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Alexander Auf der Heyde
Per l’«avvenire dell’arte in Italia»:
Pietro Selvatico e l’estetica applicata alle arti del disegno nel secolo XIX
Pisa, Pacini editore, 2013
N.B. Su Pietro Selvatico si veda in questo blog anche: Pietro Selvatico e il rinnovamento delle arti nell’Italia dell’Ottocento. A cura di Alexander Auf der Heyde, Martina Visentin e Francesca Castellani, Pisa, Edizioni della Normale, 2016
Un uomo poco amato
Il marchese Pietro Selvatico, in
vita, non fu uomo particolarmente amato. Non lo fu soprattutto perché fra il
1849 e il 1859 ricoprì il ruolo prima di Segretario e poi di Presidente facente
funzione dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Sono anni cruciali per la
città lagunare. Selvatico viene nominato direttamente da Metternich, che
qualche mese prima ha bombardato la città e soffocato con la violenza la
rivolta repubblicana. Peraltro, le tesi dello studioso patavino (1803-1880),
che ad esempio bolla Tiziano come “figlio degenere” di Giovanni Bellini, e non
è certo ben disposto nei confronti di Canova, sembrano fatte apposta per
cozzare contro un mondo culturale che ha vissuto per secoli nel mito e nel
ricordo della grandezza della Repubblica e dei suoi artefici antichi o moderni.
Il libro che Alexander Auf der
Heyde propone al lettore ha un grande pregio: prende in considerazione gli
scritti e l’operato di Pietro Selvatico senza negare nulla o santificare nessuno.
Ne risulta l’immagine di un uomo spesso contraddittorio e difficile da
etichettare: sostenitore del Purismo, ben presto ne prese le distanze;
cattolico liberale prima del 1848, rimase evidentemente traumatizzato dalle
violente dei moti risorgimentali, in cui emerse un’idea di “popolo” come classe
che non corrispondeva all’immagine “idealizzata” da lui coltivata fino a quel
momento; prima propugnatore dell’utilità dell’Accademia (a patto di riformarne
i programmi) e poi capace di consigliarne la chiusura per dirottare le risorse
economiche che essa impiegava a favore delle committenze pubbliche. E tuttavia
vien fuori che Selvatico era anche uomo di sguardo acuto, di una propria
visione storiografica e di letture e frequentazioni certo non banali.
Uno dei temi che caratterizzano
la figura dello studioso patavino è puntualizzato proprio nel titolo
dell’opera: si tratta dell’interesse nei confronti del disegno, come
propedeutico a qualsiasi approccio di carattere didattico nel mondo delle arti.
E non stiamo parlando qui di disegno di imitazione, ma proprio di un approccio
al disegno in chiave strumentale, e come tale apprendibile in un sistema
educativo. Si tratta quindi dell’insegnamento del disegno dei corpi geometrici,
dello studio più approfondito della prospettiva, dell’introduzione del disegno
basato sulla memoria: tutti aspetti che Selvatico potenzierà nella sua
esperienza accademica e riproporrà, in termini simili, nell’ambito della scuola
patavina di disegno pratico, di modellazione e d’intaglio, che impegnerà gli
ultimi anni della sua vita.
Alla base di tutto, una fede
incrollabile su come la didattica e la scuola possano e debbano contribuire al
progresso civile del popolo. L’autore sottolinea molto acutamente che “dagli
interventi che Selvatico pubblica tra gli anni Sessanta e Settanta emerge la
volontà di innalzare la questione del disegno al livello di un dibattito
sociale, come quello appunto della celebre Questione
della lingua. L’Italia, prima ancora di possedere un linguaggio comune,
potrebbe dotarsi di una comune grammatica formale che unisce gli italiani al di
là delle divisioni di genere, età e classe sociale” (p. 278).
Sull’educazione del pittore storico odierno italiano
L’opera per cui Selvatico è più
famoso, ovvero Sull’educazione del
pittore storico odierno italiano esce in realtà abbastanza presto, ovvero
nel 1842 [1].
