Francesco Mazzaferro
Il dialogo tra un filosofo e un pittore:
Jean-François Lyotard e Jacques Monory
Parte Seconda: 1981-1985
Parte Seconda: 1981-1985
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Fig. 4) Jean-François Lyotard, L'assasinio dell'esperienza da parte della pittura, Monory in edizione bilingue pubblicata dall’Università di Lovanio nel 2013 |
Il catalogo dell’esposizione Cieli, nebulose e galassie del 1981
Nel marzo 1981 Monory espone alla Galleria Maeght di Parigi la sua nuova
serie “Cieli, nebulose e galassie”
[56]. In quell’occasione, anche Lyotard entra nella schiera dei molti filosofi
che hanno scritto testi per le esposizioni di arte contemporanea organizzate
dalla Galleria, e produce il saggio “I confini di un dandismo”. Il mecenate e
gallerista Aimé Maeght aveva fondato, subito dopo la Seconda guerra mondiale,
la rivista d’arte Derrière le miroir
(Dietro lo specchio), che tra il 1946
ed il 1982 ha presentato le opere ospitate nella Galleria, spesso rivolgendosi
a filosofi per commentarle. Prima di
Lyotard, Jean-Paul Sartre aveva pubblicato il testo per la mostra di Giacometti
del 1954 [57], Michel Foucault per quella di Rebeyrolle nel 1973 [58] e Jacques
Derrida per quella di Valerio Adami nel 1975 [59]. Quello di Lyotard non è il
primo testo commissionato dalla Galleria Maeght per Monory: Gilbert Lascault
aveva scritto un commento a Opere
ghiacciate nel 1975 [60], mentre Alain Jouffroy aveva curato Technicolor nel 1978 [61]. Monory è
dunque stato uno degli artisti di punta della famiglia Maeght, che nel 2006 ha organizzato
anche una retrospettiva a lui dedicata dal titolo “Monory Anni 70” [62] e nel
2009 esposto la sua nuova serie “Tigre” [63], alla Fondazione Maeght di
Saint-Paul de Vence. Ancor più recentemente, la Fondazione Maeght ha
organizzato una mostra sulle “Avventure
della verità – Pittura e filosofia” [64], con Bernard-Henri Lévy come
curatore dell’esposizione. Ovviamente, Monory era fra gli artisti rappresentati
alla mostra.
L’estetica sublime del killer di
professione
Da un lato, il pensiero di Lyotard ha avuto una chiara cesura con la
pubblicazione del suo saggio principale “La
condizione postmoderna. Rapporto sul sapere”. Tale saggio (del 1979) segna
un suo allontanamento da un’interpretazione marxista-freudiana dell’arte ed un
avvicinamento al pensiero neo-kantiano, ed in particolare all’estetica del
sublime, che il filosofo tedesco elabora nella Critica del giudizio. Questa
nuova fase deriva dalla convinzione di Lyotard che la filosofia non possa più
contare su nessuna forma di narrativa che sia legittimata (hegelismo e marxismo
sono egualmente considerati esauriti), mentre l’accumulazione d’informazioni
scientifiche sia ormai talmente vasta che nessun pensiero filosofico possa
essere sufficiente a offrirne una sintesi complessiva. Non esiste più, secondo
Lyotard, una lettura complessiva della società, e dunque non vi è nessun ruolo
per teorie omnicomprensive come la sua economia libidinale degli anni
precedenti. Siamo infatti in una nuova fase dell’umanità, in cui il capitale
delle industrie multinazionali e le tecno-scienze prevalgono su ogni pensiero
filosofico, e non possono offrire all’umanità alcuna speranza d’emancipazione.
L’arte ha comunque un ruolo. In uno scritto del 1985, intitolato “Inquadramento dell’arte, épokhè della
comunicazione” [65] Lyotard scrive: “L’arte
è l’épokhè [nota del traduttore: la cessazione, secondo il pensiero di
Husserl] della "comunicazione".
L’arte è il marchio dell’assenza di una comunità data. Al tempo stesso, l’arte
esalta la comunità di tale assenza, essa significa che essa è necessaria.
Ovvero, la si deve immaginare, metter in immagini, in scena. L’immaginazione è qui
energeia, atto (ma non azione). [...]
L’arte non è comunicazione perché quest’ultima non è che azione.” [66]
Non deve dunque sorprendere che le conclusioni dello scritto di Lyotard su
Monory del dicembre 1981 siano, per molti aspetti, più ‘deboli’ di quelle del
dicembre 1972, perché tale ‘debolezza’ è per lui una forza. Basta pensare che
il maggiore seguace di Lyotard in Italia è Gianni Vattimo, il precursore con
Pier Aldo Rovatti della teoria del ‘pensiero debole’ [67]. In questa nuova fase, Lyotard “rigetta – come scrive Michal Kozlowski –
ogni ‘politicizzazione del desiderio’.
(…) Invece, l’opera d’arte porta testimonianza che gli oggetti non esistono
più, che essi sono delle tracce filtrate, codificate e decodificate dalla
nostra sensibilità corporale e dalle nostre lingue, di un potere che le eccede.”
[68]
Parallelamente, con il ciclo Cieli,
nebulose, galassie – iniziato nel 1978 e concluso nel 1981 – Monory decide
di cambiare temi iconografici e di esplorare, a volte in modo scientifico a
volte in modo trasognato, i cieli dell’astrofisica. Come Monory stesso scrive
nel titolo di Cieli N. 39 (il dipinto
che conclude la serie e mostra tutte le 5766 stelle visibili ad occhio nudo), il
risultato non raggiunge le aspettative: “Speravo
nell’estasi, non ho raggiunto che un supplemento di distacco.” Anche
Lyotard commenta l’evoluzione della pittura di Monory (ed in particolare il
passaggio dalle immagini di morte a quelle dei cieli astronomici) e diagnostica
una diminuzione delle capacità espressive: “i
segni della sensibilità sono meno numerosi nelle ultime opere.” [69] Egli considera questo cambiamento non come un
depotenziamento della pittura monoriana, ma come un percorso in linea con la
propria filosofia.
