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lunedì 1 febbraio 2016

Antonio Francesco Albuzzi, Memorie per servire alla storia de' pittori, scultori e architetti milanesi. A cura di Stefano Bruzzese


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Antonio Francesco Albuzzi
Memorie per servire alla storia de’ pittori, scultori e architetti milanesi
Edizione critica a cura di Stefano Bruzzese


Milano, Officina Libraria, 2015 (ma 21 gennaio 2016)

Recensione di Giovanni Mazzaferro

Esce, finalmente, la prima edizione critica delle Memorie per servire alla storia de’ pittori, scultori e architetti milanesi, condotta su tre volumi manoscritti conservati presso la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Il primo costituisce – per così dire – l’opera base; il secondo contiene aggiornamenti e nuovi materiali, da inserire fra le carte del primo manoscritto; Il terzo raccoglie invece 43 ritratti di artisti che, nei piani dell’autore e secondo una tradizione che risale al Vasari, dovevano accompagnare i medaglioni biografici di ogni artista; quest’ultimo fascicolo ha il titolo di Museo Milanese ossia raccolta di ritratti di Pittori Scultori e Architetti della Scuola Milanese. Le Memorie dell’Albuzzi (di cui Giorgio Nicodemi ha fornito una trascrizione non priva di inesattezze apparsa sulla rivista L’Arte fra il 1948 e il 1956) non furono mai pubblicate. Albuzzi vi lavorò fra il 1772 e il 1778, e le lasciò largamente incomplete rispetto al progetto iniziale, che era quello di tracciare una storia dell’arte milanese (o, meglio, degli artisti nati a Milano e dintorni) fino agli anni contemporanei all’autore, escludendo solo i viventi. Stefano Bruzzese fornisce ora un’edizione annotata impeccabilmente, con apparati ricchissimi che ne permettono una piena fruibilità.


Paolo Petter, Ritratto di Antonio Francesco Albuzzi, 1802
Fonte: http://www.artevarese.com/museofondazionemacchi/benefattori/49

Questioni di metodo

E tuttavia è impellente chiarire una cosa: quest’edizione non è il frutto estemporaneo di un singolo studioso, ma fa parte di un progetto assai più ampio, volto a ricostruire i tasselli della storiografia artistica milanese. Una storiografia che – come noto – non conosce un’equivalente delle Vite vasariane, o di altri scritti di impronta smaccatamente regionalistica volta a confutare le tesi di Vasari (basti pensare al bolognese Malvasia); ma si nutre di tanti tentativi, di respiro più contenuto, che, a volte anche contraddicendosi, aggiungono di volta in volta elementi di conoscenza e di giudizio che lo studioso contemporaneo non può permettersi di tralasciare.  A tirare le fila di questo progetto è Giovanni Agosti; e dalla scuola di Agosti sono usciti i curatori di edizioni moderne che, sempre più in questi anni, ci permettono di contestualizzare testi che oggi potremmo facilmente consultare sull’internet, senza tuttavia un adeguato commento [1]. Ancora una volta rimando a quanto scrisse nel 1976 Giovanni Previtali nell’introduzione alle Vite del Bellori a cura di Evelina Borea; all’epoca Previtali operava una netta distinzione fra edizioni critiche e ristampe anastatiche, promuovendo le prime e bocciando le seconde, perché sostanzialmente inutili. Le fonti – sosteneva Previtali – vanno lette e rilette, non consultate.

Sono passati quarant’anni e nell’era dell’internet la rivoluzione tecnologica permette fortunatamente l’accesso a testi che mai avremmo pensato di poter reperire così facilmente. Eppure il metodo continua – e sempre continuerà – a venire prima del mezzo. Per cui credo opportuno chiarire lo spirito che ha animato Stefano Bruzzese riportando alcune righe tratte dal saggio introduttivo proprio di Giovanni Agosti:  “Il commento di Stefano, che procede per paragrafi, è volto […] a ricostruire quali sono stati gli strumenti di lavoro che materialmente Albuzzi ha avuto per le mani. Ogni citazione è stata sottoposta a verifica, fino a individuare di che edizione di un testo l’autore si sia avvalso o la collocazione odierna di un documento. Ne è sorta una carta geografica dell’erudizione di Albuzzi, che […] spazia da Muratori all’Encyclopédie, da Félibien a Mariette, non trascura i viaggiatori stranieri (francesi soprattutto), spulcia incunaboli e cinquecentine alla ricerca della menzione di artisti e si cala in campagne d’archivio tra le carte della Fabbrica del Duomo […]. Le note dell’edizione curata da Stefano non sono degli zoccoletti di bibliografia, tirati giù dai siti specializzati, ma sono frutti di controlli e verifiche, al servizio di una migliore comprensione del testo e della cultura del suo autore.”


