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lunedì 21 settembre 2015

Jacques Monory. Écrits, entretiens, récits. Parte Quarta: Gli elementi evolutivi dello stile e le fonti d'ispirazione dal passato


English Version

Jacques Monory 
Écrits, entretiens, récits 

[Scritti, interviste, storie]
Parte Quarta: Gli elementi evolutivi dello stile e le fonti d'ispirazione dal passato


Editions Beux-Arts de Paris, 2014

(recensione di Francesco Mazzaferro)


[Versione originaria: giugno-settembre 2019 - nuova versione: aprile 2019]


Fig. 4) L’originale dattilografato dell’intervista di Monory a Wolfgang Becker, in tedesco e francese,
dal fascicolo della mostra alla Nuova Galleria di Aquisgrana, 1972.

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Un codice iconografico, molte tecniche compositive, una varietà di stili?

Abbiamo visto che Monory combina un codice iconografico a lui specifico ad un’ampia libertà nelle tecniche compositive. Si può parlare di uno stile Monory mantenuto nel corso di più di quarant’anni della sua arte oppure il suo stile si è evoluto nel tempo? La risposta è equivoca.

Si è già detto che prima del 1964, ovvero prima dell’adesione alla Figuration Narrative, Monory alterna interesse per il surreale e l’informale, secondo lo stile dell’Astrazione lirica, all’epoca molto in voga in Francia; di quella fase non è rimasto quasi nulla perché l’artista distrugge quasi tutte le sue opere (di 199 quadri eseguiti tra 1952 e 1964 solamente 21 sono giunti a noi [83]). È Monory stesso a dirci, però, che alcuni aspetti del suo stile si erano manifestati immediatamente, già prima del 1964. Al proposito, vale la la pena citare un intervento-intervista del 2004, dal titolo “Le arti davanti la storia”, in cui Monory conversa con la filosofa e studiosa d’estetica Marie-Hélène Popelard (1950-).

La domanda è: “Perché ha scelto la monocromia? E perché ha preferito per così lungo tempo il blu?” “Ho una tendenza naturale alla monocromia, istintiva. Me ne sono reso conto più tardi. Quando ero alla Scuola d’arte, mi recavo in campagna con un cavalletto, era una situazione strana … - invece di dipingere il cielo in blu, la natura in verde, dipingevo qualcosa di giallastro, un po’ monocromo. Le mie prime opere personali, un po’ più elaborate, erano anch’esse di quel tipo. Ma non ho scoperto subito il monocromo blu: facevo dei rosa, dei violetti. Poco a poco mi sono fissato: il blu era preciso, corrispondeva allo sviluppo del mio pensiero, che si poteva tradurre in tal modo: la realtà è un sogno che mi appassiona, ma che forse non esiste. Il blu è il colore ideale per evocare il sogno e per molte altre ragioni. Si può giocare con il blu: dai toni più scuri – il nero – fino al bianco, ed ogni volta è bello in sé e per sé, mentre se cercate di farlo con il rosso, è atroce. Il giallo è troppo chiaro: non si può schiarirlo. Con il violetto a volte funziona.” [84]

Dopo il 1964 l’attività pittorica di Monory si estende per oltre quarant'anni. In un video recente che accompagna la mostra alla Fondazione Leclerc, l’artista afferma: “La mia droga è la pittura in blu” [85]. E tuttavia nel 1981 – parlando con il critico Jean-Luc Chalumeau – egli avvia un tentativo di combinare continuità con cambiamenti progressivi dello stile. Sullo stile, egli scrive: “Lo stile può essere una fortezza, ma anche una prigione. Per parte mia vorrei orientare il mio stile alla mia maniera d’essere, ed assicurarmi che la mia pittura rappresenti esattamente me stesso al passaggio delle stagioni.” [86]  “Io non ho mai avuto un progetto estetico. Il mio lavoro attuale è nella sequenza logica di quello che lo ha preceduto. È vero che, ad ogni esposizione (dal momento che ho la fortuna di poter esporre), io voglio cercare di dire qualcosa che non sia identica a quello che ho detto nella precedente. La ripetizione è la morte. Vorrei non ripetermi mai, ma è anche vero che io sono sempre lo stesso e che, in un certo modo, mi ripeto dunque sempre. Ma se bisogna veramente ripetersi, lo faccio con un’altra immagine.” [87]  


Gli elementi evolutivi dello stile  

Seguendo cronologicamente gli scritti, diviene evidente come – in parallelo – si siano prodotte tre evoluzioni nello stile del pittore nel corso della sua carriera.

