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Hans Ulrich Obrist
Lives of the Artists, Lives of the Architects
[Vite degli Artisti, Vite degli Architetti]
London, Allen Lane, 2015, 544 pagine
(recensione di Francesco Mazzaferro)
Parte Terza: Arte e architettura in interazione
Parte Terza: Arte e architettura in interazione
[Versione originale: gennaio-febbraio 2016 - nuova versione: aprile 2019]
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Fig. 3) L'edizione tascabile pubblicata da Penguin Books nel 2016 |
Il museo Guggenheim di Frank Lloyd Wright ha inaugurato alla fine degli
anni Cinquanta la grande stagione dei musei d’arte contemporanea progettati e
realizzati dalle ‘archistar’: il museo diviene luogo d’incontro privilegiato
tra le due discipline. Eppure proprio il Guggenheim non incontra il favore di
alcuni degli interlocutori di Obrist, ed anzi rappresenterebbe l’antitesi del
vero dialogo tra arte ed architettura.
Il pittore britannico Richard Hamilton (1922-2011) - che pur dichiara che
“è uno dei pochi edifici che ammiro” – lo definisce uno dei musei più criticati
perché prevaricherebbe l’arte che ospita [43]. L’architetto canadese Frank
Gehry (1929-), maestro del decostruttivismo, si spiega in termini più netti:
“Quando Frank Lloyd costruì il Guggenheim a New York, a lui non importava nulla
dell’arte contemporanea. Non gli interessava affatto. Pensava solamente ai
pannelli giapponesi nelle tokonomas [n.d.r: le alcove tradizionali nelle casi
giapponesi, in cui sono tradizionalmente appese pergamene] e perciò costruì
piccole nicchie con pannelli, e fece modo che la luce vi entrasse e fosse bello
da vedere. Ma per l’arte era terribile. E tuttavia per 25 anni, la curatrice
del Guggenheim Diane Waldman ha organizzato alcune mostre memorabili in
quell’edificio, disponendo di uno spazio terribile per l’arte (era l’unico
edificio che aveva), ma usandolo bene. L’ha usato perfettamente per alcune
mostre, anche se per altre non ha funzionato. Non ha funzionato con Rothko.
Quando hanno portato le opere di Rothko, era come se in quello spazio si sentissero scomode. Flavin: fantastico. Calder: fantastico. (…) E ci sono state
molte altre grandi mostre di pittura. (…) Insomma, [n.d.r. in questo caso]
l’architettura crea un elemento avverso: ma è come il granello di sabbia
nell’ostrica, l’elemento irritante che produce la bella perla. Durante gli
anni, è stato possibile produrre la bella perla all’interno del Guggenheim.
Questo ti dimostra che un edificio, sebbene in linea di principio possa essere
un disastro, può essere ben utilizzato.” [44]
Il museo come luogo di complicità tra arte ed architettura
Per Gehry il rapporto tra architettura ed arte deve essere invece di piena
complicità. Infatti, arte ed architettura sono la medesima cosa: “Prima di
tutto, c’è l’eterna discussione se uno sia un architetto o un artista o se sia
entrambe le cose allo stesso tempo. È una discussione stupida perché ovviamente
nella storia ci sono stati uomini che furono entrambe le cose, come Borromini e
Michelangelo.” [45] Gehry è un uomo colto: parla di Giorgio Morandi e delle sue
nature morte come fonte della sua architettura [46]. Discute dei disegni di
Leonardo, i cui originali ha potuto esaminare [47]. Tuttavia “nel mondo
contemporaneo, la stampa e gli artisti, tutti, hanno diviso l’arte in due
sistemi: uno deve occuparsi dell’esecuzione tecnica e l’altro è puro.” [48] Una
volta affermato questo principio di specializzazione, è solamente il dialogo
tra il committente, l’artista e l’architetto – secondo Gehry – a poter
ristabilire l’unità originaria. “È interessante lavorare con gli artisti perché
nella maggioranza dei casi non sanno come mostrare i loro lavori. Hanno bisogno
di un editore. Per questo c’è bisogno di un curatore! Ed è stato interessante
giocare un ruolo nello spazio che si crea tra il curatore, l’artista e
l’edificio. (…) Ho sempre cercato di capire il carattere dell’artista. E tento
di farlo grazie agli edifici. Cerco di fare l’opera parte della persona che la
commissiona. (…) Il cliente è molto importante. Agire con lui rende le cose
sempre migliori. Lavorare con Tom Krens a Bilbao [n.d.r.: il direttore della