Vincenzo Foppa, Crocifissione, Bergamo, Accademia Carrara. Citato a p. 47

Una fonte anomala

Tutto ciò chiarito, proviamo a evidenziare le peculiarità delle Memorie di Albuzzi. La prima, e forse la più evidente, è che l’iniziativa dell’impresa non parte dall’iniziativa di un erudito locale che emerge da un determinato milieu culturale. Nessuno si erge a difesa della superiorità della scuola pittorica milanese nei confronti di quella toscana; quel tipo di produzione letteraria si esaurisce (di fatto) con l’impresa “truffaldina” del napoletano De Dominici, che, a metà del Settecento, s’inventa di sana pianta nomi di artisti campani per sostenere il primato della scuola napoletana [2]. Qui, il merito di intraprendere l’impresa di una storia degli artisti milanesi è assunto dal governo austriaco, nell’ambito di una serie di iniziative volte a valorizzare la ricchezza (anche culturale) dei possedimenti lombardi. Il fatto più rappresentativo della politica del governo dell’imperatrice Maria Teresa è, senza dubbio, la fondazione dell’Accademia di Brera, nel 1776. Anche le Memorie dell’Albuzzi fanno parte di questo progetto. A dire il vero, la prima scelta austriaca non era Albuzzi, ma il domenicano Giuseppe Allegranza, esponente del mondo erudito milanese, che nel 1771 si vide rivolgere la richiesta di redigere l’opera. Allegranza all’epoca era (o diceva di essere) oberato di lavoro, motivo per cui suggeriva di girare la proposta ad Antonio Francesco Albuzzi (1738-1802), per molti versi un assoluto carneade. Di Albuzzi, Allegranza diceva che, per suo interesse privato, aveva già provveduto a raccogliere i ritratti di diversi pittori milanesi e che era senz’altro adatto allo scopo; ma in realtà ben poco sappiamo di questo ex-gesuita, proveniente da una famiglia della piccola nobiltà di Varese. Fatto sta che il nome di Albuzzi, alla fine, è quello che viene prescelto. I referenti dell’erudito varesino sono il console Carlo di Firmian e, soprattutto, il potentissimo Cancelliere dell’Impero, nonché ministro degli Affari Esteri Wenzel Anton von Kaunitz.

Von Kaunitz, in merito a questioni artistiche, era tutt’altro che uno sprovveduto. Oltre alla passione per il collezionismo, fu, ad esempio, merito suo l’istituzione delle Accademie di Belle Arti di Vienna e di Bruxelles. Le istruzioni che fornisce nelle sue lettere (presentate da Bruzzese nella sezione denominata Giornale delle Memorie) testimoniano l’idea alla base del progetto iniziale: una storia artistica dell’arte milanese dalla fondazione fino al 1760 circa, con la richiesta di aggiungere una parte finale sulla fondazione dell’Accademia di Maria Teresa; un’opera redatta “con una sana critica, per separare il superfluo dall’essenziale e utile” (merito che il Cancelliere riconosce ad Albuzzi sulla base di alcune biografie-pilota sottoposte al suo esame); in cui si evitasse di imitare i biografi italiani, “particolarmente i più moderni, per lo più ampollosi, ed esaltatori all’accesso de’ loro Patrioti”, ma si guardasse alla storiografia straniera, e, in particolare (“nel secolo filosofico”) all’esperienza illuminista francese; insomma, uno scritto in cui si senta “volentieri la verità, accompagnata da quelle inflessioni che i lumi, le cognizioni, e il sano criterio dell’uomo sensato somministrano”. Le raccomandazioni giungono fino all’uso del lessico: meglio non parlare nel titolo di “Elogi” perché non sembri che si tratti di un’opera troppo partigiana; e d’altro canto, piuttosto che scrivere di “biografie” adottare il termine “memorie”, perché spesso, con riguardo agli artefici cronologicamente più lontani, non si riesce a imbastire un profilo biografico. Meglio una suddivisione in “periodi” (che presuma quindi un’analisi stilistica) che in “secoli”. Kaunitz si spinge sino a proporre modalità di promozione commerciale dell’opera, la cui veste editoriale dovrà essere “sontuosa”, e suggerisce di ricorrere alle sottoscrizioni, secondo una modalità all’epoca molto in voga [3].