Primo: successivamente a una fase rigidamente monocromatica (blu oppure in altri colori), si apre nel 1977 una parentesi caratterizzata dall’accostamento di tre colori primari (blu, rosso, giallo), ispirata alla tecnica cinematografica del technicolor (ed infatti “Technicolor” è il nome della serie con cui si apre questo nuovo periodo). Va detto che questa parentesi decennale, caratterizzata appunto dall’uso di tre tonalità monocromatiche, sembra terminare con la serie “Giardinaggio” del 1988.

L’uso di più colori non ha comunque nulla a che fare con il recupero di una vena naturalistica: “Technicolor era una critica ironica ed acida del mondo hollywoodiano e della sua profonda stupidità per via della quale dichiara: ‘Siate ricchi e fate i soldi, siate celebri, ecc...’ L’ho fatto a colori, non in monocromo: i tre colori fondamentali sono stati messi sul quadro come se vi avessi proiettato dei fari colorati. (…) Dunque, ho impiegato il colore per far passare un messaggio. Io parlo della passione di vivere nella difficoltà.” [88]

Anche in questo decennio, in cui la monocromia diviene meno costante, i colori sono comunque accostati, ma non realmente combinati tra loro, e mai Monory sembra tentato da una vera policromia. Negli anni seguenti, Monory ritorna alla predominanza del blu, cui contrappone a volte il nero o il verde (quest’ultimo, ad esempio, nella serie Colore).

Secondo: dopo una fase caratterizzata dalla narrazione di avvenimenti per lo più cruenti, Monory si apre anche alla rappresentazione di elementi naturali, come ad esempio il cielo, nel senso astronomico, con la raffigurazione dei pianeti, delle stelle, delle galassie, delle nebulose, ecc... Ma il legame con la realtà non va perso. “Ho voluto fare qualcosa – dichiara nel 1997 – che mi liberasse di questo mondo affascinante che non amo e ho trovato che il cielo era un soggetto che poteva essere per me molto bello. Sui miei cieli ogni astronomo poteva, nella maggior parte dei casi, riconoscere veramente la costellazione, la galassia, le stelle principali; erano dipinte sulla base di documenti che erano stati elaborati con apparecchi sofisticati. Noi non possiamo mai osservare tali cose; bisogna ricreare l’immagine; è l’immagine di una realtà che ci sembra straordinaria. Siccome sono un pittore realista, io dipingo sempre cose reali, anche quando dipingo delle stelle denominate in codice, e prese da un telescopio.” [89]

Terzo: dopo una fase iniziale in cui manifesta quasi una forma di rammarico per aver intrapreso la carriera di pittore (invece che quella di regista o di fotografo), Monory sembra acquisire maggior soddisfazione e piacere per quello che egli chiama ‘elemento pittorico’. E tuttavia le difficoltà e i limiti della pittura gli rimangono evidenti. 

In passato – rivela nel 1996 al critico d’arte Henri-François Debailleux, giornalista di Libérationho spesso detto che me ne fregavo della pittura e che m’interessavo solo del messaggio che essa veicolava. E poi, piano piano, ho cambiato ottica ed oggi credo che quel che si deve dire, quando si dipinge, è in fondo trasmesso dalla pittura in se stessa. Sono arrivato a questa conclusione non per disperazione, ma in una forma di non-speranza; infatti, in precedenza pensavo che la pittura potesse cambiare il mondo e che io potessi partecipare a quel cambiamento. Adesso, credo ch’essa rifletta il mondo, ma che non possa cambiarlo, politicamente. Invece, la pittura può rendere più profondo l’individuo che la produce, forse modificarlo ed in tal modo cambiare il mondo (…).“ [92]