Un’interpretazione semantica dell’opera
di Monory
Lyotard considera le immagini prodotte da Monory come illustrazioni
simboliche, o per usare il linguaggio del filosofo, illustrazioni a testi
(iscrizioni) che ad esse sono sottintesi. Ogni immagine in Monory viene perciò
considerata come la risposta ad un testo non scritto, ma implicitamente
presente. “Il quadro monoriano è dunque
prodotto (tecnicamente, come si dice) in modo tale che possa sempre somigliare
ad un’immagine pubblicata in un rotocalco. Sembra illustrare uno scritto che è
assente. Per comprendere l’immagine, siamo spinti a fabbricarci il testo che la
illustra. Tale testo appartiene alla letteratura minore. Quando è l’io che
interroga il senso della vita, il testo che ispira le figure si apparenta
piuttosto al libro di bordo, al romanzo poliziesco, al fotoromanzo lacrimante.
Quando il tema del senso tocca il sociale, la storia, allora l’immagine del
quadro può suggerire serie epiche a buon mercato. L’allusione ai cliché è di un
umore quasi gioioso.” [70]
Lyotard va comunque al di là della semiotica ed interpreta i temi monoriani
in senso ontologico: “La questione del
senso è posta da un soggetto che soffre a causa sua, e si riferisce a tale
soggetto, che sia un io oppure un noi. La corsa dei cavalli, la terrazza
newyorkese, i gamberi del cocktail, la strada nel deserto, uno sguardo
femminile, la cena chic, la piscina californiana, la catastrofe aerea, la
cantante sanguinante all’opera ci domandano: qual è il fine per il quale tu
oppure voi avrete trascorso la vita? La domanda è posta partendo dalla fine
della vita, al futuro anteriore. Già morto, io mi vedo ancora vivente e misuro
senso e non-senso. Solamente una coscienza alla prima persona, dotata di
ubiquità temporale, detiene questo privilegio di giudicare quel che sarà stato.”
[71]
L’opera di Monory tra filosofia ed
arte
Al cuore dell’opera di Monory, secondo Lyotard, vi è il “difetto tra presenza ed infinito, tra
esistenza e senso.” [72] “Il dandismo
‘sa’ che l’inadattabilità tra esistenza e
senso è la regola, che essa distrugge ogni comunità, che deve essere incarnata
nella singolarità dell’eccezione, nella volontà del veggente, e che il senso
della vita consiste nel mesto godimento del non-senso.” [73]
Se nel 1972 Lyotard era convinto che il pittore dandy fosse al centro di un
sistema universale di circolazione dell’energia vitale che lo poneva al cuore
dell’economia libidinale, nel 1981 il filosofo è ormai sicuro che il dandismo
come istituzione abbia raggiunto i limiti del proprio potere. L’esibizione di
Monory Cieli, nebulose e galassie
dimostra appunto, secondo Lyotard, che il mondo è ormai cambiato. Lyotard
scrive che la sua pittura testimonia il difetto tra presenza e infinito “sempre nel suo lato minore, e non in
quello maggiore. Non è la forza infinita delle Idee che è presentata
negativamente; non è neppure la realtà finita che fa disperare e che si
esaspera della propria imbecillità; è l’Idea realizzata, la negazione fatta
realtà, la morte come modo di vita che è mostrata positivamente. Nulla tra le
cose sensibili può mai eguagliare l’infinito delle idee.” [74]
I Cieli come doppia realtà
La soluzione che gli antichi avevano adottato per colmare l’enorme distanza
tra lo spazio infinito e le cose di ogni giorno era stata l’impiego di tecniche
divinatorie, che erano parte del mondo del pathos. Per tale rapporto diretto
tra un oggetto - lontano o vicino che sia - e chi lo osserva, Lyotard usa il
termine ‘carnale’ [chair]. Il termine si applica non solamente
agli oracoli dell’antichità, a cui venivano fatte offerte sacrificali in
termini fisici, ma anche alla pittura, quando essa crea un rapporto tra chi
rappresenta e ciò che è rappresentato: “Vi
è della carne nella plastica di Monory come in quella di Manet, come pure nella
poetica di Baudelaire. (…) Le tempeste dei Cieli (…), le nuvole, le schiarite possono pur essere null’altro se non
registrazioni d’interazioni di radiazioni fisiche; la loro immagine dipinta
tuttavia non è priva d’eloquenza. È indirizzata a noi, il suo pathos ci
influenza.” [75]
Il tema del killer di professione
come tipo ideale
Anche quando rappresenta costellazioni di stelle, Monory non rinuncia ai
suoi riferimenti consueti , ovvero alle armi. Scrive Lyotard: “L’atto esemplare delle belle arti è l’assassinio, il suo emblema la
pistola; le pistole sono numerose nell’arte di Monory. La traiettoria di un
proiettile è una curva balistica. Il tiro è esatto quando il bersaglio è
raggiunto. Quando è raggiunto, è distrutto.” [78] Se il problema originario
– sia per il pittore sia per il filosofo – è quello del difetto tra presenza ed
infinito, tra esistenza e senso, il percorso del proiettile è un simbolo di un
contatto tra due estremi di un tragitto. È per questo che in Cieli N. 5 e N. 29 le stelle sono
affiancate da fori di proiettili, ed in Cieli
N. 6 compare addirittura, ai
piedi delle immagini stellari, un revolver.
E tuttavia la capacità del pittore di stabilire legami tra mondi così
lontani è ormai ridotta. Il dandy ha esaurito il suo potere. L’assassino di
professione non ha più l’antica capacità divinatoria che consentiva agli
antichi di capire il mondo. Lyotard si riferisce sia ai più recenti testi
narrativi sia ai temi iconografici usuali di Monory, per identificare il tipo
ideale del killer di professione come colui che vive “nel mondo, non nella natura. Un mondo è un insieme di avvenimenti che
non sono finalizzati. L’inverno è arrivato, si sa che le cose non hanno fine,
esse sopravvivono a se stesse (…). Dopo che la catastrofe ha avuto luogo, non
restano che scatolette di cibo per cani nei supermercati assaliti dai ratti.
(…) Il criminale espressionista, il maledetto (…) non uccide più per volontà,
per eseguire un destino filosofico là dove non vi è più nulla che possa
presagirlo, ma solamente per dipendere la sua vita bruta. (…) Il killer di
professione anticipa quel che è la vita in assenza di ogni esperienza
condivisibile.” [79]
Ma vi è anche un elemento più profondo – ontologico – di ambiguità:
sappiamo che sia negli scritti sia nei quadri, Monory si immedesima talmente
nella figura del killer di professione che egli equipara il revolver al
pennello, l’omicidio all’arte. E ciò finisce per rivelare una contraddizione
insanabile. “L’assassino deve scrivere il
suo romanzo o metterlo in pittura. Dunque egli deve testimoniare che [con
l’esecuzione dell’omicidio] tutto è finito. Ora, se tutto è davvero finito, a
che cosa serve ancora scrivere e dipingere? È in questo paradosso minimo che si
nasconde la vitalità artistica. Io dico che non vi è nulla da dire, io penso
che non vi sia niente da dipingere. È la mia ultima parola. (…) Pertanto il godimento consisterebbe nel
fatto di presentare il nulla attraverso scritti ed immagini.” [80] E non a
caso l’estetica di Monory è definita, in questa fase, “l’estetica dell’impresentabile”. Ciò che è impresentabile appartiene
secondo Lyotard all’“estetica del sublime”.
