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giovedì 17 dicembre 2015

Giovanni Mazzaferro. Da Brescia (1670) a Città del Messico (1745 ca.): migrazioni culturali all'ombra dell'Arte Maestra di Francesco Lana. Parte Prima: Brescia


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Giovanni Mazzaferro
Da Brescia (1670) a Città del Messico (1745 ca): 

migrazioni culturali all’ombra dell'Arte Maestra di Francesco Lana 
Parte Prima: Brescia

Presunto ritratto di Francesco Lana Terzi
Fonte: Wikimedia Commons


Un caso affascinante

Sul gesuita Francesco Lana Terzi (1631-1687) non si è scritto molto [1]. Quando lo si è fatto se ne è parlato soprattutto come di uno ‘scienziato’ (con tutti i benefici del caso). Fra le sue opere dobbiamo ricordarne una che fu stampata nel 1670 a Brescia col titolo ‘Prodromo all’arte maestra’ [2]. Di quel volume sono state ristampate ripetutamente solo le pagine in cui il gesuita progetta la costruzione di una “nave volante” (antenata dell’aerostato). Tutto il resto è finito nel dimenticatoio. In quel “resto” è contenuta anche una sezione (costituita da quattro capitoli) dedicata alla pittura (una specie di trattato, dunque), intitolata “L’'Arte Maestra' discorre sopra l’Arte della Pittura, mostrando il modo di perfezionarla con varie invenzioni e regole pratiche appartenenti a questa materia” (d’ora in poi, parlando di “Arte Maestra” ci riferiremo solo a questi quattro capitoli; l’intero scritto sarà invece il “Prodromo”).



Il progetto di 'nave volante' di Francesco Lana Terzi (cfr. edizione Battistini p. 107)
Fonte: Wikimedia Commons

L’eco dell’Arte Maestra nel mondo della letteratura artistica è nullo. Non ne parla lo Schlosser né compare in altri repertori. L’unico riferimento viene presentato da Mary Philadelphia Merrifield negli Original Treatises da lei pubblicati nel 1849. Merrifield scova una citazione dello scritto di Lana Terzi in un trattatello minore di Gian Battista Volpato (pittore veneto di seconda schiera, solo omonimo dell’incisore neoclassico). Fa anzi uso di tale citazione per stabilire che tale scritto (Il modo da tener nel dipinger) era successivo al 1670 (anno di edizione del trattato di Lana). Merrifield segnala l’estrema rarità dell’opera, per cui ritiene di dedicare ad essa alcune righe [3].

In epoca moderna, nel 1977, vede la luce finalmente la prima edizione annotata del Prodromo all’Arte Maestra, a cura di Andrea Battistini [4]. Vi sono compresi, naturalmente i capitoli dedicati alla pittura.

Dieci anni dopo (siamo nel 1987) Gianni Carlo Sciolla pubblica su “Arte Lombarda” un saggio di alcune pagine intitolato “Una fonte lombarda poco nota dell’età barocca: 'L’arte della pittura' di Francesco Lana”. In esso vengono sostanzialmente proposti alcuni dei passaggi più significativi dell’opera [5].

E tuttavia sarò onesto. Non credo che avrei mai dedicato molta attenzione alle pagine di Lana Terzi se non mi fossi accorto, del tutto casualmente, della “seconda vita” del trattato del padre gesuita. Tale seconda vita comporta una migrazione in Messico, o – ad essere precisi – in quello che all’epoca era il Vicereame della Nuova Spagna.

Nel 2005 Myrna Soto pubblica con l’Università degli Studi di Città del Messico (UNAM) un libro intitolato “El arte maestra: un tratado de pintura novohispano”. Si tratta dell’edizione critica di un manoscritto scoperto nella Biblioteca Nazionale del Messico tra le carte dell’erudito Cayetano de Cabrera y Quintero. Privo di data e anonimo, ma chiaramente risalente al pieno XVIII secolo, il trattato costituisce, secondo la studiosa, il primo esempio di letteratura artistica “locale”, ovvero il primo scritto originale di un artista del Vicereame della Nuova Spagna sull’arte della pittura.

