Pagine

mercoledì 25 novembre 2015

Diego Martelli. Scritti d'arte (a cura di Antonio Boschetto, 1952), Con le recensioni originali di Anna Maria Brizio ed Emilio Cecchi



Diego Martelli
Scritti d'arte

A cura di Antonio Boschetto 

Firenze, Sansoni, 1952


Federico Zandomeneghi, Ritratto di Diego Martelli allo scrittoio, 1870, Firenze, Galleria Nazionale d'Arte Moderna
Fonte: http://www.giovannifattori.com/wp-content/uploads/2011/02/ZandomeneghiDiegoMartelli.jpg


[1] “Le pagine qui riunite vogliono…testimoniare dell’ampiezza degli incontri del Martelli, dei molteplici suoi interessi nelle cose d’arte pur in tempi, come egli direbbe, «molto bassini»” (p. 14).


Edgar Degas, Ritratto di Diego Martelli, 1879, National Gallery of Scotland, Edinburgo
Fonte: Wikimedia Commons

[2] Ricordo che il carteggio di Diego Martelli è oggi consultabile gratuitamente sul sito della Fondazione Memofonte all'indirizzo http://www.memofonte.it/autori/diego-martelli.html.

[3] Si riportano due recensioni all’opera apparse rispettivamente in data 6 e 4 marzo 1953; la prima, a firma Anna Maria Brizio sul quotidiano La Stampa; la seconda, scritta da Emilio Cecchi sul Corriere della Sera. Gli originali degli articoli sono custoditi all’interno di Raccolta di articoli e altri ritagli di giornale di Luciano Mazzaferro, conservata presso la Biblioteca Comunale Giulio Cesare Croce di San Giovanni in Persiceto.

LA STAMPA
Fra macchiaioli e impressionisti

di Anna Maria Brizio

È singolare che in tanto scrivere di Macchiaioli la figura di Diego Martelli sia stata quasi sempre toccata solo di sfuggita, trovandosi il suo nome bensì continuamente citato, ma in fascio con tutti gli altri, di rado fatto oggetto di una considerazione attenta e particolare.

Difficoltà di risalire alla fonte, giacché finora gli scritti del Martelli non avevano avuto la sorte di essere ristampati, come quelli del Signorini, divenuti subito notissimi per il tono polemico, il brio e la toscana scioltezza di lingua, o del Cecioni, amorosamente adunati e commentati da Gustavo Uzielli nel 1905 e di nuovo editi dal Somaré nel 1932. Ma chi avesse voluto leggersi quelli del Martelli, avrebbe dovuto andarseli a cercare nei vecchi fogli su cui erano originariamente apparsi, o fra le sue carte depositate alla Biblioteca Marucelliana di Firenze.

Telemaco Signori, L'alzaia, 1864, Collezione privata
Fonte: http://www.zabarella.it/mostre/una-visita-con-carlo-sisi tramite Wikimedia Commons

Ora non più: ben conoscendone l’alto valore critico, Antonio Boschetto ne ha testé curata un’ampia scelta, edita dal Sansoni (Scritti d’arte di Diego Martelli, Firenze, 1952, Biblioteca di «Paragone», IV); e d’ora innanzi sarà facile a chiunque prenderne conoscenza diretta, e constatare con quanto acume e giustezza di giudizio egli abbia guardato a fatti e persone contemporanee.


Telemaco Signorini, La sala delle agitate al San Bonifazio a Firenze, 1865, Venezia, Galleria d'arte moderna Ca' Pesaro
Fonte: Wikimedia Commons


Giova ricordare che Martelli non si rinchiudeva in una cerchia limitata d’interessi, ma costantemente attendeva ad allargare la sua cultura, ed aveva il dono di orientarsi immediatamente, di riconoscere il valore d’un artista, la vitalità di un movimento subito al suo nascere, prima di qualsiasi consacrazione ufficiale. Oltre la sua pronta adesione al movimento macchiaiolo in formazione, è significativa la sua precoce comprensione del movimento impressionista. Era stato nel 1878 all’esposizione universale di Parigi; s’era «ritrovato in quel gran centro del pensiero umano a riviver la vita dell’artista e ad avvicinare una società di pittori che si trovano in mezzo alle privazioni e alla lotta, spinti dalla necessità delle nuove forme che s’impongono al pensiero moderno». E le nuove forme aveva, egli, giunto dal di fuori ed estraneo, senza incertezza identificato con quelle degli impressionisti.

