-1917). Non manca, infine, chi scrive con pseudonimi maschili e
qui è forse il caso di citare la romanziera Beatrice Speraz, 1839-1923 (il nome
d’arte è Bruno Sperani) e Memini (ines Castellani Fantoni Benaglio, 1849-1899).
Quello dello pseudonimo per le donne era una pratica in uso in tutta Europa (in
epoca vittoriana gli articoli scritti da donne sui periodici inglesi o erano
anonimi o erano firmati con pseudonimi); divenne una moda dilagante a fine
secolo, ed è forse il massimo della banalità (ma lo faccio lo stesso) dire che
è da questo mondo che esce anche la più famosa di tutte, ovvero Liala (con uno
pseudonimo inventato per lei da Gabriele D’Annunzio).
Che dire, avviandomi alla
conclusione? Se era partito scettico, ho finito capendo che l’antologia di
Chiara Marin non va giudicata per i limiti e i difetti, che pure ci sono [3],
ma va apprezzata per il materiale e gli spunti che propone, materiali e spunti
che meriterebbero affondi più completi su singole personalità presentate nel
testo. La curatrice, insomma, ha “dissodato il terreno”. Aspettiamo fiduciosi il
tempo del raccolto.
NOTE
[1] Si vedano in merito Paola Barocchi, Storia moderna dell’arte in
Italia, Volume I. Dai neoclassici ai puristi. Manifesti polemiche documenti,
Torino, Einaudi, 1998 e Paola Barocchi, Storia
moderna dell’arte in Italia. Dalla pittura di storia alla storia della pittura,
a cura di Barbara Cinelli, Milano, Electa, 2009 (in tutto 1300 pagine circa);
nonché Scritti d’arte del primo Ottocento, a cura di Fernando Mazzocca,
Milano-Napoli, Riccardo Riccardi, 1998 (2200 pagine).
[2] Va peraltro ricordato che
Chiara Marin, assieme a Franco Bernabei, ha curato la pubblicazione di Critica d’arte nelle riviste
lombardo-venete, 1820-1860, Treviso, Canova, 2007.
[3] Il più evidente, in termini
editoriali, è la commistione fra note originali relative al brano antologizzato
e note della curatrice.
Nessun commento:
Posta un commento