Cesare da Sesto, Polittico di San Rocco, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco. Citato a pp. 148-9
Fonte: http://urbanfilemilano.blogspot.it/2015/01/zona-porta-romana-la-chiesa-di.html


Nell’epoca delle Accademie

Come detto, le Memorie di Albuzzi sono largamente incomplete, arrivando di fatto al primo Cinquecento. Tuttavia il Discorso preliminare che l’autore redige, e che doveva precedere la rassegna degli artisti, ci permette di capire come l’erudito sia tutt’altro che insensibile alle richieste di Kaunitz. È sì vero che non manca il consueto cappello sull’antichità della scuola milanese (che immancabilmente troviamo in qualsiasi scritto dell’epoca, naturalmente declinato su realtà geografiche diverse a seconda di dove si stia scrivendo); tuttavia le vicende dell’arte milanese sono lette non in base a una scansione secolare, ma per periodi, e a delimitare ogni periodo sta l’apertura di un’accademia del disegno. Si parte quindi dalla creazione di una leggendaria Accademia trecentesca sotto gli auspici di Giovan Galeazzo Visconti per giungere all’Accademia di Leonardo; da Leonardo si descrive una parabola che porta l’arte milanese a raggiungere il suo apice nella seconda parte del Cinquecento e poi a declinare, fino all’istituzione dell’Accademia borromaica; e poi ancora, è citata la seconda Accademia, riaperta nel 1670, e un nuovo declino a cui – c’è da giurarlo – Albuzzi avrebbe contrapposto, alla fine dell’opera, la creazione dell’Accademia di Brera del 1776 da parte di Maria Teresa. La prospettiva, insomma, è quella di un neoclassicismo che rivisita secondo modelli rigidi una storia ben diversa. Non c’è da scandalizzarsene. Si tratta di prassi comune per tutti gli scrittori (non solo d’arte) dell’epoca. 


Butinone e Zenale, Polittico di San Martino, Treviglio, Basilica di San Martino e S. Maria Assunta. Cit. a p. 154
Fonte: Wikimedia Commons


Il confronto con le opere: un’occasione mancata

La lettura delle Memorie fa emergere immediatamente le difficoltà di Albuzzi quando posto di fronte alla necessità di produrre un’analisi stilistica. L’ex-gesuita è uomo di grandissima erudizione, e ha accesso ai materiali preziosissimi della Veneranda Fabbrica del Duomo (Kaunitz – incontentabile - vorrebbe che le sue ricerche si estendessero agli archivi dell’Ospedale Maggiore e delle Opere Pie) ; da qui la possibilità di estrapolare documenti preziosissimi. Ma ben difficilmente (e spesso dando giudizi sbagliati) si spinge a considerazioni di tipo personale sulle opere che vede. A volte nemmeno le vede, fidandosi ciecamente della letteratura precedente. Sicuramente non avverte l’esigenza di viaggiare per procedere all’ispezione oculare delle opere. Bruzzese ritiene di individuare nelle difficoltà di Albuzzi a “saper leggere” un’opera d’arte uno dei motivi che lo spinsero ad abbandonare l’impresa (gli ultimi interventi, stando alla documentazione oggi disponibile e a un esame delle fonti citate nei manoscritti della Veneranda Fabbrica sarebbero del 1778). Ve ne sarebbero testimonianze in alcune lettere pubblicate nel Giornale delle Memorie. Albuzzi, da un lato, non esita a scrivere di aver sempre temuto il giudizio del pubblico (maggio 1784) e se si compiace “d’aver fatto abastanza per appagare il Pubblico in ciò che riguarda la storia, la cronologia, e la critica, forz’è non di meno ch’io mi confessi d’altre cognizioni mancante, che sarebbero pur necessarie a una perfetta storia, rilevar volendo il carattere [n.d.r. lo stile] de’ Professori, e tacciarne i difetti, e del merito e del valore di essi, e delle Opere loro fondatamente” (lettera del 21 aprile 1778). È un elemento da non trascurare, anche se forse non l’unico [4]. Se così stanno le cose, Albuzzi segna il testimone fra un’esperienza erudita e storiografica di stampo muratoriano (dove a predominare è il documento sottratto all’oblio dei secoli) e la cultura dei conoscitori, che a Milano s’incarnerà già nella figura di Giuseppe Bossi.