Arte e filosofia in una comune
perdita di senso
Come sappiamo, Lyotard vede una fondamentale unità tra arte e filosofia. I Cieli di Monory – come già menzionato –
non sono più quelli dei romantici, ma derivano dalla raccolta e decodificazione
di onde radio da parte di giganteschi radiotelescopi. Allo stesso modo gli assassini
non sono più la metafora del ‘mostro
dandy’, il super-creativo che riesce a trovare un equilibrio tra energia e
ordine, ma diventano semplici salariati: “Focalizzando
la narrativa sull’assassino, si cambia il suo genere e si può uscire dal
dandismo. L’elogio a distanza dell’eroe dannato fa spazio ad un semplice
rapporto di lavoro. Il capitale e le tecno-scienze fanno un investimento anche
nel crimine.” [81] E Lyotard continua: “Il
killer di professione non è più maggiormente maledetto di un impiegato; è
ugualmente anonimo di quanto sia lui. Qui la potenza assassina dell’Idea è
divenuta quasi completamente mera realtà. Le speranze, gli amori, le volontà
dei singoli, gli odi sono realizzabili in moneta sonante. La speranza diviene
motivazione, l’amore pornografia, l’odio strategia d’omicidio, e la volontà
puro programma. Realizzandole in forma realista, il capitale le distrugge come
esperienza. L’assassino incarna il principio di derealizzazione che è allora la
realtà intera, il principio dell’equivalenza generale, il calcolo, il prezzo.”
[82]
I Cieli come confini del dandismo
Lyotard constata: “Vi è un declino
marcato dell’istanza soggettiva nei Cieli” [83]. Se il problema originario
è quello della distanza tra presenza e senso, uno dei due termini
ontologicamente tra loro così lontani (il senso) non è più regolato
dall’elemento soggettivo. Per provare questo giudizio, il filosofo commenta le
due opere che aprono il ciclo Cieli,
nebulose e galassie. Sono due quadri particolarmente enigmatici, intitolati
Falsa uscita N.1 (fig. 34) e N.2 (fig. 35). Il termine
deriva dal linguaggio teatrale (l’attore sulla scena simula un’uscita oppure
sparisce un solo istante, per poi rientrare). “La serie è introdotta da due False Uscite (1978). Sulla prima è scritta una dichiarazione in prima persona,
secondo la quale la miseria del senso non è relativa alla soggettività della
rappresentazione, ma deriva dal tempo. Il quadro è marcato, lungo tutta la sua
lunghezza, dall’uso di barre incrociate che annullano immagini caricate di un’aura soggettiva. Il secondo quadro rinuncia
addirittura all’impiego delle barre incrociate, lascia incompiuta la dichiarazione
di miseria, e cita solamente la vana dichiarazione: io vedo… Quanto alle
immagini di questa Uscita (un monte
ghiacciato, una nebulosa, un’alba, un mare, un radiotelescopio), esse sono
trattate – come sempre in Monory – come fossero illustrazioni di un testo: ma
di quale? In ogni caso, non si tratta più di una ricerca del tempo perduto. Vi
è solamente un mondo fisico. Se ha tempo, non è quello della coscienza. Con i Cieli Monory porta il suo dandismo (popolare)
fino alla fine, là dove il pittore è ancora ed al tempo stesso non è più
dandy.” [84]
L’estetica del sublime
Il ‘difetto tra presenza ed infinito,
tra esistenza e senso’ è la medesima questione ontologica che Immanuel Kant
si pone nell’introduzione della Critica
del giudizio, là dove si interroga su come sia possibile rendere fra loro
compatibili il mondo della ragion pura, dominato da leggi astratte e da
principi aprioristici, e quello della ragion pratica, dominato dalla libertà e
dagli imperativi categorici. La teoria estetica del sublime e del giudizio
riflessivo consente a Kant di accettare la distanza tra ciò che è terreno ed
appartiene al mondo della morale e ciò che è infinito ed appartiene al mondo
incommensurabile, percependo tale distanza attraverso il senso del sublime
estetico. Non a caso l’iscrizione sulla tomba di Kant è: “Il cielo stellato
sopra di me, la legge morale dentro di me”, una citazione dalla Ragion Pratica.
Lyotard cita invece la Critica del
giudizio: “È sublime ciò in paragone
al quale tutto il resto è piccolo. (…) Lo spettatore prova il sentimento
dell’impotenza della propria immaginazione per potersi rappresentare l’Idea di
un tutto; l’immaginazione raggiunge il suo massimo e, nello sforzo di
sorpassarlo, s’inabissa in se stessa e – facendolo – è immersa in una
soddisfazione emozionante.” [85] Lyotard si interroga se i Cieli di Monory – con il loro
riferimento semiotico ai radiotelescopi – non siano appunto la raffigurazione
del discorso kantiano sul sublime, sia pure “nella sua maniera apparentemente minore” [86], là dove rivelano la
nostra impotenza a raffigurare il cosmo, ma la nostra capacità di poterlo
concepire. Il dandy non può andare oltre il riconoscimento dei propri limiti,
ma il sublime kantiano gli permette di riconoscere i propri limiti e di
proiettarsi verso l’universo.
L’uso di Kant da parte di Monory è comunque “eretico”, come scrive Michal
Kozlowski [87]: infatti Lyotard se ne serve per confermare che “il difetto tra la presenza e l’idea” è
la regola universale [88], ma a differenza di Kant non deriva da essa alcun
sentimento che appartenga al mondo del genio. “Ma tale difetto non è sentito come un sentimento e non ha bisogno di un
genio per esprimersi. È ora attestato come una regola pura, anonima, apatica,
che mette ordine in quel che non ha alcun senso. Il killer di professione,
salariato della morte, è sufficiente – se è presente nella sua imbecillità – a
permettere di tener insieme quel che non ha alcun rapporto. (…) Una volontà qualunque, sconosciuta, mai
interrogata, mai sposata al progetto che persegue, fa prendere l’aereo
all’assassino, lo porta in un motel in pieno deserto, lo fa entrare alle
quattro del mattino nei bagni della stanza di una vittima identificata
attraverso qualche segno esteriore, e gli fa mettere fine alla sua vita e alle
sue speranze con un colpo attutito da un silenziatore. Questo sarebbe il
difetto. La stessa volontà cieca spedisce delle radiazioni verso le stelle e
mette in memoria il loro eco. Non è materia per cui ci si debba rallegrare e
neppure disperare.” [89]
Il sublime di Lyotard è dunque un altro sublime rispetto a quello kantiano.
