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mercoledì 11 novembre 2015

Francesco Mazzaferro. Il dialogo tra un filosofo e un pittore: Jean-François Lyotard e Jacques Monory. Parte Seconda: 1981-1985


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Francesco Mazzaferro
Il dialogo tra un filosofo e un pittore: 

Jean-François Lyotard e Jacques Monory

Parte Seconda: 1981-1985


Fig. 4) Jean-François Lyotard, L'assasinio dell'esperienza da parte della pittura, Monory in edizione bilingue pubblicata dall’Università di Lovanio nel 2013





Il catalogo dell’esposizione Cieli, nebulose e galassie del 1981

Nel marzo 1981 Monory espone alla Galleria Maeght di Parigi la sua nuova serie “Cieli, nebulose e galassie” [56]. In quell’occasione, anche Lyotard entra nella schiera dei molti filosofi che hanno scritto testi per le esposizioni di arte contemporanea organizzate dalla Galleria, e produce il saggio “I confini di un dandismo”. Il mecenate e gallerista Aimé Maeght aveva fondato, subito dopo la Seconda guerra mondiale, la rivista d’arte Derrière le miroir (Dietro lo specchio), che tra il 1946 ed il 1982 ha presentato le opere ospitate nella Galleria, spesso rivolgendosi a filosofi per commentarle.  Prima di Lyotard, Jean-Paul Sartre aveva pubblicato il testo per la mostra di Giacometti del 1954 [57], Michel Foucault per quella di Rebeyrolle nel 1973 [58] e Jacques Derrida per quella di Valerio Adami nel 1975 [59]. Quello di Lyotard non è il primo testo commissionato dalla Galleria Maeght per Monory: Gilbert Lascault aveva scritto un commento a Opere ghiacciate nel 1975 [60], mentre Alain Jouffroy aveva curato Technicolor nel 1978 [61]. Monory è dunque stato uno degli artisti di punta della famiglia Maeght, che nel 2006 ha organizzato anche una retrospettiva a lui dedicata dal titolo “Monory Anni 70” [62] e nel 2009 esposto la sua nuova serie “Tigre” [63], alla Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence. Ancor più recentemente, la Fondazione Maeght ha organizzato una mostra sulle “Avventure della verità – Pittura e filosofia” [64], con Bernard-Henri Lévy come curatore dell’esposizione. Ovviamente, Monory era fra gli artisti rappresentati alla mostra.


L’estetica sublime del killer di professione

Nel dicembre del 1981 Lyotard rivede ed ampia il testo pubblicato con la Galleria Maeght e lo intitola “Estetica sublime del killer di professione”. Rispetto al 1972, anno dell’“Economia libidinale di un dandy”, due elementi sono mutati.

Da un lato, il pensiero di Lyotard ha avuto una chiara cesura con la pubblicazione del suo saggio principale “La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere”. Tale saggio (del 1979) segna un suo allontanamento da un’interpretazione marxista-freudiana dell’arte ed un avvicinamento al pensiero neo-kantiano, ed in particolare all’estetica del sublime, che il filosofo tedesco elabora nella Critica del giudizio.  Questa nuova fase deriva dalla convinzione di Lyotard che la filosofia non possa più contare su nessuna forma di narrativa che sia legittimata (hegelismo e marxismo sono egualmente considerati esauriti), mentre l’accumulazione d’informazioni scientifiche sia ormai talmente vasta che nessun pensiero filosofico possa essere sufficiente a offrirne una sintesi complessiva. Non esiste più, secondo Lyotard, una lettura complessiva della società, e dunque non vi è nessun ruolo per teorie omnicomprensive come la sua economia libidinale degli anni precedenti. Siamo infatti in una nuova fase dell’umanità, in cui il capitale delle industrie multinazionali e le tecno-scienze prevalgono su ogni pensiero filosofico, e non possono offrire all’umanità alcuna speranza d’emancipazione. L’arte ha comunque un ruolo. In uno scritto del 1985, intitolato “Inquadramento dell’arte, épokhè della comunicazione” [65] Lyotard scrive: “L’arte è l’épokhè [nota del traduttore: la cessazione, secondo il pensiero di Husserl] della "comunicazione". L’arte è il marchio dell’assenza di una comunità data. Al tempo stesso, l’arte esalta la comunità di tale assenza, essa significa che essa è necessaria. Ovvero, la si deve immaginare, metter in immagini, in scena. L’immaginazione è qui energeia, atto (ma non azione). [...] L’arte non è comunicazione perché quest’ultima non è che azione.” [66]

Non deve dunque sorprendere che le conclusioni dello scritto di Lyotard su Monory del dicembre 1981 siano, per molti aspetti, più ‘deboli’ di quelle del dicembre 1972, perché tale ‘debolezza’ è per lui una forza. Basta pensare che il maggiore seguace di Lyotard in Italia è Gianni Vattimo, il precursore con Pier Aldo Rovatti della teoria del ‘pensiero debole’ [67].  In questa nuova fase, Lyotard “rigetta – come scrive Michal Kozlowski – ogni ‘politicizzazione del desiderio’. (…) Invece, l’opera d’arte porta testimonianza che gli oggetti non esistono più, che essi sono delle tracce filtrate, codificate e decodificate dalla nostra sensibilità corporale e dalle nostre lingue, di un potere che le eccede.” [68]

Parallelamente, con il ciclo Cieli, nebulose, galassie – iniziato nel 1978 e concluso nel 1981 – Monory decide di cambiare temi iconografici e di esplorare, a volte in modo scientifico a volte in modo trasognato, i cieli dell’astrofisica. Come Monory stesso scrive nel titolo di Cieli N. 39 (il dipinto che conclude la serie e mostra tutte le 5766 stelle visibili ad occhio nudo), il risultato non raggiunge le aspettative: “Speravo nell’estasi, non ho raggiunto che un supplemento di distacco.” Anche Lyotard commenta l’evoluzione della pittura di Monory (ed in particolare il passaggio dalle immagini di morte a quelle dei cieli astronomici) e diagnostica una diminuzione delle capacità espressive: “i segni della sensibilità sono meno numerosi nelle ultime opere.” [69]  Egli considera questo cambiamento non come un depotenziamento della pittura monoriana, ma come un percorso in linea con la propria filosofia.