Un anno dopo, all’interno della collana Estudios en torno al arte del Museo de la Basilica de Guadalupe, un’altra ricercatrice, Paula Mues, ripubblica il trattato, facendo notare che si tratta della traduzione in castigliano dell’Arte Maestra di Francesco Lana Terzi. La traduzione fornita nel manoscritto si presenta incompleta; vi sono alcuni interventi che abbreviano il trattato originale; e soprattutto ve ne sono altri volti a far scomparire il nome dell’autore (che viene sì citato, ma come “fonte esterna”, esattamente come Vitruvio, Villalpando etc), nonché altri che fanno credere che il trattato sia stato scritto “nelle nostre Indie”. Ma in realtà si tratta del chiaro tentativo di operare un plagio. Avendo ben chiaro che, in questo caso, si deve parlare di plagio con cognizione di causa, non senza tener conto che l’Arte Maestra messicana è uno scritto che, proprio grazie alle modifiche subite, assume natura diversa rispetto all’originaria stesura bresciana.

Ad ogni modo, il fatto che un trattato di un gesuita bresciano rimanga nella sostanza del tutto ignoto in Italia e riemerga attorno al 1745 tradotto in spagnolo e trasformato in qualcosa di diverso è, secondo me, un elemento di grande fascino. Per questo motivo cercherò di esaminare e contestualizzare in maniera approfondita prima l’esemplare bresciano e poi darò conto degli studi messicani dedicati al manoscritto di Città del Messico. Sarà un’occasione per conoscere anche le prime manifestazioni legate alla letteratura artistica di un mondo che noi europei siamo abituati a considerare silente per secoli e che invece conosceva già allora forme di sviluppo delle arti che non replicavano servilmente le tendenze europee.


Il Prodromo all’Arte Maestra

Francesco Lana Terzi nasce da famiglia nobile bresciana nel 1631 e comincia la sua trafila per entrare nella Compagnia di Gesù a 16 anni [6]. La sua formazione si compie al Collegio romano, è seguita da una serie di esperienze di docenza in molte località italiane e si conclude nel 1663, quando Lana torna nella natia Brescia, dove, di fatto, resta fino alla morte (a parte una parentesi ferrarese). Lana fa parte della schiera dei gesuiti “scienziati”; la sua è una formazione “empirista”, che nega ovviamente l’esperienza galileiana, ma nel contempo mostra una messa in discussione dei dogmi aristotelici in nome della “pratica” e del “metodo sperimentale”. Nel caso specifico la cifra caratteristica del gesuita sempre essere quella di un “eccesso” di “pratica” a scapito della capacità di astrazione. Andrea Battistini, che ha curato l’edizione del Prodromo pubblicata da Longanesi nel 1977 e vi ha premesso uno scritto tutt’altro che banale anche con riferimento agli interessi artistici, cita in merito una lettera di Leibniz del 1708 che definisce Lana “scrittore egregio allorché discende alla 'fisica speciale', ma 'non altrettanto valido nella speculazione' ” [7]. A voler essere onesti, si potrebbe replicare che, nel Prodromo, è lo stesso autore a “rivendicare” l’insufficienza dell’analisi. Nel proemio si dice infatti che questo scritto va alla stampe ponendo l’accento soprattutto sugli aspetti pratici della “filosofia naturale” (oggetto dell’indagine di Lana); siamo di fronte a delle anticipazioni, a un “prodromo”, appunto, cui farà seguito un trattato assai più completo e vasto progettato dal gesuita: “per ora tralascio di rendere esattamente le ragioni di queste operazioni, riservandomi a farlo ordinatamente in ciascuna parte dell’opera già promessa che, oltre l’isperienze e operazioni pratiche in ogni materia ed in ogni arte, comprenderà insieme la teorica e speculativa, con l’ordine e forma accennata di sopra” [8]. Fatto sta che l’opera enciclopedica progettata da Lana vide uscire solo due volumi prima della sua scomparsa (si tratta dei primi due tomi del Magisterium naturae et artis) senza però che la carenza d’analisi venisse meno. Battistini nota brillantemente che in questa sensazione di caos prodotta dal succedersi di “invenzioni” e “osservazioni pratiche” di natura disparata, c’è un solo elemento che unifica la trattazione, ed è la “riabilitazione del lavoro manuale e […] la fiducia di potere migliorare, attraverso la scienza, le condizioni dell’uomo” [9]. Solo questa prospettiva accomuna la serie di esperimenti e invenzioni presentate nel Prodromo: insegnare a parlare ai sordomuti, a scrivere ai ciechi, costruire una “nave volante”, far nascere una pianta senza che vi sia il seme e così via. In questa prospettiva di miglioramento rientrano anche le ultime due sezioni, separate dal resto della trattazione, presentate nel Prodromo: “…pongo per ultimo le regole pratiche che serviranno a perfezionare due arti appartenenti ad una sol parte della fisica, cioè alla scienza dell’optica: l’una è l’arte della pittura, l’altra de’ cannocchiali e microscopi” [10].