Quest’ultimo ha “bisogno, come tutti i
sentimenti, di un continuo temporale che conservi la traccia di quel che non è
più, annunci quel che non è ancora, permetta all’assente di essere
allusivamente presente.” [90] Nel mondo tecnologico dei Cieli, l’aura di Walter Benjamin è ormai
scomparsa. “L’aura è l’insieme delle immagini che, sorte dalla
memoria involontaria, tendono a raggrupparsi intorno all’oggetto, il soffio
leggero che racchiude un oggetto della natura o dell’arte con le sue armoniche
(…) e gli dona la profondità di un tempo lontano. (…) Non vi è aura senza continuità nel tempo della psiche e
della tradizione. Lo stesso è vero del sublime, di cui il sentimento dell’aura
non è forse che un caso particolare. Si immagini ora uno spirito del tutto
privato di questa memoria involontaria e di cui tutte le ‘impressioni’ sono
analizzate, inviate, raccolte e conservate nelle macchine. Non ne ha più alcuna
traccia” [91].
Qual è l’obiettivo del pittore? Lyotard si pone questa domanda finale:
perché Monory ci mostra questa realtà apatica dei Cieli, ovvero “una realtà già morta” [92], priva di aura, dominata dalla tecno-scienza del capitale [93]? “Per guardare questi quadri ed essere colpiti
da essi, non bisogna essere un appassionato d’arte, essere al corrente dei
problemi delle avanguardie, della storia
della pittura o della letteratura moderna. Sotto questo aspetto, la comunità cui i quadri si rivolgono esiste già:
sono le persone negli atri delle stazioni ferroviarie, nelle sale d’attese dei
medici, i clienti del cinema, i telespettatori, l’umanità media nella metropolitana
del mattino, nel caffè della stazione, nel cinematografo del sabato. (…) E
quell’umanità è in effetti già morta come comunità, non esiste che come marchio
d’immagine, e non si aspetta nulla dai quadri, se non passare un momento. Un
bel momento? Sì, se colui che getta lo sguardo riconosce tutto quel che vede,
identifica nell’immagine immediatamente quel che a lui piace, che egli desidera
o detesta. … Se non deve cercare di capire di che cosa si tratti, ed
inquietarsi. Il momento è buono se consente un riconoscimento individuale. E
questo momento di solitudine è anche un tempo di comunione di massa, perché le
identità sono intercambiabili e ciascuno accetta o rifiuta le stesse cose di
tutti gli altri. Le immagini sono allora un vasto specchio mediatico, buone
quando riflette bene lo spettatore anonimo. Guardando i quadri di Monory, noi
ci riconosciamo, noi siamo e diveniamo questi sopravvissuti. I quadri si
rivolgono ad una massa di superstiti apatici. La massa si riconosce in loro; i
quadri sono la loro cultura. Questo è il loro realismo.” [94]
L’assassinio dell’esperienza per mezzo della pittura: le
ragioni di un titolo
Qual è infine il significato del titolo, assai oscuro, del volume che
raccoglie i due scritti di Lyotard su Monory del 1972 e del 1981: L’assassinio dell’esperienza per mezzo della
pittura?
Per Lyotard i due termini chiave sono esperienza
e sperimentazione. Il primo termine
richiama le sensazioni e i sentimenti che un soggetto individuale (l’io) prova.
L’esperienza è legata all’idea di
progresso e rivoluzione; è un tipico prodotto del mondo cristiano; la sua
estetica è quella già descritta dell’aura di Benjamin. In termini estetici si
esprime infatti come epica, romanzo, confessione, tragedia e storia [95]. Il
secondo termine, la sperimentazione
intesa come abilità tecnico-scientifica, è legato alla versione ultima del mondo
capitalista. La sperimentazione non
richiede neppure un “io soggettivo”; si basa sulla vita di massa nelle
metropoli e nei luoghi di produzione, e su dispositivi di sostituzione dei
sentimenti da parte del mercato [96].
Lyotard interpreta la decisione del pittore di fare uso costante del blu
per la sua pittura (la mise en bleu)
come emanazione della sperimentazione, da
parte del pittore ‘esperto del blu’.
Egli interpreta la pittura di Monory come una decisione consapevole di
passaggio dal mondo dei sentimenti a quello della determinazione tecnico-scientifica:
“Il declino dell’esperienza può sempre
trasformarsi nel risveglio della sperimentazione” [97].
La scelta di Monory è dunque quella di distanziarsi dal mondo del passato
per affermarsi in un presente dominato dall’assenza di aura, dall’assenza di
una comunità, dal vuoto di ogni narrazione. “Con i suoi revolver, il pittore abbrevia l’agonia dell’esperienza.” [98]
Ed ancora: “La sperimentazione che
risulta dalla tecno-scienza capitalista non lascia spazio alcuno all’aura dei ricordi e delle speranze. Essa non
conosce che dei fatti: il blu è un fatto micro-ondulatorio; l’organizzazione dello
spazio è un fatto topografico;
l’emozione sublime un fatto
psico-fisiologico; gli uni e gli altri sono analizzabili e producibili a
partire da assiomi, e gli assiomi sono dispositivi logici.” [99]
Eppure Monory compie questa scelta radicale senza essere pittore
d’avanguardia: “Ha voltato la schiena
alla ricerca plastica e metafisica, di colpo. La sua non è una pittura di
ricerca. Per lui è come se non vi fosse stata alcuna avanguardia. ‘Monet è
morto’ [Nota del traduttore: titolo di un quadro di Monory; si veda la recensione a Jacques Monory, Écrits, entretiens, récits, fig. 121], ma anche Cezanne. Le esplorazioni di
Malevitch, Kandinsky e Mondrian non hanno lasciato la minima traccia nella sua
maniera.” [100]
Vi è qui l’ultima rottura rispetto a Kant. La sua Critica del Giudizio era basata sulla differenza tra il sublime
(inafferrabile, se non per mezzo di un sentimento di inferiorità dell’uomo rispetto
all’incommensurabile) ed il bello (una manifestazione locale ed incompiuta del
giudizio estetico, che è più facilmente accessibile agli uomini). In Monory,
scrive Lyotard, il concetto di sperimentale concilia sublime e bello: è “la concentrazione
possibile solamente grazie alla concentrazione di sapere e tecnica che è la
caratteristica delle nuove macchine.” [101] Con Monory “il sublime
dell’immanenza rimpiazza il sublime della trascendenza.” [102]
Il rapporto della pittura con i
media: il dialogo filmato tra Monory e Lyotard nel 1982
Il ‘Centro nazionale della ricerca scientifica’ commissiona a Lyotard e
Monory una riflessione sul rapporto tra pittura, fotografia e cinema. Il
dialogo tra pittore e filosofo sul ruolo dei media nell’arte è dunque
documentato dai media stessi. Il tono della conversazione tra i due (parte di
un filmato girato da David Carr-Brown nel 1982) abbandona però il linguaggio
formalizzato e spesso enigmatico del filosofo e si rivela adatto ad un pubblico
non specializzato. Il salto linguistico è enorme.