Gli ultimi cicli di dipinti sono più determinati dall’improvvisa inventiva del momento che da un processo organizzato di pianificazione creativa. Siamo nel 1998, quando incombe il nuovo secolo: “Prima, quando cominciavo un quadro, potevo dire che sapevo come sarebbe stato. Io eseguivo il mio quadro. Adesso, nelle serie Enigma ed Epilogo, i quadri non sono affatto come li ho cominciati. E non sono sicuro di sapere precisamente quel che vogliano dire. Non potrei più spiegare tutto quel che vi è nel quadro, come lo potevo fare nei quadri precedenti, in cui vi era una certa logica.” [93] “Continuo ad utilizzare la medesima tecnica; semplicemente non so più esattamente che cosa vogliano dire i temi e anzi li scelgo con sempre maggior difficoltà. (…) Quando si guarda ai grandi pittori, o a quelli che si considera grandi, alla fine della loro vita il soggetto, nella maggior parte dei casi, è scomparso. Non si vede più che cosa Monet rappresenti. Rembrandt sembra una macchia di buio, diviene pittura pura. Occorre la vita intera per giungere a questo risultato.” [94]

Il rapporto con la pittura rimane comunque caratterizzato da una certa distanza: in un’intervista filmata del 2004 con il critico d’arte Philippe Piguet [95], il cui testo è riprodotto nell’antologia degli scritti, gli viene chiesto se la pittura non sia un’esca per trarre in inganno chi la guarda. La risposta è: “La pittura è una menzogna. Io sono perfettamente cosciente di essere un mentitore, un fabbricante di menzogne, ma le mie menzogne vogliono dire qualcosa che è vero. Io impiego immagini che sono delle esche, ma per catturare un pensiero che intravede qualcosa di vero. Le cose vere, le si possiede tutti: semplicemente, ce ne dimentichiamo.” Piguet chiede allora: “Insomma, Jacques, perché tu dipingi?” “Direi che lo faccio per non morire – risponde Monory tra il serio ed il faceto – Socialmente mi ero fregato, non sapendo far altro. Incapace di essere interessato ed interessante. Insomma, me la sono dovuta cavare per trovare qualcosa che sapessi fare, che mi andasse bene e che potessi fare quasi completamente da solo, senza dovere chiedere aiuto a nessuno.” [96]


Monory e la storia dell’arte

Più volte il pittore francese lascia intendere che non guarda tanto agli artisti del passato, ma piuttosto al cinema. Ribadisce nel 1982: “Sono stato molto più profondamente influenzato da Quarto Potere che da Veronese. Dal film ho imparato molto di più.” [97] Nel 1997 racconta che il primo quadro visto in vita sua è il Pellegrinaggio a Citera di Antoine Watteau (1717), al Louvre. E commenta: “Vi è una bella differenza tra Orson Wells e Watteau. E siccome non si può fuggire dal proprio tempo, è piuttosto a Wells che mi sono orientato.” [98]

Eppure ci sono quattro pittori che cita ripetutamente negli scritti e nei quadri: Albrecht Dürer, Caspar David Friedrich, Édouard Manet e Andy Warhol.


Albrecht Dürer

Si è già fatto riferimento a Dürer nel polittico Valle della Morte di Monory di cui si è parlato in un post precedente (cfr. Parte Terza Fig. 51). Un’altra citazione è Malinconia, che apre la serie Tossico (Toxique). Si tratta in realtà di una doppia citazione, come scrive Sarah Wilson [99], che vi vede anche un richiamo al Ritratto d’Émile Zola che Édouard Manet esegue nel 1868.

Scrive Monory nel catalogo sulla mostra Specchi alla Galleria Maeght nel 2008, con riferimento all’artista del rinascimento tedesco: “Mi sono servito svariate volte della Malinconia di Dürer, o ad essa ho fatto allusione. È una delle opere d’arte che più mi ha colpito. Ho addirittura dipinto un quadro che ha il medesimo titolo nella serie dei quadri velenosi. Tossico n. 1, Malinconia, 1982.” [100]
 

Édouard Manet

Le citazioni di Manet nell’opera di Monory sono molteplici. Si è già detto del Bar delle Folies-Bergère del 1881-1882 (cfr. Parte Terza Fig. 80). La colazione sull’erba del 1862-1863 ispira invece, dal punto di vista scenico, Giungla di velluto N. 10/1, e la sua variazione Giungla di velluto N. 10/2 (che è, in sostanza, l’immagine in negativo della 10/1).

