Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 8
Emil Nolde
Mein Leben [La mia vita]
Parte seconda:
Il pittore anticlassico.
(recensione di Francesco Mazzaferro)
[Versione originale: ottobre 2015 - nuova versione: aprile 2019. Segnalo - sui temi discussi in questo blog - l'importante mostra di Berlino tra aprile e settembre 2019: "Emil Nolde. Una leggenda tedesca. L'artista durante il regime nazista." I curatori della mostra sono Bernhard Fulda, Christian Ring e Aya Soika, in cooperazione con la Fondazione Nolde. L'avvio del progetto di ricerca che ha portato alla mostra é citato in questo post. La mostra segna un radicale cambiamento nell'attitudine della Foldazione Nolde rispetto al passato]
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[Versione originale: ottobre 2015 - nuova versione: aprile 2019. Segnalo - sui temi discussi in questo blog - l'importante mostra di Berlino tra aprile e settembre 2019: "Emil Nolde. Una leggenda tedesca. L'artista durante il regime nazista." I curatori della mostra sono Bernhard Fulda, Christian Ring e Aya Soika, in cooperazione con la Fondazione Nolde. L'avvio del progetto di ricerca che ha portato alla mostra é citato in questo post. La mostra segna un radicale cambiamento nell'attitudine della Foldazione Nolde rispetto al passato]
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Fig. 5) L'edizione delle Memorie del 2008 (ristampa 2013) |
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Oggi le Memorie di Nolde sono fruibili al grande
pubblico tramite l’edizione pubblicata dalla casa editrice Dumont, sotto il
patrocinio della Fondazione Nolde nel 2008 [1]. Non staremo qui a ripetere
quanto detto nella prima parte di questo saggio. Basti ricordare che nel 1976 i
quattro volumi contenenti i diari dell’artista (pubblicati da ultimo nel 1967
per un totale di circa 800 pagine) vengono compressi in un volume unico, che
nell’ultima versione disponibile non supera 450 pagine. Al di là delle
differenze tipografiche, l’edizione del 2008 è, di fatto, figlia della scelta
di accorciare (ma anche selezionare e manipolare) gli scritti di Nolde. Qui di
seguito, per comodità del lettore, ecco una breve tabella in cui si ricordano
le varie versioni delle Memorie che
furono proposte nel corso degli anni (si rimanda, ancora una volta, alla Parte
Prima). Accanto ad ogni versione compare un numero, che è quello che useremo,
d’ora in poi, per far riferimento a una specifica edizione.
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Fig. 6) Riepilogo delle edizioni delle Memorie |
Tutto ciò
premesso, la prima domanda a sorgere spontanea è: come appaiono oggi i diari a
chi li legge per la prima volta?
Un diario intimo, senza riferimenti storici
L’impressione
più forte che U/2 lascia al lettore è
costituita dai toni fortemente intimisti; non si fa quasi mai riferimento ai
grandi eventi storici dell’epoca. L’amore appassionato per la moglie Ada (le Memorie si interrompono improvvisamente
con la sua morte nel 1946; non c’è alcun ricordo autobiografico relativo agli
ultimi dieci anni di vita dell’artista, compreso il secondo matrimonio), la
gratitudine per gli amici di una vita (come Hans Fehr), la ‘battaglia’ interna
per cercare e trovare fonti d’ispirazione per il proprio linguaggio artistico personale
(colore, tecniche), la ‘battaglia’ esterna per ottenere la stima del pubblico e
convincere critici e altri pittori, il legame con la terra natale (lo Schleswig
del Nord) ed in particolare la passione per la vita contadina di quella zona,
l’interesse formidabile per la natura, la passione per momenti bohémien della
vita urbana a Berlino (danza, teatro), il desiderio di viaggiare, l’interesse
per i popoli primitivi e la loro arte: tutto ciò emerge con evidenza leggendo
le Memorie.
Se si
considera però che il periodo coperto dai diari comprende due guerre mondiali,
il collasso dell’Impero guglielmino, la Repubblica di Weimar e la sua
crisi, la creazione di un regime dittatoriale come il nazismo, lo sterminio
degli ebrei e di altri gruppi della società, la distruzione fisica quasi
completa della Germania nel 1945, è sconcertante vedere come, in 450 pagine, i
riferimenti ad eventi storici di tale importanza siano rarissimi. Ci sono molte
considerazioni sulle miserie della vita e le debolezze del genere umano, ma
quasi nessuna percezione di eventi storici per la collettività. Ci sono pagine
dove si esprime amarezza personale per la perdita di giovani colleghi (Franz
Marc e August Macke, morti nel corso della Prima Guerra Mondiale), ma le espressioni di cordoglio usate sono, molto probabilmente, le stesse che si sarebbero
potute impiegare se fossero scomparsi per malattia grave o incidente d’auto, e
non nei campi di battaglia, rispettivamente a Verdun o lungo la Marna.
Il sapore
d’intimità delle Memorie è
addirittura rinforzato dopo aver letto le prime edizioni del primo e del
secondo volume. 1/1 viene ampliato
dal pittore nel 1949 proprio per includere in 1/2 un’amplissima raccolta di memorie intime; le riduzioni del
testo nelle versioni unificate del 1976 e del 2008 abbreviano nettamente
proprio quelle pagine. Lo stesso vale per il secondo volume, ed in particolare 2/1 e 2/2 (ovvero le edizioni del 1934 e del 1958 del secondo volume),
ovviamente molto più ampio del corrispondente materiale collazionato in U/2. Larga parte del materiale del
secondo volume che sparisce nel passaggio da 2/1 a 2/2 e in U/1 e U/2 riguarda la sfera personale (religione, sentimenti, sogni e
incubi, amici, vicini, animali, giardinaggio, la descrizione ricca di colori di
ambienti naturali, che spesso si protrae per pagine e pagine).
La centralità assoluta della sfera privata può essere interpretata secondo una chiave di lettura benevola.
Facciamo per
un momento riferimento alla produzione pittorica di Nolde: con l’eccezione di
poche opere – come i dipinti “Campo di battaglia” (1913), “Rivoluzione [fig. 20]” (1917),
“Nave da battaglie e nave a vapore in fiamme [fig. 22]” (1938-1945) e i due ‘quadri non
dipinti’ (vedremo poi di che si tratta) intitolati “I litiganti” e “Disputa [fi. 21]” –
Nolde non ha realizzato immagini che esaltassero o criticassero eventi storici,
ed anche quando lo ha fatto, non ha mai fatto riferimento ad avvenimenti
puntuali. Per tutta la sua vita è rimasto un poeta della natura, di motivi
religiosi, di occasioni di divertimento in città, di viaggi e civiltà
primitive, di ritratti di amici e allegorie. Una sorta di pittore atemporale,
tutto concentrato sulle magie del colore e sul tentativo di sollecitare
sentimenti forti e primordiali nel pubblico, senza alcuna necessità di
spiegazioni ulteriori.
Le Memorie confermano che Nolde era un artista di questo tipo. In un brano di 1/1 (1931), ampliato in 1/2 (1949), ma scomparso in U/1, Nolde racconta: “La guerra ispano-americana [del 1898; Nolde ha 31 anni] creò tensioni tra gli studenti di pittura. Non vi presi parte quasi mai. Gli altri studenti non riuscivano a capire che volevo diventare un pittore. Non dicevo nulla. E se dicevano cose intelligenti, ascoltavo.” [2] Le cose terrene gli sono lontane, la sua energia è totalmente concentrata sul ‘dover essere’ artista e pittore. È una forma quasi di autoterapia: Nolde avrebbe dato vita ad opere d’arte meravigliose, che al tempo stesso avrebbero arricchito gli occhi del pubblico e gli avrebbero permesso di ignorare le tragedie della vita. Per molti aspetti, quella di Nolde è la tipologia d’arte (come ad esempio anche quella di van Gogh) che il pubblico vorrebbe vedere sia nelle gallerie d’arte sia nell’anticamera di un dentista, poco prima di andare sotto i ferri.
