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mercoledì 13 maggio 2015

Vitruvio. De Architectura. A cura di Pierre Gros. Einaudi editore, 1997

English Version

Vitruvio 
De Architectura

A cura di Pierre Gros
Traduzione e commento di Antonio Corso ed Elisa Romano
Saggi di Maria Losito

Torino, Einaudi, 1997


Roma, Il Colosseo

[N.B. Su Vitruvio si veda in questo blog: Francesca Salatin, Un’introduzione al Vitruvio di Fra Giocondo (1511)Vitruvio, De Architectura. A cura di Pierre Gros. Traduzione e commento di Antonio Corso ed Elisa Romano. Saggi di Maria Losito, Torino, Einaudi, 1997Giovanni Mazzaferro, Libri rari e belle scoperte: il De Architectura di Vitruvio postillato da Cosimo BartoliEl Greco. Il miracolo della naturalezza. Il pensiero artistico di El Greco attraverso le note a margine a Vitruvio e Vasari. A cura di Fernando Marías e José Riello, Traduzione di Massimo De Pascale, Roma, Castelvecchi, 2017Les Annotations de Guillaume Philandrier sur le De Architectura de Vitruve. Livres I à IV. A cura di Frédérique Lemerle, Parigi, Piccard, 2000L'Architettura di Marco Vitruvio Pollione tradotta e commentata dal marchese Berardo Galiani. Prefazione di Alessandro Pierattini, (ristampa anastatica dell'edizione di Napoli, 1790). Roma, Editrice Librerie Dedalo, 2005Claude Perrault, Les Dix Livres d’Architecture de Vitruve, Corrigez et traduitz nouvellement en françois avec des notes et des figures, Parigi, Jean Baptiste Coignard, 1673Vitruvius, Ten Books on Architecture. The Corsini Incunabulum with the annotations and autograph drawings of Giovanni Battista da Sangallo. A cura di Ingrid D. Rowland, Edizioni dell’Elefante, 2003Massimo Mussini, Francesco di Giorgio e Vitruvio. Le traduzioni del «De architectura» nei codici Zichy, Spencer 129 e Magliabechiano II.I.141, Leo S. Olschki, 2003Francesco di Giorgio Martini, La traduzione del De Architectura di Vitruvio. A cura di Marco Biffi, Scuola Normale Superiore di Pisa, 2002Francesco di Giorgio Martini, Il "Vitruvio Magliabechiano", A cura di Gustina Scaglia, Gonnelli editore, 1985.]

[1] Secondo un giudizio pressoché unanime, quella a cura di Pierre Gros, pubblicata da Einaudi nel 1977, è la miglior traduzione italiana del De Architectura di Vitruvio. 

[2] Testo della bandella:

“La presente edizione del De Architectura di Vitruvio, la prima integrale e scientificamente curata dopo quella del Marini (1830) [n.d.r. secondo Vagnetti e il suo Regesto cronologico l’edizione del Marini è del 1836] e quella importante ma incompleta del Ferri (1960), si inscrive nel complesso processo, avviato da due decenni in campo internazionale, di rivalutazione e riesame sistematico di un testo di cui difficilmente si potrebbe circoscrivere la straordinaria importanza storico-culturale.

Dedicato ad Augusto, scritto tra il 30 e il 20 a.C. e diviso in dieci libri, il De Architectura, l’unica opera di un’ampia tradizione classica di testi tecnici ad essere giunta fino a noi, è al tempo stesso un libro di bottega, un riferimento teorico ideale, un canone incontrastato del classicismo architettonico, che fonde nella sua trattazione elementi derivati dalle discipline più svariate quali l’aritmetica, la geometria, il disegno, la musica, l’astronomia, l’ottica, la medicina, la giurisprudenza, la filosofia.

La fortuna del trattato vitruviano fu immensa: apprezzato da Plinio il Vecchio, utilizzato dagli architetti della tarda antichità e anche dell’età carolingia, conobbe il suo apogeo in epoca rinascimentale, ispirando Leon Battista Alberti, Francesco di Giorgio Martini, il Filarete, Raffaello [n.d.r. che se lo fece tradurre appositamente da Fabio Calvo], il Palladio.