L’opera di Manet fu rifiutata nel 1863 come troppo moderna. Anche le trasposizioni di Monory intendono far passare un messaggio forte, disegnando la natura come luogo artificiale, una natura “crudele e colma di carneficina.” [101] La serie Giungla di velluto è infatti una metafora della guerra del Vietnam, le cui foto nella stampa americana ed europea di quegli anni documentano la guerriglia nella giungla.

In un’intervista del 1994 Monory ci rivela che l’Olympia di Manet è uno dei quadri che più gli piace; il solo di cui tiene una riproduzione nel proprio atelier e che non sia suo. [102]  Nel 1996 aggiunge: “A forza di rivedere l’Olympia ho capito perché ha fatto scandalo: perché è profondamente realista, ovvero quella ragazza ha lo sguardo perso di un’oca [Nota del traduttore: regard de veau. Indica lo sguardo perduto nel vuoto di un bue. Si dice anche di chi è talmente innamorato da aver perso la testa]. Ma quello sguardo è molto emozionante, va molto lontano e molto al di là di ogni intelligenza. Ed a me in fondo piacciono le oche [i buoi].” [103] Nel 2008 completa le sue considerazioni su Olympia: “La gente dell’epoca, secondo quel che resta delle critiche contemporanee su questo quadro, ne fu davvero scioccata, perché parla dell’animalità con rispetto. Io credo che sia ancora oggi del tutto scioccante. ‘Perché non fa delle capriole con le sue cosce?’ Lei è là, come un vitello, e ciò è veramente commovente. Ed il suo sguardo è vuoto. Ed il suo corpo morbido che lei mette così in evidenza, quel suo sguardo animale, sono una delle cose più rare che vi sia nella storia dell’arte.” [104] La Tigre da sogno del 1975 rinnova il paragone tra la sessualità femminile ed il mondo animale, con il consueto riferimento iconografico alla tigre.



Caspar David Friedrich


Caspar David Friedrich è per Monory quel che noi potremmo definire un ‘pittore cult’. Su di lui scrive un breve testo (2 pagine) pubblicato nel 1974 sulla rivista Chorus. L’incipit del saggio sembra dare l’impressione che la visione delle pitture di Friedrich produca su Monory un effetto allucinogeno: “Caspar David Friedrich. Verrà il tempo di un altro delirio. Si darà fine alle ricostruzioni fragili della realtà, realtà della fine dei loro imperi, riflesso della fine d’altri imperi, dove trovare un nuovo magico trucco viola ed esporsi nudi e piumati farà di voi l’eroe della serata. Gli zoccoli dei musei, i dislocatori di virgole saranno caduchi.” [105]

Al pittore romantico tedesco – che sperimenta quadri in diverse tonalità di un solo colore – Monory dedica un’intera serie, dal titolo “Omaggio a Caspar David Friedrich” tra il 1975 ed il 1976, esposta per la prima volta alla Kunsthalle di Amburgo (la città dove Friedrich è morto) nel 1977. La galleria tedesca ospita una collezione particolarmente ricca di opere di Friedrich ed ha organizzato regolarmente mostre anche su artisti che si sono a lui ispirati. Curiosamente, mentre il pittore tedesco produsse un’arte non legata agli avvenimenti storici del suo tempo, ma alla ‘tragedia del paesaggio’, Monory ne radicalizza il romanticismo e lo declina in molte direzioni.  Così il primo quadro della serie è dedicato al ricordo di Auschwitz, mentre il secondo ed il terzo sono paesaggi marini (nel secondo quadro della serie il paesaggio, tratto da una foto di Monory di spiagge californiane, è però turbato da un recinto di filo spinato); il quarto è la scena di un incidente aereo, il quinto una situazione di disperazione personale, ed il sesto una rivisitazione diretta del tema di un quadro di Friedrich, il mare di ghiaccio.