L’intesa tra i due è davvero perfetta. Si tratta dell’unica intervista nel
recente volume di scritti di Monory [103] in cui l’alternanza tra gli
interlocutori sia continuamente caratterizzata da un sentimento di intesa. Lo
scambio di vedute è caratterizzato da un interloquire molto denso. Vediamo
alcuni esempi.
Sul ruolo delle immagini prese dai
media ed il rapporto con la modernità
Ecco come torna l’idea del pittore dell’età moderna nel corso della
conversazione. Lyotard chiede: “Perché
mai un pittore prende la maggior parte delle sue immagini dai media: le riviste
scientifiche, le foto dai film al cinema, le riproduzioni d’immagini da servizi
giornalistici? Che cosa ti manca nella pittura per cui tu debba sentire
necessario completare, se così si può dire, la tua opera con immagini mobili?”
“Tu vuoi dire, perché non faccio una
pittura pura? Quel che si chiama pittura pura?” “No, non dico questo. Perché
non ti accontenti della pittura?” “Infatti, preferisco la pittura a ogni altra
cosa. Non mi posso tuttavia accontentare.” “Ma ciò non fa che aggravare il
problema. Perché fai qualcosa che tu non preferisci?” “Perché io ho bisogno,
per la mia pittura, di tutti gli altri elementi. Io ho bisogno delle immagini
del mondo. E le immagini del mondo non posso acchiapparle tutte da solo, non
posso essere presente quando vi è un attentato in Giappone. Se questo attentato
m’interessa, io ho l’informazione attraverso i mass-media, ed allora me ne
servo. È la visione della nostra epoca, è la materia della nostra epoca.”
[104]
Il dialogo continua sul rapporto tra la scelta delle immagini e la
modernità. Lyotard nota la frequenza con la quale Monory introduce nelle sue
tele “il tema della macchina, e dunque
l’automobile, le motociclette, gli aerei, i grandi radar nel cielo, gli
strumenti chirurgici e ovviamente anche gli strumenti di morte, infine le
pistole e le cose simili. La macchina è sempre associata in te alla perdita di
senso. Insomma, il tutto avanza da solo, non vi è alcuna finalità in esso, è
semplicemente funzionale e, nella misura in cui gli uomini sono essi stessi
completamente subordinati alle macchine, allora perdono anch’essi, e le loro
vite perdono, un senso di finalità.” “Sì,
ma vi è sempre in tutto quel che faccio questa contraddizione. Infatti, ho
paura della morte ed amo la vita. Avendo una paura della morte così grande,
bisogna che io la rappresenti.”
“Ma, ad esempio, tu dici: ‘Oggi la
gente non guarda più gli alberi, ma guarda le immagini degli alberi; non guarda
più il cielo, ma le immagini del cielo che gli osservatori del monte Wilson
possono riprodurre dal momento che se ne ricordano’. Ciò significa che, in quel
caso, tu consideri il fatto che noi non vediamo più le cose, ma le immagini
delle cose, come qualcosa appartenente al lato della vita o al lato della
morte, nella modernità? Dato che è una vera schifezza.” Monory risponde: “È una
forma di vita. È la nostra vita.” [105]
Sull’impossibilità dell’arte di
recuperare un’unità d’insieme del mondo, se non attraverso lo spettatore
La conversazione rivela anche l’idea che il compito dell’artista sia non
solamente quello di porre in evidenza le molte contraddizioni del mondo, ma anche
di offrire momenti di sintesi. Tuttavia, nel mondo moderno la funzione di
sintesi può essere svolta ormai solo dal pubblico, non più dall’artista. Dunque, a
differenza dell’arte del mondo rinascimentale, l’arte di Monory non crea
direttamente una sintesi, ma offre allo spettatore solamente una mera
opportunità di coglierla, con i suoi mezzi.
Inizia Monory: “Io credo che quanto
maggiore è il numero delle contraddizioni in un’opera, quanto più differenti le
cose che sono integrate e riprodotte nella loro totalità, tanto più l’opera sia
interessante.” “Sì.” “Sei d’accordo anche tu.”
“Sì – ripete Lyotard
– e penso che questo punto meriterebbe una discussione interminabile. Quando
vedo ritratti di volti, ben lisci e curati, penso a tantissimi pittori classici
e barocchi. A prima vista, non vi è affatto l’aspetto decostruttivo,
frammentato, contraddittorio che caratterizza, per esempio, la tua opera
pittorica e che, si noti bene, è del tutto moderno. Tuttavia, io penso, sotto
questo aspetto ben levigato delle immagini, ai ritratti di Holbein. Per
esempio, basta guardare per tre-quattro ore, e ci si accorge che quel volto è
una matrice di contraddizioni.”
“Assolutamente sì, ed è per questo
motivo che è interessante.” “L’orecchio qui e l’angolo del labbro là, non vanno
affatto bene…” “Sì, sì.” “Il fatto è che le persone – continua Lyotard – sono di per sé contradditorie. Dunque, questa contraddizione può
essere riprodotta effettivamente in mille modi. Io direi che, nella tua opera,
la contraddizione è esposta. È esposta prima del suo contrario, ovvero prima
della sintesi in un viso umano, per esempio. Con Holbein, invece, prima si vede
il viso umano e poi le contraddizioni che in esse sono nascoste. Nella tua
pittura la contraddizione è esposta dall’inizio, dunque la questione dell’unità
(…) è un problema che deve essere risolto dallo spettatore.”
