Ignacy Potocki
Remarks on Architecture
[Osservazioni sull'architettura]The Vitruvian tradition in Enlightment Poland
Curato e tradotto da Carolyn C. Guile
The Pennsylvania State University Press, 2015
Il manoscritto trovato a Varsavia
Gli amanti della letteratura,
leggendo il nome Potocki, avranno pensato subito a Il manoscritto trovato a Saragozza, romanzo pubblicato (in
francese) dal conte polacco Jan Potocki nel 1814. Ignacy Potocki apparteneva
alla stessa famiglia magnatizia (con il termine “magnate” si intendono qui i
membri dell’alta nobiltà polacca). Molto più prosaicamente il suo manoscritto (“Uwagi o architekturze”) è stato trovato
a Varsavia (e non in Spagna) presso l’Archivio Centrale dei Documenti Antichi.
Secondo Carolyne C. Guile, ovvero la curatrice, dovrebbe essere stato composto
entro il 1786; forse destinato ad una circolazione per pochi intimi, forse alla
pubblicazione, non sembra che sia mai stato edito, anche se Guile si affretta a
dire che i disastri della II guerra mondiale, e, prima ancora, i furti che il
patrimonio archivistico polacco dovette subire ad opera russa, non permettono
di escluderne un’avvenuta pubblicazione. Semplicemente, tutte le copie a stampa
potrebbero essere state distrutte. Del resto, a corredo del manoscritto vi era sicuramente
una serie di disegni che, in circostanze ignote, è stata rimossa, lasciandoci
così privi dell’apparato iconografico.
Una cosa è certa: le Osservazioni sull’architettura testimoniano
l’interesse di Ignacy Potocki per la materia; un interesse che Ignacy condivise
col fratello Stanislaw Kostka e con un gruppo di altri nobili polacchi di fine
Settecento. Quella di Guile è la prima edizione a stampa. La curatrice fornisce
la trascrizione in polacco dell’opera e la sua traduzione in lingua inglese.
Inutile dire che in Italia il trattato di Potocki è totalmente ignoto.
Tuttavia, prima di parlare dello scritto, è indispensabile fare una premessa
sulla situazione della Polonia in quegli anni.
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Alexander Kucharsky (?), Ritratto di Roman Ignacy Potocki, 1783-1784 circa |
Il contesto storico
Parlare di Polonia, a fine ‘700,
non è del tutto corretto. Bisogna parlare piuttosto della Confederazione
Polacco-Lituana; un legame politico fra Polonia e Lituania esisteva, di fatto,
dalla fine del 1300 ed era stato appunto formalizzato dall’Unione di Lublino
del 1569. Al massimo della sua estensione, nel 1600, il Commonwealth
polacco-lituano comprendeva l’attuale Polonia, la Lituania, la Bielorussia e la
parte occidentale dell’Ucraina. L’Unione di Lublino aveva instaurato un sistema
politico che prevedeva un monarca elettivo e una proto-democrazia controllata
dai nobili (secondo il principio della cosiddetta aurea libertas). Il sistema politico degenerò quando le prerogative
dei nobili si allargarono con l’assunzione del principio del liberum veto, secondo cui bastava che
uno solo dei componenti del Parlamento si opponesse all’approvazione di una
legge perché la medesima saltasse. La Confederazione Polacco-Lituana è, nel
corso del 1700, un’organizzazione confederale multietnica sostanzialmente
paralizzata dal potere di veto di ciascun nobile ed esposta alle mire
espansionistiche dei vicini di casa: l’Austria, la Russa, la Prussia. Fra 1772
e 1795 (precisamente, nel 1772, 1793 e 1795), con le cosiddette “Spartizioni”
uno degli stati più grandi d’Europa sparisce dalla carta geografica, e i
relativi territori passano appunto a far parte dei tre governi sopra
menzionati. Di fatto, un suicidio politico. Quando Ignacy scrive il suo
trattato, la Prima spartizione (con la perdita di circa un 30% dei territori, la
maggior parte dei quali non di lingua polacca) si era già verificata.