Queste parole che io scrivevo fin dal 1939, il lettore potrà oggi trovarle confermate e documentate nel bel volume curato dal Boschetto.

Il pezzo capitale n’è appunto la conferenza sull’Impressionismo, tenuta al Circolo Filologico di Livorno nel 1879, di ritorno dal viaggio a Parigi. Se si tien d’occhio alle date degli sviluppi dell’Impressionismo e a quelle dei primi riconoscimenti francesi, la precocità del riconoscimento del Martelli appare stupefacente. E il suo giudizio nasce da un’intima comprensione, da una conoscenza diretta e personale delle opere e degli artisti, da una partecipazione, vorrei dire, alle loro ricerche e ai loro sforzi: Manet, di cui più tardi ebbe a dettare un commosso necrologio; Degas, che lo ritrasse più volte; Monet «uno dei più grandi paesisti di Francia»; e Pissarro, Berthe Morisot, il «selvaggio» Cézanne, e tutti gli altri espositori del gruppo nel 1878. Ciò ch’è gustoso è la freschezza del giudizio di Diego Martelli, alieno da schemi e categorie astratte, che coglie insieme i tratti caratteristici dello stile e l’accento tipico della personalità. Di Monet e Pissarro, ad esempio, scrive in appunti sulla successiva esposizione degli impressionisti del 1879: «Monet è moderno; il paese che riproduce noi lo vediamo (dico noi che abbiamo la vista buona) coi nostri occhi... Pissarro, un po’ più rêveur forse a causa dell’età un po’ avanzata, è però ugualmente forte, se non nel complesso ma certo in alcuni dei suoi quadri, al suaccennato artista. Aspro sempre e monotono nella fattura, si direbbe ch’egli versi la piena della sua rabbia come della sua onestà in tutti i suoi quadri... la sua pittura nel rivelare le somme doti del suo carattere vi fa l’effetto di qualcuno che vuol raccontarvi sempre il romanzo della propria vita che per quanto troviate vero e degno di ammirazione finisce però per stancarvi: Monet è giovane ancora, s’infischia di molti dettagli della vita e la sua pittura è per conseguenza giovane e gaia...». Par di vedere il Martelli nel vivo delle impressioni reagire con tutta la immediatezza della sua sensibilità, e non solo come astratto giudicante; - ma per questo tanto più acuto giudicante!

Quest’inclinazione a rivivere in tutta la sua umana complessità il fatto artistico s’era sviluppata in lui nell’assidua frequentazione degli artisti, da quel lontano 1855 in cui, diciassettenne appena, aveva fatto il suo primo ingresso al Caffè Michelangelo.

E sia pure che la sua intelligenza e il suo spirito critico siano di tanto superiori a quelli dei compagni macchiaioli; ma nelle sue pagine chi sia familiare cogli scritti del Signorini o del Cecioni ritrova pure come un’aria di famiglia: che forse viene dall’arguta parlata fiorentina, o fors’anche dalla più costante presenza di un’alta coscienza morale del fatto artistico, quale solo poteva radicarsi in chi della ribellione alle accademie e agli andazzi comuni, delle lotte senza deviazioni, delle faticose e disinteressate ricerche aveva fatto il tessuto della propria vita quotidiana. Queste erano state doti anche del Cecioni, e forman la nota più viva dei suoi scritti; ma Cecioni era rimasto chiuso nel suo proprio mondo limitato; e quando, sollecitato da De Nittis, s’era deciso anch’egli ad andare a Parigi e ad esporre al Salon il suo Putto con gallo (ch’ebbe del resto tanto successo), la sua moralità, al contatto del lusso e della corruzione della «moderna Babilonia», s’era scontrosamente contratta in astioso ipocondriaco moralismo; e chiuso nella sua esasperazione, nulla egli era riuscito a vedere dei grandi eventi artistici che pur in mezzo a quella efflorescenza di piacere e corruzione si compivano.

Ma il Martelli nelle successive dimore a Parigi – ci fu una prima volta nel 1862-63 e ci tornò nel 1869-70 e nel 1878-79 – ci stupisce com’abbia subito veduto chiaro e giusto. Nei suoi scritti il processo di elevazione del suo giudizio si coglie assai bene; e nel decennio all’incirca dopo il 1878, in cui cadono gli scritti migliori, il superamento del momento macchiaiolo in un gusto europeo, al di sopra d’ogni nazionalismo e particolarismo, si rivela cosciente e limpidissimo; né si saprebbe indicare quale altro critico in Italia in quegli anni avesse tanta apertura d’intelletto. 