Conclude Monory: “Sì, ma tutto ciò
corrisponde in pieno ai nostri tempi. È la convinzione, in maniera generale,
che l’unità sia impossibile. Mentre se ti riferisci alla fine del Medio Evo, al
Rinascimento, vi era un sentimento d’unità del mondo.” [106]
Il dialogo si conclude con una riflessione sulla combinazione, la
compresenza d’immagini nella stessa immagine. Monory considera la
giustapposizione delle immagini all’interno dello stesso quadro come la
caratteristica della vita. Alla domanda “Per
te, quell’aspetto è la vita?” risponde: “Sì. Perché nella vita - nel momento in cui io ti parlo, tu mi parli -
noi stiamo pensando ad altre cose. È vero, è pieno di meccanismi. Vi è tutto il
complesso di immagini che uno può trasferire da lontano, e poi si preferisce
un’immagine su alcune decine d’immagini (per non esagerare) che sono presenti
allo stesso tempo. Allora, questa è la vita: è la vita quando si riesce a
mettere insieme queste dieci immagini e queste dieci immagini ne tengono
insieme una sola.”
In conclusione, un colloquio che dimostra ancora una volta come il pittore
ed il filosofo discutano su tutti i temi dell’arte di Monory. E soprattutto un
dialogo che diviene, di per sé, l’oggetto mediatico che deve essere documentato
per le prossime generazioni, come prova che pittura e filosofia si possono
intendere.
Monory ed il pensiero estetico di
Lyotard sull’immaterialità dell’arte nel 1985
La nostra analisi del rapporto tra Monory e Lyotard non sarebbe completa se
non ci riferissimo alla mostra “Les immatériaux” organizzata da Lyotard,
insieme al critico d’arte e curatore Thierry Chaput (studioso del design
industriale), al Centre Pompidou nel 1985. Rispetto alle tappe precedenti del
dialogo tra Lyotard e Monory (che basavano la teoria estetica del filosofo
unicamente sull’arte di un pittore) la mostra segna un passaggio fondamentale.
Come spiega Sarah William, l’estetica di Lyotard era stata criticata vivamente
per non essere sufficientemente diversificata e sistematica, essendo basata
unicamente su Monory [108]. In realtà, la vasta letteratura di Lyotard
sull’arte contemporanea aveva spaziato su artisti assai diversi, da Baniel
Buren a Barnett Newmann, da Joseph Kosut a Karel Appel. La mostra al Beaubourg gli
permette ora di esplicitare la sua riflessione sull’immaterialità dell’arte
facendo leva su un gruppo molto vasto ed eterogeneo di artisti. Sarebbe però
illusorio cercare di estrarre da essa una riflessione sistematica, un
riferimento a criteri concettuali di riferimento. Lyotard odia Platone e tutti
i filosofi sistematici dopo di lui; il suo metodo è quello di accompagnare,
tramite serie continue di associazioni linguistiche, il lettore dall’ordine al
disordine, e dal disordine all’ordine. Lo stesso vale sicuramente per il
visitatore della mostra del 1985.
Si trattò storicamente – si badi bene - di una delle mostre più innovative
ma anche meno amate dal pubblico parigino, per molti motivi (la quasi totale
mancanza di un percorso museale; la combinazione di materiali, tecniche,
concetti molto diversi; l’uso ardito di nuove tecnologie, che tuttavia spesso
non funzionarono nelle sale d’esposizione; l’assoluta ricerca della
complicazione concettuale, al punto che Paul Crowther spiega che la mostra si
poneva specificatamente l’obiettivo ‘di
non essere pedagogica’ [109]).
A trent’anni di distanza, quell’avvenimento attrae però ancora l’interesse
degli studiosi d’arte contemporanea. La Tate Modern di Londra ha dedicato un
convegno su quella mostra nel 2008, cui è seguita la pubblicazione di una
saggio sempre per la Tate Modern nel 2009 [110]. Nel 2014 si è tenuta una
conferenza in Germania, all’Università di Lüneburg [111]. Quest’anno si è
tenuta una conferenza al Courtauld Institute of Art, sempre a Londra [112], in
occasione dei trent’anni dalla mostra.
Quella fu, infatti, la prima mostra in cui fu proposta non solamente la
questione del rapporto tra arte e nuovi materiali della tecnica, ma anche tra
arte e realtà virtuale (un tema anticipato nello scritto di Lyotard su Monory
del 1981) e tra arte e mondo immateriale dell’informazione. In occasione della
mostra, si tennero convegni e furono pubblicati saggi. La mostra voleva porre
in discussione l’intero sistema cartesiano di razionalità, con l’aiuto di
diverse discipline (si trattò di una delle mostre che meglio sposavano la
missione del Beaubourg di integrare concetti e contributi da diverse
discipline). L’espressione “Immateriali” voleva da un lato far riferimento a 5 termini
chiave derivanti dalla radice indo-europea māt (matériau, materiel, maternité,
matière, matrice), ma dall’altro riflettere sull’immaterialità del messaggio
artistico (il che spiega il prefisso negativo ‘in’ nel neologismo Immatériaux). Paul Crowther spiega
infatti che la riflessione non era solamente legata al rapporto tra arte e più
recenti materiali fisici, ma al rapporto più generale tra arte, nuovi materiali
e procedimenti intellettivi, facendo interagire 5 fattori: “(1)
L’origine del messaggio (maternité); (2) Il mezzo che lo sostiene (matériau);
(3) il codice in cui è scritto (matrice); (4) ciò cui si riferisce (matière);
(5) la destinazione del messaggio (matériel).” [113] [114]
Monory nella mostra del 1985
Antony Hudek, un critico d’arte della Tate Modern, spiega [115] che si deve
a Lyotard l’inclusione nella mostra del polittico Esplosione di Monory, composto da quattro pannelli che mostrano
appunto l’esplosione di un aeroplano. È il quadro citato nella conversazione
filmata del 1981 tra Lyotard e Monory, là dove il pittore si riferisce alla
necessità di ispirarsi ad immagini dai media per i suoi quadri e si riferisce
ad un attacco terroristico contro il Giappone. È un evento che ricordo bene,
anche se avevo solo dieci anni. Nel 1973 l’Armata Rossa Giapponese sequestrò un
aereo della Japan Airline in Olanda, liberò passeggeri e equipaggio in Libia e
fece saltare l’aereo all’aeroporto di Tripoli.
