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venerdì 29 gennaio 2016

Hans Ulrich Obrist. [Vite degli Artisti, Vite degli Architetti]. Londra, 2015. Parte Terza


English Version

Hans Ulrich Obrist
Lives of the Artists, Lives of the Architects
[Vite degli Artisti, Vite degli Architetti]

London, Allen Lane, 2015, 544 pagine
(recensione di Francesco Mazzaferro)

Parte Terza: Arte e architettura in interazione 

[Versione originale: gennaio-febbraio 2016 - nuova versione: aprile 2019]

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Fig. 3) L'edizione tascabile pubblicata da Penguin Books nel 2016

Il museo Guggenheim di Frank Lloyd Wright ha inaugurato alla fine degli anni Cinquanta la grande stagione dei musei d’arte contemporanea progettati e realizzati dalle ‘archistar’: il museo diviene luogo d’incontro privilegiato tra le due discipline. Eppure proprio il Guggenheim non incontra il favore di alcuni degli interlocutori di Obrist, ed anzi rappresenterebbe l’antitesi del vero dialogo tra arte ed architettura.

Il pittore britannico Richard Hamilton (1922-2011) - che pur dichiara che “è uno dei pochi edifici che ammiro” – lo definisce uno dei musei più criticati perché prevaricherebbe l’arte che ospita [43]. L’architetto canadese Frank Gehry (1929-), maestro del decostruttivismo, si spiega in termini più netti: “Quando Frank Lloyd costruì il Guggenheim a New York, a lui non importava nulla dell’arte contemporanea. Non gli interessava affatto. Pensava solamente ai pannelli giapponesi nelle tokonomas [n.d.r: le alcove tradizionali nelle casi giapponesi, in cui sono tradizionalmente appese pergamene] e perciò costruì piccole nicchie con pannelli, e fece modo che la luce vi entrasse e fosse bello da vedere. Ma per l’arte era terribile. E tuttavia per 25 anni, la curatrice del Guggenheim Diane Waldman ha organizzato alcune mostre memorabili in quell’edificio, disponendo di uno spazio terribile per l’arte (era l’unico edificio che aveva), ma usandolo bene. L’ha usato perfettamente per alcune mostre, anche se per altre non ha funzionato. Non ha funzionato con Rothko. Quando hanno portato le opere di Rothko, era come se in quello spazio si sentissero scomode. Flavin: fantastico. Calder: fantastico. (…) E ci sono state molte altre grandi mostre di pittura. (…) Insomma, [n.d.r. in questo caso] l’architettura crea un elemento avverso: ma è come il granello di sabbia nell’ostrica, l’elemento irritante che produce la bella perla. Durante gli anni, è stato possibile produrre la bella perla all’interno del Guggenheim. Questo ti dimostra che un edificio, sebbene in linea di principio possa essere un disastro, può essere ben utilizzato.” [44]


Il museo come luogo di complicità tra arte ed architettura

Per Gehry il rapporto tra architettura ed arte deve essere invece di piena complicità. Infatti, arte ed architettura sono la medesima cosa: “Prima di tutto, c’è l’eterna discussione se uno sia un architetto o un artista o se sia entrambe le cose allo stesso tempo. È una discussione stupida perché ovviamente nella storia ci sono stati uomini che furono entrambe le cose, come Borromini e Michelangelo.” [45] Gehry è un uomo colto: parla di Giorgio Morandi e delle sue nature morte come fonte della sua architettura [46]. Discute dei disegni di Leonardo, i cui originali ha potuto esaminare [47]. Tuttavia “nel mondo contemporaneo, la stampa e gli artisti, tutti, hanno diviso l’arte in due sistemi: uno deve occuparsi dell’esecuzione tecnica e l’altro è puro.” [48] Una volta affermato questo principio di specializzazione, è solamente il dialogo tra il committente, l’artista e l’architetto – secondo Gehry – a poter ristabilire l’unità originaria. “È interessante lavorare con gli artisti perché nella maggioranza dei casi non sanno come mostrare i loro lavori. Hanno bisogno di un editore. Per questo c’è bisogno di un curatore! Ed è stato interessante giocare un ruolo nello spazio che si crea tra il curatore, l’artista e l’edificio. (…) Ho sempre cercato di capire il carattere dell’artista. E tento di farlo grazie agli edifici. Cerco di fare l’opera parte della persona che la commissiona. (…) Il cliente è molto importante. Agire con lui rende le cose sempre migliori. Lavorare con Tom Krens a Bilbao [n.d.r.: il direttore della Fondazione Guggenheim] è stato straordinario.” [49]