Tiziano, Polittico Averoldi, 1520-22, Brescia, Collegiata dei Santi Nazaro e Celso
Fonte: Wikimedia Commons

L’Arte Maestra della Pittura

Se quindi ci chiediamo perché Lana dedichi una sezione del suo trattato alla pittura possiamo darci non una, ma due risposte: una (di respiro più corto) è perché vuole perfezionare la scienza dell’ottica; la seconda (assai più ariosa) è che la pittura è imitazione della natura e posto che oggetto della ricerca di Lana è la filosofia della natura, saperla rappresentare in maniera corretta, non solo da un punto di vista “teorico”, ma anche tecnicamente, diventa fondamentale. Fra i tanti trattatisti del Cinque e del Seicento sono pochissimi quelli che riservano tanto spazio alla manualità artigianale del mestiere. Del resto l’unica citazione di Lana (quella di Volpato poi ripresa da Merrifield) è proprio legata ad aspetti manuali (nella fattispecie, l’uso dei colori a tempera).

Sempre Battistini, pur consapevole dell’inquadramento del trattato di Lana nel clima barocco dell’epoca, fa notare un altro aspetto caratteristico: “Quello che muta… è l’atteggiamento del critico d’arte verso i pittori. Nel Lana, difatti, il carattere eccezionale della personalità dei maggiori artisti, divenuto argomento topico dopo le biografie del Vasari, viene sostituito dall’antieroica descrizione di una paziente e minuta tecnica pittorica rispondente ai canoni della semplicità e della regolarità, che sono poi le conseguenze più vistose di un reale abito scientifico. L’ammirazione non va tanto al genio creativo, al privilegiato possessore dell’'Idea', quanto alla dimensione artigianale della pittura, al modesto ma fertile rito consacrato alla preparazione della tela, all’osservazione delle luci, alla confezione dei colori sulla tavolozza, alle sapienti proporzioni con cui ottenere le 'tinte e mezze tinte' col 'mescolamento' dei colori fondamentali, sino alla sperimentazione […] di inusitate tecniche di pittura” [11]

Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Elia svegliato dall'angelo, 1521-1524, Brescia, Chiesa di San Giovanni Evangelista
Fonte: Fondazione Zeri Bologna tramite Wikimedia Commons



Alessandro Bonvicino detto il Moretto, La caduta della manna, 1521-1524. Brescia, Chiesa di San Giovanni Evangelista
Fonte: Fondazione Zeri Bologna tramite Wikimedia Commons


Fra speculazione teorica e pratica

L’Arte Maestra si divide in quattro capitoli. Di essi il primo, dedicato all’'invenzione', è quello che presenta caratteri maggiormente teorico-speculativi. Gli altri, sul 'disegno', il 'colorire' e le 'varie maniere di dipingere e disegnare' procedono su aspetti sempre più pratici, ma anche bizzarri. In questo senso si può dire che il trattato di Lana sia squisitamente barocco: perché oltre a insegnare e dilettare è volto anche a “stupire” con le sue invenzioni. In questo ambito credo che più della pittura e del disegno su marmo e su vetro (richiamati sia da Battistini sia da Sciolla nel suo articolo del 1987) debba far riflettere “l’invenzione di far imagini e ritratti con penne di uccelli diverse di colore e variamente intrecciate in un modo poco diverso da quello che si fa con le pietre colorite per lavorare a mosaico” [12]. La mia impressione personale è che, in questo caso, Lana stia alludendo a una pratica derivante dal mondo indio del Nuovo Mondo (e non ci sarebbe nulla di particolarmente strano, essendo un gesuita); pratica ovviamente considerata bizzarra (e quindi “barocca” per definizione) a Brescia. Ma quando il trattato del Lana arriva in Messico e viene tradotto in spagnolo, l’anonimo traduttore, che lascia incompleta gran parte del capitolo IV, segnala comunque questa pratica con la dicitura “Pintura de Plumas de Nuestras Indias”, riconoscendola ed appropriandosene [13].