Il polittico consiste di quattro pannelli che mostrano precisamente la
stessa scena dell’esplosione dell’aeroplano, in versioni di diversi colori
monocromi che vanno da un blu intenso a un quasi bianco. Tre pannelli
riproducono in colori diversi una fotografia, mentre l’ultimo è un disegno a
mano libera. Sotto il polittico, il pubblico della mostra può leggere un
aforisma criptico di Lyotard: “Il pittore
pone a confronto due modi. Catastrofe della pittura?” I due modi sono
(possibilmente) il dipinto ad olio da fotografia ed il disegno libero. Hudek
interpreta l’interrogativo retorico di Lyotard come un tentativo di ribattere
alle tesi di Adorno sulla morte dell’arte come conseguenza delle nuove
tecnologie. I due “modi” che Monory mette a confronto mostrano, secondo Hudek,
che diversi procedimenti possono consentire al pittore di rappresentare due
tempi: “il tempo del capitalismo
(misurabile, contabilizzabile, prevedibile) ed il tempo libidinale (gratuito,
eccessivo, incapace di previsione e di memoria)” [116]. L’arte non è morta.
Un interrogativo beffardo di Bernard
Henri-Levy
Il tempo della filosofia post-moderna è passato presto, e a Parigi si sono
imposti già negli anni Ottanta i nuovi filosofi. E proprio ad uno di loro,
forse il più famoso, Bernard Henri-Levy, la Fondazione Maeght ha recentemente
assegnato il compito, nel 2013, di affidare la cura di una mostra su pittura e
filosofia: “Le avventure della verità.
Pittura e filosofia: una narrazione” [117]. Se Maeght ha avuto una lunga
tradizione nel dialogo tra filosofia e pittura, questa è stata la mostra più
ampia mai organizzata.
Il filosofo ha lavorato due anni alla selezione dei temi e delle opere, ed
ha scelto (tra 120 opere esposte) anche un quadro di Monory (Tigre da sogno N. 4) per documentare il
suo rapporto con Lyotard. Il quadro è di proprietà della Fondazione Maeght. Il
testo di Levy approntato per il catalogo è però pieno di dubbi e critiche sul
loro confrontarsi, soprattutto dal versante di Lyotard.
“Rivedo Jean-François Lyotard, nell’anno
della pubblicazione del suo ‘Firmato, Malraux’ [1996], in piedi, già malato, nella grande sala del servizio stampa
dell’editore Grasset, dirmi che Monory non era solamente un grande pittore, ed
un maestro dandy, ma soprattutto uno di quei ‘rigeneratori dello sguardo’ [régénérateurs
du regard] che Malraux (in un testo che
io non ho mai trovato e che forse Lyotard si era appena inventato) attendeva e che
sperava si potessero prima o poi materializzare. Che cosa mai Monory gli ha
insegnato di nuovo a guardare? Quali ‘derive” gli ha mai ispirato? Di quali
assassinii furono mai – realmente – complici?” [118]
La mostra include anche una sezione in cui Bernard-Henry Levy mostra la
registrazione di tutti i pittori viventi, mentre leggono a voce alta la pagina
di un filosofo. Per Monory non sceglie Lyotard, ma Foucault.
Che cosa è rimasto?
L’interrogativo retorico di Bernard Henry-Levy sembra segnare il
(provvisorio) tramonto per l’interesse sul rapporto tra Monory e Lyotard in
Francia. Un altro esempio: il catalogo della recente mostra retrospettiva dedicata
a Monory , organizzata dalla Fondazione Hélène et Édouard Leclerc nel
2014, contiene solamente due pagine sul tema del rapporto tra arte e filosofia
[119]. Più in generale, l’immagine offerta al visitatore della mostra a
Landernau tralascia qualsiasi riferimento ad aspetti controversi come il ruolo
politico della sessualità (l’economia libidinale) o la discussione critica del
sistema capitalista. È evidente che la mostra intende offrire l’immagine molto
più tranquillizzante di Monory, non come pittore-filosofo, ma come “pittore-cineasta”.
Probabilmente questa interpretazione ‘normalizzata’ è più in linea con gli
obiettivi della Fondazione Leclerc, la cui governance è legata ad uno dei maggiori
gruppi di grande distribuzione in Francia e che probabilmente ha la necessità
di offrire un prodotto, anche culturale, che possa rivolgersi alla media del
grande pubblico. Édouard Leclerc è molto conosciuto in Francia per aver creato e
guidato un suo movimento politico con una forte matrice cattolico-conservatrice,
addirittura presentandosi alle elezioni presidenziali (per la verità, con poca
fortuna). Si può così anche spiegare – per esempio – perché dalla lista delle
mostre di Monory, nel catalogo, scompaia ad esempio ogni riferimento a quella
di Aosta dei 1990 su “Sade - rivoluzione
– impossibile”.
Insomma, sembra quasi che a Parigi ci si sia dimenticati di Monory e
Lyotard, e ci si vergogni di essere stati terreno di avanguardia nel rapporto
tra pittura e filosofia.
Eppure, molti temi al centro del loro rapporto sembrano (almeno a mio
parere) molto più attuali oggi di quanto non fossero trenta o quarant’anni fa.
Ovviamente il linguaggio sembra oggi per alcuni aspetti troppo ideologico e per
altri eccessivamente ingenuo. Tuttavia, se si riflette oggi sul concetto di
economia libidinale nello scritto di Lyotard del 1972, non si può che pensare
al ruolo che le immagini (molto spesso con una forte carica sessuale) hanno nell’economia,
nei rapporti sociali ma anche nella vita delle persone (comprese le relazioni
emotive), nelle reti sociali e nelle grandi imprese di gestione elettronica
dell’informazione. Gli Immatériaux di
oggi sono Google e Facebook. Anche l’intuizione che il successo del sistema
capitalistico non sia legato esclusivamente alla produzione di beni materiali,
ma anche alla creazione ed alla gestione di quel che Lyotard chiama un surplus
di godimento fa pensare al ruolo che l’industria dei media ha avuto come
strumento di stabilizzazione e legittimazione del sistema politico ed economico.
È vero: i pittori e gli artisti non sono sicuramente al centro del sistema di
produzione, ma non dovremmo dimenticare che viviamo in un mondo talmente
dominato dall’immagine elettronica che addirittura i terroristi dello Stato
islamico sono obbligati a servirsi di essa.