Frontespizio dell'edizione 1842 del Pittore storico |
Non siamo di fronte a un trattato artistico, almeno nelle
intenzioni dell’autore, ma a dei “pensieri” (che pure occupano più di 500
pagine) in cui Selvatico prova a fare il punto sulla situazione dell’arte in
Italia agli inizi degli anni ’40 dell’Ottocento. Del Pittore storico si è scritto un po’ di tutto. Ad esempio che si
tratta di un testo purista. In realtà è un’opera la cui elaborazione è più
facile da capire se si segue l’intensa attività pubblicistica su riviste
specializzate con cui Selvatico ne aveva anticipate alcune parti (salvo poi
rielaborarle): è così che si possono notare fasi di avvicinamento o di
allontanamento rispetto alla (di per sé composita) dottrina purista. Tre cose
emergono comunque in maniera evidente: l’interesse per l’aspetto dell’educazione
dell’artista (come già detto, il vero filo rosso di tutta la vita del
marchese); l’idea che l’artista non sia più una monade, ma debba confrontarsi
con la società in cui vive; e la consapevolezza – ben chiara, e assolutamente
lucida – del ruolo periferico in cui l’arte italiana è finita rispetto al
contesto internazionale (cfr. p. 47). Sotto questo punto di vista Selvatico è
uno dei pochissimi (preceduto probabilmente solo dall’esperienza dell’Antologia fiorentina) a ragionare in
ottica europea e a sentire l’esigenza di visitare la Francia, l’Austria e la
Prussia dove si svolge il vero dibattito sulla pittura di storia e su quella di
argomento religioso. Una serie di viaggi di aggiornamento scandiscono gli anni
’40. Dai resoconti che Selvatico opera sui giornali specializzati dell’epoca –
segnala giustamente Auf der Heyde – emerge però che tali scritti “non sono da
intendersi come informazioni giornalistiche, bensì come riflessioni
sull’opportunità o meno di adottare soluzioni didattiche sperimentate altrove”
(p. 57). Su un piano prettamente teorico, è evidente che, in ambito di arte
moderna, Selvatico si dimostra un cattolico liberale (uno di quelli che, ad
esempio, nutriranno grandi speranze al momento dell’elezione di Pio IX sul
soglio pontificio), che, col passare degli anni, tende a superare la divisione
fra pittura monumentale di storia (destinata a rappresentare le radici
dell’identità nazionale: un tema che in Italia si scontrava ovviamente con le
maglie della censura) e invece la pittura di genere, che sembra invece
identificarsi meglio con gli ideali filantropici del cattolicesimo più
“modernista”: “Amiamo il popolo: e con riverenza di discepoli ammaestriamolo”
(p. 71) scrive il Tommaseo (che di Selvatico fu amico): “la pittura di genere riflette
questo spirito ottimista delle élites culturali, che tendono a proiettare nel
“popolo” un astratto ideale di matrice
cattolica” (idem).
Edizione anastatica del Pittore storico. Postfazione e indici a cura di Alexander Auf der Heyde Pisa, Edizioni della Normale, 2007 |
Didattica e storiografia
Se l’attenzione di Selvatico è
sempre sulla didattica dell’arte, va pur detto che gli è ben chiaro come essa
non possa mai essere disgiunta da una visione storiografica della disciplina.
Il rinnovamento dell’arte si coniuga indissolubilmente con la conoscenza
storica della stessa. Quella di Selvatico è una conoscenza che potremmo definire
“empirica”, basata sul rilevamento e sull’osservazione dell’opera d’arte. Ne dà
un saggio brillantissimo già nel 1836 con le sue Osservazioni sulla Cappellina degli Scrovegni, in cui dimostra la capacità
di valorizzare il patrimonio storico-artistico cittadino. Ma la prospettiva
storiografica è particolarmente chiara in Sulla
architettura e sulla scultura in Venezia dal Medio Evo sino ai nostri giorni,
studi di P. Selvatico per servire di guida estetica, pubblicata a Padova
nel 1847. L’indicazione che siamo di fronte a una guida estetica ancora una
volta ci fa comprendere che l’opera è concepita a scopo didattico (e che, molto
probabilmente, costituirà assieme ad altri scritti di natura più strettamente
metodologica, il suo biglietto da visita per la candidatura all’Accademia).