Le Memorie confermano che Nolde era un artista di questo tipo. In un brano di 1/1 (1931), ampliato in 1/2 (1949), ma scomparso in U/1, Nolde racconta: “La guerra ispano-americana [del 1898; Nolde ha 31 anni] creò tensioni tra gli studenti di pittura. Non vi presi parte quasi mai. Gli altri studenti non riuscivano a capire che volevo diventare un pittore. Non dicevo nulla. E se dicevano cose intelligenti, ascoltavo.” [2] Le cose terrene gli sono lontane, la sua energia è totalmente concentrata sul ‘dover essere’ artista e pittore. È una forma quasi di autoterapia: Nolde avrebbe dato vita ad opere d’arte meravigliose, che al tempo stesso avrebbero arricchito gli occhi del pubblico e gli avrebbero permesso di ignorare le tragedie della vita. Per molti aspetti, quella di Nolde è la tipologia d’arte (come ad esempio anche quella di van Gogh) che il pubblico vorrebbe vedere sia nelle gallerie d’arte sia nell’anticamera di un dentista, poco prima di andare sotto i ferri.
Peraltro,
lungo tutto il corso delle Memorie,
potremo notare che, con regolarità, l’artista ripete a se stesso: “Pittura, pittore!” (Male, Maler!). Questa esortazione (che diventa quasi un mantra) starebbe
a significare che il pittore considera il dipingere come un dovere assoluto
(quasi un imperativo categorico kantiano), quali che siano gli sviluppi
drammatici nel mondo. Per certi versi Nolde onorò questo impegno tassativo: ad
esempio, ignorò l’obbligo di smettere di dipingere (anche per proprio gusto
privato) intimatogli dai nazisti una volta entrato nel novero dell’Arte
degenerata. Risalgono a quegli anni i cosiddetti “quadri non dipinti” (Ungemalte Bilder), ovvero acquarelli
piccoli e veramente belli che compose
clandestinamente, per immaginare pitture complete che non poteva più realizzare
nel suo atelier. Si potrebbe giungere addirittura alla conclusione che Nolde abbia
fatto tutto quel che poteva per evitare che uno qualsiasi degli eventi
drammatici del suo tempo (siano essi stati guerre o regimi totalitari)
producessero un danno alla resistenza della sua anima creatrice, mantenendo la
capacità di continuare a creare secondo il proprio linguaggio artistico anche
nei momenti più difficili. Ed i suoi quadri di fiori risplendono di colori sia
nei periodi di pace che in quelli di guerra nel corso di quattro decenni.
E sicuramente c’è qualcosa di strabiliante in un artista che,
nel corso dei decenni, nonostante gli orrori che lo circondano, continua a
ispirarsi costantemente alla natura, dando vita a quadri con effetti
coloristici eccezionali. “La comprensione
della mia arte religiosa e figurativa passa quasi sempre attraverso le pitture
di fiori. Sono le più facili da capire. Come un pezzo di natura fresca e
brillante, conquistano ogni visitatore e gli riscaldano il cuore.” [3]
Da questo punto di vista – questa è la mia tesi –
l’impressione che Nolde volle (o i suoi eredi vollero) suscitare, ovvero quella
di essere un artista ‘a-politico’, tutto concentrato sui colori e sulle
tecniche artistiche, è materialmente falsa. Quell’impressione fu peraltro
consolidata dal fatto che il terzo volume delle memorie (3/1, ultimato nel 1936, ma pubblicato nel 1965) si concentrò, per
chiara volontà dell’artista, su temi marginali per la società tedesca (in
particolare, sui viaggi all’estero) e che il quarto (4/1, pubblicato postumo sulla base di un manoscritto preparato dal
pittore), fu rivisto probabilmente dalla Fondazione nel dopoguerra nell’intento
di ignorare intenzionalmente i grandi
temi della storia tedesca contemporanea.
La stessa immagine di Nolde come artista avulso dalla
realtà fu rafforzata da Hans Fehr (che dell’artista fu realmente amico di una
vita). Nel 1957 Fehr diede alle stampe “Emil Nolde. Libro dell’amicizia” (d’ora
in poi solo ‘Libro dell’amicizia’), in cui riportava una serie di affermazioni
bizzarre e ambigue di Emil, risalenti – a suo dire - al 1922. Il pittore prima si proclamava incerto se votare a destra o a sinistra e poi concludeva che qualsiasi potere fosse
stato capace di far affermare il proprio sistema politico si sarebbe
legittimato da sé “indipendentemente se
tale potere sia chi comanda oppure il popolo, l’esercito o i nazisti” [5].
Erano gli anni in cui la destra e la sinistra estreme cercavano il potere coi
colpi di stato, e Nolde sembra giustificarli tutti, qualsiasi sia la loro
origine, purché l’ordine ritorni presto. Hans Fehr era un professore
universitario di diritto. Sicuramente non gli sfuggì che quelle di Nolde erano
frasi esclamate sotto l’influsso delle famose teorie di Carl Schmitt, il
filosofo del diritto tedesco che legittimò nella dottrina giuridica tedesca la
violenta presa del potere di Hitler. Ovviamente, nel suo libro, Fehr dimenticò
di menzionare che Nolde aveva preso parte attivamente alla campagna elettorale
di Hitler nel 1934.
Un pittore anti-cosmopolita e anti-classico
Emil Nolde era nato nel 1867 a Nolde – nello
Schleswig del Nord, che oggi è una regione della Danimarca e non più del Land tedesco
dello Schleswig-Holstein – con il nome di Emil Hansen.
La decisione di assumere il cognome Nolde risale solo al 1902, quando l’artista
intraprese la carriera di pittore in via esclusiva e professionale, dopo aver
praticato ed insegnato arti applicate fino a 35 anni. Nelle Memorie Emile giustifica il cambio di
cognome col fatto che Hansen era troppo comune [6]; certo si tratta di un segno
inequivocabile di quanto Nolde fosse affezionato alla sua regione natale. Non
solo il (nuovo) cognome, ma la stessa lingua usata dall’artista tradiva (o, per
meglio dire, rivendicava) le sue origini. Nella postfazione all’edizione del
2008, Martin Urban segnala che la scrittura di Nolde è (quanto a sintassi)
marcata da profonde influenze regionali, come del resto ammette lo stesso
artista, dicendoci che non gli era mai stato possibile imparare correttamente
il tedesco a scuola. La sua lingua assomiglia in certi aspetti al
danese (per esempio, nell’uso ripetuto del participio, utilizzato per
introdurre frasi dipendenti come oggi il gerundio in italiano; in tedesco non
esiste). Nato tedesco, Nolde divenne cittadino danese nel 1920, come
conseguenza della fine della Prima Guerra Mondiale [7]. Ada, la compagna della
sua vita, era una cittadina danese che aveva incontrato a Copenaghen. Ciò non
significa affatto che la famiglia Nolde fosse di vedute aperte. La Prussia
aveva conquistato lo Schleswig del nord nel 1865 con una guerra, e la Germania
lo aveva perso di nuovo nel 1920, con un referendum dopo la Grande Guerra. Il
pittore ricorda che, inizialmente, suo fratello si era rifiutato di far
conoscenza della cognata, per via delle tensioni nazionaliste [8]. Ad ogni
modo, se Nolde si considerò sempre come appartenente a una comunità culturale
nord-europea e tedesca (dimostrandosi molto ostile alla cultura classica di
Francia e Italia), è perché era permeato dei miti delle favole popolari
scandinave della sua infanzia, che lo avevano portato ad una forte prossimità
emotiva con l’arte nell’Europa del Nord.