Invece il secondo scritto del 1981, quello dove Lyotard si ispira alla
teoria del sublime di Immanuel Kant per giungere alla conclusione che nulla di
sostanziale può essere comunicato e compreso, che l’arte è presentazione
dell’impresentabile, che l’aura di
Benjamin si è persa per sempre, che non vi è più alcuna comunità che riceva
l’arte, e che il sublime possa essere d’ora in poi solamente pura immanenza,
richiama il tema dell’assenza di sostanza e sentimento in gran parte delle reti
informatiche attuali, dove una grandissima parte delle risorse utilizzate non
include alcun contenuto e non esprime alcuna empatia. La vittoria della
sperimentazione sull’esperienza è forse la nostra totale dipendenza collettiva
dalla tecnologia di massa: un black-out totale dell’energia non significherebbe
forse l’eliminazione quasi totale di ogni immagine recente?
Perché invece un interesse così vivace per Monory e Lyotard a Londra,
mentre a Parigi tutto tace? Come mai il convegno del 2013 a loro dedicato ha
avuto luogo all’Institut Français della capitale britannica, e non in uno dei
centri studi parigini? A che cosa si deve l’interesse per la mostra “Les Immaterieux” di Lyotard alla Tate
Modern nel 2008? Forse a Londra il retaggio per il passato è più facile da
superare. Restituire al cosmopolita pubblico londinese un ricordo documentato
di come intellettuali ed artisti a Parigi entrarono in dialogo sull’essenza
dell’arte non pone, sulle rive del Tamigi, alcun rischio di riaprire ferite
dolorose su battaglie ideologiche vecchie di decine di anni, giocate ai bordi
della Senna.
NOTE
[56] Monory. Ciels, nébuleuses et galaxies, Testo di Jean-François Lyotard, Derrière le miroir N. 244, A. Maeght editore, 1981
[57] Les Peintures de Giacometti. Testo di Jean-Paul Sartre, Derrière le miroir, N. 65, A. Maeght editore, 1954
[58] Paul Rebeyrolle. Testo di Michel Foucault, Derrière le miroir, N. 202, A. Maeght editore, 1973
[59] Valerio Adami: le voyage du dessin. Testo di Jacques Derrida, Derrière le miroir, no. 214, A Meaght editore, 1975.
[60] Monory. Opéras glacés, Testo di Gilbert Lascault, Derrière le miroir, N. 217, A. Maeght editore, 1975.
[61] Monory. Technicolor, Testo di Alain Jouffroy, N. 227, A. Maeght editore, 1978.
[63] Si veda: http://www.maeght.com/news/mars09_monory/dp_monory.pdf
[65] Lyotard, Jean-François – Arraisonnement de l’art. Épokhè de la communication, 1985 in: Textes disperses I / Miscellaneous Texts I: Esthetique et theorie de l'art, a cura di Herman Parret, 2012, Leuven University Press, pagine 176-192
[66] Lyotard, Jean-François – Arraisonnement de l’art. (citato) p.192
[67] Vattimo, Gianni; Rovatti, Pier Aldo - Il pensiero debole, Milano : Feltrinelli, 1983, 262 pagine.
[68] Kozlowski, Michal - Lyotard - Un penseur du siècle ?, in Critique d’art, N. 40, 2012 Si veda: https://critiquedart.revues.org/3327
[69] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, Monory, a cura di Herman Parret, introduzione di Herman Parret , postfazione di Sarah Wilson, traduzione di Rachel Bowlby, Jeanne Bourniort e Petr W. Milne, Volume VI della collezione degli scritti di Jean-François Lyotard sull’arte contemporanea e gli artisti, 2013, Leuven University Press, 288 pagine, 42 foto a colori nel testo. Le citazioni si riferiscono al testo in francese. Citazione a pagina 166.
[70] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p.162
[71] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p.170
[72] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 156
[73] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 166
[74] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 156
[75] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 158
[76] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 158
[77] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 160
[78] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 160
[79] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 160
[80] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 164
[81] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 168
[82] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 168
[83] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 170
[84] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 170
[85] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 172
[86] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 172
[87] Kozlowski, Michal - Lyotard - Un penseur du siècle ? (citato)
[88] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 172
[89] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 172-174
[90] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 174
[91] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 174
[92] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 183
[93] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 180
[94] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 180-182
[95] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 54
[96] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 56
[97] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 56
[98] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 56
[99] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 190
[100] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 184
[101] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 190
[102] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 192
[103] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits, editions établie par Pascale Le Thorel, preface par Jean-Christophe Bailly, Paris, École nationale supérieure des beaux-arts, 2014, 382 pagine.
[104] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits (citato), p. 73
[105] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits (quoted), p. 89
[106] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits (citato), pp. 70-80
[107] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits (quoted), p. 90
[108] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 251
[109] Si veda: Crowther, Paul – Les Immateriaux and the postmodern sublime, in: Judging Lyotard, a cura di Andrew Benjamin, Londra, Routledge, p.193
[110] Si veda: http://www.tate.org.uk/research/publications/tate-papers/over-sub-exposure-anamnesis-les-immateriaux
[111] Si veda: http://socks-studio.com/2014/07/16/les-immateriaux-an-exhibition-of-jean-francois-lyotard-at-the-centre-pompidou-1985/
[112] Si veda:
https://www.courtauld.ac.uk/researchforum/events/2015/spring/documents/LesImmateriaux27-28March_Abstratcs.pdf
https://www.courtauld.ac.uk/researchforum/events/2015/spring/documents/LesImmateriaux27-28March_Abstratcs.pdf
[113] Si veda: Crowther, Paul (citato), p. 193
[114] Si veda anche: Bamford Kiff, Lyotard and the ‘figural’ in Performance, Art and Writing, New York, Continuum, 2012, 224 pagine.
[115] Hudek, Antony - From Over- to Sub-Exposure: The Anamnesis of Les Immatériaux, in: http://www.tate.org.uk/download/file/fid/7267
[116] Hudek, Antony - From Over- to Sub-Exposure (citato)
[117] Lévy, Bernard-Henri, Les Aventures de la vérité. Peinture et philosophie: un récit, Fondation Maeght/Grasset, 2013, 390 pagine.
[118] Lévy, Bernard-Henri, Les Aventures de la vérité. (citato), p. 376
[119] Jacques Monory, Catalogo, Sotto la direzione di Michel-Édouard Leclerc, Consulente editorial Pascal Le Thorel, Fonds Hélène et Édouard Leclerc pour la Culture, 2014, 191 pagine. La sezione su arte e filosofia è alle pagine 112-113.
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