Anche per l’architetta Kazuyo Sejima (1959-) ed il suo collega Ryue Nishizawa (1966-), entrambi giapponesi (hanno uno studio conosciuto in tutto il mondo come SANAA), arte ed architettura sono parte di un unicum. Ryue Nishizawa lo afferma con forza: “Nella storia dell’architettura, quando si considera la storia della collaborazione tra architettura e belle arti, mi sembra che ci sia stato qualcosa di unificante sin dall’inizio. Ad esempio, se si guarda ad edifici giapponesi antichi come il Hōryū-ji, un singolo pilastro, si tratta già di un’opera d’arte. Può servire come contenitore ad una statua di Buddha, ma al tempo stesso ci sono decorazioni precise sull’edificio. In altre parole: arte ed architettura non possono essere separate. E se si pensa all’architettura europea, è lo stesso. In questo senso, l’essere umano, in modo subcosciente, crea una prossimità molto forte tra architettura e belle arti.” [50]

Quanto al museo, Ryue Nishizawa ritiene che l’aspetto fondamentale sia il “rapporto tra contenuto e forma. Quel che si intende come contenuto sono ‘i programmi’: quale uso le persone fanno del museo. Insomma, vi è la forma ed il modo in cui è usata dagli esseri umani: necessariamente vi è una relazione tra loro. Per esempio, ci sono alcune stanze molto larghe, altre molto piccole e, in entrambi i casi, il carattere delle opere d’arte cambia. Questa relazione tra contenuto e forma è a mio parere uno dei temi interessanti dell’architettura. Un contenuto interessante genera un’architettura interessante e vice versa. C’è un’interazione; ognuno dà un significato all’altro. Questo fenomeno si può osservare sia nelle abitazioni come pure nei musei.” [51]

Ed è ancora una volta Gehry a riflettere sul ruolo dell’architettura nel valorizzare l’opera d’arte: “Io penso si possa riuscire, in ultima analisi, a far funzionare ogni cosa. Puoi disporre ovunque qualsiasi cosa, se vuoi realmente, e farla funzionare. Un dipinto si sostiene da solo. Ma il contesto cambia certamente il modo in cui un’opera d’arte può essere vissuta. Mi ricordo l’esperienza, tempo fa, al Kunsthistorisches Museum di Vienna, quando vidi quattro Brueghel in una sala tradizionale con rivestimento in legno, pareti in stoffa blu, il lucernaio e il pavimento in legno e mi sembrarono incredibilmente grandi. Non lo dimenticherò mai. E poi, qualche anno dopo, sono tornato ed avevano rimodellato il museo: avevano messo i quattro Brueghel in una piccola stanza con un soffitto di due metri e mezzo ed io entrai ed i Brueghel sembravano piccoli così. Ma in realtà non erano né così grandi né così piccoli [n.d.r.: le dimensioni originali sono circa 115 cm x 150 cm]. Così, è la diversa percezione di luoghi differenti a fare la differenza. Anni fa vidi un minuscolo Paul Klee in Corea in una galleria della Samsung con un soffitto di sei metri, ed il piccolo dipinto era incredibile: poteva reggere la stanza intera, rubare lo spazio. Abbiamo appena rinnovato la Galleria d’arte dell’Ontario a Toronto dove abbiamo  dipinti di piccole dimensioni. Va detto che lì abbiamo stanze con un soffitto di 13 metri perché non potevamo inserire un altro piano – volevo avere la luce naturale dall’alto. Là ci sono piccoli quadri canadesi e funziona a meraviglia. Insomma, se fai queste stanze sterilizzate a forma di scatola, se divengono troppo sterilizzate, entrano persino in conflitto con l’arte. L’Arte Povera, per esempio, non si concilia con alcuni di questi spazi.” [52]

La ricerca di espressività, il rifiuto della struttura tradizionale con stanze a geometria regolare, ed il superamento del museo come pura ‘scatola’ caratterizzano anche l’architetta irachena Zaha Hadid, molto conosciuta in Italia per il suo MAXXI a Roma. È lei a teorizzare l’idea di un’architettura articolata, non lineare, come conseguenza diretta della complessità urbanistica delle nostre città, ormai abitate da una popolazione molto eterogenea per attività, etnia, genere, ecc.. e dunque non riconducibile ad un modello sociale uniforme. Il museo come ‘scatola bianca’ appartiene invece al passato di città socialmente più uniformi. 