Dopo il 1880 il Martelli prese parte vivacemente alle polemiche suscitate dalle questioni artistiche locali che allora si dibattevano a Firenze: l’erezione della facciata del duomo, il concorso per le porte del duomo, i restauri a S. Trinità ed Or San Michele. E sempre in lui l’impostazione delle questioni è di una chiarezza esemplare e il giudizio mordente e pertinente.

Forse di tutte le sue pagine meno vive sono alcune dedicate all’arte antica: dove, se pur si incontrano notazioni fini e un sentimento sempre desto dell’arte, s’avverte la mancanza di quella che pare la condizione più propizia al suo ingegno, perché s’animi e si faccia acuto e penetrante: lo stimolo dell’attualità, la partecipazione diretta così alla vita degli artisti come ad una questione ben definita e concreta, ad un fatto in attuazione. Meno è portato il suo pensiero alla pura speculazione teorica, alla meditazione solitaria. Con quella lieve, benevola ironia che affettuosamente usava anche verso cari amici di cui avvertiva i limiti mentali (verso Adriano Cecioni, ad esempio), ecco che lo cogliamo a volger la stessa punta verso se stesso, quando, sorprendendosi a spiegar con calore che cosa sia l’Impressionismo e le sue teorie (e lo fa eccellentemente!), s’interrompe sorridente a dire: «Io faccio meraviglia a me stesso trovandomi portato dall’argomento in così alte regioni... e questo mi fa riflettere come tutto si tenga la mano nell’universo intero, e che ai più poveri e disadattati apostoli può talvolta accadere di dover primi bandire delle astratte verità. Compatitemi dunque;... e guidati dall’amore del vero che ci accomuna e ci affratella in una stessa ricerca, entriamo risolutamente nel labirinto». E in quel labirinto ch’è la pittura dell’Ottocento, il lettore può fiduciosamente affidarsi alla sua guida: troverà l’orientamento giusto e una quantità di giudizi su impressionisti e macchiaioli e su tant’altri pittori e scultori: e Daumier e Corot, Courbet, Fontanesi, Morelli, De Nittis, Nino Costa, Zandomeneghi, e così via, di una giustezza e attualità ammirevoli.


Giovanni Fattori, La Rotonda dei Bagni Palmieri, 1866, Firenze, Galleria Nazionale d'Arte Moderna
Fonte: Wikimedia Commons

Giovanni Fattori, In vedetta, 1872, Collezione privata
Fonte: Wikimedia Commons


CORRIERE DELLA SERA
Editi e inediti di Diego Martelli

di Emilio Cecchi

La letteratura critica che accompagnò e sostenne il movimento pittorico dei «macchiaioli» toscani, s’impernia sui due nomi di Diego Martelli e di Adriano Cecioni. Ma sarebbe difficile immaginare due interpreti e patrocinatori più diversi. Il Cecioni, scultore talvolta mirabile, talvolta ingrato, mai insignificante, e pittore d’una grazia acuta e un po’ stramba. Violento e sospettoso di carattere; e per tutta la vita, meno rari guizzi di fortuna, tetramente oppresso dalla miseria e altri affanni. Il Martelli, di origine facoltosa, possidente di campagna. E non già che propriamente nuotasse nell’oro; ma, almeno un certo tempo, in condizione da permettersi viaggi e residenze all’estero, e da offrire ospitalità e aiuti ai «macchiaioli» più bisognosi. Tipica figura della colta borghesia fiorentina, eccentrica ma in fondo equilibrata; di vivo senso patriottico, che non gli precludeva illuminate curiosità internazionali.

Assai noti gli Scritti e ricordi del Cecioni, che furono stampati due volte. Ma a quelli del Martelli, sparsi su giornali e riviste, toccò un destino più incerto. E solo oggi Antonio Boschetto ne ha data una scelta diligente, incluso buon numero d’inediti: Scritti d’arte di Diego Martelli (Biblioteca di «Paragone», n. 4, edit. Sansoni, Firenze); nel medesimo tempo che Baccio M. Bacci pubblicava una riuscita biografia: Diego Martelli, l’amico dei «macchiaioli» (Edit. Mazza, Firenze).