Fondazione Guggenheim] è stato straordinario.” [49]
Anche per l’architetta Kazuyo Sejima (1959-) ed il suo collega Ryue
Nishizawa (1966-), entrambi giapponesi (hanno uno studio conosciuto in tutto il
mondo come SANAA), arte ed architettura sono parte di un unicum. Ryue Nishizawa
lo afferma con forza: “Nella storia dell’architettura, quando si considera la
storia della collaborazione tra architettura e belle arti, mi sembra che ci sia
stato qualcosa di unificante sin dall’inizio. Ad esempio, se si guarda ad
edifici giapponesi antichi come il Hōryū-ji, un singolo pilastro, si tratta già
di un’opera d’arte. Può servire come contenitore ad una statua di Buddha, ma al
tempo stesso ci sono decorazioni precise sull’edificio. In altre parole: arte
ed architettura non possono essere separate. E se si pensa all’architettura
europea, è lo stesso. In questo senso, l’essere umano, in modo subcosciente,
crea una prossimità molto forte tra architettura e belle arti.” [50]
Quanto al museo, Ryue Nishizawa ritiene che l’aspetto fondamentale sia il
“rapporto tra contenuto e forma. Quel che si intende come contenuto sono ‘i
programmi’: quale uso le persone fanno del museo. Insomma, vi è la forma ed il
modo in cui è usata dagli esseri umani: necessariamente vi è una relazione tra
loro. Per esempio, ci sono alcune stanze molto larghe, altre molto piccole e,
in entrambi i casi, il carattere delle opere d’arte cambia. Questa relazione
tra contenuto e forma è a mio parere uno dei temi interessanti
dell’architettura. Un contenuto interessante genera un’architettura
interessante e vice versa. C’è un’interazione; ognuno dà un significato
all’altro. Questo fenomeno si può osservare sia nelle abitazioni come pure nei
musei.” [51]
Ed è ancora una volta Gehry a riflettere sul ruolo dell’architettura nel
valorizzare l’opera d’arte: “Io penso si possa riuscire, in ultima analisi, a
far funzionare ogni cosa. Puoi disporre ovunque qualsiasi cosa, se vuoi
realmente, e farla funzionare. Un dipinto si sostiene da solo. Ma il contesto
cambia certamente il modo in cui un’opera d’arte può essere vissuta. Mi ricordo
l’esperienza, tempo fa, al Kunsthistorisches Museum di Vienna, quando vidi
quattro Brueghel in una sala tradizionale con rivestimento in legno, pareti in
stoffa blu, il lucernaio e il pavimento in legno e mi sembrarono
incredibilmente grandi. Non lo dimenticherò mai. E poi, qualche anno dopo, sono
tornato ed avevano rimodellato il museo: avevano messo i quattro Brueghel in
una piccola stanza con un soffitto di due metri e mezzo ed io entrai ed i
Brueghel sembravano piccoli così. Ma in realtà non erano né così grandi né così
piccoli [n.d.r.: le dimensioni originali sono circa 115 cm x 150 cm]. Così, è
la diversa percezione di luoghi differenti a fare la differenza. Anni fa vidi
un minuscolo Paul Klee in Corea in una galleria della Samsung con un soffitto
di sei metri, ed il piccolo dipinto era incredibile: poteva reggere la stanza
intera, rubare lo spazio. Abbiamo appena rinnovato la Galleria d’arte
dell’Ontario a Toronto dove abbiamo
dipinti di piccole dimensioni. Va detto che lì abbiamo stanze con un
soffitto di 13 metri perché non potevamo inserire un altro piano – volevo avere
la luce naturale dall’alto. Là ci sono piccoli quadri canadesi e funziona a
meraviglia. Insomma, se fai queste stanze sterilizzate a forma di scatola, se
divengono troppo sterilizzate, entrano persino in conflitto con l’arte. L’Arte
Povera, per esempio, non si concilia con alcuni di questi spazi.” [52]
La ricerca di espressività, il rifiuto della struttura tradizionale con
stanze a geometria regolare, ed il superamento del museo come pura ‘scatola’
caratterizzano anche l’architetta irachena Zaha Hadid, molto conosciuta in
Italia per il suo MAXXI a Roma. È lei a teorizzare l’idea di un’architettura
articolata, non lineare, come conseguenza diretta della complessità urbanistica
delle nostre città, ormai abitate da una popolazione molto eterogenea per
attività, etnia, genere, ecc.. e dunque non riconducibile ad un modello sociale
uniforme. Il museo come ‘scatola bianca’ appartiene invece al passato di città
socialmente più uniformi.