Nolde era tutto tranne che il classico intellettuale
cosmopolita di lingua tedesca che, nella prima metà del ‘900, contribuiva
attraverso il suo sapere poliedrico alla modernizzazione della cultura globale
nel mondo, per poi essere vittima del nazionalsocialismo tedesco (si pensi a
Thomas Mann o Sigmund Freud o Albert Einstein o Gustav Mahler o Bertold Brecht
o Fritz Lang o Franz Kafka). L’artista si gloriò sino alla morte di aver letto
un solo libro in vita sua (un romanzo oggi poco conosciuto di Victor von Scheffels, intitolato ‘Ekkehard’ [9]) e ancor
oggi i critici continuano a chiedersi se ciò possa essere vero oppure no.
Solamente in pochissimi casi Nolde ricorda di essere stato presente a
discussioni su arte o filosofia, ma confessa di non essere stato capace di
partecipare attivamente a queste conversazioni: “Dove avrei dovuto imparare che
cosa dire?” (Woher sollte ich es wissen)
[10]. Quando il suo amico Paul Klee ebbe in mano il primo libro delle memorie
(1/1) espresse amichevolmente il suo stupore per il fatto che fosse riuscito a
scriverlo [11]. Non paiono peraltro molto convincenti i tentativi di
critici d’arte, anche molto importanti come Werner Haftmann (fondatore di Documenta a Kassel ed autore di una
superba monografia su Nolde nel 1958) di vedere in Emil un elemento integrante
dei circoli intellettuali pro-europei. In un altro testo ammirevole (il
discorso commemorativo per il centenario dalla nascita nel 1967 che abbiamo già
citato nella Prima Parte) Walter Jens ammette che il solo modo di interpretare
Nolde in modo moderno, compatibile con il corso democratico della Germania, è
quello di farlo contro ogni evidenza risultante nei suoi scritti: si tratta di
amare Nolde come artista, nonostante quel che egli aveva scritto nelle sue Memorie.
Nolde detestava la Francia (passò alcuni mesi infelici a
Parigi tra il 1899 e il 1900) e l’Italia lo annoiava (la visitò due-tre volte,
senza però compiere il classico Grand Tour di molti altri artisti europei);
disapprovava ogni influenza dell’‘arte classica’ sulla Germania (e in tale novero
faceva rientrare anche l’impressionismo); prese posizione, ad esempio, contro
il cosiddetto neo-impressionismo della Secessione di Berlino. Ho cercato di
prendere nota di tutti i passaggi in cui esprime sentimenti chiaramente
anti-francesi: ne ho contati più di venti nell’edizione U/2 (che è quella più breve). Persino quando si trattava di
scegliere le cornici per i suoi dipinti, faceva in modo di scartare le
tipologie in uso presso i pittori francesi [12]. A mo’ di esempio ecco quello
che scrive, in una lettera del 14 settembre
1911 [13] (si tratta, si badi bene, di una delle
dichiarazioni meno radicali e più
equilibrate contenute nelle Memorie
su questo tema, posto che vi riconosce anche i meriti dell’arte francese): “La nostra pittura [tedesca] del XIX secolo
non avrà molta importanza per il futuro, posto che vive all’ombra dei grandi
maestri antichi o dipende dall’impressionismo francese. Trovo meraviglioso che
alcuni fra i più bei dipinti dei più grandi fra i pittori – Manet, Degas, Cézanne, Gauguin, van Gogh –
siano stati acquistati in Germania. È
invece spiacevole che così tante opere tendenti allo sdolcinato, di Monet,
Renoir, Sisley e spesso anche Rodin, siano giunte da noi […] La Secessione di
Berlino, sin dalla sua costituzione, ha sempre sottolineato vibratamente che i
grandi pittori sono i francesi, mentre i membri della Secessione sono grandi
solamente a metà. Questo è vero. Tuttavia, ciò ha continuato ad alimentare un
sentimento di dipendenza, e l’intera nuova generazione della Secessione di
Berlino è caduta in un andirivieni inconcludente da un palazzo all’altro. Se la
nostra arte sarà mai equivalente o ancora più rilevante di quella francese,
dovrà pur essere (anche senza volerlo esplicitamente) completamente tedesca.
Nell’industria, nel commercio, nella scienza e così via non solamente siamo
divenuti lentamente equivalenti, ma addirittura d’esempio, e oggi abbiamo piena
fiducia in noi stessi. La medesima cosa succederà per l’arte: tutti i migliori
prerequisiti sono oggi a disposizione della nazione.” [14]
Hans Fehr (che pure gli era così amico) era
turbato dal fatto che Nolde potesse nutrire sentimenti anti-francesi così
profondi (e invano tentò di convincerlo della grandezza della cultura
transalpina). Nel Libro dell’amicizia ritiene doveroso sottolineare che tali
sentimenti non erano il risultato della propaganda nazista: ”Ancor prima dell’afflusso (Einströmen) dei nazionalsocialisti
nel 1931, Nolde si esprimeva in termini forti: ‘Povera Germania agonizzante. E
l’ossessione napoleonica di potere dei francesi. La ricchezza in oro è
ammassata a Parigi, la sede del potere diabolico’.” [15]
Visitando l’Alte Pinakothek a Monaco, Nolde esprime il suo forte desiderio di
evitare, in termini artistici, di ripercorrere il cammino di Albrecht Dürer e
di tutti quegli artisti tedeschi che, visitando l’Italia, erano divenuti, a suo
parere, vittima del decadimento e dell’imitazione (Abhändigkeit und
Nachahmung) [16]. Parlando ancora di Dürer, scrive: “Non ho mai capito il suo intento di inscrivere un corpo umano in uno
schema che dovrebbe costituire un ideale di bellezza.” [17]
Nel suo viaggio più lungo in Italia (1904-1905), dettato
peraltro dalla necessità di consentire alla moglie Ada di riprendersi da alcuni
problemi di salute con un soggiorno terapeutico in Sicilia, Nolde spiega di non
essere stato affascinato da nessuna delle opere d’arte che ha visto. Le
aspettative dovevano comunque essere abbastanza basse, come racconta quando
entra nel nostro paese dal Brennero: “L’Italia,
il paese della nostalgia tedesca. Il paese che ha attratto per secoli tutti gli
artisti della Germania del nord (nordisch-deutschen), fino a quando non tornarono con le loro ali carbonizzate. Anche gli
artisti forti.” [18] E
riferendosi alla Sicilia, Emil dichiara: “Ogni
cosa mi era estranea. Non mi è piaciuto il paesaggio, la gente e nemmeno i
resti archeologici.” [19] E infine,
quando lascia l’Italia: “In termini
artistici, il paese non mi ha dato nulla. Mai in precedenza avevo lavorato così
poco e così male. Non ho potuto fare nulla di quel che volevo ed ero reso
incapace dalla natura a me aliena.” [20] L’unica cosa che apprezzerà
(qualche anno dopo) sarà l’Italia dei futuristi, ma solo per l’idea “di rompere e bruciare ogni opera d’arte
italiana.” [21]
Ancora una volta Hans Fehr, nel suo Libro dell’amicizia, cerca di giustificare quest’ostilità coi
problemi fisici dell’amico e ricorda una lettera ricevuta da Ada Nolde nel
1905, in cui gli diceva: “Gli occhi di
mio marito non sopportavano la luce così forte ed i riflessi dei muri bianchi”
[22]. Dubito tuttavia che possedere un buon paio di occhiali da sole avrebbe
risolto il problema.