Quando si parla di “estetica”, tuttavia, non si fa più riferimento a una
questione di gusto, ma allo stile. Uno dei compiti principali del futuro
artista diventa quello di conoscere gli stili, a partire dal riscontro
autoptico su chiese e palazzi: tutti gli stili (ad eccezione del barocco, che
ancora dovrà attendere qualche decennio prima di vedersi riconosciuto un
“diritto all’esistenza”). All’architettura Selvatico (che ha studiato da
architetto) consegna il ruolo di madre fra le arti; lo studioso individua una
parabola storica che ascende passando dal paleocristiano (“romano-cristiano”)
al bizantino, all’italo-bizantino, al gotico (ovvero “arabo-archi-acuto”) e al
primo rinascimento. Selvatico individua poi un momento di rottura che si
verifica attorno al 1530, con la diffusione della trattatistica a stampa (sono
gli anni di Sebastiano Serlio) e di conseguenza degli ordini. Con il comparire
dei trattati “gli edifici perdono l’originaria loro destinazione comunicativa,
perché gli architetti iniziano a imitare gli ordini vitruviani conosciuti
tramite le pubblicazioni” (p. 81). Se vi è un tema comune a tutta la guida
estetica, si tratta senz’altro della consapevolezza del ruolo di tramite svolto
da Venezia in ambito europeo nel recepimento, nella rielaborazione e nella
diffusione degli stili. È il caso del gotico, che Selvatico chiama stile
arabo-archi-acuto, evidenziando subito quella che a suo avviso è l’origine
dello stile; è Venezia, a cui viene attribuito dunque un ruolo centrale in
questo senso, a recepirlo per prima e a rielaborarlo nei suoi palazzi per poi
diffonderlo nel resto d’Europa.
Ora, immagini chi legge quanto
queste tesi potessero essere gradite agli ambienti culturali veneziani;
ambienti che – si è detto – vivono ancora in larga parte nella nostalgia della
grandezza di una repubblica che non esiste più e per cui lo sviluppo delle arti
(dell’architettura, della pittura e, sia pur in misura minore, della scultura)
è innanzi tutto il risultato dell’esistenza di un gusto veneziano autoctono,
indipendente da condizionamenti esterni. Si capisce subito che tipo di
accoglienza attendesse Selvatico a Venezia. A maggior ragione quando,
indipendentemente dai propri gusti personali, il marchese patavino ribadisce la
necessità di studiare tutti gli stili, perché il futuro artista deve essere
coinvolto nelle pratiche del restauro e attenervisi appunto nel rispetto degli
stili originali. Una delle accuse principali che colpirono Selvatico fu proprio
quella di essere un eclettico (p. 211), intendendo per eclettismo la pretesa di
conoscere tutti gli stili; mentre in realtà Selvatico si schierò sempre contro
ogni forma di eclettismo stilistico, ovvero contro ogni tentativo di
contaminare gli stili fra loro, specie in sede di restauro.
Quando Selvatico arriva a Venezia
è visto con sospetto. Lo si accusa di essere una spia austriaca (conosce bene
il tedesco). Tale sospetto è alimentato innanzi tutto dal fatto che è nobile,
ma non veneziano; poi sicuramente dalle sue frequentazioni austriache (fra cui
spicca per importanza e caratura del personaggio quella di Rudolf Eitelberger
von Edelberg, che lo stima incondizionatamente); ma soprattutto dalla sua
proposta storiografica; in ambito architettonico le “massime” contenute nei
trattati di Serlio, Palladio, Scamozzi sono ampiamente ridimensionate; e su un
piano autoptico tutte le realizzazioni sansoviniane seguono il medesimo
destino. Nel campo della pittura, del tutto analogamente, Selvatico avvalora
una visione secondo cui, dopo Giovanni Bellini, la pittura veneziana si
sviluppa in due direzioni: da un lato quella religiosa e più attenta a
conservare la purezza degli insegnamenti dei maestri (Cima da Conegliano e
altri), dall’altro quella “licenziosa”, che, a partire da Giorgione, quella
purezza abbandona fino a giungere al “degenere” Tiziano e a Tintoretto. Si
salva solo Veronese (pp. 191-193). Selvatico abbatte i miti di Venezia.
Impossibile che lo sbarco in Accademia potesse essere dei più semplici.