“La discussione [n.d.r. sulla complessità sociale] ci porta a parlare
dell’idea di museo come ‘scatola bianca’ [‘white box’] e ad interrogarci se la
scatola bianca ci offra il massimo della flessibilità. Ai nostri giorni
l’architettura produce varietà (la varietà dello spazio) perché i curatori
danno una grandissima varietà di interpretazioni allo spazio quando disegnano
le mostre. Nei musei la questione non è semplicemente quella di come esporre
l’arte, ma anche di come, interpretando la complessità, i curatori possano
interpretare diversi contatti e diverse connessioni” [53]. I musei debbono
dunque essere disegnati per poter ottenere il massimo della varietà degli
interni, con il solo limite dei vincoli spaziali, come al Centro per l’arte
contemporanea di Cincinnati: “La mia intenzione era di trasformare le stanze in
senso verticale, dal momento che il sito era molto piccolo. E poiché si tratta
di uno spazio verticale, la circolazione all’interno del museo è molto
importante. I molti e differenti sistemi di scale sono essenziali perché sono
interconnessi tra loro. In tal modo si può avere una varietà infinita di spazi
all’interno di questo gruppo di strutture: da stanze molto piccole solamente
per proiezioni a spazi molto vasti, per le esposizioni più grandi.” [54]
Il rapporto tra arte ed architettura è strettissimo anche nel caso dei due
architetti giapponesi dello studio SANAA già citati. Ryue Nishizawa ci spiega:
“Quando lavoro a progetti museali ho spesso l’impressione che si tratti di uno
spazio architettonico disegnato da un architetto, ma anche l’impressione,
differente, che si tratti di un luogo dotato di atmosfera artistica. Gli
artisti installano i loro progetti nelle stanze, ma in realtà io credo che i
loro progetti inizino prima del loro ingresso nelle stanze. L’esperienza di un
museo, la sua architettura, deve moltissimo al pubblico. Il caso del Museo
d’arte di Teshima è davvero speciale, perché vi è una sola stanza ed ospita
solamente un’artista, la signora Rei Naito. Le è stato chiesto di realizzare
una sola opera [n.d.r: Matrix]. La gente viene anche da molto lontano, persino
da Tokyo, per immergersi nella natura dell’isola e camminare fino al museo.
Ovviamente, questo percorso è anche parte del mio progetto. È impossibile
separarli. È un’esperienza che noi condividiamo. Per questo ho deciso di fare
questo tipo di collaborazione, di parlarne con lei, di decider insieme ogni
singolo dettaglio dell’architettura ed al di fuori di essa, nel paesaggio.”
[55]
L’architetta Kazuyo Sejima aggiunge: “Gli spazi per mostre sono
particolarmente complessi. Intendo dire che l’architettura non dovrebbe essere
troppo visibile. Al tempo stesso non è sufficiente che sia un semplice fondale.
È necessario considerare in modo corretto la relazione tra spazio espositivo ed
oggetti esibiti. Non si tratta assolutamente di un compito lineare. Ma una
delle esperienze che possiamo trarre da Kanazawa, da una delle gallerie che
abbiamo disegnato per essere usate dagli artisti, è che lo spazio stesso assume
una dimensione differente a seconda dell’arte che è ospitata al suo interno.