Girolamo Romanino, Cena in casa del fariseo, 1545 ca., Brescia, Chiesa di San Giovanni Evangelista
Fonte: Wikimedia Commons

Nel suo saggio pubblicato nel 1987 Gianni Carlo Sciolla aggancia saldamente i contenuti dell’Arte Maestra alla tradizione del classicismo francese del 1600 [14], la qual cosa mi sembra assolutamente condivisibile. Il riferimento che pare cronologicamente più vicino mi sembra essere, in particolare, l’Idée de la perfection de la peinture di Roland Fréart de Chambray, in cui si richiama l’attenzione del lettore su alcuni aspetti indispensabili per poter valutare un’opera d’arte: l’invenzione, la proporzione, il colore (non solo i pigmenti, ma anche luci e ombre), i movimenti e gli affetti, e infine la posizione regolare delle figure. Tutti aspetti che vengono ricordati da Lana. Semmai terrei presente che il gesuita si forma al Collegio Romano e che quindi, più che a un contatto diretto coi testi del classicismo francese, si può pensare alla frequentazione dell’Accademia di San Luca, dove Bellori ha già tenuto il suo discorso sull’Idea e dove nel 1674 pubblicherà le Vite. Qualche influsso belloriano sembra emergere dai miei personali cassetti della memoria. La raccomandazione di “fare un piccolo e rozzo modello di cera”, per dar ordine e proporzione alle figure, nonché per studiarne i lumi etc mi ricorda molto da vicino il Poussin che, quattro anni dopo, nelle pagine delle Vite, “formava modelletti di cera di tutte le figure nelle loro attitudini in bozzette di mezzo palmo, e ne componeva l’istoria o la favola di rilievo, per vedere gli effetti del lume e dell’ombre de’ corpi” [15]. Se si tien conto che il capitolo dedicato a Poussin richiama esplicitamente l’'ombra' e il 'lume', e che anche in Lana sono i precetti riguardanti il “colorire” quelli che assumono maggior importanza, mi sembra possibile ipotizzare che il gesuita proponga temi discussi a Roma a metà ‘600.

Ciò detto, in verità, l’impressione generale che si trae dalla lettura del trattato è di un autore che si richiama a molti concetti dell’arte senza averli digeriti pienamente. Lana – diciamoci la verità – pilucca un po’ dappertutto a seconda dei casi: dall’ut pictura poesis di ispirazione oraziana alla teoria delle proporzioni del corpo umano fornita da Vitruvio; naturalmente formula la teoria del bello ideale, ma l’accompagna con la raccomandazione di esercitarsi nel dipingere fiori e frutti, cani, lepri e “simil cose” dal naturale, e di sperimentare anche la pittura a lume di lucerna, o comunque con luce proveniente da una sola piccola finestrella anche di giorno, lasciando intravvedere (solo intravvedere, sia chiaro, perché non si va oltre) un’inclinazione per quello che Bellori avrebbe chiamato (con tono denigratorio) realismo caravaggesco [16]. Lana ritiene che il principiante debba cominciare dal disegno, ma non sembra certo ricalcare le procedure praticate nelle Accademie quando dice che deve iniziare “dalle cose più facili, cioè doverà prima imparare a disegnare dalla statue o modelli” [17] (più o meno in tutte le Accademie il disegno dalla statua non è considerato elementare e non viene proposto come passo iniziale per l’allievo). Insomma, si colgono contraddizioni interne che probabilmente non hanno lavorato a favore del successo dell’opera.



Lattanzio Gambara, Natività di Gesù, 1561-1566, Brescia, Chiesa dei Santi Faustino e Giovita
Fonte: Wikimedia Commons
Un pittore senza catalogo

Curiosamente né Battistini né Sciolla sembrano porsi una domanda: Lana Terzi, oltre che scienziato, fu anche pittore? [18] Non esistono certezze in merito. Tuttavia un’osservazione lascia propendere per il sì: il trattato è scritto, di fatto, utilizzando tre persone diverse: la terza persona singolare (con scopo prescrittivo: “il pittore faccia” etc etc); la prima persona plurale (“dissi che doveremo pigliare dal naturale le parti del nostro disegno”… [19]) e, infine, la prima persona singolare. È parlando in prima persona singolare che il gesuita dice “a me piace molto di fare un piccolo e rozzo modello di cera” [20]; “non voglio tralasciare di dire come io soglio prima di dipingere far varie tinte sopra la mia tavola” [21]; “passando più oltre, ho ritrovato un modo di dipingere sopra un marmo e poscia far penetrare i colori” [22]; “a tutte le predette invenzioni io qui ne aggiongerò una mia di fare che le pitture comparischino delicatissime… come io ho fatto in alcune mie pitture piccole” [23].