Un’interpretazione semantica dell’opera di Monory

Lyotard considera le immagini prodotte da Monory come illustrazioni simboliche, o per usare il linguaggio del filosofo, illustrazioni a testi (iscrizioni) che ad esse sono sottintesi. Ogni immagine in Monory viene perciò considerata come la risposta ad un testo non scritto, ma implicitamente presente. “Il quadro monoriano è dunque prodotto (tecnicamente, come si dice) in modo tale che possa sempre somigliare ad un’immagine pubblicata in un rotocalco. Sembra illustrare uno scritto che è assente. Per comprendere l’immagine, siamo spinti a fabbricarci il testo che la illustra. Tale testo appartiene alla letteratura minore. Quando è l’io che interroga il senso della vita, il testo che ispira le figure si apparenta piuttosto al libro di bordo, al romanzo poliziesco, al fotoromanzo lacrimante. Quando il tema del senso tocca il sociale, la storia, allora l’immagine del quadro può suggerire serie epiche a buon mercato. L’allusione ai cliché è di un umore quasi gioioso.” [70]

Lyotard va comunque al di là della semiotica ed interpreta i temi monoriani in senso ontologico: “La questione del senso è posta da un soggetto che soffre a causa sua, e si riferisce a tale soggetto, che sia un io oppure un noi. La corsa dei cavalli, la terrazza newyorkese, i gamberi del cocktail, la strada nel deserto, uno sguardo femminile, la cena chic, la piscina californiana, la catastrofe aerea, la cantante sanguinante all’opera ci domandano: qual è il fine per il quale tu oppure voi avrete trascorso la vita? La domanda è posta partendo dalla fine della vita, al futuro anteriore. Già morto, io mi vedo ancora vivente e misuro senso e non-senso. Solamente una coscienza alla prima persona, dotata di ubiquità temporale, detiene questo privilegio di giudicare quel che sarà stato.” [71]


L’opera di Monory tra filosofia ed arte

Al cuore dell’opera di Monory, secondo Lyotard, vi è il “difetto tra presenza ed infinito, tra esistenza e senso.” [72] “Il dandismosa’ che l’inadattabilità tra esistenza e senso è la regola, che essa distrugge ogni comunità, che deve essere incarnata nella singolarità dell’eccezione, nella volontà del veggente, e che il senso della vita consiste nel mesto godimento del non-senso.” [73]

Se nel 1972 Lyotard era convinto che il pittore dandy fosse al centro di un sistema universale di circolazione dell’energia vitale che lo poneva al cuore dell’economia libidinale, nel 1981 il filosofo è ormai sicuro che il dandismo come istituzione abbia raggiunto i limiti del proprio potere. L’esibizione di Monory Cieli, nebulose e galassie dimostra appunto, secondo Lyotard, che il mondo è ormai cambiato. Lyotard scrive che la sua pittura testimonia il difetto tra presenza e infinito “sempre nel suo lato minore, e non in quello maggiore. Non è la forza infinita delle Idee che è presentata negativamente; non è neppure la realtà finita che fa disperare e che si esaspera della propria imbecillità; è l’Idea realizzata, la negazione fatta realtà, la morte come modo di vita che è mostrata positivamente. Nulla tra le cose sensibili può mai eguagliare l’infinito delle idee.” [74]


I Cieli come doppia realtà

La soluzione che gli antichi avevano adottato per colmare l’enorme distanza tra lo spazio infinito e le cose di ogni giorno era stata l’impiego di tecniche divinatorie, che erano parte del mondo del pathos. Per tale rapporto diretto tra un oggetto - lontano o vicino che sia - e chi lo osserva, Lyotard usa il termine ‘carnale’ [chair]. Il termine si applica non solamente agli oracoli dell’antichità, a cui venivano fatte offerte sacrificali in termini fisici, ma anche alla pittura, quando essa crea un rapporto tra chi rappresenta e ciò che è rappresentato: “Vi è della carne nella plastica di Monory come in quella di Manet, come pure nella poetica di Baudelaire. (…) Le tempeste dei Cieli (…), le nuvole, le schiarite possono pur essere null’altro se non registrazioni d’interazioni di radiazioni fisiche; la loro immagine dipinta tuttavia non è priva d’eloquenza. È indirizzata a noi, il suo pathos ci influenza.” [75]

Ma vi è anche una dimensione fredda, scientifica nell’osservazione cosmica: oggi infatti – constata Lyotard – sono le macchine, i radiotelescopi, le conoscenze dell’astrofisica a disegnare un doppione scientifico del cielo stellato, sia esso visibile o invisibile all’uomo. Monory sottolinea che le sue immagini pittoriche del cosmo sono infatti esatte riproduzioni di mappe astronomiche create dagli astrofisici. Lyotard spiega: “Le macchine possono a loro volta produrre immagini a partire da questi insiemi cifrati. I Cieli di Monory sono dipinti sopra queste immagini.” [76] Ed aggiunge: esse rivelano la nostra piccolezza, la nostra impossibilità, il nostro terrore [77].



Il tema del killer di professione come tipo ideale

Anche quando rappresenta costellazioni di stelle, Monory non rinuncia ai suoi riferimenti consueti , ovvero alle armi. Scrive Lyotard: “L’atto esemplare delle belle arti è l’assassinio, il suo emblema la pistola; le pistole sono numerose nell’arte di Monory. La traiettoria di un proiettile è una curva balistica. Il tiro è esatto quando il bersaglio è raggiunto. Quando è raggiunto, è distrutto.” [78] Se il problema originario – sia per il pittore sia per il filosofo – è quello del difetto tra presenza ed infinito, tra esistenza e senso, il percorso del proiettile è un simbolo di un contatto tra due estremi di un tragitto. È per questo che in Cieli N. 5 e N. 29 le stelle sono affiancate da fori di proiettili, ed in Cieli N. 6 compare addirittura, ai piedi delle immagini stellari, un revolver.