Quest’edizione del De Architectura, affidata nella concezione generale a Pierre Gros, massimo specialista europeo sull’argomento e co-curatore dell’edizione critica in lingua francese, si propone di restituire al lettore un testo scientificamente attendibile del trattato latino, comporta un’introduzione generale e una serie di saggi tematici, e prevede per ognuno dei dieci libri un’introduzione e un ricchissimo commento impostato in senso sia filologico che archeologico, tecnico, storico, architettonico. Valorizzando tutti gli elementi a disposizione degli studiosi, l’apparato critico, accompagnato da una folta iconografia sempre rigorosamente legata al testo e basata sui documenti grafici più aggiornati nei vari campi dell’architettura, della gnomonica, dell’astronomia e dell’ingegneria, consente di apprezzare concretamente un’opera la cui lettura è resa spesso arduo dalla particolarità e vastità della materia come dall’irrimediabile perdita del corpus illustrativo originario.

Le illustrazioni fuori testo propongono al lettore diversi cicli figurativi di grande qualità (per esempio quella [n.d.r. sic] francese del Perrault del 1684), o alcune riproduzioni settecentesche dei monumenti evocati da Vitruvio, nell’intento di offrire al lettore una rappresentazione concreta dell’evoluzione scientifica di molti problemi e delle grandi tradizioni concernenti il disegno in architettura.”

[3] In fondo al secondo volume due saggi di Maria Losito:

1. La ricostruzione della voluta del capitello ionico vitruviano nel Rinascimento italiano (1450-1570)
2. L’analemma vitruviano e il IX libro del De Architectura di Daniele Barbaro (1556-67).

[4] Le dodici illustrazioni fra le pagine 492 e 493 sono tratte dalla seconda edizione di “Les dix livres d’Architecture de Vitruve” di C. Perrault, Parigi, 1684. Le sedici illustrazioni tra le pagine 1250 e 1251 provengono da “The Antiquities of Athens” di Stuart e Revett (vol. I, London 1762, cap. III).

[5] Si riporta il testo di due recensioni all’opera, pubblicate rispettivamente sul Corriere della Sera (a firma Cesare De Seta) e su La Repubblica (a firma Vittorio Gregotti). L’originale dell’articolo di De Seta (purtroppo privo dell’indicazione della data di pubblicazione) è conservato all’interno dei volumi. Il testo dell’articolo di Gregotti (datato 17 dicembre 1997) è tratto dal Cd-Rom Gli anni de La Repubblica 1997.

Leonardo da Vinci, Uomo vitruviano



CORRIERE DELLA SERA – Torna il trattato dell’armonia classica
Vitruvio architetto degli dèi. Una città ideale per Augusto
di Cesare De Seta

Nessun testo nella storia dell’architettura dell’Occidente ha esercitato l’influenza e ha conosciuto la fortuna del De architectura di Vitruvio Pollione: dall’età augustea fino al XIX secolo Vitruvio è stato un paradigma, una fonte di riferimento insostituibile, un prontuario per costruire, un repertorio tecnico [n.d.r. si veda per tutti Pier Nicola Pagliara, Vitruvio da testo a canone]. L’architetto lo redasse in tarda età per adempiere a un dovere che gli sembrò degna conclusione della sua operosa vita professionale di architetto ingegnere, costruttore di machinae belliche e idrauliche. Il trattato è dedicato ad Augusto, imperatore che si avvalse di Vitruvio in diverse circostanze come ben si deduce dai dieci libri di cui è composto il trattato. Già attivo in età repubblicana al servizio di Giulio Cesare, sappiamo poco o nulla della sua vita e della sua attività professionale: sotto Augusto fu sicuramente impegnato nella revisione e nella gestione degli apparati bellici che erano parte integrante delle legioni romane, più tardi – grazie al sostegno della sorella dell’imperatore – ebbe incarichi molto più significativi. Augusto e Agrippa avevano trasformato la capitale dell’impero – da quel tempo caput mundi – in un grande cantiere e in esso Vitruvio seppe conquistarsi uno spazio, tanto da dichiarare in premessa al testo che grazie a questa attività poteva non temere la povertà fino alla vecchiaia. L’unica opera certa da lui costruita è la basilica di Fano e l’informazione è tratta dall’introduzione al quinto libro.