Per verità, nel suo rapido decorso, che fra il 1855 e il 1890 può considerarsi sostanzialmente compiuto, all’arte dei «macchiaioli» non arrise grande fortuna. Ed ecco che, dopo lungo abbandono, in epoca abbastanza prossima a oggi, la gente sembrò ripensarci, mostrando di cambiare opinione. La storia di quel movimento artistico venne rispolverata. Cominciò ad organizzarsi qualche mostra retrospettiva. A mano a mano i dipinti sbucarono fuori dalle vecchie raccolte e dai salotti familiari, dove sonnecchiavano da parecchi decenni. E divulgati in riviste, cataloghi e monografie, passarono sotto il martello dei direttori d’asta, perché avevano finito col trovare anche un loro mercato. Non occorre soggiungere che, nelle vendite, presto li accompagnarono inevitabili falsificazioni: che questa è sempre la più sicura riprova (così son le cose del mondo) che una data merce è davvero gradita. Disgraziatamente, nel corso di tali operazioni, si sviluppò un equivoco increscioso; di cui qualche germe, chi osservi attentamente, può rintracciarsi negli stessi scritti del Cecioni e del Martelli.

Era accaduto che, nel fervore della loro tardiva riscoperta dei «macchiaioli», alcuni nuovi critici, fra vari imbonimenti, avevano messo in giro anche questo: che se la Francia menava legittimo vanto degli «impressionisti», ormai era dimostrato che, contemporaneamente alla Francia, i suoi pittori rivoluzionari l’Italia ottocentesca li aveva avuti pure lei. E chi sa (rincalzavano) che, quantunque malmenati dalla sorte, in fondo in fondo non fossero stati perfino più bravi di quelli.


Silvestro Lega, Il pergolato, 1868, Milano, Pinacoteca di Brera
Fonte: Wikimedia Commons

In altri termini, la recente riscoperta dei «macchiaioli», malauguratamente, presso taluni, prese fin dall’inizio un tono di ripicco e di puntiglio, che fatalmente doveva provocare ritorsioni non meno puntigliose. E anziché svolgersi spontaneamente, e come era più utile, sulla base d’una nuova, paziente e sincera lettura delle opere d’arte, s’invischiò in una confusa polemica da cui i «macchiaioli» non avevano da guadagnar nulla. Sarebbe stato facile accorgersi che i due movimenti, «impressionista» e «macchiaiolo», se genericamente rientravano entrambi nella grande corrente naturalistica europea della seconda metà del secolo scorso, intrinsecamente erano estranei uno all’altro, ed avevano origine da tradizioni formali indipendenti e diverse. Si preferì, invece, di metterli in palio; di segnar col gessetto, sulla lavagna del totalizzatore, quotazioni estetiche del tutto strampalate; mentre la cosa concreta sarebbe stata di definire le due scuole o tendenze, ciascuna nel suo proprio carattere (e per ciò che riguarda gli «impressionisti», il Martelli, in una conferenza del 1879, e nella sua commemorazione di Manet, aveva cominciato benissimo); e soprattutto applicarsi all’interpretazione dei singoli artisti e delle opere, in quella che aveva potuto essere la loro piccola o grande originalità.

Specie nella seconda metà del secolo, nelle cose dell’arte e della letteratura, spettò alla Francia una funzione egemonica. Pittori della forza di Delacroix, di Ingres, di Courbet, l’Italia coeva non se li era neanche sognati. Era naturale che Manet, Degas, Pissarro, Renoir e minori, che liberamente, dopo il 1850, si formarono sopra quegli esempi, ne traessero più robusta sostanza di quella che, dai propri predecessori, potevano trarre i «macchiaioli», sperduti e brancolanti in una cultura figurativa vietamente accademica, meschinamente provinciale. E sia per la forza del proprio genio, che per la fertilità del terreno culturale dove esso aveva radice: Manet, Degas, Renoir, pervennero a risultati cui, nonostante la purezza dei loro intenti e la loro abnegazione, certamente non giunsero Abbati, Sernesi, Lega, Signorini e nemmeno Fattori.