Nolde potrebbe essere chiamato pittore ‘anti-classico’
per eccellenza. Forse, ‘anti-classico’ potrebbe essere una definizione
addirittura migliore di ‘espressionista’, un’etichetta che non voleva vedersi
appiccicare addosso: In 2/1 egli
scrive: “Gli esperti letterati dell’arte
mi chiamano ‘espressionista’; a me questa costrizione non piace. Un artista
tedesco, ecco quello che sono.” [23] L’ultima parte della frase (“Un
artista tedesco, ecco quello che sono”) scompare comunque in 2/2 nel 1958: evidentemente
era un’espressione non più considerata compatibile con il nuovo corso europeo
della Germania [24]. Commentando gli sviluppi nella storia dell’arte degli
ultimi 20-30 anni, Emil scrive nel 1912: “Ci
hanno detto che si poteva vedere l’arte più compiutamente perfetta nei greci e
che Raffaello era il più grande di tutti gli artisti. (…) Da allora, qualcosa è
cambiato. Non ci piace Raffaello e rimaniamo freddi di fronte alle sculture
della cosiddetta era d’oro della Grecia.” [25]. Al povero Raffaello va a
tener compagnia Tiepolo: “Anche la
velocità di mano era un nemico, forse il
solo che io temessi un poco. Tiepolo, il più veloce di tutti i pittori, mi
faceva orrore.” [26] E poi: “Sia
benedetta la nostra forte, salutare arte tedesca. (Gelobet sei unsere starke, gesunde deutsche Kunst). E le sante Madonne tedesche
– intimamente spirituali – di un Grünewald e di altri, a giudizio di questo
pittore sono infinitamente meglio delle pitture romane, esternamente
ineccepibili [n.d.r. ma fredde], di un Raffaello, che si adattano perfettamente
alle corti dei dogi e dei papi. Tutta l’arte dei popoli del Mediterraneo
racchiude in se stessa le stesse caratteristiche, che le sono proprie; la
nostra arte tedesca ha le sue, del tutto indipendenti. Il nostro omaggio
all’arte dei popoli latini, ma il nostro amore all’arte tedesca.” [27] “Dobbiamo
essere orgogliosi e aver fiducia in noi stessi. Da uno o due millenni abbiamo
la nostra arte tedesca, intimamente bella, aspra, forte. Non abbiamo bisogno di
alcun prestito da nessun popolo, sia esso antico o contemporaneo. Fiducia in se
stessi è una fiducia coraggiosa, arroganza un’etica inferiore. Questo dobbiamo
tenere in mente.“ [28]. E conclude “Le
persone ed i popoli che sono soddisfatti della vita o stanchi della cultura
hanno pochi desideri e non possono aspirarvi. Nel nostro cuore tedesco – così
vituperato e così amato – qualcosa balugina e brilla, fermentando per sempre. Il
desiderio è uguale a fuoco e lacrime, aumentate al voltaggio più alto, ed è
molto fertile.” [29] La maggior parte di queste affermazioni contro l’arte
classica e in favore di un’arte nord-germanica è – si badi bene - contenuta
nelle versioni 2/1 (1934), 2/2 (1958), 3/1 (1965) e 4/1 (1967),
ma scompare del tutto nel 1976 (U/1).
Se oggi incontrassi Nolde nel comodo compartimento di un treno tedesco, potrei forse controbattere che non tutta l’arte religiosa italiana è raffaellesca. Così come Grünewald e Dürer produssero arte tedesca di orientamento diverso a nord delle Alpi, anche l’arte italiana mostrò sempre una varietà di accenti. Forse la Pietà di Cosmè Tura ed il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca lo avrebbe convinto che gli artisti più grandi sono geni universali, possono mediare tra sensibilità diverse e non sono prigionieri di rigide definizioni geografiche o peggio ancora razziali.
Se oggi incontrassi Nolde nel comodo compartimento di un treno tedesco, potrei forse controbattere che non tutta l’arte religiosa italiana è raffaellesca. Così come Grünewald e Dürer produssero arte tedesca di orientamento diverso a nord delle Alpi, anche l’arte italiana mostrò sempre una varietà di accenti. Forse la Pietà di Cosmè Tura ed il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca lo avrebbe convinto che gli artisti più grandi sono geni universali, possono mediare tra sensibilità diverse e non sono prigionieri di rigide definizioni geografiche o peggio ancora razziali.
Infine potrei fargli rispettosamente notare che anche il
giovanissimo Paul Klee, che visita il nostro paese nel 1901-1902, e dunque
solamente qualche anno prima del suo viaggio in Sicilia (1904-1905) scrive nei
suoi Diari pagine a volte simili: condivide i dubbi dell’artista nordico
nei confronti dell’arte classica e rinascimentale, ed odia addirittura il
barocco come forma di degenerazione, ma scopre l’architettura urbana e l’arte
minore, il tardo antico ed il medio evo. Insomma, sulla base delle proprie
preferenze estetiche Klee dice di preferire Genova e Napoli a Roma, e predilige
Santa Sabina a San Pietro, ma trova ovunque i germi della bellezza.
Hans Fehr riporta invece nel suo ‘Libro dell’amicizia’
una conversazione che ebbe con Nolde nel 1922, quando proclamò, quasi
parafrasando Nietzsche: “La bellezza è morta (…) L’uomo, infatti, non
è una bella creatura. Le sue braccia e le sue gambe gli stanno appese attorno come
salcicce. Preferisco le vecchie statue con le braccia mozzate. Ieri una delle
mie piccole statuette di legno della Nuova Guinea è caduta e si è rotta. Ha
perso un braccio. In un primo momento volevo riattaccarlo. Poi ho soprasseduto,
dal momento che l’immagine mi sembra più bella.” [30]
All’apice del successo, nel 1927, uno dei critici d’arte
più importanti della Repubblica di Weimar, Paul Westheim, suo amico, definì
Nolde un barbaro.
“Questo pittore
– scrive Westheim – che nelle nature
morte e nelle rappresentazioni dei fiori può essere di una delicatezza come
solo Manet sarebbe stato capace di essere, è al tempo stesso un barbaro, uno di
quei barbari nordici che hanno intrecciato le loro terribili visioni demoniache
in un tessuto irlandese. Uno di quei barbari tedeschi – si disse per lungo
tempo ‘gotici’ in senso spregiativo – che non conoscevano alcuna misura nel
loro sfrenato impulso creativo, sia nella grandezza come pure nella volgarità
delle loro creazioni. L’artista romanico non ha problemi a finalizzare
un’immagine, a produrre con successo un’armonia; cresce nell’ambito di una
tradizione ben consolidata. Non così l’artista gotico, l’uomo del nord e della
Germania, che deve sempre ricominciare di nuovo, che deve sviluppare per sé un
nuovo linguaggio artistico.” [31]
Nello stesso anno (in una raccolta di scritti pubblicata
in occasione del sessantesimo compleanno di Emil [32]) Paul Klee, lo definiva
“un’anima antichissima” (Uralte Seele)
e “il Demone di questa regione” (Dämon
dieser Region). [33]
Westheim e Klee hanno ragione. Per molti aspetti Nolde
era davvero un barbaro e un demone, se in tal modo si vuol definire un artista che non accetta che una qualsiasi convenzione estetica formale,
ereditata dal passato, possa impedirgli la ricerca primordiale di un linguaggio
emotivo vicino all’estasi ed al delirio, attraverso la massima eccitazione del
contrasto dei colori.