La discussione [n.d.r. sulla complessità sociale] ci porta a parlare dell’idea di museo come ‘scatola bianca’ [‘white box’] e ad interrogarci se la scatola bianca ci offra il massimo della flessibilità. Ai nostri giorni l’architettura produce varietà (la varietà dello spazio) perché i curatori danno una grandissima varietà di interpretazioni allo spazio quando disegnano le mostre. Nei musei la questione non è semplicemente quella di come esporre l’arte, ma anche di come, interpretando la complessità, i curatori possano interpretare diversi contatti e diverse connessioni” [53]. I musei debbono dunque essere disegnati per poter ottenere il massimo della varietà degli interni, con il solo limite dei vincoli spaziali, come al Centro per l’arte contemporanea di Cincinnati: “La mia intenzione era di trasformare le stanze in senso verticale, dal momento che il sito era molto piccolo. E poiché si tratta di uno spazio verticale, la circolazione all’interno del museo è molto importante. I molti e differenti sistemi di scale sono essenziali perché sono interconnessi tra loro. In tal modo si può avere una varietà infinita di spazi all’interno di questo gruppo di strutture: da stanze molto piccole solamente per proiezioni a spazi molto vasti, per le esposizioni più grandi.” [54]

Il rapporto tra arte ed architettura è strettissimo anche nel caso dei due architetti giapponesi dello studio SANAA già citati. Ryue Nishizawa ci spiega: “Quando lavoro a progetti museali ho spesso l’impressione che si tratti di uno spazio architettonico disegnato da un architetto, ma anche l’impressione, differente, che si tratti di un luogo dotato di atmosfera artistica. Gli artisti installano i loro progetti nelle stanze, ma in realtà io credo che i loro progetti inizino prima del loro ingresso nelle stanze. L’esperienza di un museo, la sua architettura, deve moltissimo al pubblico. Il caso del Museo d’arte di Teshima è davvero speciale, perché vi è una sola stanza ed ospita solamente un’artista, la signora Rei Naito. Le è stato chiesto di realizzare una sola opera [n.d.r: Matrix]. La gente viene anche da molto lontano, persino da Tokyo, per immergersi nella natura dell’isola e camminare fino al museo. Ovviamente, questo percorso è anche parte del mio progetto. È impossibile separarli. È un’esperienza che noi condividiamo. Per questo ho deciso di fare questo tipo di collaborazione, di parlarne con lei, di decider insieme ogni singolo dettaglio dell’architettura ed al di fuori di essa, nel paesaggio.” [55]

L’architetta Kazuyo Sejima aggiunge: “Gli spazi per mostre sono particolarmente complessi. Intendo dire che l’architettura non dovrebbe essere troppo visibile. Al tempo stesso non è sufficiente che sia un semplice fondale. È necessario considerare in modo corretto la relazione tra spazio espositivo ed oggetti esibiti. Non si tratta assolutamente di un compito lineare. Ma una delle esperienze che possiamo trarre da Kanazawa, da una delle gallerie che abbiamo disegnato per essere usate dagli artisti, è che lo spazio stesso assume una dimensione differente a seconda dell’arte che è ospitata al suo interno. Per esempio, se uno installa un oggetto molto piccolo in una stanza molto larga, quell’oggetto è percepito in maniera molto più forte. O a volte lo spazio può sembrare compresso. Ovviamente, nulla cambia a livello dell’architettura, le dimensioni rimangono fisse, ma ogni volta nasce un nuovo spazio. La possibilità di avere una collaborazione ottimale con un artista è un’esperienza unica.” [56] Se dunque per Gehry era l’opera d’arte (i dipinti di Brueghel) ad assumere connotazioni diverse a seconda dello spazio, qui è lo spazio ad essere diversamente definito dall’opera d’arte.