Ignacy fa parte di una porzione
della nobiltà magnatizia polacca che comprende come, di fronte all’inesorabile
declino, occorra riformare il sistema (mantenendo tuttavia il controllo
politico dello stesso). Tradizionalmente questi anni si definiscono come quelli
dell’Illuminismo polacco. Ignacy ne è un protagonista, prima col suo impegno
civile, volto alla riforma del sistema educativo, di cui senza dubbio alcuno le
Osservazioni sull’architettura fanno
parte; poi con l’impegno politico, che lo portano ad essere uno dei principali
estensori della costituzione del 3 maggio 1791, che instaura una monarchia
costituzionale che ha vita brevissima.
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Lo stemma della famiglia Potocki |
Ignacy Potocki
Come quasi tutti i membri
dell’alta nobiltà polacca, Potocki ha un’educazione europea. Nato nel 1750, nel
1765 si trasferisce in Italia, dove frequenta il Collegio Nazareno, e dove
rimane fino al 1769. Ma la sua educazione “europea” lo porta a vivere per lunghi
periodi anche in Francia. Visita inoltre la Germania e la Gran Bretagna e non
torna in patria prima del 1771. Sul piano politico resta conquistato dalla
monarchia costituzionale inglese (e sarà questo l’esempio a cui si ispirerà
nella Costituzione del 1791); su quello delle idee dall’illuminismo e dal
razionalismo francesi (è sua una traduzione polacca dello Spirito delle Leggi di Montesquieu). L’interesse per l’architettura
è, naturalmente, qualcosa che nasce in Italia; ci sono giunti fortunosamente
alcuni suoi disegni architettonici del periodo italiano. Interesse che
condivide con il fratello Stanislaw Kostka. Siamo in pieno clima
neoclassico-winckelmaniano. Basti qui ricordare che Stanislaw finanziò alcuni
scavi archeologici a Nola attorno al 1785, e soprattutto che fu autore della
prima storia dell’arte in polacco; un’opera (pubblicata nel 1815) in cui già il
titolo designava una precisa scelta di campo: Sulla storia dell’arte degli antichi, ovvero il Winckelmann polacco.
Tornato in Polonia, Ignacy fu
membro quasi per vent’anni (dal 1773 al 1791) della Commissione Nazionale per
l’educazione (di fatto, il primo ministero dell’istruzione della storia); e
nell’ambito della Commissione fondò e presiedette la Società per i libri di
testo elementari. Due scelte che rispecchiano in maniera evidente quale fu
l’impegno di Ignacy per una riforma del sistema educativo polacco (di fatto
lasciato in mano ai Gesuiti e agli Scolopi fino a qualche anno prima), nella
convinzione illuministica che fosse proprio dall’educazione scolastica che
potessero derivare i maggiori benefici per una nazione; specie in un paese in
cui si parlavano lingue diverse e in cui, di fatto, la sola nobiltà usava il
francese come koiné. È convinzione
della curatrice – da evidenze interne del manoscritto – che le Osservazioni siano state estese
nell’ambito di questo ventennio di intenso lavoro a favore della riforma
didattica; e, in particolare, prima del 1786. [1]
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Anton Graff, Ritratto di Stanislaw Kostka Potocki, 1785 |
Le Osservazioni sull’architettura
Le Osservazioni sono un testo di natura didattica, in cui Potocki si
rivolge ai nobili polacchi e li esorta allo studio dell’architettura. Si tratta
dunque di uno scritto stilato da un nobile per i
nobili, nella convinzione che l’esercizio di un’architettura corretta possa
essere di grande giovamento per la Polonia. E qui dobbiamo subito fare una
precisazione: è chiaro che Ignacy si muove dentro coordinate culturali che sono
quelle del neoclassicismo europeo; così come è chiarissima l’influenza che su
di lui esercitano autori francesi come Marc-Antoine Laugier con il suo
razionalismo architettonico. Laugier ritiene che architettura e teoria
dell’architettura nascano dalla natura, e che possano (anzi, debbano) essere
guidate in tutto e per tutto dalla ragione. In questo senso Potocki aderisce a
una visione della storia dell’architettura che è quella di una disciplina che
ha conosciuto un forte declino a causa del barocco e del rococò e che solo in
quegli anni si sta risvegliando sull’onda del ritrovato classicismo. Credo che
possa essere intuitivo come questa visione si possa abbinare bene con la storia
della Polonia in quegli anni; una confederazione che ha appena conosciuto la
prima delle tre Spartizioni e che ha bisogno urgente ed estremo di riformarsi e
di rinascere. In questo senso ritengo che si possa parlare da un lato di
adesione di Potocki ad un filone ideale europeo e dall’altro di un
“patriottismo” nazionale (che non sempre è condiviso dal resto della nobiltà;
non dimentichiamo che la confederazione si era ridotta in condizioni di estrema
debolezza proprio per via degli eccessivi privilegi della nobiltà, che col
diritto di veto badava più al proprio interesse che a quello del bene
pubblico).
