Pagine

lunedì 12 ottobre 2015

Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - Emil Nolde, Mein Leben [La mia vita] Parte Seconda: Il pittore anti-classico


English Version

Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 8

Emil Nolde 

Mein Leben [La mia vita]
Parte seconda: 
Il pittore anticlassico.

(recensione di Francesco Mazzaferro)

[Versione originale: ottobre 2015 - nuova versione: aprile 2019.  Segnalo - sui temi discussi in questo blog - l'importante mostra di Berlino tra aprile e settembre 2019: "Emil Nolde. Una leggenda tedesca. L'artista durante il regime nazista." I curatori della mostra sono Bernhard Fulda, Christian Ring e Aya Soika, in cooperazione con la Fondazione Nolde. L'avvio del progetto di ricerca che ha portato alla mostra é citato in questo post. La mostra segna un radicale cambiamento nell'attitudine della Foldazione Nolde rispetto al passato]


Fig. 5) L'edizione delle Memorie del 2008 (ristampa 2013)

Torna alla Parte Prima

Oggi le Memorie di Nolde sono fruibili al grande pubblico tramite l’edizione pubblicata dalla casa editrice Dumont, sotto il patrocinio della Fondazione Nolde nel 2008 [1]. Non staremo qui a ripetere quanto detto nella prima parte di questo saggio. Basti ricordare che nel 1976 i quattro volumi contenenti i diari dell’artista (pubblicati da ultimo nel 1967 per un totale di circa 800 pagine) vengono compressi in un volume unico, che nell’ultima versione disponibile non supera 450 pagine. Al di là delle differenze tipografiche, l’edizione del 2008 è, di fatto, figlia della scelta di accorciare (ma anche selezionare e manipolare) gli scritti di Nolde. Qui di seguito, per comodità del lettore, ecco una breve tabella in cui si ricordano le varie versioni delle Memorie che furono proposte nel corso degli anni (si rimanda, ancora una volta, alla Parte Prima). Accanto ad ogni versione compare un numero, che è quello che useremo, d’ora in poi, per far riferimento a una specifica edizione.

Fig. 6) Riepilogo delle edizioni delle Memorie


Tutto ciò premesso, la prima domanda a sorgere spontanea è: come appaiono oggi i diari a chi li legge per la prima volta?


Un diario intimo, senza riferimenti storici



L’impressione più forte che U/2 lascia al lettore è costituita dai toni fortemente intimisti; non si fa quasi mai riferimento ai grandi eventi storici dell’epoca. L’amore appassionato per la moglie Ada (le Memorie si interrompono improvvisamente con la sua morte nel 1946; non c’è alcun ricordo autobiografico relativo agli ultimi dieci anni di vita dell’artista, compreso il secondo matrimonio), la gratitudine per gli amici di una vita (come Hans Fehr), la ‘battaglia’ interna per cercare e trovare fonti d’ispirazione per il proprio linguaggio artistico personale (colore, tecniche), la ‘battaglia’ esterna per ottenere la stima del pubblico e convincere critici e altri pittori, il legame con la terra natale (lo Schleswig del Nord) ed in particolare la passione per la vita contadina di quella zona, l’interesse formidabile per la natura, la passione per momenti bohémien della vita urbana a Berlino (danza, teatro), il desiderio di viaggiare, l’interesse per i popoli primitivi e la loro arte: tutto ciò emerge con evidenza leggendo le Memorie.

Se si considera però che il periodo coperto dai diari comprende due guerre mondiali, il collasso dell’Impero guglielmino, la Repubblica di Weimar e la sua crisi, la creazione di un regime dittatoriale come il nazismo, lo sterminio degli ebrei e di altri gruppi della società, la distruzione fisica quasi completa della Germania nel 1945, è sconcertante vedere come, in 450 pagine, i riferimenti ad eventi storici di tale importanza siano rarissimi. Ci sono molte considerazioni sulle miserie della vita e le debolezze del genere umano, ma quasi nessuna percezione di eventi storici per la collettività. Ci sono pagine dove si esprime amarezza personale per la perdita di giovani colleghi (Franz Marc e August Macke, morti nel corso della Prima Guerra Mondiale), ma le espressioni di cordoglio usate sono, molto probabilmente, le stesse che si sarebbero potute impiegare se fossero scomparsi per malattia grave o incidente d’auto, e non nei campi di battaglia, rispettivamente a Verdun o lungo la Marna.

Il sapore d’intimità delle Memorie è addirittura rinforzato dopo aver letto le prime edizioni del primo e del secondo volume. 1/1 viene ampliato dal pittore nel 1949 proprio per includere in 1/2 un’amplissima raccolta di memorie intime; le riduzioni del testo nelle versioni unificate del 1976 e del 2008 abbreviano nettamente proprio quelle pagine. Lo stesso vale per il secondo volume, ed in particolare 2/1 e 2/2 (ovvero le edizioni del 1934 e del 1958 del secondo volume), ovviamente molto più ampio del corrispondente materiale collazionato in U/2. Larga parte del materiale del secondo volume che sparisce nel passaggio da 2/1 a 2/2 e in U/1 e U/2 riguarda la sfera personale (religione, sentimenti, sogni e incubi, amici, vicini, animali, giardinaggio, la descrizione ricca di colori di ambienti naturali, che spesso si protrae per pagine e pagine).

La centralità assoluta della sfera privata può essere interpretata secondo una chiave di lettura benevola.

Facciamo per un momento riferimento alla produzione pittorica di Nolde: con l’eccezione di poche opere – come i dipinti “Campo di battaglia” (1913), “Rivoluzione [fig. 20]” (1917), “Nave da battaglie e nave a vapore in fiamme [fig. 22]” (1938-1945) e i due ‘quadri non dipinti’ (vedremo poi di che si tratta) intitolati “I litiganti” e “Disputa [fi. 21]” – Nolde non ha realizzato immagini che esaltassero o criticassero eventi storici, ed anche quando lo ha fatto, non ha mai fatto riferimento ad avvenimenti puntuali. Per tutta la sua vita è rimasto un poeta della natura, di motivi religiosi, di occasioni di divertimento in città, di viaggi e civiltà primitive, di ritratti di amici e allegorie. Una sorta di pittore atemporale, tutto concentrato sulle magie del colore e sul tentativo di sollecitare sentimenti forti e primordiali nel pubblico, senza alcuna necessità di spiegazioni ulteriori.

Le Memorie confermano che Nolde era un artista di questo tipo. In un brano di 1/1 (1931), ampliato in 1/2 (1949), ma scomparso in U/1, Nolde racconta: “La guerra ispano-americana [del 1898; Nolde ha 31 anni] creò tensioni tra gli studenti di pittura. Non vi presi parte quasi mai. Gli altri studenti non riuscivano a capire che volevo diventare un pittore. Non dicevo nulla. E se dicevano cose intelligenti, ascoltavo.” [2] Le cose terrene gli sono lontane, la sua energia è totalmente concentrata sul ‘dover essere’ artista e pittore. È una forma quasi di autoterapia: Nolde avrebbe dato vita ad opere d’arte meravigliose, che al tempo stesso avrebbero arricchito gli occhi del pubblico e gli avrebbero permesso di ignorare le tragedie della vita. Per molti aspetti, quella di Nolde è la tipologia d’arte (come ad esempio anche quella di van Gogh) che il pubblico vorrebbe vedere sia nelle gallerie d’arte sia nell’anticamera di un dentista, poco prima di andare sotto i ferri.