Bernardo Zenale, Madonna con il Bambino tra San Giovanni Evangelista e San Giovanni Battista,
Denver Art Museum, Cit. p. 158
Fonte: http://creativity.denverartmuseum.org/1961_173/

L’architettura in evidenza

Non credo possa passare sotto silenzio il ruolo predominante (anche in termini di spazio) attribuito da Albuzzi ad architetti e scultori rispetto ai pittori. Probabilmente esiste un elemento contingente: l’ex-gesuita attinge a piene mani – come detto – ai registri della Fabbrica del Duomo, ed è dunque chiaro che trova nei documenti un maggior numero di informazioni soprattutto riguardo agli architetti. Ci sarà poi da tener conto, con riferimenti ai secoli più lontani, che gli edifici si conservano meglio delle pale d’altare (a proposito, Albuzzi non distingue mai fra tele e tavole), e che sono quindi prova più duratura di una presenza artistica. Esiste però una predilezione dell’autore nei confronti della disciplina, predilezione che lo porta a progettare di inserire nell’opera, oltre ai ritratti degli artisti contenuti nel terzo manoscritto, anche rilievi architettonici di edifici. E non è da trascurarsi qualche elemento di originalità nel commento.

Certamente non originale è il giudizio più che negativo sul gotico. Scrive Albuzzi nel suo Discorso preliminare, parlando dei primi architetti del Duomo: “Ma la sventura di questi uomini fu quella di essersi avvenuti in un tempo in cui la Gotica corruttela aveva alterata ogni idea di semplicità e di proporzione. Tutto era svelto e leggiero, traforato a giorno e fregiato profusamente a merletti, a colonnette, a gocciuole, ad altri capricciosi ornati d’opera graticolata. Tale fu la maniera di fabbricare fra noi coltivata fino all’anno 1481 in cui seguì la morte di Boniforte Solari, ultimo fra i seguaci di questa bizzarra architettura” (p. 6) [5].

Più strano che, quando si parla dell’epoca di Ludovico il Moro, non si riconosca in Bramante l’apice della storia dell’architettura milanese (valutata naturalmente secondo criteri classici). Un giudizio di tal tipo veniva espresso, ad esempio, da Venanzio de Pagave, altro erudito dell’epoca, che a Bramante consacrava buona parte dei suoi studi [6]. Per Albuzzi si afferma invece uno stile che definisce con espressione insolita “semigotico, il quale sebbene per lo tritume e per la eccessiva minutezza delle parti fosse poco men difettoso del primo, era però fondato sulla norma de’ buoni antichi ordini, né d’altro che di tempo abbisognava per arrivare al sommo della perfezione” (p. 7). Ancora una volta, stando ad Albuzzi, è alla fine del Cinquecento che l’architettura raggiunge i livelli più eccelsi: “Ma se questi architetti [n.d.r. Galeazzo Alessi e Vincenzo Seregni] avevan fatto rivivere la magnificenza e lo sfarzo degli antichi romani edifizi, Pellegrino Tibaldi e l’emolo suo Martin Bassi ebbero poscia la gloria di averne felicemente imitata la maestosa elegante semplicità” (p. 8).