E tuttavia la capacità del pittore di stabilire legami tra mondi così lontani è ormai ridotta. Il dandy ha esaurito il suo potere. L’assassino di professione non ha più l’antica capacità divinatoria che consentiva agli antichi di capire il mondo. Lyotard si riferisce sia ai più recenti testi narrativi sia ai temi iconografici usuali di Monory, per identificare il tipo ideale del killer di professione come colui che vive “nel mondo, non nella natura. Un mondo è un insieme di avvenimenti che non sono finalizzati. L’inverno è arrivato, si sa che le cose non hanno fine, esse sopravvivono a se stesse (…). Dopo che la catastrofe ha avuto luogo, non restano che scatolette di cibo per cani nei supermercati assaliti dai ratti. (…) Il criminale espressionista, il maledetto (…) non uccide più per volontà, per eseguire un destino filosofico là dove non vi è più nulla che possa presagirlo, ma solamente per dipendere la sua vita bruta. (…) Il killer di professione anticipa quel che è la vita in assenza di ogni esperienza condivisibile.” [79]


Ma vi è anche un elemento più profondo – ontologico – di ambiguità: sappiamo che sia negli scritti sia nei quadri, Monory si immedesima talmente nella figura del killer di professione che egli equipara il revolver al pennello, l’omicidio all’arte. E ciò finisce per rivelare una contraddizione insanabile. “L’assassino deve scrivere il suo romanzo o metterlo in pittura. Dunque egli deve testimoniare che [con l’esecuzione dell’omicidio] tutto è finito. Ora, se tutto è davvero finito, a che cosa serve ancora scrivere e dipingere? È in questo paradosso minimo che si nasconde la vitalità artistica. Io dico che non vi è nulla da dire, io penso che non vi sia niente da dipingere. È la mia ultima parola. (…) Pertanto il godimento consisterebbe nel fatto di presentare il nulla attraverso scritti ed immagini.” [80] E non a caso l’estetica di Monory è definita, in questa fase, “l’estetica dell’impresentabile”. Ciò che è impresentabile appartiene secondo Lyotard all’“estetica del sublime”.


Arte e filosofia in una comune perdita di senso

Come sappiamo, Lyotard vede una fondamentale unità tra arte e filosofia. I Cieli di Monory – come già menzionato – non sono più quelli dei romantici, ma derivano dalla raccolta e decodificazione di onde radio da parte di giganteschi radiotelescopi. Allo stesso modo gli assassini non sono più la metafora del ‘mostro dandy’, il super-creativo che riesce a trovare un equilibrio tra energia e ordine, ma diventano semplici salariati: “Focalizzando la narrativa sull’assassino, si cambia il suo genere e si può uscire dal dandismo. L’elogio a distanza dell’eroe dannato fa spazio ad un semplice rapporto di lavoro. Il capitale e le tecno-scienze fanno un investimento anche nel crimine.” [81] E Lyotard continua: “Il killer di professione non è più maggiormente maledetto di un impiegato; è ugualmente anonimo di quanto sia lui. Qui la potenza assassina dell’Idea è divenuta quasi completamente mera realtà. Le speranze, gli amori, le volontà dei singoli, gli odi sono realizzabili in moneta sonante. La speranza diviene motivazione, l’amore pornografia, l’odio strategia d’omicidio, e la volontà puro programma. Realizzandole in forma realista, il capitale le distrugge come esperienza. L’assassino incarna il principio di derealizzazione che è allora la realtà intera, il principio dell’equivalenza generale, il calcolo, il prezzo.” [82]


I Cieli come confini del dandismo

Lyotard constata: “Vi è un declino marcato dell’istanza soggettiva nei Cieli” [83]. Se il problema originario è quello della distanza tra presenza e senso, uno dei due termini ontologicamente tra loro così lontani (il senso) non è più regolato dall’elemento soggettivo. Per provare questo giudizio, il filosofo commenta le due opere che aprono il ciclo Cieli, nebulose e galassie. Sono due quadri particolarmente enigmatici, intitolati Falsa uscita N.1 (fig. 34)  e N.2 (fig. 35). Il termine deriva dal linguaggio teatrale (l’attore sulla scena simula un’uscita oppure sparisce un solo istante, per poi rientrare). “La serie è introdotta da due False Uscite (1978). Sulla prima è scritta una dichiarazione in prima persona, secondo la quale la miseria del senso non è relativa alla soggettività della rappresentazione, ma deriva dal tempo. Il quadro è marcato, lungo tutta la sua lunghezza, dall’uso di barre incrociate che annullano immagini caricate di un’aura soggettiva. Il secondo quadro rinuncia addirittura all’impiego delle barre incrociate, lascia incompiuta la dichiarazione di miseria, e cita solamente la vana dichiarazione: io vedo… Quanto alle immagini di questa Uscita (un monte ghiacciato, una nebulosa, un’alba, un mare, un radiotelescopio), esse sono trattate – come sempre in Monory – come fossero illustrazioni di un testo: ma di quale? In ogni caso, non si tratta più di una ricerca del tempo perduto. Vi è solamente un mondo fisico. Se ha tempo, non è quello della coscienza. Con i Cieli Monory porta il suo dandismo (popolare) fino alla fine, là dove il pittore è ancora ed al tempo stesso non è più dandy.” [84]


L’estetica del sublime

Il ‘difetto tra presenza ed infinito, tra esistenza e senso’ è la medesima questione ontologica che Immanuel Kant si pone nell’introduzione della Critica del giudizio, là dove si interroga su come sia possibile rendere fra loro compatibili il mondo della ragion pura, dominato da leggi astratte e da principi aprioristici, e quello della ragion pratica, dominato dalla libertà e dagli imperativi categorici. La teoria estetica del sublime e del giudizio riflessivo consente a Kant di accettare la distanza tra ciò che è terreno ed appartiene al mondo della morale e ciò che è infinito ed appartiene al mondo incommensurabile, percependo tale distanza attraverso il senso del sublime estetico. Non a caso l’iscrizione sulla tomba di Kant è: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, una citazione dalla Ragion Pratica. Lyotard cita invece la Critica del giudizio: “È sublime ciò in paragone al quale tutto il resto è piccolo. (…) Lo spettatore prova il sentimento dell’impotenza della propria immaginazione per potersi rappresentare l’Idea di un tutto; l’immaginazione raggiunge il suo massimo e, nello sforzo di sorpassarlo, s’inabissa in se stessa e – facendolo – è immersa in una soddisfazione emozionante.” [85] Lyotard si interroga se i Cieli di Monory – con il loro riferimento semiotico ai radiotelescopi – non siano appunto la raffigurazione del discorso kantiano sul sublime, sia pure “nella sua maniera apparentemente minore” [86], là dove rivelano la nostra impotenza a raffigurare il cosmo, ma la nostra capacità di poterlo concepire. Il dandy non può andare oltre il riconoscimento dei propri limiti, ma il sublime kantiano gli permette di riconoscere i propri limiti e di proiettarsi verso l’universo.

