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venerdì 1 aprile 2016

Chiara Marin. L'arte delle donne. Per una 'Kunstliteratur' al femminile nell'Italia dell'Ottocento


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Chiara Marin
L’arte delle donne.
Per una Kunstliteratur al femminile nell’Italia dell’Ottocento

Limena, Libreriauniversitaria.it, 2013

Elisabeth Vigée Le Brun, Ritratto di Isabella Teotochi Albrizzi, 1792
Fonte: Wikimedia Commons

Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che ho iniziato a leggere questo libro con grande scetticismo. Mi pareva francamente poco utile operare un’analisi di genere nell’ambito della letteratura artistica; e, pure, la curiosità era tanta, specie tenendo conto che gli studi di questo tipo (anche nell’ambito dell’arte) hanno ormai acquisito una loro dignità all’interno della disciplina, specialmente nei paesi anglosassoni.

Forse è per questo motivo che ne sono rimasto felicemente stupito. A partire dalle dichiarazioni iniziali, in cui l’autrice chiarisce il suo scopo, ovvero quello di indagare se esiste (o, meglio, se è esistito) un modo diverso di vedere le cose legate al fare artistico proprio degli occhi femminili; e, nel caso specifico, un modo “differente” nel comunicarlo, posto che qui abbiamo appunto a che fare con la letteratura artistica, ovvero con gli scritti di autrici che, a vario titolo, si occuparono di opere d’arte, di artisti e di mondo dell’arte. L’analisi temporale è “limitata” all’Ottocento. Le virgolette sono d’obbligo, perché si tratta di un arco cronologico – ancor oggi ampiamente sottovalutato dalla critica – straordinariamente lungo, in cui si passa dal trionfo del neoclassicismo di inizio secolo alle istanze positiviste, simboliste e protonazionaliste di fine Ottocento. Se c’è un rimpianto che rimane, a fine lettura, è che i brani antologizzati siano stati compressi in appena 180 pagine, quando, per avere un termine di confronto, le principali antologie italiane dedicate all’Ottocento si articolano su migliaia di pagine [1]. Dispiace quindi, che in molte situazioni, ci si debba accontentare di leggere poche righe, due o tre facciate se va bene, di ciascuna autrice. Si tratta peraltro di una precisa scelta editoriale dell’autrice, che definisce l’opera come “primo dissodamento del terreno” (e del resto la destinazione universitaria dell’opera è evidente sin dal nome dell'editore). A ciò si aggiunga che, ancora una volta per scelta della curatrice, Chiara Marin preferisce privilegiare la polifonia della sua antologia, dando spazio a quante più voci possibile e limitando (salvo casi eccezionali) a un solo brano a testa la testimonianza di ogni autrice. Ne consegue un’opera che, inevitabilmente, appare in qualche modo discontinua nella qualità degli scritti e in cui di alcune figure, come ad esempio quelle di Maria Alinda Bonacci Brunamonti, di Evelyn, di Luigia Codemo, di Neera, si vorrebbe sapere molto di più. Specie se – e non ho alcuna difficoltà ad ammettere la cosa – le si viene a conoscere per la prima volta proprio in questa occasione.


Anna Zuccari Radius, detta "Neera"
Fonte: Wikimedia Commons

Ma – come detto – l’idea della Marin è diversa, e più stimolante. Si tratta di capire se esistono linee di fondo che possono in qualche modo rappresentare un minimo comun denominatore per tutte le autrici prese in considerazione. In quest’ambito vengono segnalate delle situazioni di indubbio interesse che si abbinano ad altre sulle quali io personalmente non mi trovo d’accordo, fermo restando che la proposta è sempre fatta in maniera dubitativa e garbata, a partire dai testi, senza idee preconcette che piovano dall’alto. Cito, a puro titolo di esempio, una considerazione che mi convince poco: “L’invito a sostenere l’analisi storica attraverso una costante verifica in rapporto diretto con le opere d’arte è un tema ricorrente negli interventi femminili che si susseguirono nel corso del secolo, ovviamente diversamente cadenzato secondo la diversa preparazione della singola autrice e i termini di riferimento, e può forse essere indicato come una caratteristica legata al gender” (p. 45).


Marianna Candidi Dionigi, Paesaggio, 1798 circa
Fonte: Wikimedia Commons

D’altra canto è innegabile che esistano elementi comuni fra le varie autrici, a cominciare dalla loro estrazione sociale; tutte o quasi tutte (specialmente a inizio secolo) di estrazione aristocratica, tutte o quasi tutte istruite da precettori privati o nell’ambito di collegi e con una formazione di natura letteraria, a cui ben si sposano gli interessi di carattere artistico, che possiamo immaginare essere oggetto di discussioni brillanti ad inizio secolo, ad esempio nel celebre salotto di Isabella Teotochi Albrizzi. In determinate occasioni, l’estrazione nobiliare è avvertita dalle stesse autrici come insufficiente a garantire la qualità dello scritto e il tono del medesimo parte da professioni di modestia che appaiono anche eccessive; oppure – ed è il caso di Marianna Candidi coniugata Dionigi, nobildonna romana vissuta a cavallo fra Sette ed Ottocento – si ricorre ad una sorta di “certificazione esterna”. È così, ad esempio, che i suoi Precetti elementari sulla pittura de’ paesi del 1816 (una di quelle opere per cui davvero vorremmo saperne di più, in cui si parla di pittura di paesaggio proprio mentre a trionfare è quella storica) sono preceduti da un Certificato dell’insigne Accademia di S. Luca attestante che “il volume è scritto con erudizione, chiarezza, e con possesso di Arte” (p. 127 n.11).