Edward Hopper

Quando ero giovane, mi interessava molto Hopper, che raccontava storie che mi toccavano particolarmente. La sua non era una narrazione come il fumetto, ma una narrazione introversa. Un uomo seduto su una sedia non è una storia, ma se si guarda bene, è una vera e propria fucina di storie!” [106] Così, il quadro numero 7 della serie dedicata a New York negli anni Settanta porta il titolo ‘Omaggio ad Edward Hopper’ ed è chiaramente ispirato alla ‘Casa sulla ferrovia’ dello stesso pittore.

Più di trent’anni dopo,  Monory torna allo stesso tema, con una variazione complessa, che descrive nell’intervento per la mostra Specchi alla galleria Maeght. “Inizialmente ho dipinto una tela di una sezione di un metro per un metro, metà con un viso e metà con una danzatrice esotica e misteriosa, in più colori. Un visitatore la vuole acquistare, ma in blu… In genere, mando al diavolo chi mi fa certe richieste. Ma in questo caso, non so perché, rifaccio la tavola in blu monocromatico. Infine, ho finito per tenere entrambi. Dico all’acquirente potenziale che non ho più la tavola. Ho messo una sopra all’altra le due tavole con le donne, e vi ho aggiunto sulla sinistra una tavola di 2 metri per 2 metri, che ho appena finito di dipingere e che rappresenta una casa di vicinato, molto bella, molto strana, che mi fa pensare al quadro di Edward Hopper La casa sulla ferrovia. Hopper è semplice, come un osservatore della vita americana, ma ha anche profondità dove le cose hanno una vita interiore. È un pittore che io amo assolutamente. L’insieme delle tre tavole diviene una sola tavola: Omaggio a Edward Hopper. Era una situazione imprevista. Non sapevo che si sarebbe verificata.” [107]


Andy Warhol

Di Warhol (e della pop art americana in genere) Monory parla sempre con grande ammirazione, come l’ispiratore della sua rivoluzione artistica del 1964 e del suo ingresso nella Figurazione narrativa. L’artista ha un rapporto “invisibile, nascosto, con Warhol, che è l’artista contemporaneo che più amo.” [108]

Di Warhol “amo il suo modo di nascondersi, la maschera che si è messa. E poi quello che io apprezzo terribilmente in lui è che si presenta come un essere futile, tutto alla superficie, quando evidentemente ha molta più profondità di quelli che proclamano di avere fondamenta e spessore. Warhol sembra occuparsi solo di persone di mondo, di celebrità, o di fustini di detersivo: tutto questo potrebbe essere ripugnante, ma non lo è affatto. Facendo tutto ciò, ti parla. Egli ti parla della morte e del passaggio. Non lo dice altrettanto direttamente come lo dico io (...), no: ufficialmente proclama solamente: 'Sono un ragazzo che è molto famoso, ed è alla celebrità che sono interessato. E vi dico merda.’ Invece si tratta di un'illusione, e vi è tutt’altra cosa dietro. È questo che di lui mi piace.” [109]

Al tempo stesso, Monory non esita a sottolineare le differenze che lo separano da Warhol: “Quando ho iniziato davvero a lavorare – ricorda nel 1996 – ho visto riproduzioni di opere di Rauschenberg, di Wahrhol ed altri. Ho trovato nella pop art la conferma che si poteva guardare e dipingere tutto quel che piaceva, con tutto quel che ci circonda, ed includere nell’immagine artistica un vero mozzicone, un posacenere, e qualsiasi altra cosa. Era il dada, ma nel contesto del quotidiano. Partendo da là, ho fatto anch’io quel che mi piaceva di più: un revolver.” [110]