Quindi, a meno che Lana non millanti un’attività artistica pregressa (e la conoscenza degli aspetti tecnici lo rende fortemente improbabile), il gesuita è stato anche pittore. Probabilmente un pittore a livello amatoriale. Sicuramente un pittore senza catalogo. Il suo nome non compare in nessun repertorio di artisti e, a maggior ragione, non vi è un sol quadro che noi gli si possa attribuire. A questo proposito non possiamo continuare a ignorare il fatto che Lana proveniva da una famiglia nobile di committenti e collezionisti d’arte, che, a fine secolo, erano proprietari di una delle più significative raccolte di dipinti a Brescia. In via del tutto ipotetica non posso escludere che fra i quadri che Giulio Antonio Averoldi descrive parlando della collezione Lana Terzi nel suo “Le scelte pitture di Brescia additate al forestiere” [24], pubblicate nel 1700, non vi sia anche una qualche opera del gesuita. Circa la metà delle tele citate non hanno l’attribuzione dell’autore. E tuttavia lo si ripete: si tratta di una pura congettura.

Se poi andiamo a vedere le citazioni di opere o artisti contenute nell’opera, appare evidente che, per quanto riguarda il “colorire” i riferimenti sono i veneti Tiziano, Veronese e Tintoretto; di nessuno di loro, peraltro, è citata una sola opera. Si fa riferimento invece al Pantheon, ai mosaici in San Pietro disegnati dal Cavalier d’Arpino, e a figure minori che comunque sembrano avere contatti col mondo romano. La circostanza sembra normale, posto che Lana studiò a lungo a Roma.



Francesco Paglia, Assunta, 1675 circa, Brescia, Chiesa di San Giovanni Evangelista
Fonte: Wikimedia Commons

Il vero mistero dell’opera è la citazione estesa del “mio Clemente” che compare nel capitolo quarto quando si parla del modo di dipingere “a bòtte”, ovvero imprimendo colpi col pennello alla tela. Un modo di dipingere che Lana ritiene tipico dei grandi coloristi veneti (appunto Tiziano, Veronese, Tintoretto) e adatto soprattutto per lavorare velocemente su grandi superfici. Ciò detto, l’autore aggiunge: “In questo si mostra eccellente il mio Clemente, uomo non solo nella pittura, ma anche nella scoltura, nella poesia, nell’istoria pratichissimo, e fornito di tutte quelle belle arti che possono in alcun modo giovare al pittore. Questo ingegnosissimo maestro dell’arte pratica un modo di dipingere veramente mirabile, poiché forma una figura o ritratto non solo con pochissimi colpi di pennello, ma in modo tale che più della metà della tela resta con la sola imprimitura, senza esservi posto sopra colore alcuno, facendo che essa imprimitura serva per l’ombre e per le parti oscure del ritratto. Ed io ho veduto un ritratto, che egli ha formato di se medesimo, il quale mirato contro il lume, si vede trasparire la tela per ogni parte dove non vi è posto sopra colore, ma solo una leggiera imprimitura, il che rende grande maraviglia” [25]. Chi è Clemente? Sciolla non parla di questa parte del trattato; Battistini snocciola tre ipotesi: Prospero Sogari (1516-1584) detto il Clemente, scultore e architetto reggiano, ma non pittore; Clemente Bocciardo detto il Clementone (1620-1658) e il gesuita Rutilio Clementi, architetto di Perugia attivo attorno al 1630. Dei tre, il secondo sembra il candidato più credibile, specie se si considera che è noto a Brescia: il solito Averoldi ne cita un quadro in Santa Maria delle Grazie raffigurante proprio Ignazio da Loyola, fondatore dei Gesuiti [26] “in cui spicca gran vivacità di colore”. Ciò detto, ammetto che non mi considero soddisfatto: leggendo e rileggendo il passaggio l’uso del presente mi ha reso persuaso che Clemente fosse vivo mentre Lana scriveva (mentre Clementone era morto nel 1658, più di dieci anni prima) e che “il mio Clemente” indicasse un’amicizia fraterna, o addirittura un rapporto di discepolato di cui non sappiamo nulla. Se ammettiamo che Lana Terzi sia un pittore senza catalogo, dobbiamo insomma essere disposti anche ad accettare l’idea che vi possa essere un Clemente i cui meriti siano stati in realtà assai più contenuti di quanto non ci assicuri l’autore dell’Arte Maestra e che, semplicemente, non sia passato alla storia. Una figura da recuperare, insomma; così come da recuperare è l’attenzione nei confronti del trattato, specie alla luce della sua seconda vita nel Vice-Reame della Nuova Spagna.