Agostino Busti detto il Bambaja, Monumento funebre a Gastone di Foix, Milano, Musei del Castello Sforzesco, cit. p. 179
Fonte: Wikimedia Commons

Le assenze illustri

Il manoscritto giunge sino agli inizi del Cinquecento. Se si tien conto che l’opera doveva giungere fino al 1760 si ha un’esatta misura di quanto lontano dalla riva navigasse Albuzzi. Peraltro l’ordine con cui le memorie riferite agli artisti sono presentate non è per nulla chiaro, non seguendo sempre un andamento cronologico. E, ulteriore dato di cui tener conto, anche la trattazione fino agli inizi del Cinquecento non può certo dirsi completata: l’assenza di tre nomi come Bramantino, Bernardino Luini e Gaudenzio Ferrari è indicativa (due di essi – Luini e Gaudenzio – compaiono nella lista dei 43 pittori di cui Albuzzi fa cavare il ritratto, segno che una biografia doveva essere comunque prevista; circostanza analoga menzionata in una lettera a Giacomo Carrara del 1778 per quanto riguarda Bramantino.)


Facciata della Certosa di Pavia
Fonte: Wikimedia Commons

La fortuna delle Memorie

Bruzzese dedica una ventina di pagine del suo commento iniziale a tracciare la fortuna delle Memorie dell’Albuzzi. Sono indicazioni particolarmente preziose. Pur lungi dall’essere concluso, il manoscritto dell’ex-gesuita fu considerato di particolare interesse da studiosi come il Calvi, che nel 1859 pubblica le Notizie sulla vita e sulle opere dei principali architetti, scultori e pittori che fiorirono in Milano durante il governo dei Visconti e degli Sforza, la prima opera dedicata alla storia dell’arte milanese. Qui Gerolamo Calvi cita le note dell’Albuzzi e non attribuisce loro grandissima importanza, ma, di fatto, le saccheggia.

Non corriamo troppo, e facciamo un passo indietro. Esiste, e Bruzzese lo ripercorre puntigliosamente, un sentiero che fra gli inizi dell’Ottocento e il 1840 circa vede le Memorie di Albuzzi passare nelle mani di vari appassionati ed eruditi, che provano a loro volta, dopo il fallimento dell’ex-gesuita, a lavorare attorno al progetto della storia dell’arte milanese. Apprendiamo quindi che i manoscritti passano prima nelle mani di Pietro Custodi; da costui a Giuseppe Bossi; dal Bossi a Gaetano Cattaneo (1816); da Cattaneo a Ignazio Fumagalli (1841); dagli eredi Fumagalli alla biblioteca del conte Gaetano Melzi (1842). Sin dai tempi di Bossi i materiali non si limitano alle sole Memorie; vi sono altri manoscritti (di cui è autore, ad esempio, Venanzio de Pagave) che costituiscono un preziosissimo nucleo storiografico per l’arte milanese. Tale nucleo, molto probabilmente (esiste una flebile speranza che non sia così, ma non è stata ancora verificata) va perso nel corso della II Guerra Mondiale, sotto i bombardamenti che distruggono Palazzo Melzi.

Il manoscritto di Albuzzi viene consultato da diversi conoscitori stranieri in occasione dei loro viaggi italiani. È certo, ad esempio, che di essi si servì Johann David Passavant nei lavori preparatori ai nove articoli pubblicati nel 1838 sulla rivista Kunst-Blatt, recentemente pubblicati in italiano a cura di Alfonso Litta col titolo Contributi alla storia delle antiche scuole di pittura in Lombardia (1838) [7]. All’epoca si trovavano ancora presso il Cattaneo. Entro il 1851 li vede e li consulta il francese Alexis-François Rio, che li utilizza per trarne notizie inedite per il suo Léonard da Vinci et son école (1855). Ma la visita più importante è quella avvenuta nel 1845 da parte di MaryPhiladelphia Merrifield, straordinaria figura di ricercatrice, inviata dal governo inglese nell’Italia del Nord perché indagasse negli archivi sulle tecniche degli antichi maestri italiani [8]. Merrifield utilizza i materiali consultati (presso Melzi) solo marginalmente all’interno dei suoi Original Treatises on the Art on Painting (1849), ma per poterli leggere con maggiore comodità ne trae (o ne fa trarre) una copia, che oggi è conservata presso il Victoria and Albert Museum con segnatura ms 86 FF 74. Si tratta di una copia parziale, che però ci permette di affermare che il codice melziano (perso coi bombardamenti) conteneva un elenco di artisti meno completo rispetto a quello del testimone conservato oggi presso la Veneranda Fabbrica del Duomo. Bruzzese ritiene che la versione di cui Merrifield produce una copia sia del 1776, mentre quella su cui è condotta la presente edizione critica sia aggiornata al 1778 circa.