In Accademia
Selvatico viene eletto Segretario
dell’Accademia alla fine del 1849. Se raggiunge quella carica è perché ha
saputo giocar bene le sue carte. L’Accademia aveva avuto come Segretario
Antonio Diedo fino alla sua morte (1 gennaio 1847); gli era succeduto Agostino
Sagredo. Al termine della stagione rivoluzionaria, la repressione austriaca si
esplicita nella necessità di individuare una figura “di rottura” rispetto alla
tradizione: Selvatico è perfetto. Non è espressione del mondo veneziano, pur
conoscendolo bene; durante la proclamazione della Repubblica di Venezia ha
preferito tenere una posizione defilata, allontanandosi dalla città e
trasferendosi a Trento; parla bene il tedesco; ha capito dove si decidono
veramente le cose ed è riuscito a ingraziarsi gli ambienti ministeriali
viennesi, ma gode di prestigio anche in quelli culturali. Su un piano
personale, i moti del 1848 lo hanno spinto verso una deriva conservatrice: il
“popolo” che era oggetto della filantropia delle classi liberali illuminate si
è rivelato capace di esplosioni di violenza che Selvatico ritiene
inconcepibili. Pietro torna a parlare, in occasione di discorsi ufficiali,
dell’opportunità di praticare la “pittura di genere”, ma questa volta per
promuovere un ritorno all’ordine e alla dimensione privata della vita umana che
ha il suo cardine nei valori tradizionali della famiglia; filantropia e (sia
pur moderato) progressismo politico sono spariti.
Tuttavia Selvatico ha ora
occasione di mettere in pratica, da un punto di vista strettamente didattico,
quanto propugnato nei decenni precedenti. È così che “matura l’idea degli
“studii coordinati”, basati su due pilastri: il disegno lineare e
l’insegnamento della storia dell’arte. Il suo ambizioso progetto di riforma
dell’Accademia tende, infatti, a resuscitare la figura dell’artista-scienziato
di rinascimentale memoria, un artista capace allo stesso tempo di cimentarsi come
storico, progettista e restauratore” (p. 150).
Abbiamo in qualche modo
anticipato quelli che furono i principali provvedimenti presi da Selvatico:
introduzione del disegno dai solidi, del disegno di memoria, dello studio del
panneggio non su manichini, ma su modelli e all’aperto, potenziamento dello
studio della prospettiva, revisione del sistema dei premi. Nel suo L’Accademia di Venezia. Relazione storica
per l’Esposizione [n.d.r. Universale] di
Vienna del 1873, Antonio Dall’Acqua Giusti parla in termini lusinghieri di
Selvatico e delle riforme da lui introdotte [2]. Va pur detto che Dall’Acqua
Giusti scrive per una manifestazione che si svolge a Vienna solo sette anni dopo
che il Veneto è passato all’Italia, e l’autore riesce nell’impresa di passare sotto
silenzio l’astio che i veneziani avevano nutrito nei confronti della
dominazione austriaca nei decenni precedenti. Tuttavia anch’egli accenna che,
alla fine, a indurre Selvatico a rinunciare alla carica e a chiedere le
dimissioni sin dal 1857 furono “i dissensi tra qualche insegnante e il
Segretario”. Non vi è dubbio che si tratti di un aspetto che ebbe il suo peso.
Il sistema degli “studii coordinati” prevedeva, di fatto, una limitata
autonomia dei singoli insegnanti a favore del segretario. Selvatico non era
però uomo di mediazioni e quindi le frizioni ci furono eccome: particolarmente
evidenti quelle col professore di pittura alto-atesino Carl Blaas.
Antonio Dall'Acqua Giusti, L'Accademia di Venezia. Relazione storica per l'Esposizione di Vienna del 1873, Venezia, 1873 |
Fino a quando il rapporto di
fiducia reciproca con gli ambienti viennesi rimane saldo Selvatico non sembra
preoccuparsene più di tanto. In merito va puntualizzato che tale rapporto si
nutre probabilmente di due aspetti, fra loro completamente divergenti: da un
lato (quello sicuramente più odioso) il controllo della disciplina e la
segnalazione di singoli casi potenzialmente pericolosi per il regime;
dall’altro però la consonanza di vedute con Rudolf Eitelberger von Edelberg [3].
Eitelberger punta alla riscoperta e allo studio delle tecniche come componente
imprescindibile dell’attività artistica e diviene promotore di una visione
dell’arte che tiene uniti fra loro arti e mestieri “gettando così le basi per
un disegno complessivo di riforma delle istituzioni artistiche che abbracci le
accademie e scuole d’arte, ma anche le società promotrici, gli organi di tutela
e la ricerca archeologica”. La consonanza con Selvatico è totale. Non sappiamo
fino a che punto lo fosse anche su un piano politico: Eitelberger (che aveva
partecipato ai moti del ’48) credeva in un Impero multi-etnico e
multi-culturale, in cui la componente austriaca fosse unificante e non
prevaricante. In questa visione di Impero Selvatico cerca di muoversi chiedendo
di non marginalizzare l’Accademia veneziana rispetto a quelle di Vienna e di
Praga.