L’anti-classicismo
di Nolde: semplicemente gusto o ideologia?
L’anti-classicismo di Emil Nolde è unicamente una
questione di gusto personale o ha una matrice ideologica?
Nolde spiega le sue opinioni sulla differenza che
esiste tra il colore del Nord e il sole del Sud, in un passaggio contenuto
solamente nelle versioni del secondo volume (2/1; 2/2 e 2/3) precedenti la prima versione
integrata del 1976 (U/1) dove non
compare più: “Sole del Sud. Fin dal primo
momento, vai adulando noi popoli del Nord, ma ci rubi ciò che di noi è più
caratteristico: il forte, l’amaro, l’intimo. Un po’ di debolezza; un po’ di
dolcezza; un po’ di esteriorità e l’artista ottiene il plauso del mondo intero,
in lungo e in largo. Tuttavia, ognuno capisce che la debolezza per intero, lo
sdolcinato per intero, l’esteriorità per intero sono valori negativi. Chi di
noi non conosce l’’Edda’ [nota di
redazione: serie di antichi poemi vichinghi],
l’altare di Issenheim [n.d.r. capolavoro di Grünewald],
il ‘Faust’ di Goethe e lo ‘Zarathustra’
di Nietzsche, questi caratteri runici incisi sulla pietra, questi lavori
orgogliosi e supremi dei popoli dell’Europa del Nord e germanici? Bisogna saper
distinguere tra valori eterni e rumore di un giorno. Un giovane pittore prega:
‘Io voglio così tanto che la mia arte sia forte, aspra ed intima’. “ [34]
Nolde era un uomo dell’Europa del Nord e della Germania
del Nord, si sentiva a proprio agio con i colori, il panorama e la natura di
quelle regioni, e non riuscì mai a sviluppare la stessa sintonia col resto
d’Europa. Certamente, la sua forte preferenza per un linguaggio pittorico fatto
di colori dominanti e complementari (invece che di una luce accecante), per la
rappresentazione di una natura ruvida e non di gentili paesaggi, per contrasti
violenti senza equilibri o sfumature, deve aver fornito molte buone ragioni
alla sua totale mancanza di passione per l’Europa del Sud. Le Alpi (con i loro
panorami inospitali) furono l’ambiente più meridionale per cui riuscì a
coltivare una passione.
Per Emil la civiltà sembra essere divisa in Nord e Sud da
tempo immemorabile. “Già tra l’arte medievale
del sud e del nord della Germania vi è una chiara linea di divisione. Sin
dall’arte egizia e greca per arrivare a quella spagnola e francese si può
trovare [a Sud] una bellezza espressa in termini magnificamente vasti e formali,
ma anche nei secoli aurei sono presenti i germi della decadenza e un sentimento
per certi versi carente. L’arte della Germania del Nord è animata da calore
dell’anima, mistica e fantasia, forza espressa in maniera sobria e spesso una
modestia che è davvero commovente. Noi popoli del Nord stranamente possiamo
capire bene l’arte dei popoli del Sud, ma questi ultimi quasi mai sono in grado
di capire la nostra. Sembra come se questa differenza sia una regola di natura,
come pure il fatto che i popoli nordici siano sempre attirati dal Sud, in
direzione del sole. I miei quadri, esibiti qualche volta a Venezia, hanno
orripilato gli Italiani e guadagnato poca comprensione a Monaco; anche per gli
abitanti di Monaco i miei dipinti sono troppo nordici.” [35].
Fin qui, dunque, dovremmo parlare di anticlassicismo come
gusto personale. Tuttavia non possiamo non citare gli studi di William Bradley
[36], che ha analizzato con attenzione il rapporto tra Nolde e il cosiddetto
movimento populista (Völkisch Bewegung),
una corrente artistica e letteraria che attrasse molto sostegno in Germania tra
la fine del XIX secolo e la seconda guerra mondiale; Bradley interpreta il
pensiero anticlassico di Nolde come conseguenza dell’influsso di quel
movimento. Secondo la teoria Völkisch,
la natura era la fonte dell’arte e gli artisti erano fondamentalmente plasmati
dal paesaggio naturale in cui erano cresciuti: la comunanza del paesaggio
creava una comunanza di cultura (che essi chiamavano ‘razza’). Un artista nato
nella natura della Germania del Nord aveva dunque necessariamente un modo
differente di praticare l’arte di qualsiasi artista francese o italiano.
Solamente gli artisti che vivevano in città – stando a questa teoria – erano
esposti a una forte pressione livellatrice degli stili, conseguenza di
materialismo e speculazione. Il movimento (diffuso anche in altri paesi
nordici) si considerava erede spirituale dell’arte di Rembrandt. Aveva,
ovviamente, caratteristiche molto nazionaliste e populiste (in cui spiccava
appunto un forte pregiudizio anti-classico), era tipico delle aree rurali della
Germania del Nord e contribuì al successo dell’approccio di estrema destra
nella cultura tedesca ancor prima del nazionalsocialismo. Le Memorie non contengono riferimenti
diretti ad autori o artisti Völkisch
(se non in un caso che comunque non è particolarmente significativo [37]; si
provvede comunque a cancellarlo già nel 1958) anche se è indubbio che vi siano
estesi parallelismi di sostanza tra gli scritti di Nolde e le tesi di Bradley.
La biografia contenuta nel catalogo della mostra retrospettiva tenutasi di
recente a Francoforte segnala peraltro che Nolde “nel febbraio 1933 presenta domanda per entrare a far parte della Lega
del Popolo per la Cultura Tedesca (Völkisches Kampfbund für deutsche Kultur),
ma la domanda è rigettata.” [38] La Lega, peraltro, non è semplicemente un
movimento populista-Völkisch: è
diretta da Alfred Rosenberg, il direttore del Völkischer Beobachter, il quotidiano nazista.
Quella di Nolde sull’arte del Nord contro quella del Sud
potrebbe sembrare null’altro che una teoria, forse un po’ troppo sommaria,
delle civiltà (e ci sono quelli che anche oggi avrebbero le stesse idee
sull’incompatibilità tra arte del Nord e arte del Sud). Ma se prestiamo
attenzione agli studi di Bradley e, soprattutto, se teniamo conto delle vicende
legate al ‘nazismo rivoluzionario’ che esporremo fra un attimo, viene spontaneo
pensare che non si tratti solo di gusti personali. Siamo nel 1934 e Nolde cerca
di convincere un’ala del regime (in particolare Goebbels) dei propri sentimenti
sinceramente pro-nazisti, non esitando a far ricorso alla retorica
anti-francese, anti-classica e anti-sud europea, cercando di impressionare la
gerarchia del Partito Nazionalsocialista come campione di un’arte moderna
genuinamente tedesca, legata al mondo dell’Europa del Nord. Quel che egli non
poteva sospettare è che l’ideologia nazista potesse essere così radicale da
considerare il suo stile artistico (e perciò anche lui) come oggettivamente
degenerato, nonostante il suo supporto personale al partito fin dalle prime ore
e la vicinanza intellettuale di molte sue convinzioni a quelle naziste.
Max Sauerlandt critico di Emil Nolde
Non possiamo a questo punto non parlare di quello che Max
Sauerlandt, ovvero il maggior critico d’arte tedesco all’epoca della Repubblica
di Weimar, scrisse su Nolde. L’intervento di Sauerlandt merita particolare
attenzione perché mostra come il dibattito sulla “germanicità” dell’arte,
all’epoca, non fosse certo limitato a Nolde.