Peraltro, lungo tutto il corso delle Memorie, potremo notare che, con regolarità, l’artista ripete a se stesso: “Pittura, pittore!” (Male, Maler!). Questa esortazione (che diventa quasi un mantra) starebbe a significare che il pittore considera il dipingere come un dovere assoluto (quasi un imperativo categorico kantiano), quali che siano gli sviluppi drammatici nel mondo. Per certi versi Nolde onorò questo impegno tassativo: ad esempio, ignorò l’obbligo di smettere di dipingere (anche per proprio gusto privato) intimatogli dai nazisti una volta entrato nel novero dell’Arte degenerata. Risalgono a quegli anni i cosiddetti “quadri non dipinti” (Ungemalte Bilder), ovvero acquarelli piccoli e veramente belli  che compose clandestinamente, per immaginare pitture complete che non poteva più realizzare nel suo atelier. Si potrebbe giungere addirittura alla conclusione che Nolde abbia fatto tutto quel che poteva per evitare che uno qualsiasi degli eventi drammatici del suo tempo (siano essi stati guerre o regimi totalitari) producessero un danno alla resistenza della sua anima creatrice, mantenendo la capacità di continuare a creare secondo il proprio linguaggio artistico anche nei momenti più difficili. Ed i suoi quadri di fiori risplendono di colori sia nei periodi di pace che in quelli di guerra nel corso di quattro decenni.

E sicuramente c’è qualcosa di strabiliante in un artista che, nel corso dei decenni, nonostante gli orrori che lo circondano, continua a ispirarsi costantemente alla natura, dando vita a quadri con effetti coloristici eccezionali. “La comprensione della mia arte religiosa e figurativa passa quasi sempre attraverso le pitture di fiori. Sono le più facili da capire. Come un pezzo di natura fresca e brillante, conquistano ogni visitatore e gli riscaldano il cuore.” [3]

E tuttavia, la mia opinione sulle Memorie di Nolde sarà assai meno benevola, soprattutto sulla base della versione originale del secondo volume (2/1), intitolato “Anni delle battaglie” (Jahre der Kämpfe) che descrive gli eventi tra il 1902 e il 1913.  È mia convinzione che Nolde abbia cercato nel dicembre 1934 di presentarsi al pubblico tedesco (che  nell’estate dello stesso anno aveva votato per dare pieni poteri a Hitler) come il campione di un tipo d’arte moderna politicamente conservatrice e nazionalista, che si sarebbe dovuta affermare come la nuova arte nazionale contemporanea in Germania. Del resto, pochi mesi prima, Nolde aveva firmato con altri artisti tedeschi (il direttore d’orchestra Wilhem Furtwängler, i compositori Richard Strauss e Hans Pfitzener, l’architetto Mies van der Rohe, lo scultore Ernst Barlach) un appello al popolo tedesco di una quarantina di personalità della cultura, contattate da Josef Goebbels, per approvare con un referendum (che si tenne nell’agosto del 1934) l’incorporazione dei poteri di Presidente e Cancelliere nella persona di Adolf Hitler [4].

Da questo punto di vista – questa è la mia tesi – l’impressione che Nolde volle (o i suoi eredi vollero) suscitare, ovvero quella di essere un artista ‘a-politico’, tutto concentrato sui colori e sulle tecniche artistiche, è materialmente falsa. Quell’impressione fu peraltro consolidata dal fatto che il terzo volume delle memorie (3/1, ultimato nel 1936, ma pubblicato nel 1965) si concentrò, per chiara volontà dell’artista, su temi marginali per la società tedesca (in particolare, sui viaggi all’estero) e che il quarto (4/1, pubblicato postumo sulla base di un manoscritto preparato dal pittore), fu rivisto probabilmente dalla Fondazione nel dopoguerra nell’intento di ignorare intenzionalmente  i grandi temi della storia tedesca contemporanea.

La stessa immagine di Nolde come artista avulso dalla realtà fu rafforzata da Hans Fehr (che dell’artista fu realmente amico di una vita). Nel 1957 Fehr diede alle stampe “Emil Nolde. Libro dell’amicizia” (d’ora in poi solo ‘Libro dell’amicizia’), in cui riportava una serie di affermazioni bizzarre e ambigue di Emil, risalenti – a suo dire - al 1922.  Il pittore prima si proclamava incerto se votare a destra o a sinistra e poi concludeva che qualsiasi potere fosse stato capace di far affermare il proprio sistema politico si sarebbe legittimato da sé “indipendentemente se tale potere sia chi comanda oppure il popolo, l’esercito o i nazisti” [5]. Erano gli anni in cui la destra e la sinistra estreme cercavano il potere coi colpi di stato, e Nolde sembra giustificarli tutti, qualsiasi sia la loro origine, purché l’ordine ritorni presto. Hans Fehr era un professore universitario di diritto. Sicuramente non gli sfuggì che quelle di Nolde erano frasi esclamate sotto l’influsso delle famose teorie di Carl Schmitt, il filosofo del diritto tedesco che legittimò nella dottrina giuridica tedesca la violenta presa del potere di Hitler. Ovviamente, nel suo libro, Fehr dimenticò di menzionare che Nolde aveva preso parte attivamente alla campagna elettorale di Hitler nel 1934.


Un pittore anti-cosmopolita e anti-classico

Emil Nolde era nato nel 1867 a Nolde – nello Schleswig del Nord, che oggi è una regione della Danimarca e non più del Land tedesco dello Schleswig-Holstein – con il nome di Emil Hansen. La decisione di assumere il cognome Nolde risale solo al 1902, quando l’artista intraprese la carriera di pittore in via esclusiva e professionale, dopo aver praticato ed insegnato arti applicate fino a 35 anni. Nelle Memorie Emile giustifica il cambio di cognome col fatto che Hansen era troppo comune [6]; certo si tratta di un segno inequivocabile di quanto Nolde fosse affezionato alla sua regione natale. Non solo il (nuovo) cognome, ma la stessa lingua usata dall’artista tradiva (o, per meglio dire, rivendicava) le sue origini. Nella postfazione all’edizione del 2008, Martin Urban segnala che la scrittura di Nolde è (quanto a sintassi) marcata da profonde influenze regionali, come del resto ammette lo stesso artista, dicendoci che non gli era mai stato possibile imparare correttamente il tedesco a scuola.  La sua lingua assomiglia in certi aspetti al danese (per esempio, nell’uso ripetuto del participio, utilizzato per introdurre frasi dipendenti come oggi il gerundio in italiano; in tedesco non esiste). Nato tedesco, Nolde divenne cittadino danese nel 1920, come conseguenza della fine della Prima Guerra Mondiale [7]. Ada, la compagna della sua vita, era una cittadina danese che aveva incontrato a Copenaghen. Ciò non significa affatto che la famiglia Nolde fosse di vedute aperte. La Prussia aveva conquistato lo Schleswig del nord nel 1865 con una guerra, e la Germania lo aveva perso di nuovo nel 1920, con un referendum dopo la Grande Guerra. Il pittore ricorda che, inizialmente, suo fratello si era rifiutato di far conoscenza della cognata, per via delle tensioni nazionaliste [8]. Ad ogni modo, se Nolde si considerò sempre come appartenente a una comunità culturale nord-europea e tedesca (dimostrandosi molto ostile alla cultura classica di Francia e Italia), è perché era permeato dei miti delle favole popolari scandinave della sua infanzia, che lo avevano portato ad una forte prossimità emotiva con l’arte nell’Europa del Nord.