L’uso di Kant da parte di Monory è comunque “eretico”, come scrive Michal Kozlowski [87]: infatti Lyotard se ne serve per confermare che “il difetto tra la presenza e l’idea” è la regola universale [88], ma a differenza di Kant non deriva da essa alcun sentimento che appartenga al mondo del genio. “Ma tale difetto non è sentito come un sentimento e non ha bisogno di un genio per esprimersi. È ora attestato come una regola pura, anonima, apatica, che mette ordine in quel che non ha alcun senso. Il killer di professione, salariato della morte, è sufficiente – se è presente nella sua imbecillità – a permettere di tener insieme quel che non ha alcun rapporto.  (…) Una volontà qualunque, sconosciuta, mai interrogata, mai sposata al progetto che persegue, fa prendere l’aereo all’assassino, lo porta in un motel in pieno deserto, lo fa entrare alle quattro del mattino nei bagni della stanza di una vittima identificata attraverso qualche segno esteriore, e gli fa mettere fine alla sua vita e alle sue speranze con un colpo attutito da un silenziatore. Questo sarebbe il difetto. La stessa volontà cieca spedisce delle radiazioni verso le stelle e mette in memoria il loro eco. Non è materia per cui ci si debba rallegrare e neppure disperare.” [89]

Il sublime di Lyotard è dunque un altro sublime rispetto a quello kantiano. Quest’ultimo ha “bisogno, come tutti i sentimenti, di un continuo temporale che conservi la traccia di quel che non è più, annunci quel che non è ancora, permetta all’assente di essere allusivamente presente.” [90] Nel mondo tecnologico dei Cieli, l’aura di Walter Benjamin è ormai scomparsa. “L’aura è l’insieme delle immagini che, sorte dalla memoria involontaria, tendono a raggrupparsi intorno all’oggetto, il soffio leggero che racchiude un oggetto della natura o dell’arte con le sue armoniche (…) e gli dona la profondità di un tempo lontano. (…) Non vi è aura senza continuità nel tempo della psiche e della tradizione. Lo stesso è vero del sublime, di cui il sentimento dell’aura non è forse che un caso particolare. Si immagini ora uno spirito del tutto privato di questa memoria involontaria e di cui tutte le ‘impressioni’ sono analizzate, inviate, raccolte e conservate nelle macchine. Non ne ha più alcuna traccia” [91].

Qual è l’obiettivo del pittore? Lyotard si pone questa domanda finale: perché Monory ci mostra questa realtà apatica dei Cieli, ovvero “una realtà già morta” [92], priva di aura, dominata dalla tecno-scienza del capitale [93]? “Per guardare questi quadri ed essere colpiti da essi, non bisogna essere un appassionato d’arte, essere al corrente dei problemi delle avanguardie, della  storia della pittura o della letteratura moderna. Sotto questo aspetto, la comunità cui i quadri si rivolgono esiste già: sono le persone negli atri delle stazioni ferroviarie, nelle sale d’attese dei medici, i clienti del cinema, i telespettatori, l’umanità media nella metropolitana del mattino, nel caffè della stazione, nel cinematografo del sabato. (…) E quell’umanità è in effetti già morta come comunità, non esiste che come marchio d’immagine, e non si aspetta nulla dai quadri, se non passare un momento. Un bel momento? Sì, se colui che getta lo sguardo riconosce tutto quel che vede, identifica nell’immagine immediatamente quel che a lui piace, che egli desidera o detesta. … Se non deve cercare di capire di che cosa si tratti, ed inquietarsi. Il momento è buono se consente un riconoscimento individuale. E questo momento di solitudine è anche un tempo di comunione di massa, perché le identità sono intercambiabili e ciascuno accetta o rifiuta le stesse cose di tutti gli altri. Le immagini sono allora un vasto specchio mediatico, buone quando riflette bene lo spettatore anonimo. Guardando i quadri di Monory, noi ci riconosciamo, noi siamo e diveniamo questi sopravvissuti. I quadri si rivolgono ad una massa di superstiti apatici. La massa si riconosce in loro; i quadri sono la loro cultura. Questo è il loro realismo.” [94]


L’assassinio dell’esperienza per mezzo della pittura: le ragioni di un titolo


Qual è infine il significato del titolo, assai oscuro, del volume che raccoglie i due scritti di Lyotard su Monory del 1972 e del 1981: L’assassinio dell’esperienza per mezzo della pittura?

Per Lyotard i due termini chiave sono esperienza e sperimentazione. Il primo termine richiama le sensazioni e i sentimenti che un soggetto individuale (l’io) prova. L’esperienza è legata all’idea di progresso e rivoluzione; è un tipico prodotto del mondo cristiano; la sua estetica è quella già descritta dell’aura di Benjamin. In termini estetici si esprime infatti come epica, romanzo, confessione, tragedia e storia [95]. Il secondo termine, la sperimentazione intesa come abilità tecnico-scientifica, è legato alla versione ultima del mondo capitalista. La sperimentazione non richiede neppure un “io soggettivo”; si basa sulla vita di massa nelle metropoli e nei luoghi di produzione, e su dispositivi di sostituzione dei sentimenti da parte del mercato [96].

Lyotard interpreta la decisione del pittore di fare uso costante del blu per la sua pittura (la mise en bleu) come emanazione della sperimentazione, da parte del pittore ‘esperto del blu’. Egli interpreta la pittura di Monory come una decisione consapevole di passaggio dal mondo dei sentimenti a quello della determinazione tecnico-scientifica: “Il declino dell’esperienza può sempre trasformarsi nel risveglio della sperimentazione” [97].

La scelta di Monory è dunque quella di distanziarsi dal mondo del passato per affermarsi in un presente dominato dall’assenza di aura, dall’assenza di una comunità, dal vuoto di ogni narrazione. “Con i suoi revolver, il pittore abbrevia l’agonia dell’esperienza.” [98] Ed ancora: “La sperimentazione che risulta dalla tecno-scienza capitalista non lascia spazio alcuno all’aura dei ricordi e delle speranze. Essa non conosce che dei fatti: il blu è un fatto micro-ondulatorio; l’organizzazione dello spazio è un fatto topografico; l’emozione sublime un fatto psico-fisiologico; gli uni e gli altri sono analizzabili e producibili a partire da assiomi, e gli assiomi sono dispositivi logici.” [99]

Eppure Monory compie questa scelta radicale senza essere pittore d’avanguardia: “Ha voltato la schiena alla ricerca plastica e metafisica, di colpo. La sua non è una pittura di ricerca. Per lui è come se non vi fosse stata alcuna avanguardia. ‘Monet è morto’ [Nota del traduttore: titolo di un quadro di Monory; si veda la recensione a Jacques Monory, Écrits, entretiens, récits, fig. 121], ma anche Cezanne. Le esplorazioni di Malevitch, Kandinsky e Mondrian non hanno lasciato la minima traccia nella sua maniera.” [100]