Ma questa, come sappiamo è un’altra storia.

Fine Parte Prima
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NOTE

[1] La relativa voce su Wikipedia contiene un errore madornale. Vi si sostiene che Lana fosse sordomuto. Probabilmente solo perché espose una sua ‘invenzione’ in cui indicava come si poteva insegnare a parlare a chi, sordo dalla nascita, non sapesse farlo. Ora, basta leggere le pagine scritte in quell’occasione per capire che l’autore non era sordomuto. Se qualche dubbio non fosse sorto, bisognerebbe chiedersi come abbia fatto a insegnare in varie cattedre universitarie italiane; e con la stessa logica si dovrebbe dire che era non vedente, posto che redasse anche alcune pagine sulla possibilità di insegnare a scrivere a un cieco. Vedi
https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Lana_de_Terzi (voce consultata il 9 dicembre 2015).

[2] Il titolo completo è “Prodromo ovvero saggio di alcune inventioni nuove premesso all’Arte maestra, Opera che prepara il P. Francesco Lana bresciano della Compagnia di Gesù per mostrare li più reconditi principij della Naturale Filosofia, riconosciuti con accurata Teorica nelle più segnalate inventioni, ed isperienze sin’hora ritrovate da gli scrittori di questa materia e altre nuove dell’autore medesimo. Dedicato alla Sacra Maestà Cesarea del Imperatore Leopoldo I” (Brescia, Stamperia Rizzardi, 1670)

[3] Si veda in questo blog Luciano Mazzaferro, Gli ‘Original Treatises’ di Mary Philadelphia Merrifield. Parte II. Il manoscritto Volpato e l’edizione ‘pirata’ di Bassano del Grappa. La nota dedicata all’Arte Maestra di Lana è alle pagine 746-747 dell’opera cartacea della Merrifield.

[4] Francesco Lana Terzi. Prodromo all’Arte Maestra. A cura di Andrea Battistini, Milano, Longanesi, 1978.

[5] Gianni Carlo Sciolla, Una fonte lombarda poco nota dell’età barocca: «L’arte della pittura» di Francesco Lana in Arte Lombarda 1987, Milano, Edizioni Vita e Pensiero.

[6] Si veda Dizionario Biografico degli Italiani, ad vocem, a cura di Cesare Preti, vol 63 (2004).

[7] Francesco Lana Terzi. Prodromo… cit., p. 11.

[8] Idem, p. 61.

[9] Ibidem, p. 12.

[10] Ibidem, p. 61.

[11] Ibidem, p. 22.

[12] Ibidem, p. 263.

[13] El Arte Maestra: traducción novohispana de un tratado pictórico italiano. Estudio introductorio y notas de Paula Mues Orts, Guadalupe, Museo de la Basilica de Guadalupe, 2006, p. 109.

[14] Vedi nota 5.

[15] Giovan Pietro Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Torino, Einaudi, 1976, p. 452.

[16] Francesco Lana Terzi. Prodromo… cit., pp. 254-255

[17] Idem, p. 238.

[18] Il tema viene invece affrontato almeno da Paula Mues nella sua edizione messicana (non so dir nulla per quanto riguarda l'edizione Soto).

[19] Francesco Lana Terzi. Prodromo… cit., p. 237.

[20] Idem, p. 236.

[21] idem, p. 248.

[22] idem, p. 263-264.

[23] Idem, p. 265.

[24] Si veda Nota de’ Quadri di Pittura, con il nome de gl’Autori suoi, s’attrovano nelle Stanze in casa del Conte Pietro de Terzio Lana, pp. 243-248 in Giulio Antonio Averoldi, Le scelte pitture di Brescia additate al forestiere, Brescia, Stamperia Rizzardi, 1700.

[25] Francesco Lana Terzi. Prodromo… cit., p. 261.

[26] Giulio Antonio Averoldi, Le scelte pitture di Brescia additate al forestiere, cit., p. 15.




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