Nolde era tutto tranne che il classico intellettuale cosmopolita di lingua tedesca che, nella prima metà del ‘900, contribuiva attraverso il suo sapere poliedrico alla modernizzazione della cultura globale nel mondo, per poi essere vittima del nazionalsocialismo tedesco (si pensi a Thomas Mann o Sigmund Freud o Albert Einstein o Gustav Mahler o Bertold Brecht o Fritz Lang o Franz Kafka). L’artista si gloriò sino alla morte di aver letto un solo libro in vita sua (un romanzo oggi poco conosciuto di Victor von Scheffels, intitolato ‘Ekkehard’ [9]) e ancor oggi i critici continuano a chiedersi se ciò possa essere vero oppure no. Solamente in pochissimi casi Nolde ricorda di essere stato presente a discussioni su arte o filosofia, ma confessa di non essere stato capace di partecipare attivamente a queste conversazioni: “Dove avrei dovuto imparare che cosa dire?” (Woher sollte ich es wissen) [10]. Quando il suo amico Paul Klee ebbe in mano il primo libro delle memorie (1/1) espresse amichevolmente il suo stupore per il fatto che fosse riuscito a scriverlo [11]. Non paiono peraltro molto convincenti i tentativi di critici d’arte, anche molto importanti come Werner Haftmann (fondatore di Documenta a Kassel ed autore di una superba monografia su Nolde nel 1958) di vedere in Emil un elemento integrante dei circoli intellettuali pro-europei. In un altro testo ammirevole (il discorso commemorativo per il centenario dalla nascita nel 1967 che abbiamo già citato nella Prima Parte) Walter Jens ammette che il solo modo di interpretare Nolde in modo moderno, compatibile con il corso democratico della Germania, è quello di farlo contro ogni evidenza risultante nei suoi scritti: si tratta di amare Nolde come artista, nonostante quel che egli aveva scritto nelle sue Memorie.

Nolde detestava la Francia (passò alcuni mesi infelici a Parigi tra il 1899 e il 1900) e l’Italia lo annoiava (la visitò due-tre volte, senza però compiere il classico Grand Tour di molti altri artisti europei); disapprovava ogni influenza dell’‘arte classica’ sulla Germania (e in tale novero faceva rientrare anche l’impressionismo); prese posizione, ad esempio, contro il cosiddetto neo-impressionismo della Secessione di Berlino. Ho cercato di prendere nota di tutti i passaggi in cui esprime sentimenti chiaramente anti-francesi: ne ho contati più di venti nell’edizione U/2 (che è quella più breve). Persino quando si trattava di scegliere le cornici per i suoi dipinti, faceva in modo di scartare le tipologie in uso presso i pittori francesi [12]. A mo’ di esempio ecco quello che scrive, in una lettera del 14 settembre 1911 [13] (si tratta, si badi bene, di una delle dichiarazioni meno radicali e più equilibrate contenute nelle Memorie su questo tema, posto che vi riconosce anche i meriti dell’arte francese): “La nostra pittura [tedesca] del XIX secolo non avrà molta importanza per il futuro, posto che vive all’ombra dei grandi maestri antichi o dipende dall’impressionismo francese. Trovo meraviglioso che alcuni fra i più bei dipinti dei più grandi fra i pittori –  Manet, Degas, Cézanne, Gauguin, van Gogh – siano stati acquistati  in Germania. È invece spiacevole che così tante opere tendenti allo sdolcinato, di Monet, Renoir, Sisley e spesso anche Rodin, siano giunte da noi […] La Secessione di Berlino, sin dalla sua costituzione, ha sempre sottolineato vibratamente che i grandi pittori sono i francesi, mentre i membri della Secessione sono grandi solamente a metà. Questo è vero. Tuttavia, ciò ha continuato ad alimentare un sentimento di dipendenza, e l’intera nuova generazione della Secessione di Berlino è caduta in un andirivieni inconcludente da un palazzo all’altro. Se la nostra arte sarà mai equivalente o ancora più rilevante di quella francese, dovrà pur essere (anche senza volerlo esplicitamente) completamente tedesca. Nell’industria, nel commercio, nella scienza e così via non solamente siamo divenuti lentamente equivalenti, ma addirittura d’esempio, e oggi abbiamo piena fiducia in noi stessi. La medesima cosa succederà per l’arte: tutti i migliori prerequisiti sono oggi a disposizione della nazione.” [14]

Hans Fehr (che pure gli era così amico) era turbato dal fatto che Nolde potesse nutrire sentimenti anti-francesi così profondi (e invano tentò di convincerlo della grandezza della cultura transalpina). Nel Libro dell’amicizia ritiene doveroso sottolineare che tali sentimenti non erano il risultato della propaganda nazista: ”Ancor prima dell’afflusso (Einströmen) dei nazionalsocialisti nel 1931, Nolde si esprimeva in termini forti: ‘Povera Germania agonizzante. E l’ossessione napoleonica di potere dei francesi. La ricchezza in oro è ammassata a Parigi, la sede del potere diabolico’.” [15]

Visitando l’Alte Pinakothek a Monaco, Nolde esprime il suo forte desiderio di evitare, in termini artistici, di ripercorrere il cammino di Albrecht Dürer e di tutti quegli artisti tedeschi che, visitando l’Italia, erano divenuti, a suo parere, vittima del decadimento e dell’imitazione (Abhändigkeit und Nachahmung) [16]. Parlando ancora di Dürer, scrive: “Non ho mai capito il suo intento di inscrivere un corpo umano in uno schema che dovrebbe costituire un ideale di bellezza.” [17]

Nel suo viaggio più lungo in Italia (1904-1905), dettato peraltro dalla necessità di consentire alla moglie Ada di riprendersi da alcuni problemi di salute con un soggiorno terapeutico in Sicilia, Nolde spiega di non essere stato affascinato da nessuna delle opere d’arte che ha visto. Le aspettative dovevano comunque essere abbastanza basse, come racconta quando entra nel nostro paese dal Brennero: “L’Italia, il paese della nostalgia tedesca. Il paese che ha attratto per secoli tutti gli artisti della Germania del nord (nordisch-deutschen), fino a quando non tornarono con le loro ali carbonizzate. Anche gli artisti forti. [18] E riferendosi alla Sicilia, Emil dichiara: “Ogni cosa mi era estranea. Non mi è piaciuto il paesaggio, la gente e nemmeno i resti archeologici. [19] E infine, quando lascia l’Italia: “In termini artistici, il paese non mi ha dato nulla. Mai in precedenza avevo lavorato così poco e così male. Non ho potuto fare nulla di quel che volevo ed ero reso incapace dalla natura a me aliena.” [20] L’unica cosa che apprezzerà (qualche anno dopo) sarà l’Italia dei futuristi, ma solo per l’idea “di rompere e bruciare ogni opera d’arte italiana.” [21]

Ancora una volta Hans Fehr, nel suo Libro dell’amicizia, cerca di giustificare quest’ostilità coi problemi fisici dell’amico e ricorda una lettera ricevuta da Ada Nolde nel 1905, in cui gli diceva: “Gli occhi di mio marito non sopportavano la luce così forte ed i riflessi dei muri bianchi” [22]. Dubito tuttavia che possedere un buon paio di occhiali da sole avrebbe risolto il problema.