L’architettura, per Ignacy, non è
una disciplina tecnica, ma una branca diretta della filosofia (illuministica).
In questo senso non è lasciata al giudizio dei soli architetti, ma anzi deve
essere indirizzata da quello di un pubblico più ampio (quello dei committenti
nobili) nel cui novero ovviamente l’autore si iscrive. Si tratta di una materia
che coinvolge direttamente il bene pubblico e la responsabilità civile. È un
compito preciso della nobiltà investire i propri denari nella realizzazione di
opere pubbliche (e non solo di palazzi privati): in chiese, ospedali, scuole,
bagni pubblici necessari per l’igiene. In maniera molto illuminista scrive
Ignacy: “se i ricchi imparassero a
gestire con maggior diligenza i loro denari, sono certo che l’indolenza, la
povertà e i vizi si trasformerebbero ovunque in industriosità, autosufficienza
finanziaria, energia e lavoro” (p. 17). La sfera degli interventi per
liberare l’architettura dagli eccessi del barocco e del rococò porta l’autore a
ragionare in termini proto-urbanistici, come quando propone che, per motivi estetici,
vengano create commissioni al massimo di due o tre architetti che regolamentino
l’aspetto esterno delle facciate dei palazzi, facendo l’esempio virtuoso della
città di Torino. Le sue sono – in fondo – preoccupazioni non molto dissimili da
quelle che poteva avere l’architetto napoletano Vincenzo Marulli quando
pubblicava, nel 1808, il trattato Su
l’architettura e la nettezza delle città, a testimonianza di quanto fosse
universale la lingua parlata dal neoclassico.
Le Osservazioni presentano una prefazione e sei capitoli che trattano
rispettivamente delle tipologie architettoniche, della bellezza, dei benefici
che porta l’architettura, degli ornamenti, della comodità e, infine, delle
conoscenze che sono richieste all’architetto.
Vitruvio e le specificità polacche
Il sottotitolo dell’opera (The Vitruvian tradition in Enlightment
Poland) cita la tradizione vitruviana. È fuori di dubbio che Vitruvio, per
chiunque si interessi di architettura, sia un punto di riferimento. Tuttavia
non bisogna pensare che quello di Potocki sia uno scritto anacronistico. La
fase in cui Vitruvio è considerato canone assoluto a cui fare riferimento è
ampiamente superata [2] e sono pienamente assimilate le lezioni di Perrault
sulla distinzione fra bellezza positiva e bellezza arbitraria, e sulla
variazione delle proporzioni a seconda del gusto dei tempi. Vitruvio, per
quanto grande egli fosse, è un uomo fallace; non l’autore di una Bibbia laica.
Sotto questo punto di vista, ancora una volta, Potocki dimostra di essere perfettamente
al corrente (evidentemente tramite i suoi viaggi, ma più in generale grazie
alla trattatistica) dei dibattiti più recenti.
La messa in discussione di
Vitruvio (sia pur nella piena consapevolezza della sua importanza) crea
tuttavia qualche problema all’autrice. Non saremmo onesti se tralasciassimo di
dire che, da un punto di vista metodologico, Guile si dichiara interessata
soprattutto a due aspetti, per molti versi fra loro connessi:
- capire come circolino e vengano percepite le idee in una regione di confine per la civiltà occidentale; è cioè più importante considerare l’architettura da un punto di vista della storia delle idee o tener conto degli aspetti geografici e dei confini; ogni nazione sviluppa una “sua” teoria dell’architettura? Se sì, qual è quella della confederazione polacco-lituana?