Vi è qui l’ultima rottura rispetto a Kant. La sua Critica del Giudizio era basata sulla differenza tra il sublime (inafferrabile, se non per mezzo di un sentimento di inferiorità dell’uomo rispetto all’incommensurabile) ed il bello (una manifestazione locale ed incompiuta del giudizio estetico, che è più facilmente accessibile agli uomini). In Monory, scrive Lyotard, il concetto di sperimentale concilia sublime e bello: è “la concentrazione possibile solamente grazie alla concentrazione di sapere e tecnica che è la caratteristica delle nuove macchine.” [101] Con Monory “il sublime dell’immanenza rimpiazza il sublime della trascendenza.” [102]


Il rapporto della pittura con i media: il dialogo filmato tra Monory e Lyotard nel 1982

Il ‘Centro nazionale della ricerca scientifica’ commissiona a Lyotard e Monory una riflessione sul rapporto tra pittura, fotografia e cinema. Il dialogo tra pittore e filosofo sul ruolo dei media nell’arte è dunque documentato dai media stessi. Il tono della conversazione tra i due (parte di un filmato girato da David Carr-Brown nel 1982) abbandona però il linguaggio formalizzato e spesso enigmatico del filosofo e si rivela adatto ad un pubblico non specializzato. Il salto linguistico è enorme.

L’intesa tra i due è davvero perfetta. Si tratta dell’unica intervista nel recente volume di scritti di Monory [103] in cui l’alternanza tra gli interlocutori sia continuamente caratterizzata da un sentimento di intesa. Lo scambio di vedute è caratterizzato da un interloquire molto denso. Vediamo alcuni esempi.


Sul ruolo delle immagini prese dai media ed il rapporto con la modernità

Ecco come torna l’idea del pittore dell’età moderna nel corso della conversazione. Lyotard chiede: “Perché mai un pittore prende la maggior parte delle sue immagini dai media: le riviste scientifiche, le foto dai film al cinema, le riproduzioni d’immagini da servizi giornalistici? Che cosa ti manca nella pittura per cui tu debba sentire necessario completare, se così si può dire, la tua opera con immagini mobili?” “Tu vuoi dire, perché non faccio una pittura pura? Quel che si chiama pittura pura?” “No, non dico questo. Perché non ti accontenti della pittura?” “Infatti, preferisco la pittura a ogni altra cosa. Non mi posso tuttavia accontentare.” “Ma ciò non fa che aggravare il problema. Perché fai qualcosa che tu non preferisci?” “Perché io ho bisogno, per la mia pittura, di tutti gli altri elementi. Io ho bisogno delle immagini del mondo. E le immagini del mondo non posso acchiapparle tutte da solo, non posso essere presente quando vi è un attentato in Giappone. Se questo attentato m’interessa, io ho l’informazione attraverso i mass-media, ed allora me ne servo. È la visione della nostra epoca, è la materia della nostra epoca.” [104]

Il dialogo continua sul rapporto tra la scelta delle immagini e la modernità. Lyotard nota la frequenza con la quale Monory introduce nelle sue tele “il tema della macchina, e dunque l’automobile, le motociclette, gli aerei, i grandi radar nel cielo, gli strumenti chirurgici e ovviamente anche gli strumenti di morte, infine le pistole e le cose simili. La macchina è sempre associata in te alla perdita di senso. Insomma, il tutto avanza da solo, non vi è alcuna finalità in esso, è semplicemente funzionale e, nella misura in cui gli uomini sono essi stessi completamente subordinati alle macchine, allora perdono anch’essi, e le loro vite perdono, un senso di finalità.” “Sì, ma vi è sempre in tutto quel che faccio questa contraddizione. Infatti, ho paura della morte ed amo la vita. Avendo una paura della morte così grande, bisogna che io la rappresenti.”

Implicitamente, la discussione cade sul problema del rapporto tra gli aspetti dell’arte che sono ispirati a stimoli vitali o a stimoli di morte.

Ma, ad esempio, tu dici: ‘Oggi la gente non guarda più gli alberi, ma guarda le immagini degli alberi; non guarda più il cielo, ma le immagini del cielo che gli osservatori del monte Wilson possono riprodurre dal momento che se ne ricordano’. Ciò significa che, in quel caso, tu consideri il fatto che noi non vediamo più le cose, ma le immagini delle cose, come qualcosa appartenente al lato della vita o al lato della morte, nella modernità? Dato che è una vera schifezza.” Monory risponde: “È una forma di vita. È la nostra vita.”  [105]


Sull’impossibilità dell’arte di recuperare un’unità d’insieme del mondo, se non attraverso lo spettatore

La conversazione rivela anche l’idea che il compito dell’artista sia non solamente quello di porre in evidenza le molte contraddizioni del mondo, ma anche di offrire momenti di sintesi. Tuttavia, nel mondo moderno la funzione di sintesi può essere svolta ormai solo dal pubblico, non più dall’artista. Dunque, a differenza dell’arte del mondo rinascimentale, l’arte di Monory non crea direttamente una sintesi, ma offre allo spettatore solamente una mera opportunità di coglierla, con i suoi mezzi.

Inizia Monory: “Io credo che quanto maggiore è il numero delle contraddizioni in un’opera, quanto più differenti le cose che sono integrate e riprodotte nella loro totalità, tanto più l’opera sia interessante.” “Sì.” “Sei d’accordo anche tu.”

“Sì – ripete Lyotard – e penso che questo punto meriterebbe una discussione interminabile. Quando vedo ritratti di volti, ben lisci e curati, penso a tantissimi pittori classici e barocchi. A prima vista, non vi è affatto l’aspetto decostruttivo, frammentato, contraddittorio che caratterizza, per esempio, la tua opera pittorica e che, si noti bene, è del tutto moderno. Tuttavia, io penso, sotto questo aspetto ben levigato delle immagini, ai ritratti di Holbein. Per esempio, basta guardare per tre-quattro ore, e ci si accorge che quel volto è una matrice di contraddizioni.”

“Assolutamente sì, ed è per questo motivo che è interessante.” “L’orecchio qui e l’angolo del labbro là, non vanno affatto bene…” “Sì, sì.” “Il fatto è che le persone – continua Lyotard – sono di per sé contradditorie. Dunque, questa contraddizione può essere riprodotta effettivamente in mille modi. Io direi che, nella tua opera, la contraddizione è esposta. È esposta prima del suo contrario, ovvero prima della sintesi in un viso umano, per esempio. Con Holbein, invece, prima si vede il viso umano e poi le contraddizioni che in esse sono nascoste. Nella tua pittura la contraddizione è esposta dall’inizio, dunque la questione dell’unità (…) è un problema che deve essere risolto dallo spettatore.”