Nolde potrebbe essere chiamato pittore ‘anti-classico’ per eccellenza. Forse, ‘anti-classico’ potrebbe essere una definizione addirittura migliore di ‘espressionista’, un’etichetta che non voleva vedersi appiccicare addosso: In 2/1 egli scrive: “Gli esperti letterati dell’arte mi chiamano ‘espressionista’; a me questa costrizione non piace. Un artista tedesco, ecco quello che sono.” [23] L’ultima parte della frase (“Un artista tedesco, ecco quello che sono”) scompare comunque in 2/2 nel 1958: evidentemente era un’espressione non più considerata compatibile con il nuovo corso europeo della Germania [24]. Commentando gli sviluppi nella storia dell’arte degli ultimi 20-30 anni, Emil scrive nel 1912: “Ci hanno detto che si poteva vedere l’arte più compiutamente perfetta nei greci e che Raffaello era il più grande di tutti gli artisti. (…) Da allora, qualcosa è cambiato. Non ci piace Raffaello e rimaniamo freddi di fronte alle sculture della cosiddetta era d’oro della Grecia.” [25]. Al povero Raffaello va a tener compagnia Tiepolo: “Anche la velocità  di mano era un nemico, forse il solo che io temessi un poco. Tiepolo, il più veloce di tutti i pittori, mi faceva orrore.” [26] E poi: “Sia benedetta la nostra forte, salutare arte tedesca. (Gelobet sei unsere starke, gesunde deutsche Kunst). E le sante Madonne tedesche – intimamente spirituali – di un Grünewald e di altri, a giudizio di questo pittore sono infinitamente meglio delle pitture romane, esternamente ineccepibili [n.d.r. ma fredde], di un Raffaello, che si adattano perfettamente alle corti dei dogi e dei papi. Tutta l’arte dei popoli del Mediterraneo racchiude in se stessa le stesse caratteristiche, che le sono proprie; la nostra arte tedesca ha le sue, del tutto indipendenti. Il nostro omaggio all’arte dei popoli latini, ma il nostro amore all’arte tedesca.” [27] “Dobbiamo essere orgogliosi e aver fiducia in noi stessi. Da uno o due millenni abbiamo la nostra arte tedesca, intimamente bella, aspra, forte. Non abbiamo bisogno di alcun prestito da nessun popolo, sia esso antico o contemporaneo. Fiducia in se stessi è una fiducia coraggiosa, arroganza un’etica inferiore. Questo dobbiamo tenere in mente.“ [28]. E conclude “Le persone ed i popoli che sono soddisfatti della vita o stanchi della cultura hanno pochi desideri e non possono aspirarvi. Nel nostro cuore tedesco – così vituperato e così amato – qualcosa balugina e brilla, fermentando per sempre. Il desiderio è uguale a fuoco e lacrime, aumentate al voltaggio più alto, ed è molto fertile.” [29] La maggior parte di queste affermazioni contro l’arte classica e in favore di un’arte nord-germanica è – si badi bene - contenuta nelle versioni 2/1 (1934), 2/2 (1958), 3/1 (1965) e 4/1 (1967), ma scompare del tutto nel 1976 (U/1).

Se oggi incontrassi Nolde nel comodo compartimento di un treno tedesco, potrei forse controbattere che non tutta l’arte religiosa italiana è raffaellesca. Così come Grünewald e Dürer produssero arte tedesca di orientamento diverso a nord delle Alpi, anche l’arte italiana mostrò sempre una varietà di accenti.  Forse la Pietà di Cosmè Tura ed il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca lo avrebbe convinto che gli artisti più grandi sono geni universali, possono mediare tra sensibilità diverse e non sono prigionieri di rigide definizioni geografiche o peggio ancora razziali.


Infine potrei fargli rispettosamente notare che anche il giovanissimo Paul Klee, che visita il nostro paese nel 1901-1902, e dunque solamente qualche anno prima del suo viaggio in Sicilia (1904-1905) scrive nei suoi Diari pagine a volte simili: condivide i dubbi dell’artista nordico nei confronti dell’arte classica e rinascimentale, ed odia addirittura il barocco come forma di degenerazione, ma scopre l’architettura urbana e l’arte minore, il tardo antico ed il medio evo. Insomma, sulla base delle proprie preferenze estetiche Klee dice di preferire Genova e Napoli a Roma, e predilige Santa Sabina a San Pietro, ma trova ovunque i germi della bellezza.

Hans Fehr riporta invece nel suo ‘Libro dell’amicizia’ una conversazione che ebbe con Nolde nel 1922, quando proclamò, quasi parafrasando Nietzsche:  “La bellezza è morta (…) L’uomo, infatti, non è una bella creatura. Le sue braccia e le sue gambe gli stanno appese attorno come salcicce. Preferisco le vecchie statue con le braccia mozzate. Ieri una delle mie piccole statuette di legno della Nuova Guinea è caduta e si è rotta. Ha perso un braccio. In un primo momento volevo riattaccarlo. Poi ho soprasseduto, dal momento che l’immagine mi sembra più bella.” [30]

All’apice del successo, nel 1927, uno dei critici d’arte più importanti della Repubblica di Weimar, Paul Westheim, suo amico, definì Nolde un barbaro.

Questo pittore – scrive Westheim – che nelle nature morte e nelle rappresentazioni dei fiori può essere di una delicatezza come solo Manet sarebbe stato capace di essere, è al tempo stesso un barbaro, uno di quei barbari nordici che hanno intrecciato le loro terribili visioni demoniache in un tessuto irlandese. Uno di quei barbari tedeschi – si disse per lungo tempo ‘gotici’ in senso spregiativo – che non conoscevano alcuna misura nel loro sfrenato impulso creativo, sia nella grandezza come pure nella volgarità delle loro creazioni. L’artista romanico non ha problemi a finalizzare un’immagine, a produrre con successo un’armonia; cresce nell’ambito di una tradizione ben consolidata. Non così l’artista gotico, l’uomo del nord e della Germania, che deve sempre ricominciare di nuovo, che deve sviluppare per sé un nuovo linguaggio artistico.” [31]

Nello stesso anno (in una raccolta di scritti pubblicata in occasione del sessantesimo compleanno di Emil [32]) Paul Klee, lo definiva “un’anima antichissima” (Uralte Seele) e “il Demone di questa regione” (Dämon dieser Region). [33]

Westheim e Klee hanno ragione. Per molti aspetti Nolde era davvero un barbaro e un demone, se in tal modo si vuol definire un artista che non accetta che una qualsiasi convenzione estetica formale, ereditata dal passato, possa impedirgli la ricerca primordiale di un linguaggio emotivo vicino all’estasi ed al delirio, attraverso la massima eccitazione del contrasto dei colori.


L’anti-classicismo di Nolde: semplicemente gusto o ideologia?

L’anti-classicismo di Emil Nolde è unicamente una questione di gusto personale o ha una matrice ideologica?