Sauerlandt, peraltro, fu anche direttore di istituzioni museali: nel
1913 acquistò per il museo di Halle L’Ultima
cena, il primo quadro di Nolde comprato da un museo pubblico. L’acquisto
scatenò una polemica importante: Sauerlandt fu attaccato con veemenza
dall’allora direttore della Galleria Nazionale di Berlino, Wilhelm von Bode, e
rispose pubblicamente in maniera molto puntuale e sarcastica. Dal 1913 alla
morte (1934) Sauerlandt sostenne sempre come critico l’opera di Emil Nolde e
scrisse molto su di lui.
In particolare è necessario ricordare almeno tre testi.
Nel 1921 Max Sauerlandt pubblicò la prima monografia su Nolde, un libro di rara
eleganza (cfr. fig. 40). Nel 1927 curò e pubblicò la corrispondenza dell’artista tra 1894 e 1926.
Nel 1933 dedicò a Nolde quasi metà della sua Lezione sull’arte degli ultimi
trent’anni, una pubblicazione che raccoglieva una serie di lezioni tenute
all’Università di Amburgo. Assieme ai volumi appena citati, è opportuno tener
conto della corrispondenza del critico, che è stata pubblicata nel 2013 da
Heinz Spielmann [39]: solo alla vicenda dell’acquisto dell’Ultima cena sono dedicate circa cinquanta pagine. Le ultime cento
riguardano le dispute fra fazioni naziste che portarono al suo licenziamento
dall’ultimo (e più importante) posto di direttore: il museo d’arte di Amburgo,
la Kunsthalle.
Nella monografia del 1921, Sauerlandt sembra concentrarsi
soprattutto nello spiegare al pubblico tedesco un artista così difficile e
controverso come Emil Nolde. Per la teatralità biblica dei suoi personaggi,
Sauerlandt compara l’arte religiosa di Nolde alle vetrate medievali, a
Rembrandt, agli eroi teatrali di Shakespeare, Goethe e Molière [40]. Spiega che
Nolde non deve essere letto paragonandolo solamente agli impressionisti, ma a
stagioni dell’arte visiva molto precedenti, con cui aveva segrete e profonde
affinità elettive [41]. Sauerlandt le riconosce in particolare nell’arte
religiosa, facendo di lui un artista che partecipa alla storia dell’arte di
tutti i popoli nordici e Germanici, compresa l’Inghilterra. È su queste basi che
nel 1957 Hans Fehr (per cercare di dimostrare che Nolde non era nazionalista)
può citare Max Sauerlandt nel suo Libro dell’amicizia: “Max Sauerlandt (oltre a Schiefler e a me, senza dubbio il suo miglior
amico) scrive: ‘La sua [di Nolde]
essenza più profonda è l’incarnazione della tensione interna, drammatica,
espressa ancora in un monologo, comparabile nella ricchezza delle figure e
delle vibrazioni al mondo drammatico di Shakespeare. E così come Shakespeare
non appartiene solamente all’Inghilterra, anche Nolde non appartiene solamente
alla Germania. Entrambi appartengono all’intero mondo degli spiriti germanici,
da cui sono nati.” [42]
Nella Lezione sull’arte degli ultimi trent’anni del
1933, invece, il tema dell’arte nazionale e della germanicità di Nolde diviene
centrale. Si tratta dell’ultima opera di Sauerlandt, che, già epurato dalle
autorità naziste per il suo amore per l’arte moderna, morirà di tumore l’anno
dopo. Il libro fu pubblicato postumo nel 1935 (dall’editore Rembrandt, lo
stesso usato da Nolde), ma fu immediatamente sequestrato dai nazisti. La tesi
di Sauerlandt è la seguente: nel 1913, il critico d’arte Meier-Graefe [43] ha decretato la superiorità dell’arte
francese e la morte di quella tedesca. [44] Invece l’espressionismo ha aperto
una nuova pagina originale dell’arte nazionale, così com’era successo solamente
nel periodo compreso tra il tardo-gotico e Albrecht Dürer, nell’epoca romantica
e con i nazareni (tutti queste correnti sono interpretate da Sauerlandt in
chiave esclusivamente nazionale, come riletture tedesche, originali e autonome,
di movimenti d’arte più ampi). E Nolde – con il suo temperamento nobile e
barbaro alla Nietzsche, con la sua “forma
barbarica di creazione che fa ribrezzo a tutte le mammolette” [45] – è il
campione assoluto di questa nuova arte nazionale tedesca, l’equivalente di
Wagner nella musica (in realtà, io avrei pensato piuttosto a Richard Strauss) e
l’erede dei germanici van Gogh, Hodler e Munch [46].
In realtà anche della Lezione sull’arte degli
ultimi trent’anni di Sauerlandt (in un perenne gioco di scatole cinesi)
esistono tre versioni. Secondo Jähner [47], un critico d’arte molto noto e
stimato della Germania Democratica Tedesca, l’edizione del 1935 (prima a
stampa, ma di fatto seconda versione) non corrisponderebbe al manoscritto delle
lezioni tenute all’università di Amburgo (prima versione). Il manoscritto
originale considererebbe Nolde “il grande
realizzatore dell’arte nordica e perciò un rappresentante esemplare per la
volontà costruttiva del nazional-socialismo” [48]. Jähner aggiunge che il
manoscritto conteneva molti più apprezzamenti riferimenti elogiativi nei confronti di Adolf
Hitler di quelli contenuti nell‘edizione del 1935.
Nel 1933 si era accesa, all’interno del
nazional-socialismo, una discussione sul ruolo dell’arte moderna, con una parte
minoritaria che sosteneva la necessità di considerare l’espressionismo come una
forma pura e rivoluzionaria d’arte tedesca. Uno dei sostenitori del corso rivoluzionario
– Otto Andrea Schreiber – proclamò la morte dell’espressionismo tradizionale e
definì Nolde (insieme a Feininger e Schmidt-Rottluff) come uno dei “giovani
artisti” che lo reinterpretavano in chiave di continuità con l’arte tedesca del
passato [49]. Uno dopo l’altro, i sostenitori di questa tesi furono sollevati
dai loro incarichi. Nella corrispondenza di Sauerlandt (quella stampata nel
2013) si può leggere come numerosi critici d’arte e direttori di musei d’arte
moderna vengano epurati dal nuovo regime, nonostante abbiano chiaramente grandi
simpatie personali per il nazismo. Alcuni di essi dichiarano persino di
accettare il loro sfortunato destino professionale (che essi imputano
erroneamente a un fraintendimento, che sarà presto chiarito), purché la
‘giovane arte’ di Nolde non sia sacrificata. Nolde era dunque divenuto il
campione del rinnovamento estetico per l’ala cosiddetta ‘rivoluzionaria’
dell’estetica nazista, che fu definitivamente liquidata in un famoso discorso
di Adolf Hitler nel settembre del 1936 a Norimberga, in cui non solamente
condannò ogni forma di modernismo (come cubismo, dada, e lo stesso futurismo)
ma anche ogni rivisitazione intimista del passato: “una contraffatta internalizzazione del gotico non si sposa bene con
l’era dell’acciaio e del ferro, del vetro e del cemento” [50]. A fronte di
perduranti contrarietà di alcuni critici d’arte di fronte a queste parole, il 27 novembre 1936 Joseph Goebbels
proibirà tout court l’esercizio della
critica d’arte.