Il De architectura deve considerarsi una grande sintesi di tutto quanto avevano prodotto la cultura architettonica e la tecnica edilizia nella civiltà greca e in quella romana: ma si regge pure su una serie di principi teorici che sono le vere fondamenta dell’architettura occidentale. Anzi, il contributo più creativo della trattatistica vitruviana è di aver conferito uno statuto teorico a una pratica che non aveva ancora una salda tassonomia di riferimento: l’architettura, per Vitruvio, è infatti una scienza, non una tecnica. Per formare l’architetto pertanto non è necessario solo un sapere tecnico, ma una ratio che esige conoscenza del disegno, dell’ottica, dell’acustica, della musica, della medicina e dell’astronomia.

L’architetto disegnato da Vitruvio è un intellettuale che deve saper forgiare lo spazio dell’uomo alla luce di un sapere che si fonda sulla triade della firmitas, utilitas e venustas: parametro e misura di ogni architettura è il corpo umano, scala di riferimento di ogni spazio costruito. In questo telaio fondante costituito dalla struttura, dalla funzionalità e dalla bellezza l’architettura deve rispondere ad altri requisiti: l’ordinatio assicura ritmo e proporzione tra le parti e l’assieme; la dispositio garantisce che ogni elemento architettonico sia correttamente predisposto; l’eurythmia e la symmetria garantiscono che gli elementi architettonici siano ritmati in altezza, lunghezza e larghezza e siano assicurati la loro rispondenza e il loro equilibrio all’assieme; gli ultimi precetti si configurano come decor e distributio: il significato del primo inerisce alla scelta degli ordini canonici – dorico, ionico e corinzio – che vengono per la prima volta distintamente associati alla nomenclatura delle divinità in Olimpo.

Certamente assai più controversa è l’interpretazione del concetto di distribuzione che non ha solo un carattere per così dire funzionale, ma ha una valenza che – per esplicita dichiarazione dell’autore – rimanda a quella che i greci chiamano oikonomia. Dunque nel concetto di distributio c’è l’affermazione della ragione funzionale, ma c’è anche l’attenzione a quella che diremmo analisi dei costi e dei benefici. Per simmetria non si intende la più recente geometria bilaterale, ma il rapporto tra le parti e di ogni parte con il tutto: classico caso la sezione aurea con la quale venivano costruiti i templi greci. Non v’è dubbio che ciascuno dei termini citati e tanti altri sono dei cavalli di battaglia difficili da cavalcare per ogni interprete e per ogni traduttore: a cominciare da Cesare Cesariano che per primo tradusse integralmente il trattato nel 1521 e di cui Alessandro Rovetta ci ha offerto un’aggiornata edizione critica (ed. Vita e Pensiero) [n.d.r. De Seta fa qui riferimento al volume Cesare Cesariano e il classicismo di primo Cinquecento, al cui interno compare l’edizione critica del solo Libro I della traduzione di Cesariano. 

Certamente una degna sfida è quella che hanno superato con probità A. Corso ed E. Romano che hanno redatto una nuova traduzione italiana del Vitruvio, con un ricco commento al testo. La nuova edizione, a cura di Pierre Gros, appena uscita da Einaudi nella collana dei Millenni, è sicuramente un contributo di grande rilievo agli studi e si pone all’attenzione di quanti credono che i testi classici non sono delle teche vuote, ma dei corpi vivi che si rinnovano nel tempo e assumono nuovo significato con lo scorrere del tempo. In effetti il De architectura – la cui lettura fu operante nel corso del Medioevo – fu riscoperto nella sua interezza in età rinascimentale: da Alberti a Serlio, da Palladio a Perrault, fino alla tradizione illuministica e oltre, Vitruvio fu assunto a sintesi del sapere classico. I loro trattati sono tutti nipoti e pronipoti di Vitruvio. Ciascuno lo lesse a suo modo e ritenne di poterlo interpretare ed emendare a piacimento, operando distorsioni del testo non lievi: la presente edizione è figlia della filologia e consente una nuova lettura del testo soprattutto in quei passi che particolarmente un Cesariano aveva contribuito a ingarbugliare.