Nolde spiega le sue opinioni sulla differenza che esiste tra il colore del Nord e il sole del Sud, in un passaggio contenuto solamente nelle versioni del secondo volume (2/1; 2/2 e 2/3) precedenti la prima versione integrata del  1976 (U/1) dove non compare più: “Sole del Sud. Fin dal primo momento, vai adulando noi popoli del Nord, ma ci rubi ciò che di noi è più caratteristico: il forte, l’amaro, l’intimo. Un po’ di debolezza; un po’ di dolcezza; un po’ di esteriorità e l’artista ottiene il plauso del mondo intero, in lungo e in largo. Tuttavia, ognuno capisce che la debolezza per intero, lo sdolcinato per intero, l’esteriorità per intero sono valori negativi. Chi di noi non conosce l’’Edda[nota di redazione: serie di antichi poemi vichinghi], l’altare di Issenheim [n.d.r. capolavoro di Grünewald], il ‘Faust’ di Goethe e lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche, questi caratteri runici incisi sulla pietra, questi lavori orgogliosi e supremi dei popoli dell’Europa del Nord e germanici? Bisogna saper distinguere tra valori eterni e rumore di un giorno. Un giovane pittore prega: ‘Io voglio così tanto che la mia arte sia forte, aspra ed intima’. “ [34]

Nolde era un uomo dell’Europa del Nord e della Germania del Nord, si sentiva a proprio agio con i colori, il panorama e la natura di quelle regioni, e non riuscì mai a sviluppare la stessa sintonia col resto d’Europa. Certamente, la sua forte preferenza per un linguaggio pittorico fatto di colori dominanti e complementari (invece che di una luce accecante), per la rappresentazione di una natura ruvida e non di gentili paesaggi, per contrasti violenti senza equilibri o sfumature, deve aver fornito molte buone ragioni alla sua totale mancanza di passione per l’Europa del Sud. Le Alpi (con i loro panorami inospitali) furono l’ambiente più meridionale per cui riuscì a coltivare una passione.

Per Emil la civiltà sembra essere divisa in Nord e Sud da tempo immemorabile. “Già tra l’arte medievale del sud e del nord della Germania vi è una chiara linea di divisione. Sin dall’arte egizia e greca per arrivare a quella spagnola e francese si può trovare [a Sud] una bellezza espressa in termini magnificamente vasti e formali, ma anche nei secoli aurei sono presenti i germi della decadenza e un sentimento per certi versi carente. L’arte della Germania del Nord è animata da calore dell’anima, mistica e fantasia, forza espressa in maniera sobria e spesso una modestia che è davvero commovente. Noi popoli del Nord stranamente possiamo capire bene l’arte dei popoli del Sud, ma questi ultimi quasi mai sono in grado di capire la nostra. Sembra come se questa differenza sia una regola di natura, come pure il fatto che i popoli nordici siano sempre attirati dal Sud, in direzione del sole. I miei quadri, esibiti qualche volta a Venezia, hanno orripilato gli Italiani e guadagnato poca comprensione a Monaco; anche per gli abitanti di Monaco i miei dipinti sono troppo nordici.” [35].

Fin qui, dunque, dovremmo parlare di anticlassicismo come gusto personale. Tuttavia non possiamo non citare gli studi di William Bradley [36], che ha analizzato con attenzione il rapporto tra Nolde e il cosiddetto movimento populista (Völkisch Bewegung), una corrente artistica e letteraria che attrasse molto sostegno in Germania tra la fine del XIX secolo e la seconda guerra mondiale; Bradley interpreta il pensiero anticlassico di Nolde come conseguenza dell’influsso di quel movimento. Secondo la teoria Völkisch, la natura era la fonte dell’arte e gli artisti erano fondamentalmente plasmati dal paesaggio naturale in cui erano cresciuti: la comunanza del paesaggio creava una comunanza di cultura (che essi chiamavano ‘razza’). Un artista nato nella natura della Germania del Nord aveva dunque necessariamente un modo differente di praticare l’arte di qualsiasi artista francese o italiano. Solamente gli artisti che vivevano in città – stando a questa teoria – erano esposti a una forte pressione livellatrice degli stili, conseguenza di materialismo e speculazione. Il movimento (diffuso anche in altri paesi nordici) si considerava erede spirituale dell’arte di Rembrandt. Aveva, ovviamente, caratteristiche molto nazionaliste e populiste (in cui spiccava appunto un forte pregiudizio anti-classico), era tipico delle aree rurali della Germania del Nord e contribuì al successo dell’approccio di estrema destra nella cultura tedesca ancor prima del nazionalsocialismo. Le Memorie non contengono riferimenti diretti ad autori o artisti Völkisch (se non in un caso che comunque non è particolarmente significativo [37]; si provvede comunque a cancellarlo già nel 1958) anche se è indubbio che vi siano estesi parallelismi di sostanza tra gli scritti di Nolde e le tesi di Bradley. La biografia contenuta nel catalogo della mostra retrospettiva tenutasi di recente a Francoforte segnala peraltro che Nolde “nel febbraio 1933 presenta domanda per entrare a far parte della Lega del Popolo per la Cultura Tedesca (Völkisches Kampfbund für deutsche Kultur), ma la domanda è rigettata.” [38] La Lega, peraltro, non è semplicemente un movimento populista-Völkisch: è diretta da Alfred Rosenberg, il direttore del Völkischer Beobachter, il quotidiano nazista.

Quella di Nolde sull’arte del Nord contro quella del Sud potrebbe sembrare null’altro che una teoria, forse un po’ troppo sommaria, delle civiltà (e ci sono quelli che anche oggi avrebbero le stesse idee sull’incompatibilità tra arte del Nord e arte del Sud). Ma se prestiamo attenzione agli studi di Bradley e, soprattutto, se teniamo conto delle vicende legate al ‘nazismo rivoluzionario’ che esporremo fra un attimo, viene spontaneo pensare che non si tratti solo di gusti personali. Siamo nel 1934 e Nolde cerca di convincere un’ala del regime (in particolare Goebbels) dei propri sentimenti sinceramente pro-nazisti, non esitando a far ricorso alla retorica anti-francese, anti-classica e anti-sud europea, cercando di impressionare la gerarchia del Partito Nazionalsocialista come campione di un’arte moderna genuinamente tedesca, legata al mondo dell’Europa del Nord. Quel che egli non poteva sospettare è che l’ideologia nazista potesse essere così radicale da considerare il suo stile artistico (e perciò anche lui) come oggettivamente degenerato, nonostante il suo supporto personale al partito fin dalle prime ore e la vicinanza intellettuale di molte sue convinzioni a quelle naziste.


Max Sauerlandt critico di Emil Nolde

Fig. 7) Max Sauerlandt, Emil Nolde, Monaco, Edizione Kurt Wolff, 1921

Non possiamo a questo punto non parlare di quello che Max Sauerlandt, ovvero il maggior critico d’arte tedesco all’epoca della Repubblica di Weimar, scrisse su Nolde. L’intervento di Sauerlandt merita particolare attenzione perché mostra come il dibattito sulla “germanicità” dell’arte, all’epoca, non fosse certo limitato a Nolde.  Sauerlandt, peraltro, fu anche direttore di istituzioni museali: nel 1913 acquistò per il museo di Halle L’Ultima cena, il primo quadro di Nolde comprato da un museo pubblico. L’acquisto scatenò una polemica importante: Sauerlandt fu attaccato con veemenza dall’allora direttore della Galleria Nazionale di Berlino, Wilhelm von Bode, e rispose pubblicamente in maniera molto puntuale e sarcastica. Dal 1913 alla morte (1934) Sauerlandt sostenne sempre come critico l’opera di Emil Nolde e scrisse molto su di lui.