“Nell’arte classica - continua Lyotard – il pittore fornisce la sintesi, che un po’ è una trappola, perché in fondo le persone possono contentarsi di riconoscere. Dicono: ah, ma è Anna Bolena. Bene, molto bene. E poi, in realtà, se si guarda più a lungo, allora si vede che tutto ciò è un mondo e che parla. Tu rappresenti prima il mondo e la questione di sapere quale sia l’unità resta sospesa. Non si sa neppure se tu pensi che ve ne sia una.”

Conclude Monory: “Sì, ma tutto ciò corrisponde in pieno ai nostri tempi. È la convinzione, in maniera generale, che l’unità sia impossibile. Mentre se ti riferisci alla fine del Medio Evo, al Rinascimento, vi era un sentimento d’unità del mondo.” [106]

Il dialogo si conclude con una riflessione sulla combinazione, la compresenza d’immagini nella stessa immagine. Monory considera la giustapposizione delle immagini all’interno dello stesso quadro come la caratteristica della vita. Alla domanda “Per te, quell’aspetto è la vita?” risponde: “Sì. Perché nella vita - nel momento in cui io ti parlo, tu mi parli - noi stiamo pensando ad altre cose. È vero, è pieno di meccanismi. Vi è tutto il complesso di immagini che uno può trasferire da lontano, e poi si preferisce un’immagine su alcune decine d’immagini (per non esagerare) che sono presenti allo stesso tempo. Allora, questa è la vita: è la vita quando si riesce a mettere insieme queste dieci immagini e queste dieci immagini ne tengono insieme una sola.

Per esempio, con il sistema dei ‘poli-schermi’ nella pittura – ribadisce Lyotard – si possono vedere più immagini che sono esse stesse spesso inquadrate da schermi televisivi (…). Secondo te, questa molteplicità d’immagini nella stessa immagine è dal lato della vita o non è piuttosto dalla parte della morte? A meno che questa molteplicità di schermi, o di inquadramenti, di quadri non sia infatti un’allusione alle tombe?“ La risposta è semplicemente: “” [107].

In conclusione, un colloquio che dimostra ancora una volta come il pittore ed il filosofo discutano su tutti i temi dell’arte di Monory. E soprattutto un dialogo che diviene, di per sé, l’oggetto mediatico che deve essere documentato per le prossime generazioni, come prova che pittura e filosofia si possono intendere. 


Monory ed il pensiero estetico di Lyotard sull’immaterialità dell’arte nel 1985


Fig. 5) Il manifesto della mostra “Gli immateriali” al Centro Pompidou di Parigi (1985)

La nostra analisi del rapporto tra Monory e Lyotard non sarebbe completa se non ci riferissimo alla mostra “Les immatériaux” organizzata da Lyotard, insieme al critico d’arte e curatore Thierry Chaput (studioso del design industriale), al Centre Pompidou nel 1985. Rispetto alle tappe precedenti del dialogo tra Lyotard e Monory (che basavano la teoria estetica del filosofo unicamente sull’arte di un pittore) la mostra segna un passaggio fondamentale. Come spiega Sarah William, l’estetica di Lyotard era stata criticata vivamente per non essere sufficientemente diversificata e sistematica, essendo basata unicamente su Monory [108]. In realtà, la vasta letteratura di Lyotard sull’arte contemporanea aveva spaziato su artisti assai diversi, da Baniel Buren a Barnett Newmann, da Joseph Kosut a Karel Appel. La mostra al Beaubourg gli permette ora di esplicitare la sua riflessione sull’immaterialità dell’arte facendo leva su un gruppo molto vasto ed eterogeneo di artisti. Sarebbe però illusorio cercare di estrarre da essa una riflessione sistematica, un riferimento a criteri concettuali di riferimento. Lyotard odia Platone e tutti i filosofi sistematici dopo di lui; il suo metodo è quello di accompagnare, tramite serie continue di associazioni linguistiche, il lettore dall’ordine al disordine, e dal disordine all’ordine. Lo stesso vale sicuramente per il visitatore della mostra del 1985.

Si trattò storicamente – si badi bene - di una delle mostre più innovative ma anche meno amate dal pubblico parigino, per molti motivi (la quasi totale mancanza di un percorso museale; la combinazione di materiali, tecniche, concetti molto diversi; l’uso ardito di nuove tecnologie, che tuttavia spesso non funzionarono nelle sale d’esposizione; l’assoluta ricerca della complicazione concettuale, al punto che Paul Crowther spiega che la mostra si poneva specificatamente l’obiettivo ‘di non essere pedagogica’ [109]).

A trent’anni di distanza, quell’avvenimento attrae però ancora l’interesse degli studiosi d’arte contemporanea. La Tate Modern di Londra ha dedicato un convegno su quella mostra nel 2008, cui è seguita la pubblicazione di una saggio sempre per la Tate Modern nel 2009 [110]. Nel 2014 si è tenuta una conferenza in Germania, all’Università di Lüneburg [111]. Quest’anno si è tenuta una conferenza al Courtauld Institute of Art, sempre a Londra [112], in occasione dei trent’anni dalla mostra.

Quella fu, infatti, la prima mostra in cui fu proposta non solamente la questione del rapporto tra arte e nuovi materiali della tecnica, ma anche tra arte e realtà virtuale (un tema anticipato nello scritto di Lyotard su Monory del 1981) e tra arte e mondo immateriale dell’informazione. In occasione della mostra, si tennero convegni e furono pubblicati saggi. La mostra voleva porre in discussione l’intero sistema cartesiano di razionalità, con l’aiuto di diverse discipline (si trattò di una delle mostre che meglio sposavano la missione del Beaubourg di integrare concetti e contributi da diverse discipline). L’espressione “Immateriali” voleva da un lato far riferimento a 5 termini chiave derivanti dalla radice indo-europea māt (matériau, materiel, maternité, matière, matrice), ma dall’altro riflettere sull’immaterialità del messaggio artistico (il che spiega il prefisso negativo ‘in’ nel neologismo Immatériaux). Paul Crowther spiega infatti che la riflessione non era solamente legata al rapporto tra arte e più recenti materiali fisici, ma al rapporto più generale tra arte, nuovi materiali e procedimenti intellettivi, facendo interagire 5 fattori:  “(1) L’origine del messaggio (maternité); (2) Il mezzo che lo sostiene (matériau); (3) il codice in cui è scritto (matrice); (4) ciò cui si riferisce (matière); (5) la destinazione del messaggio (matériel).”  [113] [114]