Per esempio, se uno installa un oggetto molto piccolo in una stanza molto
larga, quell’oggetto è percepito in maniera molto più forte. O a volte lo
spazio può sembrare compresso. Ovviamente, nulla cambia a livello
dell’architettura, le dimensioni rimangono fisse, ma ogni volta nasce un nuovo
spazio. La possibilità di avere una collaborazione ottimale con un artista è
un’esperienza unica.” [56] Se dunque per Gehry era l’opera d’arte (i dipinti di
Brueghel) ad assumere connotazioni diverse a seconda dello spazio, qui è lo
spazio ad essere diversamente definito dall’opera d’arte.
Tempo, arte ed architettura
Vi è un architetto a cui Obrist fa riferimento sei volte nel corso del suo
volume, additandolo come modello del dialogo tra arte e architettura, pur non
presentando un’intervista con lui. Si
tratta dell’inglese Cedric Price (1934-2003), le cui conversazioni con Obrist
sono invece raccolte nel volume numero 21 della “Conversation series”,
pubblicato nel 2009. Negli anni ‘60 Price lavorò al progetto, mai realizzato,
del Fun Palace, un palazzo dei divertimenti straordinariamente innovativo: “Una
struttura flessibile in un grande cantiere navale meccanizzato sul quale, a
seconda delle differenti situazioni, si sarebbe potuto costruire molte
strutture dall’alto.” [57] I disegni per il Fun Palace contribuirono al
rinnovamento dell’architettura e ispirarono una nuova generazione di
architetti, servendo fra l’altro come punto di riferimento per la costruzione
del Centre Pompidou a Parigi negli anni ‘70. Obrist ne parla con l’artista
francese Philippe Parreno (1964-): “La centralità [n.d.r. in quel progetto] di
edifici temporanei destinati a sparire dopo un breve periodo, invece di edifici
finiti, lo ha reso leggendario” [58]. Nella prefazione al volume d’interviste
con Price, Obrist scrive: “I suoi temi principali sono quelli del tempo e del
movimento. Centrale nel suo pensiero e nel suo lavoro è la sua opposizione alla
permanenza e la sua discussione del cambiamento. I progetti di Price sono una
sfida continua ai tradizionali limiti fisici dello spazio architettonico e
tracciano le traiettorie del tempo. La sua convinzione che gli edifici debbano
essere sufficientemente flessibili da consentire a chi li usa di adattarli in
modo da servire i bisogni del momento riflette la sua convinzione che il tempo
– oltre a larghezza, lunghezza ed altezza – sia la quarta dimensione del
progetto architettonico.” [59] Secondo Obrist la dimensione temporale, che fa
la sua irruzione nelle esposizioni temporanee di opere d’arte [si veda la Parte prima], diviene perciò –
in parallelo – anche una delle caratteristiche dell’architettura.
Si teorizza perciò la realizzazione di ibridi effimeri, che offrano
all’artista visivo maggiore libertà esecutiva che in una mostra. Sembra un
paradosso, dal momento che l’architettura dovrebbe suscitare l’impressione
dell’eternità e l’arte figurativa dell’effimero, ma la tesi dell’artista è
esattamente il contrario: “In un progetto d’architettura per cambiare una porta
bastano due ore, ma in un museo possono essere necessarie una settimana o
addirittura un mese. Quando si costruisce un palco per un concerto in un solo
giorno, si realizza di più in termini di attività di quanto si faccia in una
galleria nello spazio di un anno. Quando si è già sperimentata la terribile
accuratezza e lentezza che accompagnano perfino le più piccole modifiche nel
mondo dell’arte, si perde un po’ la pazienza. Ovviamente, è normale che ogni
sistema abbia la propria velocità, ma una volta che ci si è abituati a lavorare
ad un ritmo differente, è davvero difficile tornare ad una situazione dove
dipingere anche una piccola parete è un problema. Le pareti nei musei sono
considerate come se fossero tele ancora bianche, tanto che il più piccolo gesto
diviene monumentalmente importante. Sono davvero stanca di tutto ciò.” [62]
Sembrerebbe un’eresia, ma anche l’architetto olandese Rem Koolhaas (1944-)
conferma che il tempo è divenuto uno dei fattori principali di cui deve tener
conto l’architetto, anche se le sue conclusioni sono diverse. Certamente, da un
lato vi sono due fattori di accelerazione: i committenti cercano di reagire
all’accelerazione della storia richiedendo che i progetti vengano portati a
termine in un lasso di tempo sempre più ristretto; e la vita degli edifici
appena costruiti non va al di là dei venticinque anni. Dall’altro la fisicità
dell’architettura fa di essa l’ultima linea di resistenza contro un mondo
frenetico ed assurdo. La tensione tra lentezza e velocità diviene l’elemento di
maggiore interesse dell’architettura.