In particolare è necessario ricordare almeno tre testi. Nel 1921 Max Sauerlandt pubblicò la prima monografia su Nolde, un libro di rara eleganza (cfr. fig. 40). Nel 1927 curò e pubblicò la corrispondenza dell’artista tra 1894 e 1926. Nel 1933 dedicò a Nolde quasi metà della sua Lezione sull’arte degli ultimi trent’anni, una pubblicazione che raccoglieva una serie di lezioni tenute all’Università di Amburgo. Assieme ai volumi appena citati, è opportuno tener conto della corrispondenza del critico, che è stata pubblicata nel 2013 da Heinz Spielmann [39]: solo alla vicenda dell’acquisto dell’Ultima cena sono dedicate circa cinquanta pagine. Le ultime cento riguardano le dispute fra fazioni naziste che portarono al suo licenziamento dall’ultimo (e più importante) posto di direttore: il museo d’arte di Amburgo, la Kunsthalle.

Nella monografia del 1921, Sauerlandt sembra concentrarsi soprattutto nello spiegare al pubblico tedesco un artista così difficile e controverso come Emil Nolde. Per la teatralità biblica dei suoi personaggi, Sauerlandt compara l’arte religiosa di Nolde alle vetrate medievali, a Rembrandt, agli eroi teatrali di Shakespeare, Goethe e Molière [40]. Spiega che Nolde non deve essere letto paragonandolo solamente agli impressionisti, ma a stagioni dell’arte visiva molto precedenti, con cui aveva segrete e profonde affinità elettive [41]. Sauerlandt le riconosce in particolare nell’arte religiosa, facendo di lui un artista che partecipa alla storia dell’arte di tutti i popoli nordici e Germanici, compresa l’Inghilterra. È su queste basi che nel 1957 Hans Fehr (per cercare di dimostrare che Nolde non era nazionalista) può citare Max Sauerlandt nel suo Libro dell’amicizia: “Max Sauerlandt (oltre a Schiefler e a me, senza dubbio il suo miglior amico) scrive:La sua [di Nolde] essenza più profonda è l’incarnazione della tensione interna, drammatica, espressa ancora in un monologo, comparabile nella ricchezza delle figure e delle vibrazioni al mondo drammatico di Shakespeare. E così come Shakespeare non appartiene solamente all’Inghilterra, anche Nolde non appartiene solamente alla Germania. Entrambi appartengono all’intero mondo degli spiriti germanici, da cui sono nati.” [42]

Nella Lezione sull’arte degli ultimi trent’anni del 1933, invece, il tema dell’arte nazionale e della germanicità di Nolde diviene centrale. Si tratta dell’ultima opera di Sauerlandt, che, già epurato dalle autorità naziste per il suo amore per l’arte moderna, morirà di tumore l’anno dopo. Il libro fu pubblicato postumo nel 1935 (dall’editore Rembrandt, lo stesso usato da Nolde), ma fu immediatamente sequestrato dai nazisti. La tesi di Sauerlandt è la seguente: nel 1913, il critico d’arte Meier-Graefe [43]  ha decretato la superiorità dell’arte francese e la morte di quella tedesca. [44] Invece l’espressionismo ha aperto una nuova pagina originale dell’arte nazionale, così com’era successo solamente nel periodo compreso tra il tardo-gotico e Albrecht Dürer, nell’epoca romantica e con i nazareni (tutti queste correnti sono interpretate da Sauerlandt in chiave esclusivamente nazionale, come riletture tedesche, originali e autonome, di movimenti d’arte più ampi). E Nolde – con il suo temperamento nobile e barbaro alla Nietzsche, con la sua “forma barbarica di creazione che fa ribrezzo a tutte le mammolette” [45] – è il campione assoluto di questa nuova arte nazionale tedesca, l’equivalente di Wagner nella musica (in realtà, io avrei pensato piuttosto a Richard Strauss) e l’erede dei germanici van Gogh, Hodler e Munch [46].

In realtà anche della Lezione sull’arte degli ultimi trent’anni di Sauerlandt (in un perenne gioco di scatole cinesi) esistono tre versioni. Secondo Jähner [47], un critico d’arte molto noto e stimato della Germania Democratica Tedesca, l’edizione del 1935 (prima a stampa, ma di fatto seconda versione) non corrisponderebbe al manoscritto delle lezioni tenute all’università di Amburgo (prima versione). Il manoscritto originale considererebbe Nolde “il grande realizzatore dell’arte nordica e perciò un rappresentante esemplare per la volontà costruttiva del nazional-socialismo” [48]. Jähner aggiunge che il manoscritto conteneva molti più apprezzamenti riferimenti elogiativi nei confronti di Adolf Hitler di quelli contenuti nell‘edizione del 1935. 

Nel 1933 si era accesa, all’interno del nazional-socialismo, una discussione sul ruolo dell’arte moderna, con una parte minoritaria che sosteneva la necessità di considerare l’espressionismo come una forma pura e rivoluzionaria d’arte tedesca. Uno dei sostenitori del corso rivoluzionario – Otto Andrea Schreiber – proclamò la morte dell’espressionismo tradizionale e definì Nolde (insieme a Feininger e Schmidt-Rottluff) come uno dei “giovani artisti” che lo reinterpretavano in chiave di continuità con l’arte tedesca del passato [49]. Uno dopo l’altro, i sostenitori di questa tesi furono sollevati dai loro incarichi. Nella corrispondenza di Sauerlandt (quella stampata nel 2013) si può leggere come numerosi critici d’arte e direttori di musei d’arte moderna vengano epurati dal nuovo regime, nonostante abbiano chiaramente grandi simpatie personali per il nazismo. Alcuni di essi dichiarano persino di accettare il loro sfortunato destino professionale (che essi imputano erroneamente a un fraintendimento, che sarà presto chiarito), purché la ‘giovane arte’ di Nolde non sia sacrificata. Nolde era dunque divenuto il campione del rinnovamento estetico per l’ala cosiddetta ‘rivoluzionaria’ dell’estetica nazista, che fu definitivamente liquidata in un famoso discorso di Adolf Hitler nel settembre del 1936 a Norimberga, in cui non solamente condannò ogni forma di modernismo (come cubismo, dada, e lo stesso futurismo) ma anche ogni rivisitazione intimista del passato: “una contraffatta internalizzazione del gotico non si sposa bene con l’era dell’acciaio e del ferro, del vetro e del cemento” [50]. A fronte di perduranti contrarietà di alcuni critici d’arte di fronte a queste parole, il 27 novembre 1936 Joseph Goebbels proibirà tout court l’esercizio della critica d’arte.