Monory nella mostra del 1985

Antony Hudek, un critico d’arte della Tate Modern, spiega [115] che si deve a Lyotard l’inclusione nella mostra del polittico Esplosione di Monory, composto da quattro pannelli che mostrano appunto l’esplosione di un aeroplano. È il quadro citato nella conversazione filmata del 1981 tra Lyotard e Monory, là dove il pittore si riferisce alla necessità di ispirarsi ad immagini dai media per i suoi quadri e si riferisce ad un attacco terroristico contro il Giappone. È un evento che ricordo bene, anche se avevo solo dieci anni. Nel 1973 l’Armata Rossa Giapponese sequestrò un aereo della Japan Airline in Olanda, liberò passeggeri e equipaggio in Libia e fece saltare l’aereo all’aeroporto di Tripoli.

Il polittico consiste di quattro pannelli che mostrano precisamente la stessa scena dell’esplosione dell’aeroplano, in versioni di diversi colori monocromi che vanno da un blu intenso a un quasi bianco. Tre pannelli riproducono in colori diversi una fotografia, mentre l’ultimo è un disegno a mano libera. Sotto il polittico, il pubblico della mostra può leggere un aforisma criptico di Lyotard: “Il pittore pone a confronto due modi. Catastrofe della pittura?” I due modi sono (possibilmente) il dipinto ad olio da fotografia ed il disegno libero. Hudek interpreta l’interrogativo retorico di Lyotard come un tentativo di ribattere alle tesi di Adorno sulla morte dell’arte come conseguenza delle nuove tecnologie. I due “modi” che Monory mette a confronto mostrano, secondo Hudek, che diversi procedimenti possono consentire al pittore di rappresentare due tempi: “il tempo del capitalismo (misurabile, contabilizzabile, prevedibile) ed il tempo libidinale (gratuito, eccessivo, incapace di previsione e di memoria)” [116]. L’arte non è morta.


Un interrogativo beffardo di Bernard Henri-Levy

Il tempo della filosofia post-moderna è passato presto, e a Parigi si sono imposti già negli anni Ottanta i nuovi filosofi. E proprio ad uno di loro, forse il più famoso, Bernard Henri-Levy, la Fondazione Maeght ha recentemente assegnato il compito, nel 2013, di affidare la cura di una mostra su pittura e filosofia: “Le avventure della verità. Pittura e filosofia: una narrazione” [117]. Se Maeght ha avuto una lunga tradizione nel dialogo tra filosofia e pittura, questa è stata la mostra più ampia mai organizzata.

Il filosofo ha lavorato due anni alla selezione dei temi e delle opere, ed ha scelto (tra 120 opere esposte) anche un quadro di Monory (Tigre da sogno N. 4) per documentare il suo rapporto con Lyotard. Il quadro è di proprietà della Fondazione Maeght. Il testo di Levy approntato per il catalogo è però pieno di dubbi e critiche sul loro confrontarsi, soprattutto dal versante di Lyotard.

Rivedo Jean-François Lyotard, nell’anno della pubblicazione del suo ‘Firmato, Malraux’ [1996], in piedi, già malato, nella grande sala del servizio stampa dell’editore Grasset, dirmi che Monory non era solamente un grande pittore, ed un maestro dandy, ma soprattutto uno di quei ‘rigeneratori dello sguardo’ [régénérateurs du regard] che Malraux (in un testo che io non ho mai trovato e che forse Lyotard si era appena inventato) attendeva e che sperava si potessero prima o poi materializzare. Che cosa mai Monory gli ha insegnato di nuovo a guardare? Quali ‘derive” gli ha mai ispirato? Di quali assassinii furono mai – realmente – complici?” [118]


La mostra include anche una sezione in cui Bernard-Henry Levy mostra la registrazione di tutti i pittori viventi, mentre leggono a voce alta la pagina di un filosofo. Per Monory non sceglie Lyotard, ma Foucault.


Che cosa è rimasto?

L’interrogativo retorico di Bernard Henry-Levy sembra segnare il (provvisorio) tramonto per l’interesse sul rapporto tra Monory e Lyotard in Francia. Un altro esempio: il catalogo della recente mostra retrospettiva dedicata a Monory , organizzata dalla Fondazione Hélène et Édouard Leclerc nel 2014, contiene solamente due pagine sul tema del rapporto tra arte e filosofia [119]. Più in generale, l’immagine offerta al visitatore della mostra a Landernau tralascia qualsiasi riferimento ad aspetti controversi come il ruolo politico della sessualità (l’economia libidinale) o la discussione critica del sistema capitalista. È evidente che la mostra intende offrire l’immagine molto più tranquillizzante di Monory, non come pittore-filosofo, ma come “pittore-cineasta”. Probabilmente questa interpretazione ‘normalizzata’ è più in linea con gli obiettivi della Fondazione Leclerc, la cui governance è legata ad uno dei maggiori gruppi di grande distribuzione in Francia e che probabilmente ha la necessità di offrire un prodotto, anche culturale, che possa rivolgersi alla media del grande pubblico. Édouard Leclerc è molto conosciuto in Francia per aver creato e guidato un suo movimento politico con una forte matrice cattolico-conservatrice, addirittura presentandosi alle elezioni presidenziali (per la verità, con poca fortuna). Si può così anche spiegare – per esempio – perché dalla lista delle mostre di Monory, nel catalogo, scompaia ad esempio ogni riferimento a quella di Aosta dei 1990 su “Sade - rivoluzione – impossibile”.

Insomma, sembra quasi che a Parigi ci si sia dimenticati di Monory e Lyotard, e ci si vergogni di essere stati terreno di avanguardia nel rapporto tra pittura e filosofia.

Eppure, molti temi al centro del loro rapporto sembrano (almeno a mio parere) molto più attuali oggi di quanto non fossero trenta o quarant’anni fa. Ovviamente il linguaggio sembra oggi per alcuni aspetti troppo ideologico e per altri eccessivamente ingenuo. Tuttavia, se si riflette oggi sul concetto di economia libidinale nello scritto di Lyotard del 1972, non si può che pensare al ruolo che le immagini (molto spesso con una forte carica sessuale) hanno nell’economia, nei rapporti sociali ma anche nella vita delle persone (comprese le relazioni emotive), nelle reti sociali e nelle grandi imprese di gestione elettronica dell’informazione. Gli Immatériaux di oggi sono Google e Facebook. Anche l’intuizione che il successo del sistema capitalistico non sia legato esclusivamente alla produzione di beni materiali, ma anche alla creazione ed alla gestione di quel che Lyotard chiama un surplus di godimento fa pensare al ruolo che l’industria dei media ha avuto come strumento di stabilizzazione e legittimazione del sistema politico ed economico. È vero: i pittori e gli artisti non sono sicuramente al centro del sistema di produzione, ma non dovremmo dimenticare che viviamo in un mondo talmente dominato dall’immagine elettronica che addirittura i terroristi dello Stato islamico sono obbligati a servirsi di essa.