Fatto sta che Nolde diviene, agli occhi di Sauerlandt e
di quello che verrà successivamente chiamato ‘nazismo rivoluzionario’ il
paladino della nuova arte germanica. Proprio quello che Nolde sperava. Come
andò, è noto: il ‘nazismo rivoluzionario’ fu spazzato via e Nolde finì nel
novero dell’Arte degenerata. Naturalmente la versione della Lezione di
Sauerlandt pubblicata nel dopoguerra (1948) non contiene molti dei passaggi più
spigolosi. Scompare l’introduzione, in cui Harald Busch aveva definito
Sauerlandt (ovviamente per fargli un complimento) come il “più nazista in spirito tra noi critici d’arte” [51]. Sparisce anche
una premessa, firmata da “un ascoltatore” anonimo, che spiegava che la Lezione
era sì “un’opposizione contro le
dichiarazioni di alcuni nazionalsocialisti”, ma che l’obiettivo era
solamente che “almeno una persona
competente” parlasse sull’arte moderna [52]; viene omessa l’informazione
che Sauerlandt era stato ufficiale combattente nella Prima Guerra Mondiale [53]
e che il suo ideale di bellezza era integralmente tedesco, sulla linea di
Nietzsche [54]. Nel testo delle lezioni spariscono i riferimenti al ‘movimento
nazionale’ e alla possibilità che da esso possa evolvere un nuovo capitolo
della “Nuova Oggettività” [55]; i complimenti a Hitler [56]; il riferimento a Hitler
come garante del fatto che tutti i ceppi (Stämme) del popolo (Volk) tedesco avranno
una propria vita spirituale e culturale (nel senso che la Prussia e il sud
della Germania non dovranno prevalere sul nord, di cui Nolde è il campione)
[57]; la citazione del famoso discorso di Hitler sull’estetica a Norimberga
[58], con il tentativo di leggerlo in senso pro-Nolde. Ciononostante,
un’avvertenza contenuta nell’edizione del 1948 segnala: “Il testo – controllato con il manoscritto – è stato riprodotto senza
variazioni, con alcuni cambiamenti che non sono essenziali per la sostanza e
sono dichiarazioni dipendenti da eventi passati.” [59]
Nella nuova versione del 1948, la Lezione è un inno a Nolde come erede del
gotico e del romantico tedesco e come “attaccante del futuro o rivoluzionario”
(Zukunftsstürmer oder Revolutionär)
[60]. Questo passaggio era ovviamente già contenuto nella versione del 1935
[61], ma il lettore non può più comprendere che la rivoluzione di cui
Sauerlandt parla era, in origine, quella nazista, e non quella dell’estetica
espressionista.
Oggi, confrontando l’opera di Nolde con quella dei
secoli che la precedono, è forse più facile riconoscere in lui – forse suo
malgrado – elementi di universalità nel linguaggio estetico che impediscono di
legittimarlo come un artista che appartiene unilateralmente ad una sola regione
geografica della Germania e dell’Europa più in generale. Partendo dalla sua Ultima cena del 1909 (quella acquistata da Sauerlandt) per tornare al suo
Emmaus del 1904, si possono tracciare percorsi che accomunano la sua
iconografia non solamente all’arte gotica ed a Rembrandt, ma anche agli
spagnoli El Greco e Goya, a Rubens ed a Caravaggio. In fondo, il suo stesso
successo universale attraverso i continenti del nostro pianeta smentisce la sua
tesi che solo chi viene dal Nord possa capirlo.
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NOTE
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NOTE
[1] Il
volume che ho letto è una ristampa del 2013 dell’edizione 2008.Per questo
motivo le note fanno riferimento ad un volume in data 2013, e non 2008.
[2] Nolde,
Emil – Das Eigene Leben (La mia vita), Berlino, Rembrandt Verlag, 1931, pp. 204.
Citazione a pagina 136. Nolde, Emil – Das
Eigene Leben (La mia vita), Flensburg, Verlagshaus Christian Wolff, senza
indicazione di data (1948), pp. 293. Citazione a pagina 224.
[3] Fehr,
Hans – Emil Nolde. Ein Buch der Freundschaft (Un libro dell’amicizia), Monaco,
Paul List Verlag, 1960, pp. 149. Citazione a pagina 78.
[4] Vedi il testo di Thomas Knubben “My Suffering, My Torment, My
Contempt. Emil Nolde in the Third Reich” in: Emil Nolde. Unpainted Pictures,
Watercolours 1938-1945 from the Collection of the Nolde-Stiftung Seebüll, Hatje
Kantz Verlag, 1999, pp. 150. Il testo è pubblicato alle
pagine 137-149.
[5] Fehr,
Hans – Emil Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato),
p. 53
[6] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), Colonia, A cura di Manfred Reuther, DuMont,
2013, p. 455. Citazione a p.119
[7] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 368.
[8] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 124.
[9] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 75
[10] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 163
[11] Il testo della lettera è contenuto per intero a pagina
163 del quarto volume delle memorie, nella versione del 1967; nell’edizione
unificata e ridotta del 1988, se ne parla solamente nella postfazione di Urban,
vedi p. 438.
[12] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 232.
[13] Nolde,
Emil – Briefe aus den Jahren 1894-1926 (Lettere degli anni 1894-1926), Berlino,
Furche Verlag, 1967, pp.183. Citazione a pp.78-79.
[14] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 219.
[15] Fehr, Hans – Emil
Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p.109.
[16] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 96.
[17] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 204.
[18] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 143.
[19] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 145.
[20] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 147.
[21] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 201.
[22] Fehr, Hans – Emil
Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p. 30.
[23] Nolde, Emil – Jahre der Kämpfe (Anni delle battaglie),
Berlino, Rembrandt Verlag, 1934, pp. 262. Citazione a pagina 182.
[24] Nolde,
Emil – Jahre der Kämpfe (Anni delle battaglie), Flensburg, Christian Wolff
Verlag (senza indicazione di data), pp. 240.Citazione a pagina 186.
[25] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 225
[26] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 249
[27] Queste
frasi si trovano a pagina 174 della versione
del 1934 del secondo volume delle memorie (2/1),
che ancora appaiono nelle versioni 2/2
del 1958 (pagina 178) e 2/3 del 1967
(pagina 195), ma non più in quella unificata del 1976.
[28] Questa frase si trova a pagina 178 del secondo volume
nella versione del 1934 (2/1), alla pagina 182 dell’edizione del 1958 (2/2) e
pagina 198 di quella del 1967 (2/3), ma non in quella unificata del 1976.
[29] L’intera
frase compare alla pagina 184 della versione 2/1 del 1934 e alle pagine 189/190
della versione 2/2 del 1958. Nella versione attuale (U/2) compare invece
solamente la prima parte della frase, alla p. 231.
[30] Fehr, Hans – Emil
Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p. 52
[31] Westheim
Paul - Hamburger Fremdenblatt, 1927.
La frase compare in un cartellone mostrato nella sala d’ingresso della mostra
retrospettiva su Nolde allo Städel del 2014, senza un’indicazione bibliografica
più precisa. Il catalogo della mostra (nota n. 3 a pagina 32) indica che anche
lo storico dell’arte Adolf Behne (che di lui non era affatto amico) adottò la
stessa definizione nel 1930: Adolf Behne: “Ausstellung Emil Nolde”, Welt am
Abend, 15 Febbraio 1930.
[32] Festschrift für Emil Nolde anlässlich seines
60.Geburtstages (Pubblicazione in onore di Emil Nolde in occasione dei suoi
60 anni), Dresden, Neue Kunst Fides Verlag, 1927, pp. 42 e 38 pagine di
illustrazioni. La dichiarazione di Paul Klee, allora alla Bauhaus di Dessau, é
a pagina 26.