Tempo, arte ed architettura

Vi è un architetto a cui Obrist fa riferimento sei volte nel corso del suo volume, additandolo come modello del dialogo tra arte e architettura, pur non presentando un’intervista con lui.  Si tratta dell’inglese Cedric Price (1934-2003), le cui conversazioni con Obrist sono invece raccolte nel volume numero 21 della “Conversation series”, pubblicato nel 2009. Negli anni ‘60 Price lavorò al progetto, mai realizzato, del Fun Palace, un palazzo dei divertimenti straordinariamente innovativo: “Una struttura flessibile in un grande cantiere navale meccanizzato sul quale, a seconda delle differenti situazioni, si sarebbe potuto costruire molte strutture dall’alto.” [57] I disegni per il Fun Palace contribuirono al rinnovamento dell’architettura e ispirarono una nuova generazione di architetti, servendo fra l’altro come punto di riferimento per la costruzione del Centre Pompidou a Parigi negli anni ‘70. Obrist ne parla con l’artista francese Philippe Parreno (1964-): “La centralità [n.d.r. in quel progetto] di edifici temporanei destinati a sparire dopo un breve periodo, invece di edifici finiti, lo ha reso leggendario” [58]. Nella prefazione al volume d’interviste con Price, Obrist scrive: “I suoi temi principali sono quelli del tempo e del movimento. Centrale nel suo pensiero e nel suo lavoro è la sua opposizione alla permanenza e la sua discussione del cambiamento. I progetti di Price sono una sfida continua ai tradizionali limiti fisici dello spazio architettonico e tracciano le traiettorie del tempo. La sua convinzione che gli edifici debbano essere sufficientemente flessibili da consentire a chi li usa di adattarli in modo da servire i bisogni del momento riflette la sua convinzione che il tempo – oltre a larghezza, lunghezza ed altezza – sia la quarta dimensione del progetto architettonico.” [59] Secondo Obrist la dimensione temporale, che fa la sua irruzione nelle esposizioni temporanee di opere d’arte [si veda la Parte prima], diviene perciò – in parallelo – anche una delle caratteristiche dell’architettura.

Anzi, per l’artista francese Dominique Gonzalez-Foerster, l’architettura offre persino la possibilità di un’accelerazione della realtà che le arti visive non offrono. “Non credo che l’arte sia un meta-campo di conoscenza che sia posto sopra ogni altra cosa. Ci sono forme auto-assolutive nel mondo dell’arte cui voglio sfuggire. È per questo che il titolo del parco che ho realizzato a Kassel è Plan d’évasion, ovvero Piano d’evasione. Voler scappare da situazioni che sono troppo lente, troppo ripetitive o che non hanno alcuna prospettiva di sviluppo è molto umano. È questo che guida la trasformazione – io non voglio dire evoluzione, ma trasformazione.” [60] Gonzalez-Foerster, in particolare, è convinta che “gallerie, musei ed esposizioni non siano gli unici tipi di spazi” [61] attorno ai quali artisti ed architetti debbano collaborare.


Si teorizza perciò la realizzazione di ibridi effimeri, che offrano all’artista visivo maggiore libertà esecutiva che in una mostra. Sembra un paradosso, dal momento che l’architettura dovrebbe suscitare l’impressione dell’eternità e l’arte figurativa dell’effimero, ma la tesi dell’artista è esattamente il contrario: “In un progetto d’architettura per cambiare una porta bastano due ore, ma in un museo possono essere necessarie una settimana o addirittura un mese. Quando si costruisce un palco per un concerto in un solo giorno, si realizza di più in termini di attività di quanto si faccia in una galleria nello spazio di un anno. Quando si è già sperimentata la terribile accuratezza e lentezza che accompagnano perfino le più piccole modifiche nel mondo dell’arte, si perde un po’ la pazienza. Ovviamente, è normale che ogni sistema abbia la propria velocità, ma una volta che ci si è abituati a lavorare ad un ritmo differente, è davvero difficile tornare ad una situazione dove dipingere anche una piccola parete è un problema. Le pareti nei musei sono considerate come se fossero tele ancora bianche, tanto che il più piccolo gesto diviene monumentalmente importante. Sono davvero stanca di tutto ciò.” [62]

Sembrerebbe un’eresia, ma anche l’architetto olandese Rem Koolhaas (1944-) conferma che il tempo è divenuto uno dei fattori principali di cui deve tener conto l’architetto, anche se le sue conclusioni sono diverse. Certamente, da un lato vi sono due fattori di accelerazione: i committenti cercano di reagire all’accelerazione della storia richiedendo che i progetti vengano portati a termine in un lasso di tempo sempre più ristretto; e la vita degli edifici appena costruiti non va al di là dei venticinque anni. Dall’altro la fisicità dell’architettura fa di essa l’ultima linea di resistenza contro un mondo frenetico ed assurdo. La tensione tra lentezza e velocità diviene l’elemento di maggiore interesse dell’architettura.