Vitruvio, De Architectura, Edizione Daniele Barbaro, 1557


LA REPUBBLICA 
Il ritorno di un classico - Tutti i grandi trattatisti dell’era moderna dipendono da lui. La ripubblicazione integrale della sua opera è un evento editoriale

Vitruvio nostro padre architetto
di Vittorio Gregotti

Il trattato De Architectura di Vitruvio, scritto tra il 20 ed il 30 a.C., si sa, è l’unica trattazione teorico-pratica che ci sia giunta dall’antichità greco-romana.

Nonostante sia stato trasmesso senza illustrazioni (e le numerosissime edizioni illustrate che si sono susseguite nei secoli siano altrettante interpretazioni storiche del testo), il trattato di Vitruvio è stato capostipite ed elemento di riferimento per quasi tutti i trattati di architettura europei per più di un millennio: dall’Alberti a Philibert de l’Orme, dal Serlio a Palladio, da Francesco di Giorgio al Milizia. L’edizione monumentale (1500 pagine, probabilmente la prima integrale) che l’editore Einaudi pubblica è curata da Pierre Gros, uno specialista di Archeologia Romana che insegna all’università di Aix-en-Provence e che, nell’introduzione, fornisce con cura filologica un appassionante quadro dello strato sociale di appartenenza dell’autore, del pubblico (soprattutto di funzionari statali) a cui si rivolge il contenuto del trattato, dell’ambiente culturale in cui si muoveva Vitruvio, delle sue fonti di ispirazione (soprattutto ellenistiche) e dell’interpretazione del significato di alcuni dei termini da lui usati, primo fra tutti quello di simmetria (che Vitruvio traduce con il termine commodulatio in latino) ed infine del linguaggio letterario usato dall’autore. 

Ma vi sono, io credo, soprattutto due domande che la pubblicazione del testo vitruviano impone alla cultura architettonica dei nostri anni: perché la tradizione del trattato di architettura si sia interrotta e che cosa oggi la sostituisca in quanto riflessione capace di restituire una sintesi dei fondamenti teorici e delle condizioni della pratica artistica dell’architettura. Naturalmente il trattato non è l’unico modo in cui il pensiero progettuale è stato a noi tramandato. Vi è il dover essere che proviene dalla tradizione del pensiero utopico, la forma apodittica del “manifesto” dell’avanguardia ed infine la tradizione dei consigli, delle esortazioni, dei suggerimenti nelle forme più diverse ma, secondo me, di grande interesse, costituite, per esempio, dalle relazioni scritte per risolvere uno specifico problema, relazioni che talvolta assumono valore interpretativo generale (il dibattito intorno al tiburio del Duomo di Milano [n.d.r. si vedano gli scritti di Leonardo, Bramante e Francesco di Giorgio] che si è svolto alla fine del XIV secolo, per esempio) o per dare suggerimenti costruttivi ed estetici, come nel caso dei celebri fogli di Villard de Honnecourt, od “opinioni” come quella di Fra Giocondo per la chiesa di S. Pietro, o pensieri generali sull’architettura secondo, ad esempio, lo stile poetico delle contribution di Auguste Perret. Vi è però una nutrita quantità di ragioni che rendono molto problematico nei nostri anni un discorso sul farsi dell’architettura che possegga le capacità di sintesi, di indirizzo, di riflessioni sui fondamenti e sul loro effetto sulla pratica che sono caratteristici della tradizione del trattato. 