Esiste, ed è evidente, un problema legato al riconoscimento del valore dei propri scritti e, più in generale, di rappresentazione del ruolo femminile nella società. In merito credo ci siano frasi rivelatrici. Una mi pare sia quella di Fulvia (all’anagrafe Fulvia Rachele Saporiti) che in un articolo stampato sulla rivista Vita intima a commento dell’Esposizione Braidense del 1891, scrive (sta parlando del diritto del pubblico di esprimere giudizi sulle opere d’arte): “E come pubblico, a costo anche di mettere insieme innanzi qualche sproposito, abbiamo diritto e libertà di voto… Usiamone” (p. 165). Può darsi che sbagli, ma detto da una donna che chiaramente doveva avere buona conoscenza della lingua inglese (leggo che, fra le altre cose, tradusse un’edizione della Capanna dello zio Tom), mi sembra un’affermazione che lascia trasparire la conoscenza (e direi anche la condivisione) dell’attività politica delle suffragette inglesi.

Domenico Morelli, Le tentazioni di Sant'Antonio, 1878, Roma, GNAM
Vedi: Principessa Maria Della Rocca. L'arte moderna in Italia, p. 98
Fonte: Wikimedia Commons

A volte il riconoscimento del proprio ruolo viene ottenuto per meriti considerati evidentemente straordinari. Si tratta di occasioni singole, che non vanno tuttavia sottovalutate. Mi pare sia il caso di Maria Alinda Bonacci coniugata Brunamonti, poetessa, ma soprattutto patriota (l’aspetto del patriottismo è un elemento che accomuna molte delle autrici, ma si potrebbe facilmente ribattere che altrettanto accadeva fra gli uomini). Al di là dei suoi interessi artistici, Bonacci compose durante la seconda guerra d’indipendenza versi di fervente patriottismo che “le valsero l’eccezionale ammissione al voto per il plebiscito di conferma dell’annessione delle Marche e dell’Umbria al Piemonte” (p. 110 n. 40).

Più in generale credo di poter dire, seguendo le indicazioni di Marin, che il ruolo delle donne risulti molto accresciuto con lo sviluppo della stampa periodica, e in particolare di una stampa periodica dedicata a un pubblico femminile. Si tratta di un tipo di pubblicazioni che, germinate a inizio Ottocento, conoscono grande fioritura nella seconda parte del secolo, quando si delinea un mercato (di natura alto-borghese) sufficientemente consistente per giustificare investimenti economici nel settore. Tutti gli scritti riportati nella quinta sezione della presente antologia, ma in realtà anche molti altri presentati nelle prime quattro, sono articoli apparsi sulla stampa periodica. Sono assolutamente d’accordo con Marin quando dice che gli sviluppi futuri della disciplina sono probabilmente legati allo spoglio di questo tipo di pubblicistica [2].


Lorenzo Delleani, Autunno dorato o Tramonto a novembre, 1904
Vedi: Mara Antelling, Artisti contemporanei, p. 113
Fonte: http://www.artgate-cariplo.it/it/index.html

In questo ambito (ma, a dire il vero, anche nelle monografie) emerge la vocazione pedagogico-didattica degli scritti, che davvero accomuna le varie esperienze femminili. Basta leggere le brevi note biografiche che accompagnano ciascun brano per rendersi conto di come tantissime delle autrici siano anche state autrici di opere destinate ai giovani o ad altre donne; di come abbiano diretto scuole spesso da esse stesse fondate volte a promuovere la cultura di base di altre ragazze; per capire insomma, che gli scopi pedagogici, prima di tutto, sono un’esperienza biografica vissuta in prima persona. Un’esperienza che, peraltro, la società nel suo complesso è ben disposta ad accettare e in cui quindi si trova uno spazio di azione e di gratificazione personale.