Fatto sta che Nolde diviene, agli occhi di Sauerlandt e di quello che verrà successivamente chiamato ‘nazismo rivoluzionario’ il paladino della nuova arte germanica. Proprio quello che Nolde sperava. Come andò, è noto: il ‘nazismo rivoluzionario’ fu spazzato via e Nolde finì nel novero dell’Arte degenerata. Naturalmente la versione della Lezione di Sauerlandt pubblicata nel dopoguerra (1948) non contiene molti dei passaggi più spigolosi. Scompare l’introduzione, in cui Harald Busch aveva definito Sauerlandt (ovviamente per fargli un complimento) come il “più nazista in spirito tra noi critici d’arte” [51]. Sparisce anche una premessa, firmata da “un ascoltatore” anonimo, che spiegava che la Lezione era sì “un’opposizione contro le dichiarazioni di alcuni nazionalsocialisti”, ma che l’obiettivo era solamente che “almeno una persona competente” parlasse sull’arte moderna [52]; viene omessa l’informazione che Sauerlandt era stato ufficiale combattente nella Prima Guerra Mondiale [53] e che il suo ideale di bellezza era integralmente tedesco, sulla linea di Nietzsche [54]. Nel testo delle lezioni spariscono i riferimenti al ‘movimento nazionale’ e alla possibilità che da esso possa evolvere un nuovo capitolo della “Nuova Oggettività” [55]; i complimenti a Hitler [56]; il riferimento a Hitler come garante del fatto che tutti i ceppi (Stämme) del popolo (Volk) tedesco avranno una propria vita spirituale e culturale (nel senso che la Prussia e il sud della Germania non dovranno prevalere sul nord, di cui Nolde è il campione) [57]; la citazione del famoso discorso di Hitler sull’estetica a Norimberga [58], con il tentativo di leggerlo in senso pro-Nolde. Ciononostante, un’avvertenza contenuta nell’edizione del 1948 segnala: “Il testo – controllato con il manoscritto – è stato riprodotto senza variazioni, con alcuni cambiamenti che non sono essenziali per la sostanza e sono dichiarazioni dipendenti da eventi passati.” [59]

Nella nuova versione del 1948, la Lezione è un inno a Nolde come erede del gotico e del romantico tedesco e come “attaccante del futuro o rivoluzionario” (Zukunftsstürmer oder Revolutionär) [60]. Questo passaggio era ovviamente già contenuto nella versione del 1935 [61], ma il lettore non può più comprendere che la rivoluzione di cui Sauerlandt parla era, in origine, quella nazista, e non quella dell’estetica espressionista.

Oggi, confrontando l’opera di Nolde con quella dei secoli che la precedono, è forse più facile riconoscere in lui – forse suo malgrado – elementi di universalità nel linguaggio estetico che impediscono di legittimarlo come un artista che appartiene unilateralmente ad una sola regione geografica della Germania e dell’Europa più in generale. Partendo dalla sua Ultima cena del 1909 (quella acquistata da Sauerlandt) per tornare al suo Emmaus del 1904, si possono tracciare percorsi che accomunano la sua iconografia non solamente all’arte gotica ed a Rembrandt, ma anche agli spagnoli El Greco e Goya, a Rubens ed a Caravaggio. In fondo, il suo stesso successo universale attraverso i continenti del nostro pianeta smentisce la sua tesi che solo chi viene dal Nord possa capirlo.


Fine della Parte Seconda
Vai alla Parte Terza 


NOTE

[1] Il volume che ho letto è una ristampa del 2013 dell’edizione 2008.Per questo motivo le note fanno riferimento ad un volume in data 2013, e non 2008.

[2] Nolde, Emil – Das Eigene Leben (La mia vita), Berlino, Rembrandt Verlag, 1931, pp. 204. Citazione a pagina 136. Nolde, Emil – Das Eigene Leben (La mia vita), Flensburg, Verlagshaus Christian Wolff, senza indicazione di data (1948), pp. 293. Citazione a pagina 224.

[3] Fehr, Hans – Emil Nolde. Ein Buch der Freundschaft (Un libro dell’amicizia), Monaco, Paul List Verlag, 1960, pp. 149. Citazione a pagina 78.

[4] Vedi il testo di Thomas Knubben “My Suffering, My Torment, My Contempt. Emil Nolde in the Third Reich” in: Emil Nolde. Unpainted Pictures, Watercolours 1938-1945 from the Collection of the Nolde-Stiftung Seebüll, Hatje Kantz Verlag, 1999, pp. 150. Il testo è pubblicato alle pagine 137-149.

[5] Fehr, Hans – Emil Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p. 53

[6] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), Colonia, A cura di Manfred Reuther, DuMont, 2013, p. 455. Citazione a p.119

[7] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 368.

[8] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 124.

[9] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 75

[10] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 163

[11] Il testo della lettera è contenuto per intero a pagina 163 del quarto volume delle memorie, nella versione del 1967; nell’edizione unificata e ridotta del 1988, se ne parla solamente nella postfazione di Urban, vedi p. 438.

[12] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 232.

[13] Nolde, Emil – Briefe aus den Jahren 1894-1926 (Lettere degli anni 1894-1926), Berlino, Furche Verlag, 1967, pp.183. Citazione a pp.78-79.

[14] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 219.

[15] Fehr, Hans – Emil Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p.109.

[16] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 96.

[17] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 204.

[18] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 143.

[19] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 145.

[20] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 147.

[21] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 201.

[22] Fehr, Hans – Emil Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p. 30.

[23] Nolde, Emil – Jahre der Kämpfe (Anni delle battaglie), Berlino, Rembrandt Verlag, 1934, pp. 262. Citazione a pagina 182.

[24] Nolde, Emil – Jahre der Kämpfe (Anni delle battaglie), Flensburg, Christian Wolff Verlag (senza indicazione di data), pp. 240.Citazione a pagina 186.

[25] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 225

[26] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 249

[27] Queste frasi si trovano a pagina 174 della versione del 1934 del secondo volume delle memorie (2/1), che ancora appaiono nelle versioni 2/2 del 1958 (pagina 178) e 2/3 del 1967 (pagina 195), ma non più in quella unificata del 1976.

[28] Questa frase si trova a pagina 178 del secondo volume nella versione del 1934 (2/1), alla pagina 182 dell’edizione del 1958 (2/2) e pagina 198 di quella del 1967 (2/3), ma non in quella unificata del 1976.

[29] L’intera frase compare alla pagina 184 della versione 2/1 del 1934 e alle pagine 189/190 della versione 2/2 del 1958. Nella versione attuale (U/2) compare invece solamente la prima parte della frase, alla p. 231.

[30] Fehr, Hans – Emil Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p. 52

[31] Westheim Paul - Hamburger Fremdenblatt, 1927. La frase compare in un cartellone mostrato nella sala d’ingresso della mostra retrospettiva su Nolde allo Städel del 2014, senza un’indicazione bibliografica più precisa. Il catalogo della mostra (nota n. 3 a pagina 32) indica che anche lo storico dell’arte Adolf Behne (che di lui non era affatto amico) adottò la stessa definizione nel 1930: Adolf Behne: “Ausstellung Emil Nolde”, Welt am Abend, 15 Febbraio 1930.

[32] Festschrift für Emil Nolde anlässlich seines 60.Geburtstages (Pubblicazione in onore di Emil Nolde in occasione dei suoi 60 anni), Dresden, Neue Kunst Fides Verlag, 1927, pp. 42 e 38 pagine di illustrazioni. La dichiarazione di Paul Klee, allora alla Bauhaus di Dessau, é a pagina 26.