“Non vi è più alcun elemento di certezza su cui si possa contare. E quel
che è interessante è che i clienti cercano di neutralizzare questa situazione
accelerando sempre più il ritmo complessivo dell’architettura. Gli edifici che
una volta avremmo costruito in due anni devono essere edificati in uno solo.
(…) Non avrei mai immaginato (…), quando scoprimmo che alcuni edifici a Shenzen
venivano ultimati in due pomeriggi su un computer, che due o tre anni dopo ci
saremmo trovati nella stessa situazione. Ma ci siamo. E tuttavia, capiamo che
non siamo sufficientemente veloci e che l’architettura non può essere
abbastanza veloce.” “Ci sono conseguenze per la durata della vita degli
edifici?“ chiede Obrist. “Sì, ed è uno degli aspetti più interessanti. Questo è
il progetto che abbiamo ultimato per ‘La Defense’ a Parigi, dove abbiamo
considerato che ogni cosa che fosse stata edificata da più di 25 anni fa
dovesse essere abbattuta, in modo da poter costruire una città nuova sul sito
della vecchia. A quel tempo è stata considerata un’idea visionaria ed un
oltraggio. Di recente ho fatto una presentazione della stazione di Rotterdam,
dove ci sarà un treno super-veloce TGV, e di nuovo ho lanciato l’idea che dopo
venticinque anni si possano dichiarare gli edifici come ridondanti perché sono
così mediocri, e questa volta vi è stata solamente una specie di risatina
controllata nervosamente.” [63] (…)
“Qual è il rapporto tra lentezza e velocità?” “Rimane una tensione molto forte
- risponde Koolhaas - ed in questo senso
è davvero interessante vedere questo mezzo – l’architettura – che è oggi sempre
più popolare, aver al tempo stesso una specie di resistenza intrinseca a
seguire completamente la tendenza attuale, che è verso l’accelerazione. Forse
vi è una contraddizione irrisolvibile nell’architettura: può accelerare, ma vi
è anche un tipo di resistenza interna, forse più della televisione, dei film o
della musica, e forse è questa la ragione per la quale oggi è così
interessante.” [64]
Koolhaas cerca di risolvere la contraddizione esattamente nel luogo in cui
arte ed architettura si incontrano: il museo. Presenta progetti per la Tate
Gallery di Londra, il MoMa di New York e la biblioteca di Seattle dove sono
possibili due tipi di visite, quella veloce e quella più approfondita,
regolando in modo diverso il flusso del pubblico, secondo due canali paralleli.
Koolhaas si rivolge ad Obrist: “tu parli spesso dell’età d’oro del MoMa, degli
‘anni laboratorio’, e sono stati bei tempi, ma non penso che vi possa essere un
laboratorio che è visitato da due milioni di persone all’anno. È per questa
ragione che le mie biblioteche ed i miei musei cercano di organizzare la
coesistenza delle esperienze urbane, con il loro rumore, e le esperienze che consentano
concentrazione e lentezza. Questo è il modo di pensare più avvincente per me:
l’incredibile arrendevolezza ad un mondo effimero e come ciò possa essere reso
compatibile con la seduzione della concentrazione e della lentezza.” [65]
Contro la dissoluzione di arte ed architettura
Obrist non dimentica le voci di coloro che reclamano un’arte ed
un’architettura semplicemente monumentali. Per il grande architetto brasiliano
Oscar Niemeyer (1907-2012) – uno dei centenari intervistati da Obrist – la
funzionalità (ovvero la capacità del museo di valorizzare l’opera d’arte) non
può bastare. Nel momento in cui dichiara “voglio fare un’architettura che
esplori il rapporto tra arti differenti” [66], per lui l’aspetto decisivo di
quel rapporto è quello estetico. “Un museo deve aver l’aria di essere un museo.