Il curatore non si limita a segnalare le mancanze nella copia del Victoria and Albert Museum, ma dà conto anche delle (poche) righe che invece lì compaiono, e mancano nel testimone Nicodemi. Ne risulta così la creazione di uno scarno ma utile apparato filologico (pp. 306-310), che, assieme alla trascrizione di dodici foglietti sciolti che si trovano all’interno del tomo III delle Memorie (quello dei ritratti, per capirci) e a quella del carteggio intercorso fra Albuzzi e il conte bergamasco Giacomo Carrara fa capire – se mai vi fossero ancor dubbi - quale sia il livello qualitativo di questa edizione critica.


NOTE

[1] Ne citerò solo due che sono state recentemente recensite sul blog Letteratura artistica: Chiara Battezzati, Carl Friedrich von Rumohr e l’arte nell’Italia settentrionale in Concorso. Arti e lettere, 2009, n. III; e Johann David Passavant, Contributi alla storia delle antiche scuole di pittura in Lombardia (1838), a cura di Alfonso Litta, Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2014 (ma 2015).

[2] Mi scuso preventivamente per l’eccessiva semplificazione. È un dato storico che De Dominici sia stato definito “falsario napoletano” da Benedetto Croce. Ciò detto, la recente edizione critica curata da Fiorella Sricchia Santoro e Andrea Zezza fa giustizia di giudizi troppo drastici.

[3] Tutte le citazioni sono tratte dalle lettere G10 (pp. LXVIII-IX) e G41 (p. LXXXIII) del Giornale delle Memorie.

[4] In una lettera del luglio 1779 l’Allegranza (che evidentemente ha continuato a seguire le vicende delle Memorie, e forse si trova un po’ in imbarazzo, perché l’opera non procede e il nome di Albuzzi lo ha caldeggiato lui) dice che l’ex-gesuita è disgustato e non vuol saper più nulla dell’opera. Il che farebbe propendere, più che per la maturata coscienza di una personale inadeguatezza, per un torto subito. A questo proposito si potrebbe ricordare che Albuzzi fu nominato nel 1776 “segretario interinale” della neonata Accademia di Brera e che nel 1778 venne man mano estromesso dall’incarico a favore del bolognese Carlo Bianconi. Mi rifiuto di pensare che Stefano Bruzzese non ci abbia pensato. Semplicemente valgono – ancora una volta – le parole di Giovanni Agosti nell’introduzione dove si segnala che il vero rischio del volume era “trasformare questo commento in un’arca delle meraviglie, dove infognare scoperte o ipotesi di ogni tipo, con gradi diversi di plausibilità”.  

[5] Va pur detto che, più avanti, nelle righe dedicate alle memorie di Boniforte, Albuzzi riconosce: “Questo Architetto ha seguito nelle forme de’ suoi Edifizj la maniera Gotica, difetto dell’età in cui visse, ma ha avuto bastante discernimento per evitarne il più mostruoso” (p. 65).

[6] I due scrivevano in sostanza contemporaneamente, ma non risulta una reciproca frequentazione. Né doveva esserci troppa stima, se de Pagave in una sua lettera del 1777 definisce l’Albuzzi “soggetto di molta erudizione, ma che nulla s’intende di pittura” (p. LXXVIII)

[7] Johann David Passavant, Contributi… cit.

[8] Sul viaggio italiano di Mary Philadelphia Merrifield mi permetto di rinviare a Giovanni Mazzaferro, Mary Philadelphia Merrifield in Italia. Parte I: Piemonte e Lombardia e Parte II: Emilia e Veneto, pubblicati sul blog Letteratura artistica rispettivamente il 23 e il 25 giugno 2014.https://letteraturaartistica.blogspot.com/2017/12/pierre-jean-mariette.html

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