[33] Nei
suoi Diari (che coprono gli anni
1898-1918), Paul Klee fa riferimento a Emil Nolde solamente una volta, al
paragrafo 916, esprimendo un giudizio positivo su una sua mostra a Monaco nel
1913 (il passo è confermato nell’edizione critica pubblicata dalla Fondazione
Klee del 1988, ma stranamente non contenuto nella più recente edizione italiana
pubblicata da Ascondita nel 2012). Nella postfazione (p. 438) Martin Urban fa
anche riferimento ad una lettera di complimenti che Klee invia a Nolde per il
primo volume delle Memorie (U/1) del
25 ottobre 1931. Vi sono invece 6 riferimenti a Klee nella versione U/2 del
2008. A pagina 94 Nolde esprime rimpianto per non averlo incontrato quando erano
studenti a Monaco negli stessi anni (erano stati entrambi respinti
dall’Accademia di Belle Arti, ma frequentavano corsi private nella capital
bavarese); a pagina 201 lo cita come uno dei protetti del critico d’arte
berlinese Herwarth Walden, il fondatore della Galleria e rivista ‘Sturm’ (non a caso citato 14 volte da
Klee nei Diari); a pagina 210 ne
apprezza l’arte piena di inventiva e capacità d’astrazione dalla realtà; a
pagina 403 scrive che tra gli artisti astratti solo Klee lo ha difeso; a pagina
427 piange la sua morte prima che a lui possa essere stata restituita la
dignità d’artista dopo il bando della sua arte da parte dei nazisti; a pagina
433 scrive che solamente alcuni acquarelli di Klee si sono salvati dal
bombardamento della sua abitazione a Berlino, mentre un’intera collezione di
artisti contemporanei è andata persa.
[34] P. 175 della versione 1934; contenuto anche nelle versioni
del 1958, alla pagina 179, e del 1967, alla pagina 196.
[35] Nolde,
Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 402. Bisogna dire che il rapporto tra Venezia e
Nolde fu molto più complesso di quel che Nolde racconta nelle memorie. Nolde
era stato presente alla Biennale già nel 1910, con la stampa “Battello a vela”.
Ma era stato nel 1928 che la Germania aveva portato ben sedici opere di Nolde a
Venezia, con una mostra individuale a lui dedicata. In proposito, è interessante
leggere quanto scrive, nel 1949, Paul Ortwin Rave, nel suo “Kunstdiktatur im
Dritten Reich” (L’arte della dittatura nel terzo Reich, Amburgo, 1949): il
padiglione tedesco alla Biennale era gestito, alternativamente, da
rappresentanti di circoli artistici dal Nord della Germania (più aperti
all’avanguardia) e dalla Baviera (molto conservatori). Nel 1928, la direzione
del padiglione tedesco toccava al direttore generale delle collezioni d’arte
bavaresi, e dunque la Germania si apprestava a preparare un padiglione del
tutto tradizionale. In Italia, invece,
il nuovo direttore della Biennale, Antonio Maraini voleva “affiancare all’arte
‘avanguardista’ anche l’arte moderna di altri Paesi, che dovevano essere
rappresentati dagli artisti più progressisti.” Fu Margherita Sarfatti - la critica d’arte che si era posta alla guida
del gruppo d’artisti ‘Novecento Italiano’ e che teorizzava l’arte moderna
fascista - a preparare una lista di pittori tedeschi e a portarla a Berlino:
tre personali (per Corinth, Nolde e Marc) e decine di artisti di avanguardia
(Dix, Beckmann, Kirchner, Hofer, Klee, Macke, Pechstein, Schmidt Ruttloff,
ecc.).
La Marfatti insistette. Nella sua “Storia della pittura moderna” del 1930
scrisse: “Tra i migliori pittori tedeschi d’oggi sono quelli giá appartenenti
al gruppo Il Ponte (Die Brücke) e cioè Max Pechstein, Ernesto Lodovico
Kirchner, Carlo Rottluff, il pittore e architetto Erich Heckel, ed Emilio
Nolde, ossessionato da gigantesche figure, per gioia o per dolore ghignanti”.
Nolde fu esposto ancora alla XX Biennale del 1936. In quell’occasione la
Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Venezia acquistò un “Paesaggio con
fiori e alberi” che è ancora esposto a Venezia. Anche
in Italia, Nolde ebbe dunque chi lo apprezzava.
[36] Bradley, William
Steven – The Art of Emil Nolde in the Context of North German Painting and
Volkish Ideology, Northwestern University, 1981, pp. 317; Bradley, William
Steven – Emil Nolde and German Expressionism. A Prophet in His Own Land, Northwestern University, 1986, pp. 196
[37] Alla pagina 160 del secondo volume nella versione del
1934 (2/1); nella versione successiva (2/2) il riferimento è cancellato.
[38] Emil
Nolde. Retrospective, a cura di Felix Krämer, con contributi di Max Hollein,
Christian Ring, Aya Soika e Bernhard Fulda, Monaco, Prestel Verlag, 2014, 295
pagine. La citazione è a pagina 283.
[39] Sauerlandt,
Max - Ethos des Kunsturteils. Korrespondenz 1908-1933 (L’Etica del giudizio
artistico. Carteggio epistolare 1908-1933), A cura di Heinz Spielmann –
Hamburg, Hoffmann und Campe, 2013, 464 pagine.
[40] Sauerlandt, Max –
Emil Nolde, München, Kurt Wolff Verlag, 1921, pp. 89. Citazioni alle pagine 36 e 42.
[41] Sauerlandt,
Max – Emil Nolde, (citato), p.54.
[42] Fehr, Hans – Emil
Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p. 94
[43] Su
Julius Meier-Graefe come paladino tedesco dell’impressionismo e dell’arte
francese (ed avversario di ogni riflesso nazionalista nell’arte tedesca) si
vedano i post in questo blog su Max Klinger, Lovis Corinth e Karl Hofer.
Meier-Graefe portò un attacco feroce contro il primo, appena deceduto, di fatto
contribuendo a farne dimenticare la memoria per decenni, mentre apprezzò
Corinth (che di lui fece un famoso ritratto) e fu il mentore di Hofer.
[44] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, (L’arte degli ultimi 30 anni) Berlino,
Rembrandt-Verlag, 1935, 269 pagine. La citazione è a p.135
[45] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, (citato), p.111
[46] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.138
[47] Jähner,
Horst – Künstlergruppe Brücke. Geschichte einer Gemeinschaft und das Lebenwerk
ihrer Repräsentanten (Il Gruppo Artistico Il Ponte. Storia di una comunità e
l’arte dei loro membri), Berlino Est, Henschelverlag, 1984, 463 pagine.
Citazione a pagina 413, note 309-312.
[48] Jähner,
Horst – Künstlergruppe Brücke (citato), pagina 413, note 309-312.
[49] L’articolo
è citato integralmente in “The Third Reich Sourcebook (Weimar and Now: German
Cultural Criticism) – a cura di Anson Rabinbach e Sander L. Gilman, 2013,
University of California Press”, 923 pagine. Citazione a pagina 487)
[50] The
Third Reich Sourcebook (citato), p.484.
[51] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.5
[52] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.8
[53] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.12
[54] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.12
[55] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.21
[56] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.30
[57] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.146
[58] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.147
[59] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, (L’arte degli ultimi 30 anni) e Amburgo,
Hermann Laatzen Verlag, 1948, 183 pagine più 61 pagine di illustrazioni in
bianco e nero. La citazione è a pagina 177
[60] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre. Versione del 1948 (citato), p. 61
[61] Sauerlandt,
Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.78.
Perché non è possibile vedere la parte terza?
RispondiEliminaPerché non è possibile vedere la parte terza?
RispondiEliminaChiedo scusa. Era saltato un link. L'ho rimesso. Adesso dovrebbe funzionare
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