Col suo dispettoso temperamento, il Cecioni a Parigi figurava di neppure accorgersi che ci fossero gli «impressionisti». E si sfogava, meritatamente, a dir male dell’emigrato De Nittis, che (come poi il Boldini) adattandosi abilmente ai gusti della ricca borghesia, s’era combinata la formula d’una pittura magari brillante, ma soprattutto valida ad usi commerciali. Il Martelli, amico di Manet, e anche più di Degas e di Pissarro, cercava invece di animare scambi d’idee e d’opere fra le due scuole. Inutile fatica perché, come s’è detto, a Parigi e a Firenze, si parlava un linguaggio pittorico del tutto differente. Ed ancora non s’erano diffusi (né il Martelli avrebbe inteso promuoverli) quel cinismo imitativo, quella mimetica sfacciataggine, in virtù dei quali oggi artisti e scrittori arraffano dove trovano, e da un giorno all’altro cambiano bandiera; quasi vivessero al di fuori di ogni responsabilità etnica, e di ogni tradizione e coerenza intellettuale.

Ma è curioso che, anche in un libro come quello che degli scritti d’arte del Martelli ha ordinato il Boschetto, continuano a farsi sentire, pur vagamente, echi della sballata polemica di cui ora si diceva, sugli «impressionisti» e i «macchiaioli». Badiamo bene che il libro è quanto mai opportuno e meritorio. Di nome il Martelli fu sempre conosciutissimo, presso quelli che s’occuparono di pittura toscana dell’Ottocento. Nel fatto, i suoi articoli e le sue conferenze erano difficilmente reperibili, mentre ormai sono alla portata di tutti, e documentano un ingegno critico e un garbo di scrittore che non bisognerà esageratamente sopravalutare, ma ch’erano di certo fuor dell’ordinario.

E quando si completano gli Scritti d’arte con l’affettuosa biografia dettata dal Bacci: la figura del Martelli piglia un risalto sempre più deciso e convincente. La sua passione della verità, la curiosità scientifica, il senso di moderna poesia col quale egli anticipa i portati delle nuove scoperte e applicazioni all’industria e all’agricoltura; il suo socialismo umanitario, la generosità con gli amici, la simpatia per gli umili e gli afflitti, testimoniata fra l’altro dal suo felice matrimonio con una povera ragazza ch’egli aveva tolto da un luogo di vergogna; l’amore della libertà, che lo porta su due campi di battaglia, e una terza volta con Garibaldi a Digione: tutte queste cose, alla morale callosità e all’estetico preziosismo di certuni, potranno sembrare estranee e trascurabili, e ce lo rendono invece più e più caro.

Giustamente il Boschetto è pieno di scrupoli che, nella sua antologia, nulla favoreggi equivoci creati da coloro che equiparavano o addirittura anteponevano l’arte dei «macchiaioli» a quella degli «impressionisti». Mai (egli dice) il Martelli, trattando dei «macchiaioli», s’accese d’entusiasmo critico come nel suo necrologio di Manet. Sfido io. Ma di precisi e caldi consensi per i «macchiaioli» sovrabbondano le carte martelliane; e non vorrei che, senza affatto proporselo, il Boschetto, in un certo qual modo, avesse finito col dare un’impressione che il Martelli era un grandissimo critico quando elogiava Manet, ma era un critico meno grande quando trovava qualche cosa di buono in un Abbati, in un Lega o in Cecioni. 

Ed ancora. Capitò al Cecioni di scrivere: «che nei “macchiaioli” era piena e assoluta ignoranza della tradizione delle antiche scuole, non per mancanza di cultura artistica, ma per volontà degli autori». E il Boschetto si serve di cotesta frase. Ma poteva tener conto anche d’altre, più particolareggiate, del Cecioni medesimo. Ad esempio: «Il giovane Borrani andò a studiare dal Bianchi, che avendo avuto l’incarico di restaurare il Chiostro verde, dove sono gli affreschi di Paolo Uccello, indicava allo scolaro quelle pitture come le sole opere su cui si potessero fare degli studi sani e utili, e lo eccitava a copiarle in disegno. Il Borrani si mise all’opera con ardore. Passò dopo agli affreschi del Cappellone degli Spagnuoli, indi a quelli del Ghirlandaio... Fece disegni in Santa Croce dagli affreschi di Giotto...». Disegni del Borrani dall’Adorazione dei Magi del Botticelli, ecc.; e così disegni del Fattori dal Ghirlandaio e da Filippino Lippi, sono pubblicatissimi. Il Boschetto lo sa meglio di me.

Queste pigre sfumature di tossicosi vapori pirici dalla vecchia polemica, queste veniali e larvali reticenze, possono essere meno approvate dal lettore non digiuno; in realtà poco tolgono al libro degli Scritti d’arte, che finalmente consacra l’acume e la rettitudine critica di Diego Martelli.

Nessun commento:

Posta un commento