Innanzitutto proprio il progredire della critica e della storia dell’architettura come disciplina indipendente. Il trattato è per sua natura opera di riflessione condotta da chi, come architetto, è protagonista del progetto e della sua costruzione e che quindi deve confrontare la speciale relazione che egli propone, per mezzo del suo lavoro, tra esperienza e teoria con chi elabora professionalmente teorie ed interpretazioni. In secondo luogo il territorio dell’architettura si è fatto assai complesso ed articolato comprendendo attività che vanno dal planning al disegno del prodotto industriale, dall’ecologia ambientale alla grafica, dai problemi di traffico e trasporto al disegno urbano. E ciò ha anche dato luogo a vere e proprie specializzazioni professionali che propongono sull’architettura ottiche anche molto differenziate. Persino l’insegnamento dell’architettura è divenuto sovente una professione separata, così come le riviste di architettura sono fatte oggi da giornalisti e non da architetti e l’influenza dei media pesa in modo sempre più forte (ed approssimativo) sulle opinioni in merito all’architettura. È vero che anche gli architetti dell’antichità e del rinascimento erano volta a volta nello stesso tempo idraulici, scultori, pittori, meccanici, agrimensori, ecc. ecc., ma ovviamente i campi dei saperi specialistici erano più conoscibili non solo nelle tecniche ma nei fondamenti fisico-matematici e geometrici, mentre le collaborazioni specialistiche che corrispondono alle operazioni architettoniche complesse di oggi offrono alla discussione progettuale la parte terminale, operativa delle diverse discipline e non certo i loro fondamenti. Persino l’utilità e validità del “manuale” (figlio dell’Encyclopedie, cioè della volontà di mettere a disposizione i fondamenti razionali dei mestieri) che nel XIX secolo ha sostituito sovente la pratica del trattato è oggi messa in crisi sia dalla perdita di stabilità delle tipologie edilizie, sia dalla quantità enorme di prodotti e di semilavorati messi a disposizione dal mercato (e da esso con grande rapidità continuamente sostituiti), sia infine dalla necessità di proporre sistemi connessi alla progettazione intesa come produzione dell’edilizia in quanto bene economico. 

Si costituiscono così intorno all’architettura insiemi di culture scarsamente comunicabili fra loro. Curiosamente poi questa esigenza finisce con il coincidere con lo sforzo di relegare la funzione dell’architetto nella produzione del ciclo edilizio a compiti puramente estetico-decorativi (o, come si dice oggi, “di immagine”) sottraendolo al suo universo tecnico e quindi rendendo ancor più difficile il compito di un discorso unitario sul farsi dell’architettura. A questo proposito l’irruzione della fotografia e del video nella comunicazione ha giocato un ruolo importante anche nel discorso del farsi dell’architettura fortemente appoggiato, nella tradizione del trattato, alla dimostrativa illustrazione dei progetti, in generale autografi. Le quattro motivazioni che stanno alla base di ogni discorso su tale farsi (come possiamo oggi definire il contenuto del trattato), e cioè la verifica della coerenza tra teoria e pratica, la trasmissione dell’esperienza, la battaglia delle idee e dei punti di vista sulla disciplina ed il chiarimento delle condizioni di produzione dell’architettura, fanno così sempre più fatica a trovare un luogo unitario di espressione e si affidano sovente a trasposizioni frammentarie e spesso abusive di pensieri teorici provenienti da altre discipline scientificamente più organizzate, così che gli scritti architettonici con aspirazioni teoriche appaiono molto spesso come sottoprodotti delle riflessioni filosofiche o scientifiche con la relativa trasposizione abusiva dei linguaggi relativi. Anche questo è nella storia sovente avvenuto (chi non ricorda il celebre libro di Erwin Panowsky sulle relazioni tra l’architettura gotica ed il pensiero della Scolastica), ma ha assunto negli ultimi anni una meccanicità ed una mutevolezza accelerata che giustificano molti sospetti di debolezza nei confronti dell’attuale pensiero specifico che sostiene il nostro mestiere e della sua capacità di proporre una distanza critica rispetto al mondo. Ma chi volesse oggi progettare un trattato si troverebbe di fronte ad una questione ancora più complessa, quella di decidere se la ricerca di una qualche definizione di un linguaggio universale dell’architettura, come lo è stato per secoli il linguaggio classico dell’architettura o come è divenuto, contro ogni sua premessa, lo stile della modernità, sia un fondamento importante o se nel nostro tempo esso abbia perduto ogni utilità. L’oscillazione tra la verità del caso specifico, i fondamenti stessi dell’essenza dell’architettura ed il suo discioglimento dentro alla mediatizzazione globale della comunicazione visiva costruiscono le vere contraddizioni che rendono oggi difficile ogni progetto di trattato. Difficile ma forse proprio per questo particolarmente interessante.




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