Non vi è più alcun elemento di certezza su cui si possa contare. E quel che è interessante è che i clienti cercano di neutralizzare questa situazione accelerando sempre più il ritmo complessivo dell’architettura. Gli edifici che una volta avremmo costruito in due anni devono essere edificati in uno solo. (…) Non avrei mai immaginato (…), quando scoprimmo che alcuni edifici a Shenzen venivano ultimati in due pomeriggi su un computer, che due o tre anni dopo ci saremmo trovati nella stessa situazione. Ma ci siamo. E tuttavia, capiamo che non siamo sufficientemente veloci e che l’architettura non può essere abbastanza veloce.” “Ci sono conseguenze per la durata della vita degli edifici?“ chiede Obrist. “Sì, ed è uno degli aspetti più interessanti. Questo è il progetto che abbiamo ultimato per ‘La Defense’ a Parigi, dove abbiamo considerato che ogni cosa che fosse stata edificata da più di 25 anni fa dovesse essere abbattuta, in modo da poter costruire una città nuova sul sito della vecchia. A quel tempo è stata considerata un’idea visionaria ed un oltraggio. Di recente ho fatto una presentazione della stazione di Rotterdam, dove ci sarà un treno super-veloce TGV, e di nuovo ho lanciato l’idea che dopo venticinque anni si possano dichiarare gli edifici come ridondanti perché sono così mediocri, e questa volta vi è stata solamente una specie di risatina controllata nervosamente.”  [63] (…) “Qual è il rapporto tra lentezza e velocità?” “Rimane una tensione molto forte - risponde Koolhaas  - ed in questo senso è davvero interessante vedere questo mezzo – l’architettura – che è oggi sempre più popolare, aver al tempo stesso una specie di resistenza intrinseca a seguire completamente la tendenza attuale, che è verso l’accelerazione. Forse vi è una contraddizione irrisolvibile nell’architettura: può accelerare, ma vi è anche un tipo di resistenza interna, forse più della televisione, dei film o della musica, e forse è questa la ragione per la quale oggi è così interessante.” [64]

Koolhaas cerca di risolvere la contraddizione esattamente nel luogo in cui arte ed architettura si incontrano: il museo. Presenta progetti per la Tate Gallery di Londra, il MoMa di New York e la biblioteca di Seattle dove sono possibili due tipi di visite, quella veloce e quella più approfondita, regolando in modo diverso il flusso del pubblico, secondo due canali paralleli. Koolhaas si rivolge ad Obrist: “tu parli spesso dell’età d’oro del MoMa, degli ‘anni laboratorio’, e sono stati bei tempi, ma non penso che vi possa essere un laboratorio che è visitato da due milioni di persone all’anno. È per questa ragione che le mie biblioteche ed i miei musei cercano di organizzare la coesistenza delle esperienze urbane, con il loro rumore, e le esperienze che consentano concentrazione e lentezza. Questo è il modo di pensare più avvincente per me: l’incredibile arrendevolezza ad un mondo effimero e come ciò possa essere reso compatibile con la seduzione della concentrazione e della lentezza.” [65]


Contro la dissoluzione di arte ed architettura

Obrist non dimentica le voci di coloro che reclamano un’arte ed un’architettura semplicemente monumentali. Per il grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer (1907-2012) – uno dei centenari intervistati da Obrist – la funzionalità (ovvero la capacità del museo di valorizzare l’opera d’arte) non può bastare. Nel momento in cui dichiara “voglio fare un’architettura che esplori il rapporto tra arti differenti” [66], per lui l’aspetto decisivo di quel rapporto è quello estetico. “Un museo deve aver l’aria di essere un museo. (…) Invece ci sono molti musei, anche a New York, lungo i quali uno può passeggiare e non si accorgerà che cosa siano, a meno che non vi sia scritto che è un museo. Ah no, un museo deve dare l’idea di essere realmente un museo.” [67]  L’architettura è arte: “L’architettura è invenzione. Possiamo ottenere il risultato giusto da un progetto, ma inventare qualcosa è un conto diverso. L’architettura non può semplicemente consistere nel disegnare un edificio che funzioni bene; deve essere anche bello, differente, sorprendente, non è vero? Infatti, la sorpresa è l’elemento principale in un’opera d’arte.” [68] Sir Forman Foster, che partecipa alla conversazione a tre con Obrist, aggiunge: “Camminare lungo le rampe [n.d.r del Museo d’arte contemporanea a Niterói] oggi è stata una grande esperienza. Insomma, prima di entrare nell’edificio c’è questa cerimonia meravigliosa… E le rampe sono come una danza nello spazio, che ti permette di vedere l’edificio da prospettive diverse prima di entrare. E ciò mi sembra magico. Assolutamente magico.” [69]