Tutti questi aspetti, calandosi poi nel concreto della letteratura artistica, si traducono spesso nell’abbandono (o nel rigetto implicito) dei toni eruditi di molti conoscitori sette-ottocenteschi, le cui guide o i cui scritti sono spesso aride elencazioni di nomi, di opere, di date. Per carità, escluderei che questi scritti non fossero noti. Semplicemente “l’arte delle donne” si rivolge a un pubblico diverso, per il quale conta molto di più l’elemento soggettivo della critica o, più in generale, dell’informazione fornita. Meno teoria dell’arte, meno discorsi sul bello ideale (che, pure - sia chiaro - ci sono) e un’accresciuta importanza del ruolo di chi scrive come intermediario fra il lettore e l’interpretazione dell’opera d’arte in chiave soggettiva. Un tono generale più narrativo, che riflette la duplice dimensione della critica da un lato e del romanzo o della novella dall’altro. Naturalmente, col passare dei decenni, siamo perfettamente in grado di cogliere i cambiamenti del gusto: a inizio secolo Isabella Teotochi Albrizzi tesse le lodi di Antonio Canova e della sua interpretazione “sentimentale” del neoclassicismo, mentre nei resoconti dalle esposizioni di fine Ottocento i riferimenti sono il simbolismo di Ferdinand Hodler e di Arnold Böcklin. Si coglie inoltre l’aspirazione alla rinascita di un’arte veramente nazionale, ben descritta nel resoconto di Madonnina Malaspina sulle ragioni che portano all’esposizione internazionale di Roma del 1883 (p. 156).

Jan Mateiko, L'omaggio prussiano, 1882, Museo Nazionale di Cracovia
Vedi: Madonnina Malaspina, La mostra internazionale di belle arti, p. 156
Fonte: Wikimedia Commons

Non mancano, ovviamente, le peculiarità: una di queste (in realtà l’abbiamo già introdotta in questa recensione sin dalle prime righe) è l’uso degli pseudonimi, particolarmente diffuso con l’inoltrarsi del secolo: si va dalla Principessa Maria Della Rocca, che in realtà è Maria Embden-Heine (1835-1908), nipote del poeta tedesco, a Neera (Anna Radius Zuccari (1846-1918)), fra le fondatrici della rivista Vita intima (1890), autrice di novelle, ma anche amica di Segantini, Pelizza da Volpedo e Gaetano Previati (p. 107); e poi ancora Mara Antelling (Anna Piccoli Menegazzi, 1854-1904); Evelyn (ovvero la francese Evelyn de la Touche (1855-1920), che sposa Pietro dei Franceschi Marini, discendente di Piero della Francesca, e scrive un’informata biografia sul pittore di Sansepolcro); un’Arrighetta a oggi ancora anonima che scrive sulla Rivista della moda del 1898 un articolo sulle scene della Natività attraverso i secoli esaltando quelle medievali per la loro spiritualità e bocciando le rinascimentali perché hanno perso la loro intimità religiosa; Aidea (ossia Ida Finzi, 1867-1946); Fulvia (Fulvia Rachele Saporiti, 1870-1944); Junior (e davvero credo che Matilde Serao (1856-1927), che vi si celò dietro, non abbia bisogno di presentazioni); Contessa Lara (Evelina Cattermole, 1849-1896); e infine Jolanda (Maria Majocchi Plattis, 1864-1917). Non manca, infine, chi scrive con pseudonimi maschili e qui è forse il caso di citare la romanziera Beatrice Speraz, 1839-1923 (il nome d’arte è Bruno Sperani) e Memini (ines Castellani Fantoni Benaglio, 1849-1899). Quello dello pseudonimo per le donne era una pratica in uso in tutta Europa (in epoca vittoriana gli articoli scritti da donne sui periodici inglesi o erano anonimi o erano firmati con pseudonimi); divenne una moda dilagante a fine secolo, ed è forse il massimo della banalità (ma lo faccio lo stesso) dire che è da questo mondo che esce anche la più famosa di tutte, ovvero Liala (con uno pseudonimo inventato per lei da Gabriele D’Annunzio).

Che dire, avviandomi alla conclusione? Se era partito scettico, ho finito capendo che l’antologia di Chiara Marin non va giudicata per i limiti e i difetti, che pure ci sono [3], ma va apprezzata per il materiale e gli spunti che propone, materiali e spunti che meriterebbero affondi più completi su singole personalità presentate nel testo. La curatrice, insomma, ha “dissodato il terreno”. Aspettiamo fiduciosi il tempo del raccolto.


NOTE

[1] Si vedano in merito Paola Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia, Volume I. Dai neoclassici ai puristi. Manifesti polemiche documenti, Torino, Einaudi, 1998 e Paola Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia. Dalla pittura di storia alla storia della pittura, a cura di Barbara Cinelli, Milano, Electa, 2009 (in tutto 1300 pagine circa); nonché Scritti d’arte del primo Ottocento, a cura di Fernando Mazzocca, Milano-Napoli, Riccardo Riccardi, 1998 (2200 pagine).

[2] Va peraltro ricordato che Chiara Marin, assieme a Franco Bernabei, ha curato la pubblicazione di Critica d’arte nelle riviste lombardo-venete, 1820-1860, Treviso, Canova, 2007.


[3] Il più evidente, in termini editoriali, è la commistione fra note originali relative al brano antologizzato e note della curatrice.

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