Invece il secondo scritto del 1981, quello dove Lyotard si ispira alla teoria del sublime di Immanuel Kant per giungere alla conclusione che nulla di sostanziale può essere comunicato e compreso, che l’arte è presentazione dell’impresentabile, che l’aura di Benjamin si è persa per sempre, che non vi è più alcuna comunità che riceva l’arte, e che il sublime possa essere d’ora in poi solamente pura immanenza, richiama il tema dell’assenza di sostanza e sentimento in gran parte delle reti informatiche attuali, dove una grandissima parte delle risorse utilizzate non include alcun contenuto e non esprime alcuna empatia. La vittoria della sperimentazione sull’esperienza è forse la nostra totale dipendenza collettiva dalla tecnologia di massa: un black-out totale dell’energia non significherebbe forse l’eliminazione quasi totale di ogni immagine recente?

Perché invece un interesse così vivace per Monory e Lyotard a Londra, mentre a Parigi tutto tace? Come mai il convegno del 2013 a loro dedicato ha avuto luogo all’Institut Français della capitale britannica, e non in uno dei centri studi parigini? A che cosa si deve l’interesse per la mostra “Les Immaterieux” di Lyotard alla Tate Modern nel 2008? Forse a Londra il retaggio per il passato è più facile da superare. Restituire al cosmopolita pubblico londinese un ricordo documentato di come intellettuali ed artisti a Parigi entrarono in dialogo sull’essenza dell’arte non pone, sulle rive del Tamigi, alcun rischio di riaprire ferite dolorose su battaglie ideologiche vecchie di decine di anni, giocate ai bordi della Senna. 


NOTE

[56] Monory. Ciels, nébuleuses et galaxies, Testo di Jean-François Lyotard, Derrière le miroir N. 244, A. Maeght editore, 1981

[57] Les Peintures de Giacometti. Testo di Jean-Paul Sartre, Derrière le miroir, N. 65, A. Maeght editore, 1954

[58] Paul Rebeyrolle. Testo di Michel Foucault, Derrière le miroir, N. 202, A. Maeght editore, 1973

[59] Valerio Adami: le voyage du dessin. Testo di Jacques Derrida, Derrière le miroir, no. 214, A Meaght editore, 1975.

[60] Monory. Opéras glacés, Testo di Gilbert Lascault, Derrière le miroir, N. 217, A. Maeght editore, 1975.

[61] Monory. Technicolor, Testo di Alain Jouffroy, N. 227, A. Maeght editore, 1978.




[65] Lyotard, Jean-François – Arraisonnement de l’art. Épokhè de la communication, 1985 in: Textes disperses I / Miscellaneous Texts I: Esthetique et theorie de l'art, a cura di Herman Parret, 2012, Leuven University Press, pagine 176-192

[66] Lyotard, Jean-François – Arraisonnement de l’art. (citato) p.192 

[67] Vattimo, Gianni; Rovatti, Pier Aldo - Il pensiero debole, Milano : Feltrinelli, 1983, 262 pagine.

[68] Kozlowski, Michal - Lyotard - Un penseur du siècle ?, in Critique d’art, N. 40, 2012 Si veda: https://critiquedart.revues.org/3327

[69] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, Monory, a cura di Herman Parret, introduzione di Herman Parret , postfazione di Sarah Wilson, traduzione di Rachel Bowlby, Jeanne Bourniort e Petr W. Milne, Volume VI della collezione degli scritti di Jean-François Lyotard sull’arte contemporanea e gli artisti, 2013, Leuven University Press, 288 pagine, 42 foto a colori nel testo. Le citazioni si riferiscono al testo in francese. Citazione a pagina 166.

[70] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p.162

[71] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p.170

[72] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 156

[73] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 166

[74] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 156

[75] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 158

[76] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 158

[77] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 160

[78] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 160

[79] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 160

[80] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 164

[81] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 168

[82] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 168

[83] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 170

[84] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 170

[85] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 172

[86] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 172

[87] Kozlowski, Michal - Lyotard - Un penseur du siècle ? (citato) 

[88] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 172

[89] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 172-174

[90] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 174

[91] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 174

[92] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 183

[93] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 180

[94] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 180-182

[95] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 54

[96] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 56

[97] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 56

[98] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 56

[99] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 190

[100] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 184

[101] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 190

[102] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 192

[103] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits, editions établie par Pascale Le Thorel, preface par Jean-Christophe Bailly, Paris, École nationale supérieure des beaux-arts, 2014, 382 pagine.

[104] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits (citato), p. 73

[105] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits (quoted), p. 89

[106] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits (citato), pp. 70-80

[107] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, récits (quoted), p. 90

[108] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, (citato), p. 251

[109] Si veda: Crowther, Paul – Les Immateriaux and the postmodern sublime, in: Judging Lyotard, a cura di Andrew Benjamin, Londra, Routledge, p.193 




[113] Si veda: Crowther, Paul (citato), p. 193

[114] Si veda anche: Bamford Kiff, Lyotard and the ‘figural’ in Performance, Art and Writing, New York, Continuum, 2012, 224 pagine. 

[115] Hudek, Antony - From Over- to Sub-Exposure: The Anamnesis of Les Immatériaux, in: http://www.tate.org.uk/download/file/fid/7267

[116] Hudek, Antony - From Over- to Sub-Exposure (citato)

[117] Lévy, Bernard-Henri, Les Aventures de la vérité. Peinture et philosophie: un récit, Fondation Maeght/Grasset, 2013, 390 pagine.

[118] Lévy, Bernard-Henri, Les Aventures de la vérité. (citato), p. 376

[119] Jacques Monory, Catalogo, Sotto la direzione di Michel-Édouard Leclerc, Consulente editorial Pascal Le Thorel, Fonds Hélène et Édouard Leclerc pour la Culture, 2014, 191 pagine. La sezione su arte e filosofia è alle pagine 112-113.



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