E tuttavia non tutto va come
avrebbe voluto. Particolarmente bruciante dev’essere la mancata riforma della
Scuola di architettura, e in particolare il rifiuto austriaco (1856) di creare
a Venezia una Scuola superiore pegli
architetti (p. 219). Si tratta probabilmente dell’episodio che segna lo
scollamento fatale fra mondo viennese e Selvatico, che comincia a manifestare
il desiderio di dimettersi. Dopo sette anni divisi fra Segreteria e Presidenza,
il marchese patavino giunge alla conclusione che, così com’è, il sistema delle
Accademie è sostanzialmente inutile. Lo fa portando avanti argomentazioni di
carattere economico, e dimostrando che la sua attenzione al mondo dell’
“industria” continua invece ad essere costante. Nella sostanza Selvatico dice
che l’arte a Venezia non è fiorente perché non c’è chi la “consuma”, ovvero non
vi sono commissioni pubbliche né private. La spesa pubblica è invece allocata
nel mantenimento del sistema delle Accademie, che producono artisti che vivono
nella miseria. “Invece colle mire attuali della Monarchia v’è gran bisogno sieno
perfezionate le industrie, e queste non si perfezionano se non portando al
massimo aprire il disegno principio all’arti manifatturiere; e questo è ben
lontano dall’essere condotto a tal punto, e perché mancano corsi più speciali,
e perché i maestri non possono essere che inetti, essendo pochissimo pagati, e
male scelti.” (p. 253). Meglio quindi abolire le Accademie, far tornare gli
artisti al sistema corporativo dell’insegnamento in bottega, e organizzare
corsi di disegno elementare per tutti: una tesi senz’altro provocatoria, che da
un lato tradisce delusione e disincanto e dall’altra conferma l’attenzione di
Selvatico per il mondo della manifattura.
Dopo l’Accademia
In realtà Selvatico riesce a
dimettersi solo nel 1859. Riprende l’attività pubblicistica, ma senza
particolare fervore, e deve nella sostanza interrompere i suoi studi per un
paio d’anni per motivi di salute. Gli anni finali della sua vita, dal 1867 in
poi, quando anche il Veneto è entrato a far parte del Regno d’Italia, lo vedono,
a Padova, prender parte con rinnovato entusiasmo al progetto della scuola
comunale di disegno pratico, modellazione e d’intaglio per gli artigiani. La
scuola rapidamente moltiplica i suoi corsi, anche grazie all’impegno di Pietro,
che vede compiersi parte dei suoi progetti anche grazie al coinvolgimento di
figure borghesi illuminate, come quella di Alessandro Rossi, che propone un
modello di sviluppo industriale basato su un rapporto paternalistico (e non di
puro capitalismo) nei confronti degli operai. Il disegno elementare diventa un
linguaggio comune (sia chiaro: non uno strumento di mobilità sociale, ma un
modo per trasmettere cultura e valori) da assicurare a tutti i cittadini, senza
distinzione di ceto o reddito. E in qualche modo noi abbiamo modo di
riscontrare come, fra mille deviazioni e contraddizioni, proprio sulla
didattica, sull’insegnamento del disegno e di una storiografia empirica, Pietro
Selvatico riesca a dimostrare quella coerenza e quello spessore che, molte
volte, gli sono state negate.
Un convegno
Più o meno in contemporanea con l'uscita di questo volume si è tenuto a Venezia (22-23 ottobre 2013) il convegno "Pietro Selvatico e il rinnovamento delle arti nell'Italia dell'Ottocento" promosso dall'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Gli atti del convegno sono stati pubblicati nel 2016. Potete leggere la relativa recensione cliccando qui.
NOTE
[1] Ristampato in edizione
anastatica dalle Edizioni della Normale di Pisa, con postfazione dello stesso
Auf der Heyde.
[2] A. Dall’Acqua Giusti, L’Accademia di Venezia. Relazione storica
per l’Esposizione di Vienna del 1873, Venezia, Tipografia del Commercio di
Marco Visentini, 1873, pp. 65-68.
[3] Si vedano in questo blog Andreas
Dobslaw, Die Wiener »Quellenschriften« und ihr
Herausgeber Rudolf Eitelberger von Edelberg, Deutscher Kunstverlag,
2009 e Francesco Mazzaferro. Albert Ilg e Julius von Schlosser: due modi
diversi di interpretare Cennino Cennini nell'Austria-Ungheria del 1871 e del
1914.
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