Il pittore tedesco Gerhard Richter (1932-) delinea a sua volta un vero e proprio manifesto contro la ‘dissoluzione dell’architettura’ e a favore di un’interpretazione più concreta e persino politica di essa. La sua conversazione ci fa comprendere la sua passione per l’architettura e il suo desiderio di un ritorno a forme classiche e tradizionali, sia in termine di stile sia in termini di stili di vita, dopo gli anni della sperimentazione. È lui che prima si interessa a dipingere case come testimonianza di situazioni politiche e sociali diverse e poi progetta la propria casa.

Quando si verificano cambiamenti sociali, sono immediatamente travolto da una passione per gli edifici, e credo che in tal modo io possa anticipare o accelerare la trasformazione della vita, almeno nella forma di uno schizzo. La casa dove io vivo è stato un’opera anticipatoria di questo tipo: prima costruisci, poi cambi la tua vita. (…) Sì, prima è arrivata la casa e poi la famiglia che ha riempito la casa. (…) Con essa ho anticipato il mio desiderio generale per nuove condizioni sociali. E la casa era concepita - in modo ingenuo ma polemico - contro la dissoluzione dell’architettura. Era molto tradizionale: simmetrica, esplorabile, stabile.” [70]  E se, come abbiamo visto, a Frank Gehry non era piaciuto il Guggenheim di New York, a Gerhard Richter non è piaciuto il Guggenheim di Gehry, anche se è stato materia che lo ha indotto alla riflessione: “Quando l’ho visto non ne sono stato entusiasta, anche se ne ho subito il fascino e mi ha fatto riflettere” [71].


La prova di quanto classica possa essere la concezione spaziale di Richter è la sua vetrata per il Duomo di Colonia, con cui egli decide di fare architettura nel più classico dei sensi.


La vetrata del duomo è qualcosa di molto concreto, attuale, e si trova in un luogo molto speciale, pieno di storia e di grande significato, come pochi altri. Tutto ciò è talmente importante che aggiungere arte moderna può spesso apparire soffocante, falso, ridicolo o kitsch. Per evitare questo rischio ho affrontato lo spazio in modo molto pragmatico: qual è l’aspetto del duomo e come viene usato? In tal modo ho evitato di voler rappresentare qualcosa di particolare: né una raffigurazione dei santi, né un messaggio divino ed in un certo modo neppure arte. Si tratta solamente di una bella vetrata splendente, la più eccellente e bella e piena di significato che io possa fare a tutt’oggi.” [72]

L’equivalente laico è Nero, Rosso, Giallo: sono i colori del tricolore tedesco. Obrist chiede se è possibile immaginare quest’opera in una qualsiasi altra collocazione, e la risposta è negativa: “La bandiera è di proporzioni troppo grandi per poter adattarsi altrove. Il Reichstag è il luogo appropriato.” [73] Ed in tal modo da semplice ornamento diviene elemento monumentale dell’architettura.


Fine della Parte Terza
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NOTE

[43] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, Lives of the Architects, 2015, Allen Lane. Citazione a p. 433

[44] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 132-133.

[45] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 135.

[46] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 136.

[47] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 142.

[48] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 135.

[49] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 131.

[50] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 452.

[51] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 450.

[52] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 133-134.

[53] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 505

[54] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 506

[55] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 468-469

[56] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 452

[57] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 360.

[58] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 360.

[59] Obrist, Hans Ulrich – Cedric Price, The Conversation Series 21, Colonia, Verlag der Buchhandlung Walther König, 2009, p. 170. Citazione a pagina 9.

[60] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 58-59

[61] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 57.

[62] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 57-58.

[63] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 413.

[64] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 414.

[65] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 415.

[66] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 344.

[67] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, pp. 345-346.

[68] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 334

[69] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 338

[70] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 171

[71] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 172

[72] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 178

[73] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, citato, p. 176


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