Parlando col critico tedesco Werner Becker, in merito alla pubblicità e al suo impatto sulle arti visive, Monory sostiene: “In ogni caso voglio continuare ad utilizzare la pubblicità, ma non voglio esserne vittima: voglio cambiarla, non voglio esserne assorbito. Da questo punto di vista gli artisti della pop art non mi hanno soddisfatto. All’inizio erano magnifici perché credevano di aver acquisito il potere sul sistema, ma alla fine il sistema si è rivelato molto più forte di loro e li ha integrati. (…) Questi quadri di giovani uomini e donne che io dipingo, Warhol (…) li avrebbe fatti in modo del tutto differente. Avrebbe preso possesso del sistema e ne sarebbe divenuto parte. Sono d’accordo che ciò sia un elemento di forza, ma io non ho quest’attitudine. Io prendo i temi [della pubblicità] e li metto in una situazione che mostra che stiamo parlando dell’assassinio e dell’inferno.” [111]


Quando Monory uccide Monet

Tre pittori della Figurazione narrativa, Gilles Aillaud, Eduardo Arroyo e Antonio Recalcati, realizzano per la seconda mostra collettiva del gruppo, nel 1965, un polittico collettivo in otto parti, chiamato “Vivre et laisser mourir ou la Fin tragique de Marcel Duchamp”.  Metaforicamente si vuole uccidere il padre dell’arte concettuale, in un rapporto di amore e odio per l’artista che ha avuto una grande importanza per la pop art. I tre pittori sequestrano, torturano, uccidono Duchamp, ma poi ne portano il feretro per le esequie ufficiali. L’opera segna una rottura emotiva all’interno del gruppo della Figurazione narrativa, fra coloro che considerano l’opera un atto di lesa maestà e gli altri che lo vedono invece come una necessaria presa di distanza.

Per Monory il pittore da uccidere metaforicamente è invece Claude Monet, il simbolo della ‘pittura-pittura’, ovvero della pittura che ha come obiettivo ultimo la riproduzione in modo lirico della natura. Egli realizza dunque nel 1977 un’opera dal titolo “Monet è morto” in cui egli stesso spara un colpo di fucile contro una valigetta che contiene tutti gli utensili del mestiere di pittore. “La pittura-pittura mi ha sempre disgustato e gli impressionisti sono cosí lontani. Ho realizzato un quadro (Monet è morto), da utilizzare come preambolo ad una serie [Nota dell’editore: Technicolor] del tutto artificiale e lontana dal colore dei campi. È una constatazione oggettiva? Forse una nostalgia, una certa tenerezza verso il pittore che è ‘il pittore più puro’. E tuttavia egli evapora in un desiderio di fusione totale con le sue ninfee. Aspira all’estasi. È questo che io amo in lui, grazie al suo delirio di luci, alla sua sete di felicità. Anche quest’apparenza di essere al di là del mondo: voi vedrete quel che vedrete, io invece voglio vedere per me.” [112]  



NOTE

[83] Parret, Herman – Introduzione in: Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, Monory, 2013, Leuven University Press, citazione a pagina 11

[84] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. A cura di Pascale Le Thorel. Introduzione di Jean-Christophe Bailly. Beaux-Arts de Paris editions. Ministero della Cultura e Comunicazione, Parigi, 2014, 383 pagine. Citazione a pagina 169

[85] https://www.youtube.com/watch?v=B2B2mg1qiIY (osservato il 23 giugno 2015)

[86] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 68

[87] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 66

[88] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p.131

[89] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 131-132

[90] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 138

[91] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 144

[92] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 123

[93] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 137

[94] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 134


[96] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 184

[97] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 97

[98] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 128

[99] Lyotard, Jean-François, L’assassinat de l’expérience par la peinture, Monory – The Assassination of Experience by Painting, Monory, a cura di Herman Parret, introduzione di Herman Parret , postfazione di Sarah Wilson, traduzione di Rachel Bowlby, Jeanne Bourniort e Petr W. Milne, Volume VI della collezione degli scritti di Jean-François Lyotard sull’arte contemporanea e gli artisti, 2013, Leuven University Press, 288 pagine, 42 foto a colori nel testo. Le citazioni si riferiscono al testo in francese. Citazione a pagina 72.

[100] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p.194

[101] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p.130

[102] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p.117

[103] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p.124

[104] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p.191

[105] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), 346

[106] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 178

[107] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 206-208

[108] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 193

[109] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 157

[110] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 124

[111] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 36

[112] Monory, Jacques – Écrits, entretiens, recits. (citato), p. 52



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