[33] Nei suoi Diari (che coprono gli anni 1898-1918), Paul Klee fa riferimento a Emil Nolde solamente una volta, al paragrafo 916, esprimendo un giudizio positivo su una sua mostra a Monaco nel 1913 (il passo è confermato nell’edizione critica pubblicata dalla Fondazione Klee del 1988, ma stranamente non contenuto nella più recente edizione italiana pubblicata da Ascondita nel 2012). Nella postfazione (p. 438) Martin Urban fa anche riferimento ad una lettera di complimenti che Klee invia a Nolde per il primo volume delle Memorie (U/1) del 25 ottobre 1931. Vi sono invece 6 riferimenti a Klee nella versione U/2 del 2008. A pagina 94 Nolde esprime rimpianto per non averlo incontrato quando erano studenti a Monaco negli stessi anni (erano stati entrambi respinti dall’Accademia di Belle Arti, ma frequentavano corsi private nella capital bavarese); a pagina 201 lo cita come uno dei protetti del critico d’arte berlinese Herwarth Walden, il fondatore della Galleria e rivista ‘Sturm’ (non a caso citato 14 volte da Klee nei Diari); a pagina 210 ne apprezza l’arte piena di inventiva e capacità d’astrazione dalla realtà; a pagina 403 scrive che tra gli artisti astratti solo Klee lo ha difeso; a pagina 427 piange la sua morte prima che a lui possa essere stata restituita la dignità d’artista dopo il bando della sua arte da parte dei nazisti; a pagina 433 scrive che solamente alcuni acquarelli di Klee si sono salvati dal bombardamento della sua abitazione a Berlino, mentre un’intera collezione di artisti contemporanei è andata persa.

[34] P. 175 della versione 1934; contenuto anche nelle versioni del 1958, alla pagina 179, e del 1967, alla pagina 196.

[35] Nolde, Emil – Mein Leben (La mia vita), (2013), p. 402. Bisogna dire che il rapporto tra Venezia e Nolde fu molto più complesso di quel che Nolde racconta nelle memorie. Nolde era stato presente alla Biennale già nel 1910, con la stampa “Battello a vela”. Ma era stato nel 1928 che la Germania aveva portato ben sedici opere di Nolde a Venezia, con una mostra individuale a lui dedicata. In proposito, è interessante leggere quanto scrive, nel 1949, Paul Ortwin Rave, nel suo “Kunstdiktatur im Dritten Reich” (L’arte della dittatura nel terzo Reich, Amburgo, 1949): il padiglione tedesco alla Biennale era gestito, alternativamente, da rappresentanti di circoli artistici dal Nord della Germania (più aperti all’avanguardia) e dalla Baviera (molto conservatori). Nel 1928, la direzione del padiglione tedesco toccava al direttore generale delle collezioni d’arte bavaresi, e dunque la Germania si apprestava a preparare un padiglione del tutto tradizionale.  In Italia, invece, il nuovo direttore della Biennale, Antonio Maraini voleva “affiancare all’arte ‘avanguardista’ anche l’arte moderna di altri Paesi, che dovevano essere rappresentati dagli artisti più progressisti.” Fu Margherita Sarfatti -  la critica d’arte che si era posta alla guida del gruppo d’artisti ‘Novecento Italiano’ e che teorizzava l’arte moderna fascista - a preparare una lista di pittori tedeschi e a portarla a Berlino: tre personali (per Corinth, Nolde e Marc) e decine di artisti di avanguardia (Dix, Beckmann, Kirchner, Hofer, Klee, Macke, Pechstein, Schmidt Ruttloff, ecc.).
La Marfatti insistette. Nella sua “Storia della pittura moderna” del 1930 scrisse: “Tra i migliori pittori tedeschi d’oggi sono quelli giá appartenenti al gruppo Il Ponte (Die Brücke) e cioè Max Pechstein, Ernesto Lodovico Kirchner, Carlo Rottluff, il pittore e architetto Erich Heckel, ed Emilio Nolde, ossessionato da gigantesche figure, per gioia o per dolore ghignanti”. Nolde fu esposto ancora alla XX Biennale del 1936. In quell’occasione la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Venezia acquistò un “Paesaggio con fiori e alberi” che è ancora esposto a Venezia. Anche in Italia, Nolde ebbe dunque chi lo apprezzava.

[36] Bradley, William Steven – The Art of Emil Nolde in the Context of North German Painting and Volkish Ideology, Northwestern University, 1981, pp. 317; Bradley, William Steven – Emil Nolde and German Expressionism. A Prophet in His Own Land, Northwestern University, 1986, pp. 196

[37] Alla pagina 160 del secondo volume nella versione del 1934 (2/1); nella versione successiva (2/2) il riferimento è cancellato.

[38] Emil Nolde. Retrospective, a cura di Felix Krämer, con contributi di Max Hollein, Christian Ring, Aya Soika e Bernhard Fulda, Monaco, Prestel Verlag, 2014, 295 pagine. La citazione è a pagina 283.

[39] Sauerlandt, Max - Ethos des Kunsturteils. Korrespondenz 1908-1933 (L’Etica del giudizio artistico. Carteggio epistolare 1908-1933), A cura di Heinz Spielmann – Hamburg, Hoffmann und Campe, 2013, 464 pagine.

[40] Sauerlandt, Max – Emil Nolde, München, Kurt Wolff Verlag, 1921, pp. 89. Citazioni alle pagine 36 e 42.

[41] Sauerlandt, Max – Emil Nolde, (citato), p.54.

[42] Fehr, Hans – Emil Nolde. Ein Buch der Freundschaft (citato), p. 94

[43] Su Julius Meier-Graefe come paladino tedesco dell’impressionismo e dell’arte francese (ed avversario di ogni riflesso nazionalista nell’arte tedesca) si vedano i post in questo blog su Max Klinger, Lovis Corinth e Karl Hofer. Meier-Graefe portò un attacco feroce contro il primo, appena deceduto, di fatto contribuendo a farne dimenticare la memoria per decenni, mentre apprezzò Corinth (che di lui fece un famoso ritratto) e fu il mentore di Hofer.

[44] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, (L’arte degli ultimi 30 anni) Berlino, Rembrandt-Verlag, 1935, 269 pagine. La citazione è a p.135

[45] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, (citato), p.111

[46] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.138

[47] Jähner, Horst – Künstlergruppe Brücke. Geschichte einer Gemeinschaft und das Lebenwerk ihrer Repräsentanten (Il Gruppo Artistico Il Ponte. Storia di una comunità e l’arte dei loro membri), Berlino Est, Henschelverlag, 1984, 463 pagine. Citazione a pagina 413, note 309-312.

[48] Jähner, Horst – Künstlergruppe Brücke (citato), pagina 413, note 309-312.

[49] L’articolo è citato integralmente in “The Third Reich Sourcebook (Weimar and Now: German Cultural Criticism) – a cura di Anson Rabinbach e Sander L. Gilman, 2013, University of California Press”, 923 pagine. Citazione a pagina 487)

[50] The Third Reich Sourcebook (citato), p.484.

[51] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.5

[52] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.8

[53] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.12

[54] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.12

[55] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.21

[56] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.30

[57] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.146

[58] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.147

[59] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, (L’arte degli ultimi 30 anni) e Amburgo, Hermann Laatzen Verlag, 1948, 183 pagine più 61 pagine di illustrazioni in bianco e nero. La citazione è a pagina 177

[60] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre. Versione del 1948 (citato), p. 61

[61] Sauerlandt, Max – Die Kunst der letzten 30 Jahre, Versione del 1935, (citato), p.78.

3 commenti:

  1. Perché non è possibile vedere la parte terza?

    RispondiElimina
  2. Perché non è possibile vedere la parte terza?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Chiedo scusa. Era saltato un link. L'ho rimesso. Adesso dovrebbe funzionare

      Elimina