(…) Invece ci sono molti musei, anche a New York, lungo i quali uno può
passeggiare e non si accorgerà che cosa siano, a meno che non vi sia scritto
che è un museo. Ah no, un museo deve dare l’idea di essere realmente un museo.”
[67] L’architettura è arte:
“L’architettura è invenzione. Possiamo ottenere il risultato giusto da un
progetto, ma inventare qualcosa è un conto diverso. L’architettura non può
semplicemente consistere nel disegnare un edificio che funzioni bene; deve
essere anche bello, differente, sorprendente, non è vero? Infatti, la sorpresa
è l’elemento principale in un’opera d’arte.” [68] Sir Forman Foster, che
partecipa alla conversazione a tre con Obrist, aggiunge: “Camminare lungo le
rampe [n.d.r del Museo d’arte contemporanea a Niterói] oggi è stata una grande
esperienza. Insomma, prima di entrare nell’edificio c’è questa cerimonia
meravigliosa… E le rampe sono come una danza nello spazio, che ti permette di
vedere l’edificio da prospettive diverse prima di entrare. E ciò mi sembra
magico. Assolutamente magico.” [69]
Il pittore tedesco Gerhard Richter (1932-) delinea a sua volta un vero e
proprio manifesto contro la ‘dissoluzione dell’architettura’ e a favore di
un’interpretazione più concreta e persino politica di essa. La sua
conversazione ci fa comprendere la sua passione per l’architettura e il suo
desiderio di un ritorno a forme classiche e tradizionali, sia in termine di
stile sia in termini di stili di vita, dopo gli anni della sperimentazione. È
lui che prima si interessa a dipingere case come testimonianza di situazioni
politiche e sociali diverse e poi progetta la propria casa.
La prova di quanto classica possa essere la concezione spaziale di Richter
è la sua vetrata per il Duomo di Colonia, con cui egli decide di fare
architettura nel più classico dei sensi.
“La vetrata del duomo è qualcosa di molto concreto, attuale, e si trova in
un luogo molto speciale, pieno di storia e di grande significato, come pochi
altri. Tutto ciò è talmente importante che aggiungere arte moderna può spesso
apparire soffocante, falso, ridicolo o kitsch. Per evitare questo rischio ho
affrontato lo spazio in modo molto pragmatico: qual è l’aspetto del duomo e
come viene usato? In tal modo ho evitato di voler rappresentare qualcosa di
particolare: né una raffigurazione dei santi, né un messaggio divino ed in un
certo modo neppure arte. Si tratta solamente di una bella vetrata splendente, la
più eccellente e bella e piena di significato che io possa fare a tutt’oggi.”
[72]
Fine della Parte Terza
Vai alla Parte Quarta
NOTE
[44] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 132-133.
[45] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 135.
[46] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 136.
[47] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 142.
[48] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 135.
[49] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 131.
[50] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 452.
[51] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 450.
[52] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 133-134.
[53] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 505
[54] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 506
[55] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 468-469
[56] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 452
[57] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 360.
[58] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 360.
[59] Obrist, Hans Ulrich – Cedric Price, The Conversation Series 21, Colonia, Verlag der Buchhandlung Walther König, 2009, p. 170. Citazione a pagina 9.
[52] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 133-134.
[53] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 505
[54] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 506
[55] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 468-469
[56] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 452
[57] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 360.
[58] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 360.
[59] Obrist, Hans Ulrich – Cedric Price, The Conversation Series 21, Colonia, Verlag der Buchhandlung Walther König, 2009, p. 170. Citazione a pagina 9.
[60] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 58-59
[61] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 57.
[62] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 57-58.
[63] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 413.
[64] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 414.
[65] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 415.
[66] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 344.
[61] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 57.
[62] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 57-58.
[63] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 413.
[64] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 414.
[65] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 415.
[66] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 344.
[67] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 345-346.
[68] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 334
[69] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 338
[70] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 171
[71] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 172
[72] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 178
[73] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 176
[68] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 334
[69] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 338
[70] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 171
[71] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 172
[72] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 178
[73] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 176
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