- capire se il modello di trasmissione della cultura dal centro alla periferia possa essere applicabile nel caso polacco o debba essere rivisto.
Ad essere onesti, non sembra che
a questi interrogativi vengano fornite sempre risposte chiare, probabilmente
perché il materiale manoscritto è stato praticamente annientato dalla
vicissitudine storiche della Polonia.
Appare evidente, come già detto,
che le idee di Potocki siano quelle dell’Illuminismo europeo. Appare
altrettanto chiaro che, pur appartenendo ad un’elite e peraltro
rappresentandone solo una parte, Ignacy non rappresenti solo se stesso, ma un
gruppo di persone di cultura che vedono nell’adesione ai principi
dell’illuminismo e nell’appartenenza ad una civiltà europea con comuni radici
greco-romane un elemento identitario. Poi è chiaro che esistono le specificità;
la prima di queste – l’abbiamo già vista – è quella politica. Ma anche in architettura
si avverte l’esigenza di adattare la tradizione vitruviana all’esistente e alle
esigenze locali.
A questo proposito la curatrice
segnala come già nel 1659 fosse comparso un primo trattato di sapore
vitruviano, di autore anonimo (forse di Lukasz Opaliński) intitolato Breve studio per la costruzione di case
padronali, palazzi e castelli secondo il cielo e i modi polacchi. Anche
Potocki è attento a conciliare le disposizioni di Vitruvio con quelle del
“cielo polacco”, e prende in considerazione, ad esempio, le diverse condizioni
climatiche. Allo stesso modo viene presa in considerazione (e non condannata)
la consuetudine di costruire i tetti delle case in legno e non in mattone (pur
avendo ben presente i rischi di incendi). E tuttavia, in senso lato, non si può
dire che questo tipo di discorso sia stato “solo” polacco. Lo abbiamo già
incontrato ad esempio, nei Paesi Bassi, dove ad essere rielaborato è
soprattutto il trattato di Scamozzi, e con le medesime preoccupazioni. Se cioè
il tentativo è quello di separare un linguaggio “vitruviano” da un altro di
derivazione “squisitamente polacco” non possiamo escludere che ci si trovi
semplicemente di fronte all’esigenza di conciliare necessità di natura pratica
emerse storicamente in tutta Europa.
Per quanto riguarda la
circolazione e la trasmissione delle prescrizioni architettoniche, è difficile
parlare di un percorso che segue inesorabilmente il tragitto dal centro alla
periferia. Innanzi tutto, non sappiamo esattamente dove stia il centro. Per
Potocki si trova, formalmente, a Roma. Ma poi, come abbiamo visto, il
linguaggio architettonico di Ignacy è fortemente contaminato dagli influssi
francesi. Assistiamo peraltro a un proliferare di centri, che corrispondono
alle fioriture (o al declino) delle grandi monarchie europee. Possiamo
giudicare la Polonia come regione di confine, certamente; ma senza dimenticare
che più a oriente San Pietroburgo era una città architettonicamente italiana; o
che lo stesso Potocki cita una realtà come la Svezia e il Palazzo reale di
Stoccolma realizzato da Nicodemus Tessin il Giovane.
Alla fine, il principale merito
del libro è il ricordarci che anche la Polonia, a fine 1700, è partecipe, pur
tra mille traversie di carattere politico, del gusto neoclassico, che si
afferma come vera lingua universale delle arti in Europa. E ricordarci che
anche la Polonia ne fa culturalmente parte a pieno titolo non è un male per
nessuno.
[1] Pur essendone convinta, non
esistendo tuttavia una prova certa della datazione, Guile non esclude che la
redazione possa essere avvenuta negli anni della vecchiaia, dopo il 1800. Ma
l’ipotesi che prospetta per prima ci sembra convincente.
[2] Si veda in proposito
l’imprescindibile Pier Nicola Pagliara, Vitruvio
da testo a canone in Memoria
dell’antico nell’arte italiana III, Torino, Einaudi.
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